Domenica, 24 Settembre 2023
Dossier Speranza
Dossier Speranza

Dossier Speranza (104)

Martedì 04 Dicembre 2007 22:39

Alla speranza (Luciano Luisi)

Pubblicato da Fausto Ferrari

Luciano Luisi (Livorno, 13 marzo 1924) è un poeta, scrittore e giornalista italiano.

Sabato 24 Novembre 2007 21:09

Speranza (Werner Post)

Pubblicato da Fausto Ferrari

La speranza abbraccia un campo così vasto di significato, che una sua definizione formale non può essere sufficiente, come del resto non può essere completa una sua definizione storico-descrittiva.

Lunedì 29 Ottobre 2007 21:28

Don Tonino Bello, vescovo (Felice Di Giandomenico)

Pubblicato da Fausto Ferrari
Don Tonino Bello, vescovo

di Felice Di Giandomenico

E’ impossibile descrivere in poche righe ciò che Sua Eccellenza Mons. Antonio Bello, per tutti Don Tonino, ha rappresentato per la Chiesa e per tutti coloro che vivono ai margini di una società troppo spesso disattenta ai reali e penosi problemi della “gente comune”.
Nato ad Alessano in provincia di Lecce nel 1935, fu ordinato sacerdote nel 1957 a soli 22 anni.
Nel 1982 divenne vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi.
Nonostante l’alto incarico ecclesiale, Don Tonino era affabile e disponibile con chiunque bussava alla sua porta per chiedere una parola di conforto, un aiuto materiale, un momento di ristoro per l’anima. Ogni singola situazione veniva presa a cuore, affrontata con determinazione.
A chi gli chiedeva che cosa lo affliggesse di più, Don Tonino rispondeva: “Mi fa soffrire molto l'impossibilità di giungere a dare una mano a tutti. Ho un'agenda sovraccarica di persone che chiedono una visita, un sostegno, un appuntamento, del denaro, una soluzione ai loro problemi... Si vorrebbe avere occhi e mani per ognuno, ma non si riesce, e questo è il rammarico più grande”.
Una frase che risuonava spesso sulle labbra di Don Tonino era: “Coraggio, non temere”.
In uno suo scritto intitolato “Le mie notti insonni”, Don Tonino elenca una serie piuttosto lunga di paure che contaminano l’uomo moderno, minando anche il suo rapporto con Dio.
Paure frutto spesso di un progresso che, dopo gli entusiasmi iniziali, si ritorce sull’uomo che vive nell’illusione di mantenersi al passo con i tempi dimenticando che “E’ dal cuore umano che nasce e si sviluppa la nube tossica delle paure contemporanee”
Ma esiste un antidoto contro le paure, il Vangelo dell’antipaura come amava definirlo Don Tonino: “Alzatevi…Levate il capo” (Lc 21, 25-28.34-36). E’ il Vangelo che si legge la prima domenica di Avvento in cui Gesù esorta alla preghiera e alla fiducia nella liberazione definitiva da ogni timore, da ogni paura, da ogni negatività.
Forse anche per la sintonia con la spiritualità francescana (faceva parte dell'Ordine Francescano Secolare) Don Tonino amava lasciarsi guidare dal Vangelo "sine glossa", senza sconti sulla verità né diluizioni o prudenze carnali. Non a caso si definiva “Un buono a nulla. Ma capace di tutto, perché consapevole che, quanto più ci si abbandona a Dio, tanto più si riesce a migliorare la gente che ci sta attorno”.
Don Tonino era anche un vero innamorato dell’Immacolata e, in molti suoi scritti, questo amore diventava una continua dichiarazione d’amore nei confronti della Mamma Celeste.
Dal 22 al 29 luglio 1991, predicò un Corso di Esercizi Spirituali in occasione del 40° Pellegrinaggio della Lega Sacerdotale Mariana a Lourdes da cui venne tratto lo stupendo volume “Cirenei della gioia”. Condivise con i sacerdoti malati quel momento in cui il cuore umano si affida senza riserve alla grazia di Dio, chiedendo l’intercessione della Vergine Santa, offrendo al Signore la propria debolezza e precarietà terrena.
Don Tonino era abituato a prolungate soste davanti Tabernacolo, da cui traeva energia e ispirazione e molte delle lettere che spediva a coloro che, spesso addolorati e affranti si rivolgevano a lui, nascevano proprio nel cuore di una veglia notturna quando era a tu per tu con Dio.
Anche riguardo al tema della sofferenza, Don Tonino rimase sempre aderente allo spirito evangelico che ne sottende il senso. Aveva a che fare con i malati, i disabili, con coloro che nessuno considerava e che rimanevano silenziosi nel loro dolore; dolori diversi ma pur sempre urenti, che lacerano l’anima, che hanno la voce soffocata dall’indifferenza collettiva, che creano cicatrici evidenti nel cuore di chi li deve subire. Ma per Don Tonino, la sofferenza trova un senso vero solo se condivisa amorevolmente con Dio. Dice infatti: “C’è anche il caso, comunque, ed è molto frequente, che il dolore rafforzi l’intimità col Signore: il quale viene riscoperto non tanto come estremo rifugio di consolazione, ma come colui che "ben conosce il patire" e che sa solidarizzare fino in fondo con tutta la nostra esperienza”.
Parole profetiche. Colpito da un male inguaribile mantenne sempre fede ai suoi impegni di pastore d’anime con entusiasmo ma, soprattutto, con un’umanità davvero straordinaria, nonostante le sofferenze che lo tormentavano. La malattia di Don Tonino era una di quelle che non perdona, che produce dolori tremendi, che sfianca il corpo e debilita lo spirito.
Eppure non cessò un solo attimo di affrontare anche sofferenze che non gli appartenevano direttamente, lasciando sempre spazio a chi chiedeva aiuto o desiderava una risposta convincente sull’assurdità del dolore. Consumò lentamente i suoi ultimi mesi di vita tra la sua gente, tra i suoi poveri, tra gli inascoltati gridi della “gente comune”. La morte colse prematuramente Don Tonino il 20 aprile del 1993 a 58 anni.

HA DETTO

“Dio mio, purificami da queste scorie in cui naviga l’ anima mia, fammi più coerente, più costante. Annulla queste misture nauseanti di cui sono composto, perché ti piaccia in tutto, o mio Dio”.

“Io non risolvo il problema degli sfrattati ospitando famiglie in vescovado. Non spetta a me farlo, spetta alle istituzioni: però io ho posto un segno di condivisione che alla gente deve indicare traiettorie nuove, insinuare qualche scrupolo come un sassolino nella scarpa”.

“Vedete, noi siamo qui , Probabilmente allineati su questa grande idea, quella della nonviolenza attiva. Noi qui siamo venuti a portare un germe: un giorno fiorirà.Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati”.


Andiamo fino a Betlemme,
come i pastori.
L'importante è muoversi.
E se invece di un Dio glorioso,
ci imbattiamo nella fragilità
di un bambino,
non ci venga il dubbio di aver
sbagliato il percorso.
Il volto spaurito degli oppressi,
la solitudine degli infelici,
l'amarezza di tutti gli
uomini della Terra,
sono il luogo dove Egli continua
a vivere in clandestinità.
A noi il compito di cercarlo.
Mettiamoci in cammino senza paura.
(don Tonino Bello)

Cambiare è possibile.
Basta volerlo

di Riccardo Petrella





Si tratta di una sintesi, non rielaborata, di una conferenza che l'Autore ha tenuto a Brescia.

Ci si dice che la società è un insieme di relazioni di scambio, che il commercio è fondamentale nell'economia, perché non c'è valore senza commercio, senza scambio. Ogni cosa deve essere scambiata, quindi deve essere una merce. C'è un produttore e un venditore, e c'è un consumatore e un acquirente. Qual è allora il ruolo della gratuità nella nostra economia?

LA SOCIETA' DELLE MERCI

Davanti agli assessori della Regione Toscana ho difeso il principio della gratuità riferito all'accesso all'acqua, alla educazione…Deve essere gratuito, nel senso che deve essere a carico della collettività. C'è un costo, ma esso deve essere sostenuto da tutti i cittadini. Questa è la gratuità. Oggi si dice: portare l'acqua in casa ha un costo e quindi bisogna pagare; come si fa a dare gratis l'acqua? O l'educazione? Che cos'è la società se non una serie di scambi? E dov'è che hanno luogo? Al mercato. Ecco perché definiamo la nostra società come una società di mercato e l'economia come un'economia di mercato. Il mercato - così ci insegnano - è il luogo in cui è lecito che ciascuno tenti di ottimizzare l'utilità individuale. Ecco perché sempre più nella nostra civiltà, quando si pensa alla ricchezza o alla povertà, non si pensa alla ricchezza o alla povertà collettiva, ma a quella individuale.

Ci si chiede: in questi scambi, come si determina il valore del mio orologio, delle mie scarpe, o della mia casa? E la risposta che viene data è la seguente: il valore di una cosa e quello di una persona si determinano in funzione del loro contributo alla creazione di ricchezza, in quel di più di capitale messo in circolazione nell'atto di acquistare o vendere. Ha valore solo ciò che contribuisce a creare più valore affinché cresca la ricchezza individuale. Tutto ciò che non contribuisce a creare valore, per il capitale non serve a nulla. Se avete 45 anni e possedete delle competenze che nessuno può utilizzare, che valore avete? Nessuno. Ecco perché oggi vi si spiega che non tutti possono avere un'occupazione. Potreste rispondere: “Sono padre, ho tre bambini e voglio lavorare”. Ma vi diranno: “Ma tu non hai le competenze, non sei formato…Perché ti devo dare un reddito se non contribuisci a creare ricchezza?” “Perché ho diritto alla vita - rispondereste. - E che significa “ho diritto alla vita”? Sei capace di produrre? In Romania c'è qualcuno che ha 45 anni come te, però mi costa di meno. Perché devo stare qui a pagare te che mi costi di più e che quindi diminuisci la mia utilità individuale?” Ma qual è il soggetto che organizza tutto questo? L'impresa privata. Essa è autorizzata ad andare a prendere in Congo quella tale materia prima, produrre in Romania un oggetto, importarlo a New York e poi, con una società svedese, venderlo sul mercato italiano! Più il mercato è grande e meglio è per noi tutti - ci si dice. Ecco perché bisogna globalizzare i mercati, i sistemi di produzione dei beni. Tutti i vari attori operano per la loro utilità individuale.

“RISORSE UMANE”

“Liberalizzare” significa dare libertà ai capitali, vuol dire maggiore concorrenza tra di loro, più competitività. Significa “io vinco e tu perdi”. Questa è l'economia oggi. Tutto dev'essere subordinato alla libertà dell'impresa di concorrere sui mercati mondiali per creare più valore per i suoi capitali.

Qual è il risultato di tutto questo? Che ormai tutto, anche gli esseri umani, sono delle risorse al servizio del rendimento del capitale. Noi non siamo più delle persone: siamo diventati tutti delle “risorse umane”. Il nostro diritto all'esistenza è come quello di una risorsa energetica: il carbone non conta più? E allora si usa il petrolio. Una “risorsa umana” italiana non conta più? E allora si prende una cinese. Anche quella cinese non serve più? Eccoti quella indiana. È in atto una mercificazione dell'essere umano; ogni vivente diventa cosa, merce. La libertà di brevettare vuol dire che io posso diventare proprietario dei semi o delle varietà vegetali del Congo, oppure di un algoritmo matematico per fare il softwear di Microsoft. Questa è la privatizzazione del mondo: è considerato una specie di enorme capitale di risorse materiali e immateriali, umane, naturali, minerali, energetiche, suscettibili di diventare proprietà dei più forti per permettere loro di diventare ancora più forti. È una logica asimmetrica, nel senso che colui che è più ricco si impadronisce degli elementi per creare condizioni sempre più favorevoli a un'ulteriore ricchezza per sè, mentre colui che è stato impoverito diventa sempre più povero perché è stato privato delle condizioni materiali che gli permetterebbero di non esserlo più.

SEMPRE PIÙ POVERI

Come ci si può spiegare che ancora oggi, nel 2006, ci siano tanti poveri? Si indica come povero colui che ha meno della metà della ricchezza media disponibile. Quindi, se tale ricchezza, in Italia, è di 1.200 euro, è povero quello che ha meno di 600: questa la si chiama “povertà relativa”. Ma nel '74 la Banca Mondiale, la Comunità internazionale e gli esperti, hanno definito il “povero assoluto” come colui che ha meno di 1,60 euro al giorno. Ce ne sono 2,8 miliardi, quasi la metà della popolazione mondiale. Viviamo in un mondo che non fa altro che creare sempre più povertà. Però quel euro e mezzo non è sufficiente a farci capire la durezza della miseria, e allora abbiamo inventato il concetto di “estremamente povero”: è colui che ha meno di 80 centesimi di euro al giorno. Ce ne sono 1 miliardo e 300 milioni! Nel '74 la Comunità internazionale lanciò una campagna per l'eliminazione della “povertà assoluta” entro il 2000. Avevano detto che se noi, Paesi ricchi avessimo dato per venticinque anni lo 0,7% del nostro Pil, avremmo sradicato la povertà cioè avremmo permesso a tutti quanti di avere l'accesso a 40 litri di acqua potabile al giorno, a un'alimentazione pari a 2.500 calorie, a un alloggio di circa 35 mtq per coppia, riducendo a meno dell' 1‰ le donne che muoiono partorendo, e infine avere accesso all'educazione elementare. Ma nel 2000 quei 2,8 miliardi di persone erano ancora poveri. E questo perché nessuno, salvo la Danimarca, la Svezia e la Norvegia, hanno stanziato lo 0,7% del Pil. L'Italia ha dato lo 0,13% mentre gli Stati Uniti, il Paese più ricco del mondo, ha versato lo 0,11%. Non solo non abbiamo fatto quello che ci eravamo impegnarti a fare, ma abbiamo attuato delle politiche che hanno ricreato le cause dell'impoverimento.

Per scaricarci la coscienza, abbiamo dato la colpa ai popoli africani o asiatici. È colpa loro: fanno troppi figli e sono guidati da elite corrotte! Allora bisogna smetterla di continuare ad aiutarli…Così l'Unione europea, a partire dal '92, ha cominciato a dire: “Basta agli aiuti, non chiedeteli più, diventate competitivi!”

Nel 2000, costatando questo fallimento, la Comunità internazionale ha allora inventato i famosi “obiettivi dello sviluppo per il nuovo millennio”. Si è detto: “No, non si può più sradicare la povertà, al massimo la si può ridurre”. Ora l'obiettivo è quello di ridurre di metà il numero non dei poveri, ma degli “estremamente poveri”. E come? Aiutandoli affinché creino nei loro Paesi le condizioni economiche favorevoli alla nascita di una imprenditoria che diventi competitiva sui mercati mondiali. Il nostro compito è di aiutarli a diventare competitivi. Così la Comunità internazionale ha accettato l'idea che entro il 2015 ci siano ancora … circa 3 miliardi e 100 milioni di poveri.

SOGNI IMPOSTI

Quali sono i sogni che ci hanno imposto, e quali ci impediscono di avere? Il sogno principale che ci hanno imposto è quello della ricchezza: non per nulla negli ultimi quindici anni una delle più grandi imprese è rappresentata dalle lotterie e i giochi d'azzardo. Perché “tu non sei niente se non sei ricco!” Diventare ricco non è avere tre case: ciò che conta è il significato, il simbolo rappresentato da questa condizione. Siccome sono più ricco, posso dimostrare di essere meglio di te. E se la ricchezza individuale è il sogno di ciascuno, noi tutti diventiamo violenti: contro il nostro prossimo o contro lo Stato. Molti pensano: “Come si permette, col fisco, di venirmi a togliere la ricchezza, magari per pagare la cassa malattia a questi asiatici che vengono per prendere il mio lavoro?”

Il secondo sogno che ci hanno imposto è quello della guerra. Ci hanno detto che non possiamo pensare a un mondo senza guerra, e che ci si deve preparare a difendere la nostra civiltà. Se il mondo è guerra, l'unica cosa che tu puoi sognare è uscirne vincitore. Per questo ci dobbiamo armare: la guerra è il nostro destino, non possiamo pensare di avere la pace. E così ci saranno le guerre per l'acqua, come ci sono state quelle per il petrolio; e ci saranno quelle per gli organismi geneticamente modificati, per le foreste... È questo il futuro? Hanno teorizzato l'inevitabilità e la naturalità della guerra, come se non ci potesse essere società senza guerra, civiltà, esistenza umana senza di essa. Questo ci hanno inculcato nella testa: l'unico sogno che possiamo avere è quello di essere dei guerrieri. Più che un sogno è un incubo.

SOGNI DESIDERATI

Quali sono invece i sogni che ci hanno impedito di avere? Incominciamo dall'ultimo: ci hanno mostrato il sogno della guerra come realista e quello della pace come utopico. Eppure il 18 febbraio del 2003, 115 milioni di persone sono scese in tutte le strade delle città del mondo a gridare “no alla guerra” contro l'Irak. Questi 115 milioni rappresentavano quelli che erano rimasti a casa: bambini e vecchi. Quindi si può stimare che fossero 600/800 milioni quelli che gridavano “noi non vogliamo la guerra”. La pace non è assenza di guerra: è costruzione di rapporti di fiducia e di rispetto fra le genti. Perché se fosse solo assenza di guerra non sarebbe pace, perché la pace è positiva. Chi ha detto che non è possibile avere una società dove costruire dei rapporti basati sulla fiducia e sul rispetto? Quante volte nel ‘500 Gubbio e Perugia si scannavano tra di loro? Ma oggi Gubbio e Perugia non si fanno più la guerra, come la Francia e la Germania… Perché non dobbiamo pensare che un giorno riusciremo ad avere popoli che non si faranno più la guerra tra di loro?

Però oggi, chi domina, ha interesse a farla perché, per il capitale finanziario, l'economia della pace è meno fruttuosa dell'economia della guerra. Vi ricordate il 1989 quando sparì l'Unione Sovietica: cosa ci avevano promesso? Che il mondo sarebbe diventato più ricco perché avremmo avuto i “dividendi della pace”. Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica per armarsi avevano speso nell'89 ben 1.007 miliardi di dollari. Sapete quanto si è speso nel 2004? 987 miliardi di dollari: una cifra di poco inferiore a quella della “guerre fredda”.

CAMBIARE E' POSSIBILE

Siamo noi il vero pericolo del mondo se continuiamo a fare quello che facciamo. È pericoloso l'italiano che consuma 300 litri di acqua potabile al giorno; è criminale lo statunitense medio che ne consuma 801 e poi dice: “Il modo di vita americano non è negoziabile, quindi io utilizzo 801 litri e continuerò a farlo perché questa è la mia libertà…” Dov'è la criminalità? Il figlio del marocchino che ruba in un supermercato è immediatamente processato, però il consumo di 801 litri al giorno di acqua potabile non è un furto ma l'espressione della civiltà, del modo di vita occidentale! Chi ha detto che dobbiamo continuare a distruggere la terra, a contaminarla, a inquinarla, a far sparire i ghiacciai? Chi ha detto che non è possibile cambiare? Abbiamo paura: se cambiamo un pochino, pensiamo di diventare poveri. Un Istituto di ricerca tedesco ha calcolato che se cambiassimo il nostro modo di vita in termini di uso delle risorse energetiche, la qualità della vita aumenterebbe. Cioè non è vero che se cambiassimo il nostro stile di vita riducendo il consumo delle risorse del pianeta, degli alberi, delle energie fossili, dell'acqua, la qualità della nostra vita peggiorerebbe, anzi. La nostra vita diventerebbe migliore. Invece ci hanno detto: “Vuoi i prati verdi? Vuol dire che non vuoi più occupazione e più ricchezza. Vuoi le pecorelle? Allora sei contro i posti di lavoro”. E ci hanno ricattato: o la ricchezza materiale o il rispetto, l'amicizia, la solidarietà fra tutti gli uomini.

È possibile cambiare; non è vero che siamo destinati a morire tutti poveri o guerrieri. Possiamo cambiare da domani mattina, ma abbiamo bisogno di ricostruire un progetto di vita. Non si può ricostruire un futuro se non si parte dall'idea che l'obiettivo principale è creare le condizioni affinché tutti abbiano il diritto alla vita. Questo è l'obiettivo primario.


* Riccardo Petrella, economista-politico, è professore in varie Università (Belgio e Svizzera). Nel 2003 é stato fondatore e presidente dell'Università del Bene comune, organizzata in quattro Facoltà (Acqua, Mondialità, Alterità, Immaginazione), le cui attività sono iniziate nel 2004 in Italia e sono in corso di programmazione in Corsica, in Marocco, nel Quebec ed in Brasile. Nel 2003 é stato tra i promotori del 1° Forum mondiale alternativo dell'acqua (Firenze, marzo 2003). È presidente del Consiglio d'amministrazione dell'Acquedotto pugliese.

(da Missione Oggi)
Sabato 04 Agosto 2007 19:37

I tamburi del profeta (Guido Ceronetti)

Pubblicato da Fausto Ferrari

I tamburi del profeta

di Guido Ceronetti


Quando si fa più atroce la coscienza di essere in questo formicolante deserto cosi abbandonati, nazioni alla deriva, continenti oscurati, senza nessuno che guidi, che venga per salvare illuminando, mi ridà un poco di respiro pensare che Qualcuno, già domani, o nell'ora più nera, potrebbe anche sorgere, da questo fango stregato.

Chi? Un uomo, un inviato, un'incarnazione… Profeta, profetessa, santo, vergine, imperatore. Santa Giovanna, genio di guerra, miracolo di pace, eresiarca, Paracleto, Messia, non importa: purché venga dalla Luce, e la porti, e sia unto di olio sacro, uno che abbia la forza di rompere le prigioni della forza, di fermare l'empietà scientifica, e che porti la sua pietà per risuscitare la pietà: uno che sbaragli le leggi per stabilire la Legge, che ci prenda per mano, tutti, che a un cospicuo numero di carogne schiacci la testa e alle loro vittime la rialzi, che ci stacchi dal palo di questo rogo, che ci liberi da questa colossale trappola per topi che è la barbarie contemporanea.


Qualcuno che «non ciberà terra né peltro, / ma sapienza, amore et virtute » (Dante, Inf. I: anche lui, povero veggente angosciato, era in attesa di una Venuta) e per il quale valga in senso assoluto il dilexisti iustitiam et odisti iniqietatem (salmo 45, 8). Uno per cui «il fragore dei tamburi diventi l’annuncio della Legge» (quarto Editto su Roccia di Asoka) e che «con la sua maestà mantenga sull’esterno sentiero dell’ordine il mondo tutto» (Nitisara di Kamandaki), un difensore e un maestro, un legislatore e un oracolo…

Anche Machiavelli, deposta la tragica penna sul calamaio, aspettava: «acciò che l’Italia dopo tanto tempo vegga un suo redentore». Un cavaliere, annunciava Petrarca «pensoso più d’altrui che di se stesso»: sembra poco, no è un’enormità. Léon Bloy, tra gli irrespirabili cannoneggiamenti del 1916, aspettava Qualcuno che sarebbe dovuto venire inaspettato da un Estero inimmaginabile, uno che sarebbe stato il Portento personificato. Il lemma visionario lo definiva meglio in questa formula: «un riflesso della Gloria in una cloaca». Sarà così, se sarà.

Se aspetto anch'io qualcuno fuori dei momenti e dei giorni di inutile disperazione, è per fare qualcosa che non sia un fare, perché ogni fare pubblico è ormai indicibilmente satanico: tutto quel che si fa, anche il buono, finisce nello stesso pozzo avvelenato, da cui esce un vapore che ci fa ciondolare ubriachi di miasma, istupiditi. In profondo, è un’attesa da lager: ma è lì che siamo, in un lager, tanto gli oppressi dalla libertà come gli oppressi dall'oppressione. Da Brest a Vladivostok un Liberatore avrebbe un lavoro infinito da compiere per liberare.

***

Qualcuno che non sia inquadrabile da una telecamera. Nel tentativo di catturarne l’immagine, le telecamere dovrebbero incendiarsi. Per riscattare l'umanità bisogna sterminare tutto quel che condanna l'uomo a non essere che la propria ombra, immagine trasmissibile e impacchettabile, gelatina del Nulla. Bisogna abbandonare il teleschermo alle sole canaglie, alle nullità a cui non importa di rappresentare il Nulla: dall'apparire in quel luogo li si riconoscerà. L’uomo probo, l'uomo pio conserva per sé l'immagine che sposta l'aria, santuario dell'Abitatore ignoto: un certo grado di iconofobia è necessario alla purezza morale. Siamo in una pattumiera terrificante di immagini in movimento: le peggiori sono quelle che stanno lì, davanti a un tavolo, e parlano.

Dante chiamava il suo Atteso veltro: per esprimere la sublimità del suo concetto ha assunto l'immagine di un cane; il veltro dantesco e una divinità cinocefala. Infatti, un redentore d'uomini come può avere l'immagine disonorata dell'uomo?

Ci precipiteremmo fuori, nelle strade dove si ammucchierebbero questi ignobili attrezzi della nostra fine, automobili, televisori, calcolatori diventati repentinamente oggetti di illuminato disgusto, per andare dietro a uno che facesse fondere tutte le manette che portiamo attaccate alle tempie, avesse pure la testa di un cane. E tagliasse pure le teste delle guide false, delle guide criminali, dei carismatici usciti dal sottosuolo, di quelli che accendono, nei bambini messi in riga e in uniforme, nelle donne e nei religioso l'istinto omicida, la brama di estendere il deserto, di assassinare portatori di un passaporto. Ego repletus sum fortitudine spiritus Domini, il Veltro lo dice a se stesso, nell’ombra, non davanti al cameraman.

***

Non potrà essere la politica a farlo, e neppure, se sarà quel che deve essere, a disfarlo. La politica non genera bodhisattvas, né veltri, né redentori. La nostra appassionante sventura vuole che non generi neppure più dei politici. Ne sforna ancora, per antica abitudine, la polis anglo-americana, dove la funzione pubblica non è dissolvente, ma formatrice per chiunque la eserciti: nel resto del mondo siamo alle canaglie, ai mediocri, a qualche isolato impotente, ai funzionari di partito unico, ai dominatori di lugubri apparati stratocratici, ai paranoici e agli idrofobi.

L’uomo che ci vuole al momento giusto ha fatto la sua ultima apparizione nel 1958. In realtà la politica è un mestiere perduto, perché serve le modificazioni della Tecnica e va dietro alla Tecnica, che impugna la frusta sadica dell’Economia, come l’alcolista va dietro all’immagine della bottiglia che ha nascosto nell’armadio. Vorrei vederne uscire delle strutture ossee intellettuali e morali davanti a cui si arretrasse con rispetto e timore: ma già, allora, sconfineremmo nello spirto gentil che arriva vestito di ferro e fa le rose uscire dal mistero delle sue mani.

Mi conforta un pensiero di Tocqueville: «Ci sono momenti in cui il mondo somiglia a uno dei nostri teatri prima che si levi il sipario. Si sa che si sta per assistere ad un nuovo spettacolo. Si sentono i preparativi in scena; quasi tocchiamo gli attori, ma senza vederli, e ignoriamo che cosa si rappresenterà». Può darsi che la recita a cui stiamo per assistere sia lo stesso teatro che salta in aria insieme agli attori e al pubblico: tuttavia è bello che l’attesa di qualche nuovo e prodigioso evento ci divori.

Siamo qua, patriai tempore iniquo, né verrà Cesare a sciogliere, con la sua magica forza di Megalurgo, i nodi, una volta per tutte; immersi in una oscena farsa non osiamo fiatare, perché il diritto ci garantisce la parola, il crimine sghignazzante nell’ombra ce lo annulla, come il pugno del marinaio che turò la bocca alla Costituente russa per ordine di Lenin, che non era né Cesare né messia, ma un capo di fanatici in cui era agonizzante o spinta del tutto la legge morale.

Tuttavia aspettare qualcuno che sia in assoluto altro, uno Straniero, un Esiliato che abbia in comune con noi soltanto la forma umana, o neppure quella: la parola soltanto, la parola davanti a cui niente resiste, e la mano, ma guaritrice, esercitata a guarire toccando, è una interessante vendetta, un’ombra, se non la carne, di un rimedio, un modo per attenuare il dolore della piaga civile, per consolare il gemito insistente del cuore indecentemente oltraggiato.

Così ogni mattino mi dico: dovrà pur venire qualcuno, forse oggi stesso lo sapremo, scoprendo qualcosa di cambiato in una delle solite facce che s’incontrano, e venendo disperderà con un soffio, prima di ogni altra cosa, questa verminaia terra di poteri senza legge che ci intortiglia. E che si muoia aspettando, davanti al sipario che non si alza, mentre le ore passano: morire aspettando un redentore che non viene è un migliore morire che vivere senza averne neppure l’idea, il desiderio, la speranza.

È vero che aspettare una salvezza esteriore non è ortodossamente filosofico; ma è raro che, nelle tremende ore di questo transito tra i viventi, vita, morte, amore e filosofia non viaggino clamorosamente sconnesse. Forse il momento più felice della vita di Cristo fu quello in cui una prostituta si mise a ungerlo con begli unguenti. Aspettare è un unguento, e il lampo che ci abbaglia misteriosamente sostiene.

Lunedì 22 Gennaio 2007 23:47

I compiti del vento sono pochi (Emily Dickinson)

Pubblicato da Fausto Ferrari
I compiti del vento sono pochi

Emily Dickinson

I compiti del vento sono pochi,
sospingere navi, in mare,
insediare marzo, scortare maree,
e accompagnare la libertà.

I piaceri del vento sono ampi,
risiedere nell’estensione,
restare, o vagare,
meditare o intrattenere i boschi.

I compagni del vento sono le vette –
Azof – l’equinozio –
anche con uccello e asteroide
si saluta passando.

I limiti del vento –
se esiste, o muoia,
sembra troppo saggio per assopirsi, –
di questi non so nulla.

Domenica 14 Gennaio 2007 20:09

Il principio speranza (Remo Bodei)

Pubblicato da Fausto Ferrari
Il principio speranza

di Remo Bodei

1

Il punto di partenza di Bloch è che tutti abitiamo questo continente della speranza, che è assai affollato, però è così inesplorato, dice lui, come l'Antartide, per questo "Il principio speranza" di Bloch è una grande mappa di tutti i territori della speranza; e la speranza Bloch la concepisce contro Heidegger, contro il principio della angoscia, se vogliamo chiamarlo così, in quanto, secondo Bloch, non bisogna prendere il mondo così com'è; la speranza ci mostra il mondo in movimento, in evoluzione. Quindi l'idea di Bloch è che la speranza non è semplicemente un premio di consolazione per le disgrazie necessarie della vita degli individui e della storia; la speranza è piuttosto uno sforzo per vedere come le cose stanno in movimento, come si evolvono, quindi la nostra mente non è simile a uno specchio che riflette una realtà ferma, la nostra mente è piuttosto qualche cosa che si inserisce nel mondo della speranza. Se vogliamo usare un'immagine classica della storia della filosofia, quella di Kant, Kant parlava della candida colomba della ragione che pensa che l'aria, che invece sostiene il suo volo, gli possa essere di ostacolo, si potrebbe dire con questa immagine che la speranza è in Bloch l'aria che sostiene la ragione, senza la speranza la ragione non potrebbe volare e senza la ragione però la speranza sarebbe cieca.

2

Nel 1933, poco prima dell'avvento del national-socialismo, ci fu una discussione nel palazzetto dello sport a Berlino tra un rappresentante del partito comunista tedesco e un rappresentante nazista, il comunista entra e comincia a spiegare la caduta tendenziale del saggio di profitto secondo Marx, la gente non capisce niente, magari, aggiunge Bloch, ha detto delle cose vere, soltanto che queste verità non fanno presa, arriva invece il nazista che comincia a parlare in termini mitici della pugnalata alle spalle che gli ebrei e i demoplutocrati hanno dato al popolo tedesco, fa dei discorsi che hanno una grande presa emotiva, usa quei termini come patria, casa, quelle forme cioè di richiamo all'identità delle persone ed esce tra le ovazioni di tutti.
Ora, per Bloch il punto, e forse anche per noi, è quello di capire che non si può staccare la razionalità dagli affetti, ma che non si può avere una pura razionalità, un socratismo, per cui basti enunciare il vero perché il vero si raggiunga, né si può avere, come nel caso del national-socialismo, una pura mobilitazione basata su problematiche irrazionali. Quindi il tentativo di Bloch rispetto alla storia del marxismo va controcorrente. Diventando scientifico e cioè per lui dogmatico, si è creduto che il marxismo avesse più successo, ma in questo modo ha dimenticato e lasciato per così dire in mezzo ai rovi, quelle che sono le tendenze degli uomini verso una vita migliore, quello che Marx stesso chiamava il sogno di una cosa. Per questo la rivendicazione della speranza in Bloch non è la rivendicazione di una mobilitazione cieca degli uomini verso una vita migliore che non sanno dove stia, ma è il tentativo di innervare un progetto che ha una base razionale, analitica, di innervare il progetto di queste energie umane che altrimenti si disperdono e si dissipano.

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Paradossalmente l'utopia di Bloch, o la speranza di Bloch, non riguarda tanto il futuro quanto il presente, nel senso che per Bloch ogni istante può diventare significativo, noi dobbiamo imparare a vivere ogni momento come se fosse eterno: "Cogli l'eternità nell'istante" è un principio fondamentale di Bloch. Naturalmente per eternità non si intende un tempo lungo, gonfiato oltre ogni dimensione finita, per eternità si intende la pienezza dell'esistere, l'eternità riguarda quei momenti d'essere in cui a me sembra di scoprire il senso delle cose, e questo senso delle cose io lo scopro andando al di là dell'oscurità dell'attimo vissuto. Il principio che Bloch ritiene più originale di tutta la sua filosofia è quello di aver scoperto che la nostra coscienza del presente, che a noi sembra così cristallina, così trasparente, è in realtà opaca, e che quindi il presente in effetti è oscuro, o, usando un proverbio cinese che usava Bloch, "alla base del faro non c'è luce"; questo significa allora che noi dobbiamo non proiettarci nel futuro in quanto tale, ma illuminare, attraverso la conoscenza e attraverso la conoscenza della speranza, quello che è il centro del nostro essere, cioè dobbiamo buttare luce, dare senso a ogni momento della nostra esistenza. Questo accade ad esempio attraverso l'arte, attraverso la musica in particolare, dove si ha il massimo di esattezza matematica e il massimo di pathos: questa è una bella illustrazione del principio speranza, la speranza non è soltanto pathos ma è anche misura e quindi la speranza è una forma che mobilita gli animi, come la musica ci può dare questo senso di esaltazione, di tristezza, ma nello stesso tempo questo senso di esaltazione o di tristezza è retto da una struttura matematica rigorosa.

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In Bloch non c'è il gusto, per così dire, illuministico di rendere tutto chiaro e trasparente. Bloch sa appunto che il nucleo di oscurità che è interno a noi stessi non si potrà mai dissipare; nello stesso tempo però Bloch non cade nel ricatto dell'oscuro, dell'enigma per l'enigma. In Bloch c'è il tentativo di sviluppare, per dirla con Montale "cercano la chiarità le cose oscure", cioè Bloch cerca di passare dall'oscuro al chiaro senza cancellare gli elementi di oscurità.
Se volessimo usare una formula, si potrebbe dire che Bloch col suo insegnamento vuole ridurre queste intermittenze dell'intelletto e del cuore, questa opacità a noi stessi, e moltiplicare questi attimi in cui invece noi incontriamo noi stessi. Infatti il principio speranza ruota attorno a quello che Bloch chiama "incontro con noi stessi", "Selbstbegegnung", perché la cosa più strana è che noi siamo in compagnia di noi stessi, ma in realtà è come se non ci incontrassimo mai, siamo sottoposti a tutti questi messaggi, che vengono dall'inconscio ad esempio, del mondo dei sogni e dei desideri, ma questi messaggi non sono chiari nella nostra coscienza. Scopo del principio speranza è quello di cercare di dare un senso a questo nostro vivere a distanza da noi stessi, quindi l'ideale utopico per eccellenza è di ritrovare noi stessi, di ritrovare il senso di noi stessi in una collettività, non un senso solitario. Noi viviamo assieme agli altri e quindi è anche attraverso gli altri che conosciamo parte di noi stessi, il noi diciamo è più ospitale dell'io, l'io però è più proprio a noi stessi, quindi quando noi incontriamo l'io incontriamo anche il noi, e quando incontriamo il noi incontriamo l'io, cioè è soltanto vivendo in questa comunità di tutti gli uomini che l'opera d'arte ad esempio ci mette in contatto con ciò che è più proprio: se io sento una musica di Mozart o di Bach, se guardo un quadro di Raffaello o di Michelangelo, se vedo l'architettura del Partenone, ecco in questo momento ciò che è diventato proprietà comune del noi, del genere umano, mi parla e mi fa incontrare me stesso.

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Bloch ha una sorta di fiducia, che vorrei definire congetturale, una fiducia appena accennata, che si può spiegare attraverso un passo del grande scrittore svizzero Gottfried Keller, che lui cita: Gottfried Keller, l'argomento non è molto allegro ma il testo è bellissimo, vede una volta un obitorio in cui sono stesi i cadaveri di gente di tutte le età, di tutte le condizioni sociali, di entrambi i sessi, e gli sembrano degli emigranti, dice, che dormono nel porto vicino alle loro misere cose in attesa che sorga l'alba. E' questa speranza di un sorgere di un'alba che guida il pensiero di Bloch, e quindi la possibilità di una vittoria sulla "lampada funebre", come la chiama lui. Questa sarebbe per Bloch la speranza più piena, ma Bloch è anche abbastanza realistico da sapere che questa speranza resta speranza, però è altrettanto realistico quando pensa che in fondo l'evoluzione dell'umanità, del passaggio dalla scimmia all'uomo darwinianamente, è andata verso il meglio, guidata in fondo da forze invisibili che noi non controlliamo, la tradizione le ha chiamate Dio. Ora Bloch non crede nel Dio personale, anzi ha una tesi, in un libro che si chiama "L'ateismo nel cristianesimo" che è molto radicale: "il miglior cristiano è l'ateo", perché l'ateo alla religione toglie questo aspetto esteriore di tipo immaginifico, legato a delle persone e a dei fatti, a Gesù e ai miracoli, a Buddha ecc.. , e lascia nella religione il nucleo più potente, lascia nella religione quello che è l'aspetto determinante e cioè che la religione contiene in sé i desideri più profondi degli uomini.

Per certi aspetti la religione è più importante della filosofia, o per dirla in termini marxiani quando parlava di Hegel e dicendo che bisognava trovare il nucleo razionale dentro il guscio mistico, si può dire che per Bloch è molto più succoso, è molto più importante questo guscio mistico delle religioni, questo riferirsi a desideri e ad aspettative, dello stesso nucleo razionale, anche perché il nucleo razionale vive soltanto se c'è la spinta della speranza. Perché la speranza di Bloch non è la speranza di un singolo popolo o di un singolo individuo, in Bloch c'è questo elemento corale e collettivo per cui la speranza lui la paragona a una fuga musicale, cioè la paragona alla ripresa di un tema che ogni individuo e ogni popolo ripropongono attraverso variazioni nel tempo e in cui, come in certi corali di Bach, tutti gli individui e tutti i popoli entrano alternativamente o insieme a cantare questa polifonia, questo accordo che cerca l'unisono; queste voci che cercano di trovare l'unità sono per Bloch la rappresentazione stessa della storia umana e del processo della speranza nella storia umana.

(Tratto dall'intervista: Bloch e il principio speranza - Napoli, Vivarium, 30 giugno 1994)


La speranza che non delude
card. Godfried Danneels



Come combattere la depressione? Come vivere la speranza, giorno per giorno, in tempi difficili? Da cosa si può riconoscere che noi siamo degli “esseri di speranza”? Perché la speranza non è un pio pensiero, un'ipotesi gratuita ma deve manifestarsi nel comportamento quotidiano. In altri termini, c'è “una spiritualità della speranza”? Tentiamo di discernerne i componenti.

Tutta la vita cristiana è costruita su tre pilastri: fede, speranza e carità. Essi si tengono in reciproco equilibrio. Se si rompe l'equilibrio, il cristiano perde, per così dire, la bussola. Vacilla.

FEDE E SPERANZA

Senza la fede la speranza non può vivere: si trasforma nel sognare. Secondo la lettera agli Ebrei, “la fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” ( Eb 11, 1) . Senza la fede negli eventi salvifici - Antico e Nuovo Testamento - la nostra speranza è solo immaginazione, una chimera.

Al contrario, senza la speranza, la fede è morta: una fossa comune dei fatti del passato che serve solo a popolare la memoria; non c'è più niente da aspettarsi, non c'è più niente di nuovo da vivere. Certamente, un tempo è successo qualcosa, ma la “rivoluzione” a fatto il suo tempo e il vulcano si è spento.

Questo gioco sottile della fede e della speranza è uno degli ingredienti di una spiritualità equilibrata: ne determina il grado di salute. Perché, nella fede, c'è già una parte di speranza: noi crediamo nella Risurrezione del Cristo a titolo di garanzia della nostra propria risurrezione che verrà. Ma nella speranza c'è anche una parte di fede: la speranza trova uno stimolo che gli offre la fede. Poiché la promessa si è già realizzata, essa si può nuovamente realizzare.

DOPPIA TENTAZIONE

In questo ambito il cristiano è sottoposto a due tentazioni: quello della temeraria fiducia nella novità e quella della mancanza d'immaginazione.

Colui che vive solo proteso all'avvenire, che si preoccupa solo delle sue realizzazioni, affrancato da tutta la saggezza trasmessa dal passato, costui è privato della memoria. Non si rende conto del fatto che certe “vie nuove” sono state sperimentate già da molto tempo e si sono rivelate impraticabili. Privato della memoria, egli sperimenta a tutto andare. Questa è la fonte di dolorose delusioni, e più tardi anche di demotivazione. Sono i rivoluzionari senza memoria che si ricongiungono per primi al campo dei conservatori.

Ma, al contrario, c'è anche la mancanza d'immaginazione, l'illusione d'una vita senza rischi. Ci si dimentica che c'è sempre “un di più” che non è ancora stato inventato o sperimentato. C'è qui una speranza insufficiente. Perché il momento presente contiene ancora tante cose meravigliose rimaste inutilizzate.

SPERANZA E CARITÀ

Chi ha fiducia in Dio e spera in Lui, deve come Lui donarsi interamente agli uomini. La speranza si riversa nella carità. Ciò suppone un delicato equilibrio tra i due atteggiamenti: attendere nella fiducia e rimboccarsi le maniche per l'azione. Il cristiano è sempre come seduto sul bordo estremo della sua sedia. Seduto su quello che dispone d'un appoggio sicuro: la speranza. All'estremo bordo della sedia, perché è pronto ad alzarsi e a pagare di persona. La poltrona del fannullone non fa parte dei suoi mobili.

Non si accorda una piena fiducia a Dio se non Lo si ama. E non si può amare Dio se non si ama il proprio prossimo. Così la fede conduce alla speranza e la speranza conduce all'amore. In sovrappiù non si spera mai solo per se stessi. La speranza non ha raggiunto il suo termine finché essa non si estende a tutti gli uomini, all'intero universo. Come posso raggiungere il cielo nella gioia, se so che sarò tutto solo?

Fede, speranza e carità, le tre grandi che non possono fare a meno l'una dell'altra. La fede vede cosa è già, la speranza dice ciò che verrà, la carità ama ciò che è; la speranza si occupa già di ciò che sarà. Per il nostro tempo la speranza sarebbe ugualmente la più grande? Comunque sia le tre si tengono reciprocamente in equilibrio e tutte e tre ci sono necessarie.

VEGLIARE NELLA PREGHIERA

Infatti non c'è che un solo esercizio di speranza: vegliare nella preghiera. L'atteggiamento silenzioso di attesa davanti a Dio è la scuola della speranza. Imparare ad attendere e porsi come una vedetta.

Tutta la Bibbia descrive la preghiera come vigilanza e attenzione: tenersi pronti per il ritorno del Signore presso di Lui e provvedere alle lucerne nella Sua attesa. I salmi sono i libri delle lamentazioni per eccellenza, dell'attesa della giustizia, dell'attesa che il giusto sia protetto e il perdono accordato al peccatore, della perseveranza nelle prove. “Mio Dio, mio Dio, quanto tempo ancora... ?”.

Pregare è anche mantenersi con pazienza tra il passato e l'avvenire. È prendere nelle mani la Bibbia e ricordarsi “le meraviglie che fece il Signore”. È il nutrire la propria memoria e permetterle di lavorare. Ma è anche lo sperare con il cuore ardente ai giorni del compimento, al tempo della ‘liberazione d'Israele' e del ritorno del Signore. “Maranatha”.

Pregare è render grazie per tutto quello che ci ha preceduti ed entrare già nelle promesse di quanto deve ancora venire. È esultare di gioia cantando il Magnificat ed esercitarsi al paziente abbandono del Nunc dimittis . È il sedersi tra Maria e Simeone, tra l'azione delle grazie e la speranza corrisposta.

A dire il vero, esiste per una cultura (e per una Chiesa!) una terapia della depressione diversa dalla preghiera? “È perché voi non pregate, che siete senza coraggio” , potrebbe dire Giovanni alle Chiese in una nuova versione della sua Apocalisse.

IMPEGNARSI

La speranza non giungerà mai se io non m'impegno in niente, se non mi decido a fare qualcosa, se non scelgo. La nostra cultura deve reimparare a legarsi, a scegliere, a risolversi a qualcosa. Si è sviluppata una sorta d'irresolutezza generalizzata: di fronte al matrimonio, di fronte ad ogni impegno definitivo, di fronte a ogni decisione di rendersi disponibili in maniera impegnativa. Può darsi che ci siano delle spiegazioni di questo atteggiamento, delle motivazioni più o meno ammissibili. Ma ci sono anche delle ragioni soggiacenti molto poco eleganti. Una specie di narcisismo che non permette di rinunciare alle proprie comodità, il bisogno di garanzie assolute - questa mentalità che spinge a sottoscrivere un'assicurazione a fronte di qualsiasi cosa - e a volte manifestamente la pigrizia e il “ciascuno per sé”.

Ma bisogna anche rilevare nella nostra cultura il disagio della percezione del tempo. Non solo l'impossibilità di aspettare, la legge del “tutto, tutto subito”, ma anche la diffidenza fondamentale per il credito da accordare al tempo. Dobbiamo imparare di nuovo a fare del tempo un amico... aspettando di ridivenire sensibili a una realtà chiamata classicamente “Provvidenza divina”. Quando vorremo capire che Dio si prende cura di noi molto meglio di quanto lo possiamo fare noi stessi?

LA CRISI DELLA FEDELTÀ

Nella sfera del “provvisorio” nella quale noi evolviamo, sopravviene anche la crisi della lealtà. E questo in tanti ambiti: matrimoni, amicizie, affari, ambienti di lavoro. La fedeltà non la si guarda più con ammirazione, ma tutt'al più con sorpresa, se non con compassione.

Così si degrada il tessuto sociale: è logorato. Da che tempo è tempo, la fedeltà ha avuto un ruolo legato fino a un certo punto con il tragico della condizione umana. La fedeltà di Lefte al suo voto lo portò ad immolare sua figlia. La fedeltà di Antigone alle leggi non scritte dell'amore fraterno la condusse alla morte. Questo tragico era profondamente umano, anche se pagano. Proclamava chiaro e forte che non si può mancare alla parola data. La nostra epoca non conosce più i tormenti di questo aspro dramma pagano. Ne conosce altri. Lo strappo di tanti partner abbandonati e di tanti bambini privati dei genitori, la fatica di dover continuamente riprovare con qualcun altro, i cinici preavvisi significati a delle persone che invecchiando rischiano di costar troppo caro, la rottura dei contratti, quella specie di amnesia che riguarda i propri impegni passati...

L'infedeltà rende una società profondamente deprimente. In più, l'infedeltà ha la tendenza di propagarsi con la velocità dei funghi in una foresta. Un girotondo di streghe. Ogni infedeltà fa venir voglia alla parte lesa di fare altrettanto.

Se vogliamo sfuggire a questo funesto ingranaggio, bisognerà ritrovare la virtù naturale della fedeltà. Ricordandoci che è d'altronde il tratto più caratteristico di Dio: è un Dio fedele.

LA SPERANZA SI PRENDE CURA DEGLI ALTRI

L'esclusione, comunque si manifesti, provoca molta disperazione nella nostra società. Esclusione dal lavoro e dall'avvenire, esclusione da se stesso, dalla patria e dalla cultura, esclusione dalle cure e dall'alloggio. Troppa gente oltrepassa il limite. Questo assomiglia a una spirale che si stringe sempre di più, un laccio attorno al collo. Tutti gli assistenti sociali, gli uomini politici, i sacerdoti e gli animatori pastorali la conoscono bene. È la preoccupazione costante dei servizi sociali, e la Fondazione Re Baldovino l'ha studiata a fondo dal punto di vista scientifico.

Cosa dovremo fare se vogliamo dare delle possibilità alla speranza? Certamente dei provvedimenti di giustizia s'impongono alla collettività. Molti responsabili politici ci lavorano d'altronde con prudenza. Ma si è creata anche una rete di punti d'ascolto e soccorso, troppo numerosi per enumerarli, che funzionano spesso grazie al numero di benefattori, e ricevendo migliaia di persone, giovani e vecchie, con tutti i loro possibili problemi. Poiché i servizi pubblici non bastano, né per il numero, né per l'efficacia, né soprattutto per questa prossimità affettuosa necessaria a chi soffre. Pensiamo al corpo umano: quando un'arteria s'incrosta e si ostruisce, sono dei piccoli vasi sanguigni che ne sostituiscono la funzione. Quindi, a fianco degli organismi pubblici, agiscono delle migliaia di piccoli centri di speranza. La speranza si prende dunque cura degli altri. Questo è sufficiente?

LA SPERANZA ANTICIPA

La speranza non può accontentarsi di limitare o riparare i danni quando il danno è fatto. La speranza è anche previdente. Vuole agire preventivamente. Se noi non agiamo preventivamente, in effetti trascuriamo le vittime ed esponiamo il contribuente a degli oneri sempre più pesanti. Poiché la vittima è già ferita e riparare costa molto più che prevenire. Oltre tutto la società avrà la tendenza a scindersi in assistenti e assistiti. La frattura sociale diventerà sempre più profonda.

Dove si colloca la prevenzione? Nelle scuole e nelle famiglie. Non bisogna investire di più in questa azione? Non solo dal punto di vista finanziario, ma anche psicologicamente? La mancanza di speranza nella nostra società è spesso imputabile al fatto che genitori ed educatori abdicano. Da ciò la necessità di lanciare questo appello profetico: “Aiutate i genitori e i maestri” . Tutto quello che non si fa a casa e a scuola, si iscriverà automaticamente un giorno al debito della società.


(Il testo è tratto dalla lettera pastorale: Espérer?)

Quei bambini, che non possono disegnare
la riga del cielo e della terra
di Ettore Masina

Non c'è niente di peggio per i poveri (i "dannati della Terra come li chiamava lo psichiatra francese Franz Fanon) che essere condannati al ruolo di astrazioni: cifre e non persone doloranti, talvolta sino allo spasimo, problemi da risolvere con scelte politiche ed economiche invece che padri, madri, figli, nonni, case distrutte, patrie abbandonate in seguito a minac­ce terrorizzanti, violenze, talvolta torture; e fame e freddo e disperazione, e necessità assoluta di attenzione e di tenerezza. Le statistiche possono essere esaminate con un minimo di pietà; e quanto più rivelano tragedie immani, tanto più finiscono per essere messe in conto dell'utopia: c'è bisogno di un governo mondiale, di imponenti esborsi da parte dei cosiddetti Paesi del benes­sere. Ma un governo mondiale non c'è, le potenze imperiali non pagano all'Onu se non quote infinitesimali, i governi dei Paesi sviluppati tagliano progressivamente gli aiuti allo sviluppo. A cominciare dall'Italia, che ormai è in testa alla classifica dell'egoismo internazionale.

I profughi nel mondo sono circa 22 milioni e già in quel "circa" c'è una condanna all'insignificanza. Se si mettessero a gridare o anche a piangere tutti insieme, nelle nostre strade, non potremmo lavorare, ridere, portare a scuola i bambini, scrivere poesie e tanto meno dormire. Ventidue milioni di bocche sarebbero un coro da apocalisse. Ma i campi dei profughi, quando ci sono, sono ben lontani dalle nostre città, nei terreni più aridi che nessuno coltiva, nelle periferie più misere, dove confinano con le discariche, nelle aree flagellate da insetti, su altipiani in cui gli aiuti arrivano a stento, quando arrivano; in zone in cui sono ancora attivi campi minati o in cui penetrano facilmente i persecutori.

Milioni di bambini nascono, crescono, diventano adulti, se ci riescono, dentro i recinti di baraccamenti che avrebbero dovuto essere provvisori e hanno ormai mezzo secolo e più. Fanno parte di quei 50 milioni di piccoli che, secondo l'ultimo rapporto dell'Unicef, risultano invisibili ai governi ma anche a noi. Piccini venduti, trattati come piccole bestie da soma o da piacere, insidiati, mutilati della propria infanzia... Pensavo a queste cose, giorni fa, visitando una mostra di disegni dei bambini dei campi profughi palestinesi nel Libano. Mia moglie mi ha fatto notare un elemento inquietante: la maggior parte di quei disegni non aveva la linea di base, del terreno. Ne ho parlato con quel grande pedagogo che è il vecchio ma ancora lucidissimo Mario Lodi, che mi ha risposto con accenti di profonda pietà. Tutti i bambini, di tutti i Paesi del mondo, appena cominciano a disegnare - dice Lodi - tracciano due linee che contengono la loro realtà: la linea del suolo su cui vivono e la linea del cielo. La mancanza di una di quelle due linee indica che il bambino vive una vita inquietante, non ha una sua terra. Ma terra, penso io, terra significa spazio di vita, patria, socialità, sicurezza, base per la costruzione del futuro. Quei bambi­ni che sembrano fluttuare in un immenso vuoto indicano che la nostra è una civiltà potente e spietata.

(da Jesus, gennaio 2006, p. 25)

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