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Sabato, 04 Novembre 2006 20:53

L'esegesi patristica in dialogo con l'ebraismo dei primi secoli (Innocenzo Gargano)

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L'esegesi patristica in dialogo
con l'ebraismo dei primi secoli
di Innocenzo Gargano *
(Camaldoli 1991)






È una delle tante testimonianze frutto dei «Dialoghi di Camaldoli». Dal reciproco ascolto ebrei e cristiani hanno cominciato non solo ad apprezzare le reciproche identità, ma soprattutto a condividere una sofferenza generata dall'antisemitismo.


Premessa

Mi sembra che la prima cosa da chiarire, fin dall'inizio, debba essere quella del rapporto assolutamente particolare che si stabiliva, nel periodo dei Padri, fra il soggetto che faceva esegesi e l'oggetto dell'esegesi stessa.

Quando l'uomo moderno si pone di fronte a un testo, evita accuratamente di interferire nel testo con gli affetti di cui è portatore inevitabilmente. È opportuno parlare di uomo moderno e non di "contemporaneo", perché in questi ultimi anni si è acuito il dubbio che si possa parlare simpliciter di un testo. Due Autori sono divenuti il simbolo personificato di un simile dubbio. Si tratta H. G. Gadamer e di P. Ricoeur(1). Scrive a tale proposito G. Vattimo:

«Nella mentalità filosofica moderna, metodo è lo strumento, con cui un soggetto, concepito in contrapposto al suo "oggetto", si assicura la possibilità di disporre di quest'ultimo (...). Inscindibili dal concetto di metodo, cosi come la tradizione europea lo è venuto costituendo, sono le nozioni di obiettività e di dimostrabilità che escludono, almeno tendenzialmente, ogni interesse e intervento del soggetto, cioè in definitiva ogni carattere "eventuale" (cioè di accadimento-evento) della verità che si tratta di raggiungere» (2).

«Il primo passo da fare per mettere in chiaro l'insostenibilità di questa nozione. di metodo o almeno i suoi limiti - prosegue Vattimo - è riconoscere quelle esperienze di verità che pure si verificano di là dai confini che esso stabilisce, cioè quelle che potremmo chiamare esperienze extra metodiche della verità. Non sembra più legittimo trasferire in modo meccanico la nozione di metodo propria delle scienze della natura, con il suo ideale di dimostrabilità, al campo delle scienze dello spirito, con la conseguenza di perdere di vista la specifica verità che caratterizza questi tipi di conoscenza (...). In generale la nozione di metodo elaborata dalle scienze della natura non è in grado infatti di comprendere la verità delle scienze dello spirito» (3).

Un primo confronto

Il genere di approccio ad un testo determinato, che Vattimo qualifica come esperienza extrametodica della verità, sembra sottostare curiosamente ad una delle pagine più interessanti e più vicine all'ermeneutica propria dei Padri cristiani che è possibile leggere nelle Mishpatim 99a-99b dello ZOHAR(4) :
Quanti esseri umani vivono in una sorte di confusione mentale, non riuscendo a vedere la via della verità la cui abitazione è nella Torah, la Torah che, innamorata di loro, li invita tutti i giorni ad andare da lei, e invece non la degnano neppure di uno sguardo! È proprio vero quel che ho detto. La Torah emette una parola e viene fuori per un attimo dal suo nascondiglio e poi si cela di nuovo. Ma fa così soltanto con coloro che la capiscono e le obbediscono. Essa si comporta come una bella ragazza nascosta nella stanza più remota di un palazzo che ha un amore segreto sconosciuto a tutti. Innamorato di lei, lui passa costantemente accanto alla ricerca di lei. Lei, sapendo che lui assedia continuamente il suo palazzo, che fa? Apre una piccola porticina nel suo palazzo segreto, rivela per una attimo il suo volto all'amante e subito lo nasconde di nuovo. Nessuno se ne accorge se non lui, ma il cuore e l'anima e tutto ciò che è in lui sono attratti da lei, perché ha capito che si è mostrata un istante spinta dall'amore anche lei.

Accade la stessa cosa con la Torah che rivela i suoi segreti nascosti soltanto agli innamorati di lei. Lei sa che il sapiente nel cuore frequenta quotidianamente le grate della sua casa. Cosa fa allora? Essa mostra il suo volto dal palazzo mandandogli un segno di amore e subito ritorna di nuovo nel suo nascondimento. Nessuno si rende conto del messaggio se non lui, ma il cuore e l'anima e tutto ciò che è in lui sono attratti da lei. Così la Torah rivela il suo innamoramento agli innamorati di lei per risvegliare in loro un nuovo amore. Questa è la strada della Torah. All'inizio, quando essa comincia a rivelare se stessa ad un uomo, gli invia dei segnali. Se quell'uomo capisce tutto, va bene, ma, se non capisce, essa gli invia dei messaggeri considerandolo un "semplice" e comanda loro: «Dite a quell'ingenuo di venire qui per parlare con me», come sta scritto: «Chi è ingenuo fatelo ritornare di nuovo» (Cfr. Prov 9,4).
Quando egli arriva, essa comincia a parlargli, all'inizio dal di dietro del velo che essa gli ha sciorinato davanti con parole adeguate alla sua capacità di comprensione in modo che egli possa progredire piano piano. Questo (insegnamento) viene chiamato Derashah (nella casistica del Talmud si chiama cosi la derivazione delle leggi tradizionali e delle usanze dalla lettera della Scritture). Poi gli parla dal di dietro dell'intreccio di un velo sottile discorrendo di indovinelli e parabole secondo ciò che si chiama Aggadah. Quando infine diviene un familiare, essa gli mostra se stessa faccia a faccia e parla con lui di tutti i suoi misteri, di tutte le sue strade segrete che aveva custodite gelosamente nel cuore da tempo immemorabile. Allora un uomo simile diventa un perfetto iniziato alla Torah, un "maestro di casa", perché essa gli ha rivelato tutti i suoi misteri, non negandogli ne nascondendogli nulla. Essa gli dice: «Vedi adesso quanti misteri conteneva quel segno, quel cenno che io ti inviai al principio?». Allora egli si rende conto che niente può essere aggiunto o sottratto dalle parole della Torah, né un segno né una lettera. Perciò gli uomini dovrebbero seguire la Torah con impegno e costanza fino a diventare gli amanti o innamorati di lei.

Questo testo dello Zohar ci stimola ad estendere per un momento il discorso su alcuni criteri di lettura della Torah comuni alla intera tradizione giudaica. Il testo che abbiamo appena citato parla di una certa «confusione mentale» di coloro che non riescono a vedere «la via della verità la cui abitazione è nella Torah». Da cosa deriva questa «confusione mentale»? L'autore dello Zohar non ha dubbi: essa deriva dal fatto che tanti esseri umani «non degnano neppure di uno sguardo» colei che invece «li invita tutti i giorni ad andare da lei» innamorata com'è di tutti loro. La causa della «confusione mentale» è dunque una sola: l'insensibilità alla proposta d'amore della Torah. A questi «esseri umani», preda della «confusione mentale» perché insensibili ai messaggi d'amore, si contrappone il «sapiente nel cuore». Una ricerca ed un'attesa paziente che verranno al fine premiate dal momento che la Torah stessa, come una bella ragazza innamorata, brucia a sua volta di amore, attratta irresistibilmente verso di lui. Così, se all'inizio gli invia soltanto dei piccolissimi segni del suo desiderio di lui, quando sente crescere in se stessa l'amore, ricevendo la conferma di essere corrisposta dalla fedeltà con cui egli assedia continuamente il palazzo, non si limita più a fugacissimi accenni, ma «apre una piccola porticina» nel suo nascondiglio segreto e rivela, sia pure per un attimo «il suo stesso volto all'amante» con un gesto talmente provocatorio che sia «il cuore» che «l'anima e tutto ciò che è in lui, sono attratti da lei». «Così la Torah - commenta il testo - rivela il suo innamoramento agli amanti di lei» e con questo semplice gesto di rivelazione dell'amore provoca, nel «sapiente nel cuore» che frequenta giorno e notte la sua casa, il risveglio di un amore continuamente nuovo che sarà a sua volta motivo e spinta di un progressivo cammino nell'intimità della sposa. «Questa è la strada della Torah».

Può succedere però che quel «sapiente nel cuore» sia talmente semplice e ingenuo da non riuscire a capire il significato nascosto dei segnali fugaci e apparentemente insignificanti che l'innamorata gli lancia discretamente nascosta nel suo palazzo segreto. Non per questo essa si darà certo per vinta, ma «considerandolo un semplice - osserva acutamente il testo dello Zohar - gli invia dei messaggeri fidati (...) e comanda loro: "Dite a quell'ingenuo di venire da me, perché gli voglio parlare"... La Torah si fa allora maestra discreta di iniziazione alla sapienza e «comincia a parlargli con parole adeguate alla sua capacità di comprensione in modo che egli possa progredire pian piano». La sposa si rivela dunque pian piano facendo percorrere uno dopo l'altro i gradini che porteranno il «sapiente nel cuore» dal significato nascosto nella «lettera», al significato nascosto negli «enigmi» e nelle «parabole» per condurlo, una volta che gli divenuto intimo e familiare, all'incontro «faccia a faccia» con lei. Soltanto in questa ultima fase parla finalmente con lui «di tutti i misteri nascosti, di tutte le sue strade segrete che aveva custodito gelosamente nel cuore» fino dal principio. È questo infatti il momento in cui l'ingenuo, il «semplice»,  il «sapiente nel cuore» è divenuto il «maestro di casa», quell' "iniziato perfetto" al quale la Torah ha deciso di «rivelare tutti i suoi misteri non negandogli nulla ne nascondendogli nulla».

ORIGENE e GREGORIO DI NISSA conoscono la stessa gradualità nell'iniziazione del sapiente ai segreti della Scrittura Santa, ed è interessante notare che sia l'uno che l'altro ne parlano all'interno del loro Commento al Cantico dei Cantici. Dopo aver ricordato la gradualità dell'iniziazione alla sapienza voluta da Salomone per il semplice fatto di aver pubblicato con ordine prima il libro dei Proverbi, poi quello dell'Ecclesiaste e infine il Cantico dei Cantici, e dopo averli connessi ciascuno con altrettante fasi del progresso nell'impegno ascetico, Origene si esprime in questi termini:
Pertanto, se qualcuno avrà realizzato il primo punto, che è indicato nei Proverbi, correggendo i costumi e osservando i precetti, e dopo, disprezzata anche la vanità del mondo e osservata la fragilità delle cose caduche (Ecclesiaste), arriva al punto da rinunziare al mondo e a tutto ciò che è nel mondo, costui arriverà anche a contemplare e desiderare le realtà che non si vedono e che sono eterne (Cantico dei Cantici). Ma per arrivare ad esse, abbiamo bisogno della misericordia divina: vedremo allora se riusciamo, contemplata la bellezza del Verbo di Dio, ad infiammarci per lui di amore apportatore di salvezza, si che anche egli si degni di amare tale anima, che avrà visto posseduta dal desiderio di sé (5) .
Trattenendosi poi a parlare del titolo Cantico dei Cantici, Origene aggiunge, sempre in linea ci sembra, con la tradizione giudaica:
Ritengo che cantici siano quelli che prima venivano cantati dai profeti e dagli angeli: infatti si dice che la legge è stata amministrata per mezzo di angeli nelle mani del mediatore (cfr. Gal 3,19). Pertanto tutto ciò che è stato annunziato da costoro erano cantici cantati in precedenza dagli amici dello sposo: invece questo è il solo cantico che doveva essere cantato, quale carme nuziale, proprio dallo sposo che ormai stava per ricevere la sposa; ed essa non vuoI che le sia cantato dagli amici dello sposo, ma ormai desidera ascoltare proprio le parole dello sposo presente, dicendo: «Mi baci con i baci della sua bocca». Per tale motivo ben a ragione esso è preposto a tutti i cantici. Infatti tutti gli altri cantici, che la legge e i profeti cantarono, sembrano essere stati cantati alla sposa troppo giovane e non entrata ancora nell'età matura: invece questo cantico è stato cantato a lei ormai adulta e valida, adatta ad accogliere la capacità generatrice dell'uomo e il mistero perfetto. In questo senso, di lei si dice che una sola è la colomba perfetta: cosi quale sposa perfetta di marito perfetto accoglie parole di dottrina perfetta (6).
Al di là dello scambio "ragazza-Torah" = sposo (Verbo)/"sapiente nel cuore" = sposa-noi, il movimento intrinseco alla riflessione di Origene sembra sostanzialmente identico a quello che abbiamo potuto notare presente nel libro dello Zohar .

GREGORIO DI NISSA è testimone anch'egli di questa vicinanza fra la riflessione dei padri e la tradizione giudaica espressa nel testo dello Zohar, quando scrive:
La didaskalia dei Proverbi parla all'età infantile con argomenti adatti a quell'età (...), il logos offre in seguito la "filosofia" dell'Ecclesiaste a colui che è stato introdotto a sufficienza nel desiderio delle virtù (...) e infine, dopo aver purificato il cuore dal legame con le cose apparenti, introduce (mystagoghei) la intelligenza nei penetrali divini del Cantico dei Cantici (7).
Un brano di Origene, che espone la terza interpretazione - quella cosiddetta mistica di Ct 1,2 ( «Mi baci con i baci della sua bocca,.) - è talmente vicino, sia nell'ispirazione generale che nel contenuto, al testo che abbiamo letto nello Zohar, da far nascere il dubbio di un influsso reciproco odi una interdipendenza cosciente fra le due tradizioni ebraica e cristiana a proposito dell'interpretazione della Torah in generale e del Cantico dei Cantici in particolare. Scrive in questo brano Origene:
Come terza interpretazione, introduciamo l'anima che desidera soltanto congiungersi ed unirsi col verbo ed entrare nei misteri della sua sapienza e della sua scienza come nel talamo dello sposo celeste. Anche quest'anima ha i doni che da lui le sono stati dati a titolo di dote .
(...) Avendo tali doni per dote, la sua prima istruzione è venuta dai precettori e dai maestri. Ma poi che con questi non è pieno e perfetto l'appagamento del suo amore e del suo desiderio, essa prega che la sua mente pura e verginale sia illuminata dalla presenza e dalla luce dello stesso Verbo di Dio. Allorché infatti nessun servizio di uomo o angelo riempie la sua mente di sentimenti e pensieri divini, allora essa crede di aver ricevuto proprio i baci del Verbo di Dio.
 (...) Infatti finché l'anima fu incapace di accogliere la pura e solida dottrina comunicata proprio dal Verbo di Dio, necessariamente essa accolse baci, cioè concetti, dalla bocca dei maestri. Ma quando da sé ha cominciato a scorgere ciò ch'era oscuro, a snodare ciò che era intricato, a risolvere ciò che era involuto, a spiegare con convincente interpretazione le parabole, gli enigmi e le sentenze dei sapienti, allora ormai sia convinta di aver ricevuto i baci proprio del suo sposo, cioè del verbo di Dio. E si parla al plurale di baci proprio perché noi comprendiamo che la illuminazione di ogni concetto oscuro è un bacio che il Verbo di Dio dà all'anima perfetta.
(...) Invece per bocca dello sposo intendiamo la facoltà con la quale egli illumina la mente e quasi avendole rivolto parole di amore, se essa merita di accogliere la presenza di facoltà così grande, le rivela ogni cosa sconosciuta e oscura: questo è il più vero proprio e santo bacio che lo sposo, il Verbo di Dio, rivolge alla sposa, l'anima pura e perfetta (...). Perciò ogni volta che nel nostro cuore scopriamo, senza bisogno di maestro, qualcosa che ricerchiamo, sulle dottrine e gli argomenti divini, altrettanti baci crediamo che ci siano stati dati dallo sposo, il Verbo di Dio (...). Infatti il Padre conosce la capacità di ogni anima e sa a quale anima quali baci del Verbo a suo tempo egli debba porgere (8).

Origene e le conoscenze rabbiniche del suo tempo

Abbiamo affacciato l'ipotesi o il dubbio di un influsso reciproco o di interdipendenza cosciente. Certo, se ci ricordiamo che il libro dello Zohar è del XIII secolo e il brano di Origene lo precede addirittura di un millennio, dovremmo piuttosto parlare simpliciter di derivazione della pagina dello Zohar dal brano di Origene o comunque dall'insieme dell'humus culturale e spirituale che ha preceduto eseguito la grande riflessione origeniana. Sappiamo però anche che, a proposito dei testi della tradizione ebraica, conviene essere sempre estremamente prudenti quando si tratta non tanto di stabilire una data precisa della redazione finale, quanto di indicare con la meno approssimazione possibile le fonti originarie di una determinata corrente di pensiero o di orientamento esegetico e spirituale(9) .

Per quanto riguarda più precisamente il rapporto fra Origene e il mondo ebraico a lui contemporaneo, non è del resto fuori posto, mi sembra, ricordare anche ciò che il grande esegeta alessandrino scriveva nella sua famosa lettera ad Africanus:
Noi ci sforziamo di non ignorare le (scritture) che sono presso di loro (o custodite da loro: tas parà èkeinois) in modo che, quando dialoghiamo con loro, non succeda che gli presentiamo dei testi assenti nei loro manoscritti, ma anche perché possiamo utilizzare i loro testi qualora questi fossero assenti nei nostri esemplari. Mantenendo questo comportamento nelle discussioni che abbiamo con loro, evitiamo che essi ci disprezzino o, come succede abitualmente, ridano dei credenti di origine pagana sostenendo che ignoriamo la lezione autentica contenuta nei loro manoscritti (10).

Queste affermazioni contenute nella lettera ad Africanus riguarda ovviamente il testo, diciamo così, "canonico" delle Scritture ebraiche che Origene si sforzava di avere sempre davanti. Esse però sono anche una precisa testimonianza della presenza di un contatto che difficilmente si sarebbe potuto fermare al semplice confronto con il testo acritico", senza coinvolgimento con l'interpretazione che al medesimo testo era collegata. Sempre N.R.M. de Lange ricorda per esempio che Origene viveva in Palestina immediatamente dopo la pubblicazione della Mishnah e che, oltre a nutrire un grande interesse per gli usi e le tradizioni ebraiche, conosceva personalmente i maestri ebrei del suo tempo(11) .

Si potrebbe aggiungere che proprio Cesarea - la città di elezione dell'esegeta alessandrino dopo il suo esilio definitivo da Alessandria (anno 232) - era al tempo di Origene una città da cui, a causa del suo porto che ne faceva il punto di contatto principale della Palestina con l'estero, passavano necessariamente moltissimi maestri in arrivo o in partenza per via mare. Inoltre, proprio a Cesarea sarebbe fiorita, alla fine del III secolo e lungo tutto il IV, «a brillant and originaI school of rabbis» (de Lange), i cui inizi si potrebbero far risalire indietro almeno fino agli anni della permanenza di Origene in città, cioè fino circa agli anni 252-53(12).

Di fatto Origene stesso non solo ricorda di tanto in tanto nelle sue opere di aver consultato dei maestri ebrei, ma spesso fa riferimenti espliciti a tradizioni ebraiche che non avrebbe potuto conoscere se non per qualche contatto diretto con la comunità ebraica stessa(13). G. Bardy ha raccolto circa una settantina di testi origeniani in cui sembra che l'esegeta alessandrino abbia attinto alla tradizione giudaica:
Egli (Origene) approva qualche volta le interpretazioni degli ebrei, ma più spesso le condanna, soprattutto le condanna perché a suo parere esse non si elevano mai al di là del senso letterale: allora parla delle inutili favole giudaiche (Jn Leviticum Hom. III,3; PG XII,427C); commisera quei poveretti di Ebrei che non conoscono l'esistenza di un giudeo visibile e un giudeo invisibile (Jn Leviticum, Hom V,l; PG XII,447B); che si figurano un bio antropomorfico cioè con membra umane (Jn Genesim, Hom. III,1; PG XII, 175AB) (...). Origene è cosciente comunque di trovarsi di fronte ad una tradizione esegetica importantissima (...). «Altri prima di noi - scrive per esempio in un'Omelia - hanno già spiegato queste cose; e poiché noi non disprezziamo le loro spiegazioni, li citiamo volentieri, non come se fossero una nostra scoperta personale, ma proprio come farebbero dei discepoli che avessero ricevuto un buon insegnamento» (In Jeremiam, Hom XI, 3; PG XIII,369C, ed. Klostermann, p. 80) (14).
Origene non precisa quasi mai o, solo qualche volta in modo generico, chi fossero questi altri, ma non c'è dubbio che molto spesso si tratti semplicemente di maestri ebrei. In realtà - osserva il de Lange - "ad accezione di Girolamo nessun altro padre della Chiesa conobbe così bene gli Ebrei come Origene (...). Molto di ciò che dice Origene non può essere capito senza una conoscenza adeguata dei Rabbi e alcune tesi di studiosi moderni si ridurrebbero a nulla se potessero essere confrontate con l'evidenza di alcuni scritti rabbinici. Questi scritti sono stati tramandati in ebraico e in aramaico e, siccome non sono tutti disponibili in traduzione, e neppure in edizione moderna, essi sono stati completamente ignorati. Un esempio molto chiaro lo possiamo avere dall'interpretazione origeniana dei nomi ebraici presenti nella Bibbia. Origene sostiene di aver appreso molte di queste interpretazioni dagli Ebrei, e i rabbi costituiscono spesso il punto di appoggio per alcune annotazioni omiletiche sull'interpretazione dei nomi, alcune delle quali molto fantasiose. I tentativi di dimostrare - come nel caso di Filone alessandrino - che Origene non conosceva l'ebraico si sono basati sul fatto che egli non sembrava essere in grado di tradurre in modo corretto quei nomi; stranamente alla stessa conclusione si dovrebbe arrivare a proposito dei Rabbi i quali pure avrebbero conosciuto molto male l'ebraico, il che è certamente un assurdo»(15).

«In realtà - continua il de Lange - l'attitudine di Origene nei confronti del giudaismo fu in qualche modo un'attitudine strana perché, mentre appoggiava l'opinione patristica comune sul giudaismo, che era sostanzialmente sfavorevole, riconobbe nello stesso tempo l'importanza della tradizione ebraica per la ricerca cristiana e in modo particolare riconobbe l'importanza del lavoro degli studiosi ebrei riguardo alla interpretazione della Scrittura. Si preoccupò di scoprire tutto quello che poté dell'esegesi biblica giudaica incorporando nel suo lavoro numerose tradizioni giudaiche sull'interpretazione da dare a singoli passaggi della Bibbia, ma tenne presenti anche alcune leggende ebraiche extrabibliche (aggadoth) per alcune delle quali è rimasto il nostro testimone unico. Il debito di Origene alla ricerca biblica ebraica, è forse l'aspetto più importante del suo contatto col mondo giudaico, e tuttavia esso non è divenuto ancora oggetto di studi approfonditi da parte dei ricercatori»(16) .

Ovviamente lo studio del de Lange è già un tentativo di colmare per quanto possibile la lacuna denunciata. Frutto di questo sforzo è il capitolo 9 che egli dedica a "The interpretation of Scripture". Si tratta di una ventina di pagine molto preziose per la nostra ricerca e di estremo interesse, perché ci permettono di conoscere in modo più approfondito le radici ebraiche del metodo interpretativo origeniano e dei padri cristiani in generale. Il de Lange esordisce attirando l'attenzione su di un dato di fatto: giudei e cristiani hanno proseguito a utilizzare, anche dopo la rottura, le stesse Scritture ebraiche. Dal punto di vista dell'esegesi, questo ha comportato che «sia nelle discussioni polemiche, sia anche nell'esposizione quotidiana della Bibbia, l'interpretazione venisse fatta nei due ambienti (ebraico e cristiano) con l'orecchio attento a ciò che si diceva nel campo avversario. Nello stesso tempo, dato che i testi antichi non erano affatto facili da capire e da esporre, gli esegeti più rinomati dei due campi estendevano molto le rispettive reti di ricerca nell'intento di trovare anche altrove, cioè in altre interpretazioni, un materiale esegetico accettabile (...). Non ci si può certo aspettare che ne i Padri della Chiesa ne i Rabbi riconoscessero apertamente di essere debitori della rispettiva scuola avversaria. Tuttavia c'era certamente un flusso continuo di idee fra le due parti(17).

«Non bisogna meravigliarsi - scrive a questo proposito il Bardy - se il più delle volte le tradizioni (interpretative) raccolte da Origene sono anonime; e anche se in gran numero di casi è quasi impossibile stabilire se quelle interpretazioni provengano da esegeti ebrei o da commentatori cristiani. Ma di chi si potrebbe trattare quando Origene scrive per esempio: "sed ad haec nos quae a prudentibus viris et hebraicarum traditionum non ignaris, atque a veteribus magistris didicimus, ad auditorum notitiam deferemus" (In Genesim, Hom II,2; PG XII,166 ed. Baerhens t. I, p. 29»18. È interessante constatare che anche Filone si rifà ai paleòn andrón e alla patrion philosophiam per giustificare il suo allegorismo nell'esposizione delle Scritture(19) .


Verso un duplice livello del testo, comune ad ebrei e cristiani

Seguendo in parte le osservazioni del de Lange, cerchiamo di puntualizzare.

1. A dispetto dei luoghi comuni polemici nei confronti del "letteralismo" giudaico, l'esegeta cristiano apprezzava sinceramente la ricchezza e la varietà dell'esegesi ebraica. Il senso "letterale" era dunque - nonostante tutto - tutt'altro che disprezzato. Ma di quale senso "letterale" si trattava? Il de Lange sintetizza così questo problema: «Oggi il modo abituale con cui si compie una esegesi seria della Bibbia si riassume nella domanda: "che cosa intendeva dire il testo quando fu scritto dall'autore o redatto nella prima stesura". È poco probabile che degli studiosi moderni seri rispondano a qualcosa di diverso da questo.

Tutti gli antichi studiosi della Bibbia, sia ebrei che cristiani, consideravano invece la Bibbia come un deposito in cui era presente ogni idea creduta e annunziata dalla Chiesa o dall'Assemblea di Israele. L'esegeta non si sentiva dunque legato da nessuna considerazione riguardante sia l'intentio auctoris sia i dati relativi alla formazione delle diverse parti della Bibbia; egli non liberava inoltre mai se stesso né dal legame con l'antica tradizione comune che sosteneva l'unità essenziale delle Scritture, né dalla fede nel valore permanente delle affermazioni bibliche»(20) .

2. L'esegeta cristiano concordava anche in questo con l'esegeta ebraico: rifiuto di riconoscere come valide le distinzioni cronologiche all'interno della Bibbia. La Bibbia era vista non soltanto come un'unità inscindibile, ma anche come un libro in un certo senso "a-temporale". Perciò, quando si doveva affrontare un problema di difficile soluzione in cui il "dato biblico" sembrava irrazionale o immorale, non si ricorreva ovviamente alla critica storica, ma si preferiva risolvere il problema con mezzi di altro tipo. I Rabbi, e dunque anche i Padri, non conoscevano il concetto dell'esposizione "letterale" della Bibbia nel senso moderno dell'espressione con cui si intende un'attenzione al background storico del testo e all'intentio auctoris. Essi consideravano la Torah come un dono divino che aveva una propria coerenza interna e consideravano i profeti e gli altri scritti come essenzialmente tutt'uno con la Torah.

3. L'intera Bibbia era per definizione in accordo con l'intera somma delle tradizioni e della fede in Israele. Qualsiasi incoerenza eventualmente presente doveva essere dunque solo apparente e poteva essere spiegata sempre all'interno del testo (preso nella sua globalità). Nessun passaggio biblico avrebbe mai potuto contraddire un punto di fede accettato dai Rabbi e l'intera halakah avrebbe potuto sempre essere rintracciata nella Bibbia.

Le scuole si differenziavano soltanto nel modo con cui esse andavano alla ricerca delle tracce dell'halakah presente nella Bibbia. Si sa, per esempio, che Rabbi Aqiba riteneva che «ogni lettera della Torah, ogni particella, ogni vocabolo strano e ogni peculiare costruzione grammaticale possiedono un significato più profondo, un mistero che Dio non rivela se non a coloro che sottomettono il testo ad un'analisi più attenta in obbedienza a norme ben precise di tecnica esegetica. Rabbi Ishmael invece preferiva attenersi al principio che «la Torah parla con linguaggio umano e perciò si limitava alla ricerca del significato del testo preso nel suo insieme piuttosto che perdersi a cercare i significati di ogni singola lettera.

4. Queste convinzioni portarono ben presto i Rabbi, e insieme con loro i Padri della Chiesa, a ritenere che si dovesse ammettere nella Bibbia la presenza di un doppio livello di significati: il livello del significato semplice, peshat, e il livello del significato ulteriore identificato in genere col campo riservato al midrash (21). Oggi noi possiamo anche parlare a questo proposito di sensus litteralis e di sensus spiritualis, purché ci ricordiamo che le nostre accezioni moderne degli aggettivi "letterale" e "spirituale" non corrispondono esattamente a ciò che intendevano i Padri. Spesso anzi proprio ciò che noi chiameremmo oggi "senso letterale" del testo non è altro che il "senso spirituale" dei Padri. Ma più importante ancora, mi sembra, è la convinzione di fondo, comune sia ai Rabbi che ai Padri cristiani, che la Bibbia sia sostanzialmente uno scrigno pieno di misteri la cui conoscenza è possibile solo a chi ne possiede le chiavi.

Origene registra a questo proposito una significativa tradizione ebraica:
Mentre iniziamo l'interpretazione dei Salmi, premettiamo (il racconto di) una graziosa tradizione (leggenda) trasmessami dall'Ebreo sull'intera sacra Scrittura (presa) nel suo insieme.
Diceva infatti quel tale che tutta la Scrittura ispirata si rassomiglia, a causa dell'oscurità che è in essa, a molte stanze chiuse di una medesima casa; per ognuna di queste stanze è a disposizione una chiave, ma non quella giusta; e così le chiavi sono sparse per (tutte) le stanze ma non sono corrispondenti (alle rispettive stanze) per le quali sono disponibili; (occorre) dunque una grande fatica per trovare le chiavi corrispondenti alle singole stanze e poterle aprire. Capire le scritture quando sono oscure non è possibile se non prendendo i punti di partenza della comprensione (cioè le chiavi) l'uno dopo l'altro, dal momento che il principio interpretativo (to exéghétikon) è disseminato in loro. Sono convinto del resto che anche l'apostolo suggeriva un simile approccio per la comprensione delle parole ispirate quando diceva: «queste cose le diciamo non con discorsi appresi dalla sapienza umana, ma per l'insegnamento ricevuto dallo Spirito, confrontando le cose spirituali con le spirituali» (22).

Il passaggio da questa convinzione al tentativo di sistematizzare in qualche modo la ricerca del tesoro nascosto nella stanze delle Scritture ispirate, è divenuto ben presto una necessità. Lo Zohar è, ancora una volta, il testimone tardivo di una tradizione antichissima quando scrive:
Le parole della Torah sono simili ad una mandorla. Cosa significa questo? Come una mandorla ha un guscio esterno e un cuore interno, cosi ogni parola della Torah contiene un fatto (ma asch), un midrash, un haggadah e un mistero (sod), ciascuno dei quali ha un significato più profondo di quello precedente (23).

Il pendant patristico di questa convinzione sarà sintetizzato nel famoso distico della tradizione medievale cristiana (dovuto ad AGOSTINO DI DACIA, morto nel 1282):
Littera gesta docet quid credas allegoria
moralis quid agas quo tendas anagogia (24).
 
 
(*) Monaco camaldolese. Docente al Pontificio Istituto Orientale e al Pontificio Istituto Biblico Roma.


NOTE
1. H. G. GADAMER, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983. P. RICOEUR, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia 1977.
2. G. VATTIMO, Introduzione a H. G. GADAMER, op. cit., p. V.
3. Ibidem.
4. Zohar, vol.III Ed. Soncino (Cr), pp. 301-302.
5. ORIGENE, Commento al Cantico dei Cantici, tr., introd. e note di M. SIMONETTI, Città Nuova, Roma 1976, p. 59.
6. Id., o. c., pp. 59.
7. GREGORIO DI NISSA, VI, Omelia I, pp. 17-22.
8. ORIGENE, a., pp. 75-77.
9. Cfr. LE DEAUT R., Introduction à la litterature targumique I, Roma 1966, manoscritto; SCHOLEM G., On the Kabbalah and Its Simbolism, New York 1965.
10. ORIGENE, La lettre à Africanus sur l'Histoire de Suzanne, introd., texte, trad. et notes par NICHOLAS DE LANGE, SC 302, Paris 1983, p. 534.
11. N.R.M. DE LANGE, Origen and the Jews. Studies in Jewish-Christian Relations in Third Century Palestine, Cambridge 1976, p. 1.
12. Cfr. DE LANGE, o. c., pp. 1-2.
13. Cfr. ibidem, p. 2; cfr. anche G. BARDY, Les traditions juives dans l'oeuvre d'Origene, in Revue Biblique 34 (1925), 217-252.
14. G. BARDY, o. c., pp. 217-18.
15. Ibidem. p. 7.
16. N. DELANGE, o.c., p.13.
17. Ibidem, p. 103.
18. G. BARDY, o. c., p. 218.
19. Cfr. FILONE, De Vita contemplativa, n. 28. ed. Dumas-Miquel. p.96s
20. N. DE LANGE, o. c., pp. 105-107.
21. Cfr. l'Introduzione al Talmud di Gerusalemme nella traduzione francese: MOISE SCHWAB (par), Le Talmud de Jerusalem, traduit pour la première fois en français, Paris 1977 (rist. anastatica), vol I, pp. XIII-XLIX.
22. ORIGENE, Philocalie, sc 302, p. 244.
23. Cit. in G. SCHOLEM, o. c., p. 54.
24. Cfr. P. C. BORI, L'interpretazione infinita. L'ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Il Mulino, Bologna 1987, p. 54.
 


NOTA BIBLIOGRAFICA

All'interno del crescente interesse per la letteratura cristiana antica si è moltiplicato, soprattutto in questi ultimi anni, l'interesse per l'esegesi biblica compiuta dai Padri della Chiesa. HERMANN JOSEF SIEBEN In Exegesis Patrum. Saggio bibliografico sull'esegesi biblica dei Padri della Chiesa, Sussidi Patristici 2, Istituto Patristico Augustinianum, Roma 1983, ha raccolto duemila titoli di libri e articoli relativi all'esegesi di versetti o brani dei libri della Bibbia ordinati secondo i singoli libri dell' Antico e del Nuovo Testamento. Si tratta di uno strumento di lavoro preziosissimo soprattutto per gli esegeti che intendano dare uno sguardo non superficiale alla storia dell'esegesi dei Padri.
In questo campo la raccolta più completa, che però è soltanto in via di compilazione, è quella di Biblia Patristica che attualmente copre i primi due secoli, fino a Origene compreso; con l'aggiunta di un Supplementum relativo alle opere di Filone Alessandrino. La Clavis Patrum apostolicorum possiede le medesime caratteristiche e quindi è da ricordare anch'essa fra gli strumenti utili per un esegeta biblico che voglia porre un'attenzione particolare alla storia dell'esegesi cristiana.
Il Prof. PIER CESARE BORI dell'Università di Bologna è coordinatore in Italia di un gruppo di circa trenta studiosi di sei Università italiane che ha avviato nel 1981-82 un progetto di ricerca relativa agli Studi sulla storia dell'esegesi giudaica e cristiana antica. Una storia dell'esegesi intesa come vicenda complessa che inizia con la formazione stessa del testo biblico, continua nel giudaismo e nel cristianesimo nascente e procede poi nell'epoca dei primi secoli cristiani.
PIER CESARE BORI MAURO PESCE, Presentazione, in Annali di storia dell'esegesi 1 (1984). Atti del I Seminario di ricerca su "Storia dell'esegesi giudaica e cristiana antica", Ed. Dehoniane, Bologna 1984, p. 5.

    Frutto del lavoro di questi studiosi sono gli Annali di storia dell'esegesi, (...) (1991). Nonostante il titolo, gli Annali di cui sopra non sono stati però intesi come documentazione esaustiva di tutto ciò che si pubblica sull'esegesi biblica di ebrei e cristiani nell'antichità, ma piuttosto come forum in cui vengono posti a disposizione di tutti i risultati che, anno dopo anno, vengono conseguiti in Italia da vari studiosi del settore, risultati proposti e discussi precedentemente in un seminario nazionale convocato appositamente. L'utile indice delle citazioni bibliche che chiude ogni volume permette una consultazione rapida da parte degli esegeti biblici interessati.

    Accanto a questi strumenti che permettono una documentazione veloce sulla contestualizzazione storica e filologica dell'esegesi dell'uno o l'altro Padre della Chiesa, occorre richiamare anche opere di più ampio respiro sia sul metodo esegetico dei Padri in generale, sia sulle caratteristiche dell'esegesi biblica propria a ciascuno di loro e ai più grandi in particolare.
Sull'esegesi dei Padri in generale il titolo più importante da ricordare è ancora l'opera di HENRY DE LUBAC, Exégèse medievale. Les quatre sens de l'Ecriture, I-IV, ed. Aubier-Montaigne, Paris 1959.
Si può aggiungere La Bible et les Pères par ANDRE BENOIT et PIERRE PRIGENT, Colloque de Strasbourg (1-3 octobre 1969), PUF, Paris 1971; Le monde grec ancien et la Bible sous la direction de CLAUDE MONDÉSERT, Bible de tous les temps, ed. Beauchesne, Paris 1984; Le moyen age et la Bible sous la direction de PIERRE RICHE - GUY LOBRICHON, Bible de tous les temps, ed. Reauchesne, Paris 1984; BERTRAND DE MARGERIE, Introduction a l'histoire de l'exégèse. I Les Pères grecs et orientaux. preface de IGNACE DE LA POTTERIE, Du Cerf, Paris 1980. In lingua italiana va segnalato infine MANLIO SIMONETTI, Profilo storico dell'esegesi patristica, Sussidi Patristici 1, Istituto Patristico Augustinianum, Roma 1981; ma soprattutto : IDEM, Lettera e / o Allegoria.
Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, Studia Ephemeridis Augustinianum 23, Roma 1985.
Per ciò che riguarda il metodo esegetico dei singoli Padri è necessario scorrere le ampie bibliografie di cui sono corredate le opere appena segnalate.
Ormai sono tantissimi i Padri la cui esegesi biblica è stata studiata in monografie più o meno ampie. Ricordo perciò soltanto tre titoli, perché riguardano autori considerati fra i massimi esponenti dell'esegesi di tutti i tempi e perché il loro influsso è stato fra i più determinanti della storia del pensiero cristiano: HENRY DE LUBAC, Histoire et Esprit. L'intelligence de l'Ecriture d'après Origène, Aubier-Montaigne, Paris 1950 (traduzione italiana, EP, Roma 1971); ANGELO PENNA, Principi e caratteri dell'esegesi di S. Girolamo, Roma 1950; CLAUDIO RASEVI, San Agustin. La interpretacion del Nuevo Testamento. Criterios exegeticos propuestos por S. Agustin en el «Ve Doctrina Christiana», en el «Contra Faustum» y en el «De Consensu Evangelistarum», Ediciones Universidad de Navarra, S. A., Pamplona 1977.
 A questi titoli aggiungo per la conoscenza della cosiddetta Scuola antiochena: CH. SCHAUBLIN, Untersuchungen zu Methode und Herkunft der antiochenischen Exegese, Koln-Ronn 1974 e ROBERT DEVRESSE, Essai sur Théodore de Mopsueste , Studi e Testi, Città del Vaticano, 1948.          
Letto 2490 volte Ultima modifica il Lunedì, 19 Febbraio 2007 12:50
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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