Nell'introduzione alla sua teologia sistematica, Tillich cerca di prendere una posizione chiara in mezzo alla riflessione contemporanea. In altri termini, si propone di caratterizzare il suo pensiero mettendone in evidenza la prospettiva. Qual è dunque la novità? Se teniamo presente la teologia del XX secolo e la forte incidenza del pensiero barthiano, non possiamo non essere colpiti fin dalle prime mosse del sistema tillichiano. Il suo interesse immediato è la situazione dell'uomo. Bisogna riconoscere che la nozione era stata trascurata forse per paura di fare un discorso di saggezza umana quando, invece, si sentiva la forte esigenza di proclamare la sola saggezza di Dio.
Ora Tillich insiste: siamo — come filosofi, come teologi, come semplici uomini che parlano e vivono umilmente la loro giornata — condizionati dalla situazione. Solo una non sempre malcelata arroganza ci spinge a pensare il contrario, come accade nel fondamentalismo, cioè in quel tipo di cristianesimo che si richiama alla lettera della Scrittura come se questa non fosse stata e non fosse condizionata dalla cultura e dall'ambiente. Tillich ritrova anche in Barth cedimenti di questo genere, quasi che il messaggio della Parola non conoscesse le strettoie e i travisamenti del nostro modo di riceverlo.
La teologia si muove tra due poli: la verità eterna del suo fondamento e la situazione temporale. È necessario quindi giungere ad una «teologia della situazione».
Vediamo di addentrarci nel suo pensiero. Precisiamo, innanzi tutto, che non si tratta di derivare il nostro messaggio dalla situazione. Non c'è rivelazione alcuna che sgorghi dai meandri della nostra esistenza. La rivelazione rimane sempre un dono, però un dono che viene elargito in una determinata situazione. Facciamo un esempio: non è compito del teologo occuparsi della divisione politica del nostro globo o delle malattie mentali della nostra società. È invece suo compito interrogarsi sul significato della divisione politica e sulle interpretazioni date delle malattie mentali. In altre parole Tillich vede emergere chiaramente delle domande sui valori, sui perché, le quali intaccano il senso della vita e alle quali siamo debitori di una risposta senza evasioni. Di qui la teologia può essere intesa come «apologetica» o «rispondente»; vi dev'essere cioè «una correlazione» tra gli interrogativi derivanti dalla situazione e la risposta della fede.
Il discorso va precisato indagando il rapporto tra filosofia e teologia. Entrambe si occupano dell'essere, non nel senso tradizionale o medievale del termine, ma nel senso della realtà cosi com'è strutturata e orientata nei suoi significati. Essere diventa sinonimo del termine antico logos che vuole indicare la logica struttura o l'ordine logico della realtà. Il filosofo esamina questi temi nella loro ampiezza e nel loro insieme, così come fanno anche il credente e il teologo cristiano; ma quest'ultimo dev'essere maggiormente critico e fare un passo in più nel porsi la domanda sul «significato» di tale logicità e sul suo valore per la nostra vita.
In altri termini due domande s'impongono alla fede cristiana:
1) cos'è che ci impegna in modo totale, incondizionato e definitivo?
2) e in che modo ciò che cosi ci impegna determina il nostro essere o non essere, cioè la logicità o meno del nostro vivere?
Vi sono, infatti, degli interessi penultimi e condizionati, come le soluzioni dei conflitti politici e internazionali. Con essi il teologo corre seri pericoli. Può infatti trascurarli isolandosi, o viceversa dare ad essi un carattere ultimo cedendo all'idolatria. Dovrebbe invece occuparsene in modo da lasciar trasparire, attraverso di essi, ciò che ci impegna incondizionatamente come interesse ultimo e definitivo.
L'arte, per esempio, interessa il teologo per la sua capacità di indicare i valori ultimi; la politica per la sua capacità di attualizzare alcuni aspetti di ciò che ci impegna sul piano incondizionato.
Accade che il filosofo non si limiti ad un lavoro di indagine staccato, per cui non di rado si lascia impegnare nei significati che egli scopre. A questo punto egli è un «teologo nascosto». Al contrario, per esigenze critiche di onestà, il teologo deve, a volte, staccarsi dal contesto che gli è proprio e assumere la parte del filosofo.
Sul confine tra teologia e filosofia si può spesso discutere, ma dev'essere chiaro che se ciò avviene, non è perché chi cerca lascia il proprio campo per quello altrui. Una filosofia cristiana è una contraddizione in termini.
Non sarà sfuggito a chi ci ha seguito fin qui che il concetto di teologia in Tillich è abbastanza elastico nel senso che viene adoperato ogni volta che si pone il problema del significato. Quando ci si interroga sul senso definitivo della realtà si fa della teologia. Così non solo il filosofo può essere, come abbiamo detto, un «teologo nascosto», ma sono teologi tutti coloro che sono alla ricerca di ciò che ci impegna in modo definitivo, a qualunque religione essi appartengano.
Come si distingue, dunque, il cristiano? Egli entra in gioco con la pretesa che il segreto della logicità, del logos, è il Logos del Nuovo Testamento, cioè Gesù Cristo: la parola (logos) fatta carne. Per questo la fede cristiana non risponde solo all'esigenza dell'universalità (logicità del reale), ma anche a quella della concretezza. V'è un luogo dove fare il punto; v'è un'unità di misura, una norma, un criterio: Gesù Cristo.
Le altre religioni e le altre teologie puntano verso la fede cristiana, che sola è concreta.
Questa presa di posizione sulla concretezza del logos in Cristo non contraddice nessuna filosofia alla ricerca della logicità del reale. In altri termini la teologia cristiana non si pone solo il problema dell'essere, ma anche quello del suo fondamento.
La filosofia, sia quella americana (il pragmatismo di W. James e di J. Dewey) sia quella europea (fenomenologia) si pongono, in fondo, la stessa domanda: «Che cos'è il sacro? Cioè che cos'è che ci impegna in modo definitivo, ultimo, incondizionato?».
Evidentemente questi interrogativi sorgono dall'analisi dell'esperienza. Ma sarebbe un errore grave ricavare anche la risposta dall'esperienza. Questo è accaduto nel passato e giuste sono state le proteste di Barth contro i teologi del XIX secolo. Cristo, infatti, è dato e non ricavato dalla nostra storia personale e collettiva. L'esperienza non è la fonte alla quale possiamo attingere per la riflessione teologica, ma solo un mezzo che condiziona il nostro pensiero. Com'è dunque possibile orientarsi?
Richiamarsi alla Bibbia significa dimenticare la storia e la situazione e nessuno l'ha mai fatto: né Roma, né Lutero. Quest'ultimo, infatti, aveva una norma per criticare il canone e la sua validità e questa norma era derivata dall'incontro con la Bibbia, nel suo tempo.
Consciamente o inconsciamente è sempre stato così; per cui ogni epoca deve stabilire la sua norma, lasciandola aperta e dichiarando fallibile ogni definizione precedente.
La Bibbia non è mai stata la norma della teologia sistematica — lo ripetiamo — ma lo è stato un principio ricavato dall'incontro tra la Bibbia e la Chiesa. Per la Riforma era la giustificazione per fede.
Oggi il problema è diverso. Ci si chiede cosa sia e dove si manifesti il potere della nuova creazione, capace di prevalere sul vecchio ordine della realtà. La risposta di Tillich si fa allora chiara e precisa: la norma è il Nuovo Essere in Gesù il Cristo, il nostro interesse ultimo.
La ragione e la logica non possono produrre valori che ci impegnino in modo definitivo e incondizionato, anzi esse sono «afferrate» da questi valori. Ciò che ci è dato, ci afferra sul piano razionale e quindi fallibile: non siamo ancora nel Regno di Dio anche se siamo teologi cristiani.
Dio non può essere limitato dal nostro pensiero, ma Egli non lo distrugge; ciò esclude tuttavia una lingua sacra che ci ponga oltre le ambiguità del nostro esistere.
Bisogna dunque, su queste premesse, avviare un discorso teologico e interpretare con metodo i contenuti della fede cristiana.
Per Tillich si tratta del «metodo di correlazione»: si analizza la situazione e si dimostra che il contenuto della fede cristiana è una risposta alle domande che sorgono dall'esistenza. Si tratta di un lavoro filosofico che il teologo svolge in correlazione con la sua fede.
Qualunque sia il risultato dell'analisi, la sostanza stessa della risposta non varia, perché il fondamento recondito di ogni logos è e rimane Gesù Cristo, il Logos concreto del Nuovo Testamento; ma la forma della risposta dipende certamente dall'analisi e dall'esperienza. Noi conosciamo, per esempio, l'ansietà e l'angoscia derivanti dai nostri limiti ristretti, quindi Dio si rivolge a noi come il fondamento illimitato del coraggio.
Con il suo metodo Tillich dissente dalle tre vie tradizionali che affrontano il rapporto tra Dio e il mondo creato:
1)respinge ogni tendenza di tipo soprannaturale che trascuri la condizione umana: l'uomo non può ricevere risposte a domande che non ha mai posto;
2)rifiuta inoltre le inclinazioni umanistiche e naturalistiche liberaleggianti che vogliono ricavare il messaggio dalla situazione: sembra che ogni cosa sia detta dall'uomo e nulla all'uomo;
3)infine dissente dalla teologia naturale con le sue prove sull'esistenza di Dio: infatti, ciò che noi trattiamo come teologia naturale può soltanto sollevare un quesito, ma non è in grado di dare una risposta.
Il metodo di correlazione ci permette di esaminare il rapporto:
1) tra ciò che costituisce il valore ultimo, definitivo, totale, incondizionato e ciò che noi riteniamo ci impegni in modo definitivo;
2) tra Dio e mondo;
3) tra il divino e l’umano.
Renzo Bertalot
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