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Venerdì, 19 Agosto 2016 12:05

Laudato sì - Scheda 12 - LA NATURA NELLA CULTURA AFRICANA

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di Giampietro Casiraghi

Il cammino che il nostro gruppo ha fatto sull'enciclica "Laudato sì" era iniziato con un approfondimento sulla visione dell'uomo, dall'antichità ad oggi, del rapporto natura-divinità.

Ci mancava un aggiornamento recente degli studi etnografici fatti in questo campo ... Chi meglio dei missionari, in questo caso i Missionari della Consolata, potevano darci questo contributo?

L'articolo che segue è stato pubblicato in "ANDARE ALLE GENTI" del mese luglio-agosto 2016, che vi invitiamo a visitare.

 

 

La natura percepita come una potenza benefica e misteriosa, con la quale l'uomo stabilisce un'alleanza, contraddistingue le tradizioni culturali e religiose dell'Africa nera. Un pigmeo della foresta dell'lturi (Congo-Zaire), di nome Moke, spiegava a Colin M. Turnbull: "La foresta ci è padre e madre, e come un padre e una madre ci da ogni cosa di cui abbiamo bisogno: cibo, vestito, protezione, caldo, affetto. Normalmente tutto va bene, perché la foresta è buona con i suoi figli, ma quando le cose vanno male ci deve essere una ragione". Se va male, pensano i pigmei, è perché la foresta dorme e non bada ai suoi figli. Perciò nel rito del "molino" essi cantano per svegliare dolcemente la foresta. Non si può dire, osserva Turnbull, che in questo caso la foresta sia solo l'abitazione della divinità, bensì la divinità stessa: "di qui la santità della foresta e la profondità di tutto ciò che è foresta". La foresta rappresenta la potenza benefica e misteriosa che avvolge l'esistenza dell'uomo, senza che egli possa conoscerla interamente e dominarla. Rimane una realtà sconosciuta, che non si può descrivere perché invisibile nella sua profondità.

Il racconto di Turnbull può considerarsi il simbolo di una concezione religiosa più ampia, mediante cui l'uomo africano percepisce il suo rapporto con il mondo. Egli vive immerso nella natura, ne sente la potenza misteriosa; essa gli garantisce cibo e spazio vitale, con essa stabilisce una profonda solidarietà. Per quest'uomo, sentirsi figlio della natura e abitare nel mondo è naturale come sapersi figlio di sua madre e membro del suo villaggio. Il suo sentimento del mondo, come grembo materno e come spazio familiare, da anzi pienezza di significato alla maternità fisica e all'appartenenza sociale alla famiglia e al gruppo, elevandole a momenti dell'ordine cosmico. In tal modo l'uomo africano conferisce facilmente alla natura attributi personali, che gli offrono la possibilità di un elementare rapporto di reciprocità e di scambio. La natura è sacra, l'uomo sa di doverle tutto. Egli risponde e corrisponde a questa benevolenza con una serie di atti, in cui prende forma la sua dipendenza e la sua riconoscenza. Offerte, riti e preghiere sono l'espressione più spontanea di un sentimento religioso che tende a manifestarsi nel linguaggio del mito, per poi svilupparsi in forme di pensiero più complesse e unitarie. Vi è persino chi considera i grandi sistemi di pensiero, tesi a dare una visione unitaria della realtà, come tentativi di consolidare o riformulare razionalmente "l'antica alleanza" dell'uomo con la natura.

Questa visione del mondo, diffusa in tutti i continenti fino all'avvento della società industriale, caratterizza ancora oggi la vita di molte popolazioni dell'Africa subsahariana. Considerata la culla dell'umanità, l'Africa ha tradizioni culturali e religiose antichissime, possiede un linguaggio ricco di miti e di simboli e la sua visione del mondo trabocca di umanità e di saggezza.

Nel 1949 Placide Tempels, un missionario belga, scrisse un libro sulla filosofia dei popoli bantu dell'Africa divenuto famoso. Dopo di lui studiosi e studiose come A. Kagame, M. Douglas, D. Zahan, Roumeguere-Eberhardt e altri ancora hanno sostanzialmente confermato le sue ricerche. A grandi tratti, senza però escludere distinzioni e differenze, ecco come lo studioso zairese Sebahire Mbonyinkebe, dell'Università di Kinshasa, ha delineato le caratteristiche di questa visione della vita e del mondo. "Con la sua intelligenza e la forza vitale che gli viene da Dio, l'Africano si sforza di controllare la natura e di carpirne i segreti. La sua personalità è definita dalle sue relazioni umane. L'età, il sesso, la parentela, l'iniziazione, la vita sociale e il suo radicarsi in un determinato territorio costituiscono altrettanti modi mediante cui garantisce a se stesso la perennità sulla terra. Con gli esseri che popolano l'universo egli stabilisce un rapporto di intima partecipazione all'interno di equilibri fragili e vulnerabili. Ciò esige da lui una continua vigilanza, così che nulla, nel suo comportamento quotidiano, possa turbare l'ordine della natura e della vita sociale.

Gli uomini sono responsabili gli uni di fronte agli altri. Essi vivono sotto lo sguardo attento degli antenati, pronti a punire qualsiasi colpa, non importa se volontaria o involontaria, ma anche a premiare il bene e la virtù con i doni della pace, della salute e della fecondità. La mancanza di un comportamento morale corretto può recare danni alla vita. Così le nascite anormali e determinate malattie sono spiegate, a seconda dei casi, con una norma etica infranta, con la mancanza di disciplina sessuale o con atti di stregoneria illecita. Affinché l'ordine e l'armonia regnino nella natura e nella società, esistono continui inviti al controllo di se stessi e una sorta di vigilanza morale della società sull'individuo. L'uomo è una sentinella nella notte. Qualsiasi errore potrebbe recare danni all'equilibrio della natura e provocare epidemie e disastri. La vera intelligenza è attenzione a tutto quanto potrebbe minacciare la vita, è saggezza. Compito dell'uomo è di mettersi a servizio dell'ordine del mondo, della vita e del gruppo sociale. Anche l'ordine politico, come mostrano i riti d'investitura dei capi e dei re, ha valore nella misura in cui custodisce la vita, da benessere all'uomo, assicura la fertilità dei campi e degli animali. Il forte senso di responsabilità dei capi ha sempre temperato le ineguaglianze esistenti nelle società africane".

Parlando dei Kikuyu del Kenya, N. Neckebrouck ricorda come per questo popolo "la terra è qualcosa di più della terra". Per l'uomo occidentale la terra è un dono passivo, soggetto allo sfruttamento economico e industriale. Nella tradizione kikuyu la terra ha invece profonde risonanze simboliche e religiose. Nel momento stesso in cui terra-madre, mezzo di nutrimento per l'uomo, essa stabilisce un legame strettissimo con gli antenati e, attraverso gli antenati, con Dio. Secondo una espressione di Neckebrouck, essa è "luogo di convergenza del naturale, del culturale e del soprannaturale". Partecipa della duplice dimensione del reale sensibile e della realtà che è all'origine di ogni cosa. I Kikuyu ne parlano come di un madre o di una futura sposa. Essa designa per metonimia, a motivo delle relazioni che stabilisce, lo stesso popolo dei Kikuyu.

Questa caratteristica della cultura kikuyu trova analogie presso altre popolazioni africane. Tra Bakongo del Congo-Zaire la terra è il dominio de gli antenati. La proprietà è dei membri della stirpe; la sua gestione è affidata ai primogeniti matrilineari; ciascuno di essi può solo averla in usufrutto. È inoltre la dimora degli antenati. È là che vengono sepolti. Così la terra diventa sacra: non è più soltanto un'entità manipolabile in balia dei desideri e degli interessi degli uomini. Essa congiunge in se stessa la dimensione verticale della stirpe, nel tempo e nella storia, con quella orizzontale del suo radicamento nello spazio.

 

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Letto 3861 volte Ultima modifica il Venerdì, 19 Agosto 2016 12:35

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