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Mercoledì, 10 Maggio 2017 15:52

Pensiamo ai popoli non a chi li governa

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Questi pensieri sono attualissimi, nonostante fossero stati scritti in

"Quaresima di fraternità con il terzo mondo 2001" !!!!!

DIOCESI DI TORINO

 

La dottrina sociale della Chiesa sullo sviluppo e le continue denunce di una situazione ormai insostenibile.

Una provocazione: i soldi offerti al terzo mondo non bastano, da soli, a sconfiggere povertà, arretratezza e ingiustizia sociale. L'esigenza di rivedere, anche in ambito cattolico.

La« filosofia» degli aiuti.

II termine «sviluppo» per indicare il grado di civiltà e di benessere raggiunto da una nazione, in contrapposizione al termine «sottosviluppo» per le nazioni in «via di sviluppo», fu usato per la prima volta il 1 ° gennaio 1949 dal presidente americano Truman quando rese noto il suo programma.

Mons. Helder Camara raccontò un giorno la storia dei quattro piccoli fratelli: «Questa scatola di cioccolatini -disse ai piccoli - è per voi tutti e quattro: uno, due, tre, quattro. Intesi bene?» Quando al minore consegnò la scatola, ripetendo ancora che era per tutti e quattro, il piccolo, stringendosela al petto, gridò: «È mia! E mia!». «Allora ebbi l'esatta impressione-racconta Camara - di non avere di fronte dei bambini, ma di essere a una riunione molto importante dei grandi della terra».

L'ex presidente del Senegal, Leopold Sedar Senghor, scrisse questa poesia:

Dinanzi a voi muore l'Africa

degli antichi imperi.

Piango l'agonia

di una pietosissima principessa.

Volgete i vostri occhi impassibili

sui vostri figli

mandati a morire,

che danno la vita

come il povero la sua ultima veste.

(Come per dire che i figli dell'Africa muoiono coperti di stracci!)

 

La voce della Chiese

II tema dello «sviluppo» è presente nella Costituzione conciliare «Gaudium et Spes», sottoscritta nel dicembre del 1965. Vi si legge che lo sviluppo economico deve mirare anche a far scomparire le ingenti disparità economico-sociali e che dev'essere a servizio dell'uomo (nn. 64-68). Ma già precedentemente ne avevano parlato Leone XIII («Rerum novarum»), Pio XII (in vari radiomessaggi) e Giovanni XXIII («Mater et magistra», «Pacem in terris»).

Nel 1967, sotto la spinta del Concilio, ne tratta espressamente Paolo VI nell'enciclica «Populorum progressio» (Lo sviluppo dei popoli). La si può ridurre, per semplificare, ad alcuni slo-gan: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (nn. 76-80) - «I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica - con un grido d'angoscia - i popoli dell'opulenza» (n.3) - A beneficio «dei popoli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell'ignoranza», con «la valorizzazione attiva delle loro qualità umane» (n. 1 ) - Oggi il progresso «va più a beneficio dei Paesi ricchi che di quelli poveri» (n.8) - Aumentano «gli squilibri e i conflitti sociali» (n.9), mentre «una oligarchia locale gode di una civiltà raffinata, il resto della popolazione è povera e disperata» - «L'avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo» (n.19) - «Lo sviluppo pertanto non può ridursi alla semplice crescita economica, ma dev'essere integrale e deve riguardare tutto l'uomo e tutti gli uomini («umanesimo integrale»)» (n.42).

Cosa fare? «La Chiesa, esperta in umanità, non può disinteressarsi di questa situazione» (n.13). Le riforme sono urgenti (n.32). A questo scopo Paolo VI istituisce (6 gennaio 1967) la Pontificia Commissione Giustizia e Pace (n.5). Bisogna passare a programmi di pianificazione (non basta l'iniziativa privata), mirando alla fraternità dei popoli (n.44), all'assistenza ai più deboli (n.45), e ciò per un dovere di solidarietà (n.48), e perché i beni, la proprietà privata, il profitto, il lavoro...hanno una destinazione universale (nn. 20-31). «Il superfluo dei Paesi ricchi deve servire ai Paesi poveri» (n.49). Occorre creare un Fondo mondiale (n.51), evitando però di cadere in una specie di neo-colonialismo, con pressioni politiche ed economiche (n.52). Gli armamenti «sono uno scandalo intollerabile» (n.53).

Nel XX anniversario dell'enciclica di Paolo VI il nuovo Papa, Giovanni Paolo II, con una nuova enciclica pubblicata il 30 dicembre 1987 dal titolo «Sollicitudo rei socialis» (La sollecitudine sociale della Chiesa) tenta un bilancio di quanto si è fatto a beneficio dei popoli del cosiddetto Terzo mondo. Pur riconoscendo la validità del documento di Paolo VI (nn.2-3) e che veramente «lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (10), deve tuttavia constatare che la situazione non è affatto migliorata. Anzi, nel processo dello sviluppo sono subentrate «strutture di peccato e meccanismi perversi», da considerarsi come veri processi cancerogeni. «I Paesi in via di sviluppo sono molti di più di quelli sviluppati» (n.9) ed è urgente rivedere il concetto stesso di sviluppo. Ingenti somme di denaro vengono utilizzate per l'arricchimento di individui e di gruppo (n.10), «troppo spesso gli investimenti e gli aiuti allo sviluppo sono distorti dal proprio fine» (n.21), gli arsenali di guerra si sono enormemente estesi (n.10). È in atto un «commercio senza frontiere» (n.24), cresce la disoccupazione e la sottoccupazione (n.18), crescono i debiti internazionali, le guerre, il terrorismo, i profughi; anche il problema demografico crea difficoltà allo sviluppo (n.25), compreso quello ecologico (nn. 26,34).

 

Lo teoria del fossato

II Papa, in tal modo, sviluppa la cosiddetta «teoria del fossato», che va dilatandosi e approfondendosi sempre più. Si sarebbe tentati di concludere: «Di male in peggio». Occorre superare queste strutture di peccato infiltratesi nello sviluppo. Lo sviluppo stesso va «evangelizzato», con i valori presenti nella dottrina sociale della Chiesa, tenendo presente che l'annuncio è più importante della denuncia (n.41).

Inoltre Paolo VI nel 1967 aveva stabilito che il primo giorno di ogni anno fosse dedicato alla Pace, secondo un'intenzione particolare che variava di anno in anno. Nel 1987 Giovanni Paolo II, in occasione del XX dell'enciclica «Populorum progressio» di Paolo VI e della sua enciclica Sollicitudo rei socialis stabiliva che l'intenzione per la Giornata della Pace di quell'anno fosse: «Sviluppo e solidarietà: chiavi della pace». Per il Papa la pace è come chiusa in una cassaforte. Per aprirla occorre conoscerne la combinazione e usare le due chiavi dello sviluppo -perché nella miseria non c'è pace - e della solidarietà - perché chi ha e sta bene non deve pensare solo a se stesso.

 

Siamo smarriti

II quasi totale fallimento dei programmi attuati dai Paesi più ricchi a beneficio dello sviluppo dei popoli meno favoriti pesa come un macigno. Perché con tanta profusione di denaro i risultati sono quelli che sono? Perché è così estesa la corruzione? Perché solo dopo la morte di Mobuto, presidente dello ex Zaire, si viene a conoscere che era ricchissimo e perciò corrotto fino al midollo? Tutti sapevano che Abacha, il famigerato dittatore della Nigeria, salito al potere con un colpo di stato e morto l'8 giugno 1988, era una figura losca, del quale il Washington Post scrisse: «Poche volte nella storia un uomo solo è riuscito a fare tanto male al suo Paese... Ha lasciato un Paese ricco dì petrolio con la gente che vive in condizioni pietose, mentre lui e i suoi cortigiani accumulavano miliardi».

Axelle Kabou, studiosa camerunense, scrisse nel 1995 il libro dal titolo «E se l'Africa rifiutasse lo sviluppo?». La domanda è retorica e presuppone una situazione cinica, perché se finalmente in Africa cessasse il sottosviluppo cesserebbero anche gli aiuti internazionali!

Accuse pesantissime giungono da tutte le parti. Il prof. Albert Rist dell'università di Ginevra nel suo volume «Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale» (Torino 1997, pp. 316), sostiene che i programmi di sviluppo non servono più a niente, dato che il 20% degli uomini continua a consumare l'80% delle risorse del pianeta. Inoltre come fare il conto di tutte le persone che vivono sull'amministrazione dello Sviluppo: funzionari, burocrati ed esperti, volontari, divulgatori agricoli, animatori, quadri, addetti alla formazione, agronomi, periti forestali, idraulici, pianificatori, operatori sanitari, medici a piedi scalzi, alfabetizza tori in motorino, autisti di veicoli fuoristrada...

A quanto ammonta il numero degli agenti degli uffici studio, dei ricercatori assunti da istituzioni importanti, dei professori negli istituti di «sviluppo», degli editori specializzati sulla pubblicazione delle opere redatte dai precedenti, degli organizzatori dei colloqui, dei consiglieri di coloro che partono per la cooperazione e ne ritornano? E come cifrare tutti i posti di lavoro indotti dall'insieme di queste attività multiformi che non potrebbero esistere senza segretarie, senza mezzi di telecomunicazioni e di trasporto, senza locali, senza fornitori di materiale di ogni sorta e senza compagnie aeree?

 

A chi serve lo sviluppo?

Nel 1994 l'UNESCO tenne una conferenza dal titolo «Cos'è accaduto allo sviluppo»? Erano presenti molti luminari e tutti si lamentavano delle tristi condizioni dei Paesi poveri: «Oh, è terribile! Oh, il povero Sud! Oh, l'aiuto pubblico sta diminuendo!». Prese la parola anche Susan George, scrittrice e politologa, infastidita da questi atteggiamenti così interessati. Iniziò col dire che lei invece era ottimista: «Lo sviluppo è stato un enorme successo. I creditori sono felici, poiché ricevono ogni anno i loro pagamenti sugli interessi, le economie nei Paesi poveri sono state riorganizzate in modo che il debito venga restituito; le banche sono felici; le imprese transnazionali sono felici, in quanto hanno libero accesso a tutte le materie prime e a qualsiasi luogo cui vogliano accedere nel mondo; la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sono felici, non avendo mai avuto tanto potere prima d'ora; le élites locali sono felici, perché tutto è stato privatizzato e loro sono stati in grado di realizzare enormi guadagni. Dunque se le élites locali sono felici, le élites del Nord sono felici, i creditori, le banche e le imprese transnazionali sono tutti felici, chi siamo noi per lamentarci di ciò? Tutto ha funzionato esattamente come era stato previsto».

Anche «II banchiere dei poveri», Muhammad Yunus, che ha lanciato un'iniziativa di vero sviluppo con la Banca Grameen, scrive: «Più volte ho trovato sconfortante il modo di procedere delle istituzioni finanziarie multilaterali». Porta l'esempio di un progetto avviato dal'Onu per l'isola di Negros (Filippine): «Furono inviate ben quattro missioni spendendo migliaia di dollari in biglietti aerei, onorari e indennità giornaliere. Le casse del progetto non videro un centesimo, tuttavia si avviò un iter burocratico che portò, nel 1996, alla firma di un accordo tra il governo delle Filippine, la Banca asiatica per lo sviluppo e il Fisa. Ma dopo cinque anni di trattative, ricognizioni, indagini da parte degli esperti, con un esborso di centinaia di migliaia di dollari, nulla si è ancora realizzato». «A volte questi consulenti mi sembrano degli allenatori di calcio che non hanno mai visto un pallone o guardato una partita in vita loro...».

«Dal 1972 - scrive Yunus nel 1997 - sono affluiti in Bangladesh qualcosa come trenta miliardi di dollari di aiuti stranieri. Quest'anno il contributo dall'estero sarà di circa due miliardi di dollari. Ma dove è andato a finire tutto questo denaro? Visitando i nostri villaggi non si vede traccia di tanta munificenza sui volti degli abitanti. Dov'è finito, dunque, il denaro? Circa i tre quarti dell'ammontare complessivo degli aiuti stranieri sono spesi nel Paese donatore: insomma, le donazioni sono diventate un mezzo, per il Paese ricco, di dar lavoro ai propri abitanti e di vendere i propri prodotti. Quanto all'ultimo quarto, finisce quasi per intero ad arricchire una piccola élite bengalese di consulenti, imprenditori, burocrati e funzionar! corrotti, che spendono in prodotti d'importazione o lo trasferiscono su conti stranieri, il che non apporta alcun beneficio alla nostra economia. Il problema è lo stesso in tutto il mondo... L'aiuto internazionale diventa un atto di carità verso i potenti, mentre i poveri sprofondano sempre più nella miseria».

La situazione è drammatica: «II problema è lo stesso in tutto il mondo», scrive Yunus. Le statistiche lo comprovano. La Chiesa deve favorire questo gioco al massacro? Deve fare finta che tutto si risolva raccogliendo soldi? Si deve continuare ad aiutare il Terzo mondo anche con i denari, ma non così come si sta facendo.

Kofi Annan il 6 settembre scorso ebbe almeno il coraggio di dire ai 150 potenti del mondo: «Pensiamo ai popoli, non a chi li governa».

 

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Letto 1677 volte Ultima modifica il Mercoledì, 10 Maggio 2017 16:21

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