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Lunedì, 29 Marzo 2021 12:04

GESU’ VERSO LA MORTE In evidenza

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di Dario Vota

[Questo contributo riprende, con alcune mie integrazioni, i punti principali del cap. 7 di G. Jossa, Tu sei il re dei Giudei?, Carocci, Roma 2014 (importante studio sulla figura storica di Gesù, che consiglio a chi vuole approfondire l'indagine sul Gesù storico]

Salendo a Gerusalemme

La vita pubblica di Gesù come predicatore itinerante durò un paio d'anni o solo pochi mesi? I Vangeli non lo dicono, gli evangelisti o non lo sapevano o avevano informazioni contrastanti. La questione resta aperta e praticamente insolubile. Quello che è certo è che andando a Gerusalemme con un gruppo di discepoli per la festa della Pasqua (l'unica volta secondo Marco, la terza volta secondo Giovanni), Gesù andò incontro alla morte.

Salendo a Gerusalemme, Gesù faceva certamente i conti con la possibilità di essere messo a morte. La sua predicazione in Galilea aveva incontrato anche resistenze e forti critiche, soprattutto da parte di scribi e farisei, ma i contrasti non erano stati di tale gravità da far pensare fin dall'inizio alla possibilità di una morte violenta; a Gerusalemme invece c'erano le autorità, misurarsi apertamente con loro significava esporsi al pericolo di essere arrestato e condannato.

L'avvertimento di Gesù ai discepoli che andare a Gerusalemme poteva significare andare incontro alla morte, è ciò che sta dietro alle tre "profezie della passione" che troviamo nel Vangelo di Marco:

Mc 8,31: E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.

Mc 9,30-32: 30 Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse.

31 Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: "Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà". 32 Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

Mc 10,32-34: 32 Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: 33 "Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, 34 lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà".

Probabilmente – è opinione corrente tra gli studiosi – Gesù non ha annunciato la morte del Figlio dell'uomo con parole così esplicite come riferiscono questi tre brani: se fossero stati preparati con un'indicazione così chiara sull'esito tragico della missione di Gesù, i discepoli non avrebbero reagito con l'abbandono del maestro e con una fuga pressoché generale. Nella forma in cui sono espresse nel testo evangelico queste tre profezie sono probabilmente un ampliamento da parte di Marco, in termini di destino certo, di qualche accenno all'eventualità di una morte violenta che Gesù deve aver fatto ai suoi discepoli mentre si dirigevano a Gerusalemme.

Matteo e Luca si limitano a riprendere queste predizioni di Marco (Mt 16,31; 17,22-23; 20,17-19; Lc 9,21-22; 9,44-45; 18,31-34), Giovanni le ignora, mostrando di non essere a conoscenza di preannunci espliciti della sua morte da parte di Gesù. Si tratta dunque di una rielaborazione di Marco, probabilmente con lo scopo di affermare che Gesù, in quanto Figlio di Dio (così Marco lo presenta fin dalla prima riga del suo Vangelo), possedeva una conoscenza più profonda di chiunque altro, ma forse anche per risolvere la contraddizione tra ciò che i discepoli si aspettavano e la morte di Gesù che li aveva sopraffatti: essi non avevano capito il messaggio di Gesù.

Ma si tratta di una rielaborazione basata su accenni che Gesù deve comunque aver fatto, sia pure in modo enigmatico per i discepoli.

Questo però non comporta necessariamente che Gesù, salendo a Gerusalemme, fosse assolutamente sicuro di venire ucciso né tento meno che vi sia salito proprio per andare incontro alla morte (questa – ha osservato uno studioso – non sarebbe buona esegesi ma solo cattiva teologia). Marco sembra infatti suggerire che, nonostante il timore per ciò che poteva accadere (Mc 10,32: Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti), tra i discepoli in viaggio verso Gerusalemme c'era un'atmosfera di speranza: v. la promessa di Gesù di una grande ricompensa (Mc 10,29-30: In verità io vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà) e la richiesta dei figli di Zebedeo (Mc 10,37: Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra); se poi Gesù è entrato a Gerusalemme a cavallo di un asino (come il sovrano davidico del profeta Zaccaria: Zc 9,9) per segnalare la sua figura messianica, era per invitare ad accogliere il suo messaggio in un clima di attesa e non di morte. Gesù, insomma, non voleva morire (sarà l'interpretazione teologica successiva ad affermare che egli "doveva" morire perché così "era scritto"), e voleva tentare di convincere e convertire il popolo e i capi stessi di Israele.

 

La reazione delle autorità

Ma a Gerusalemme gli eventi sono precipitati. Per provare a ricostruirli bisogna tener conto che gli evangelisti hanno dato una coloritura fortemente drammatica anche a episodi che probabilmente hanno avuto una portata meno clamorosa:

- l'accoglienza della gente a Gesù, al suo ingresso in Gerusalemme, non è stata certamente quell'accoglienza trionfale di cui parlano i Vangeli: difficilmente si è trattato di una grande manifestazione di folla, altrimenti la coorte romana (schierata a Gerusalemme sulla fortezza Antonia presso il tempio) sarebbe intervenuta; è stato piuttosto un episodio simbolico, un segno con cui Gesù ha cercato di sollecitare i Giudei a prendere posizione nei suoi confronti. Comunque l'arrivo di Gesù tra le acclamazioni di pellegrini deve aver messo almeno in allarme le autorità giudaiche;

- l'episodio della cacciata dei venditori dal tempio è stato anch'esso un atto simbolico, che non deve aver creato grande turbamento in città (anche gli evangelisti non riferiscono alcuna reazione seria né da parte dei mercanti né da parte delle autorità); deve essere stato un episodio limitato (nella confusione del cortile davanti al tempio pochi lo avranno notato). Comunque fu una sfida al potere dei sacerdoti che gestivano il tempio.

Il fatto è che a Gerusalemme ad ascoltare Gesù non c'era più soltanto la gente dei villaggi della Galilea, ma c'erano anche le autorità cittadine che difendevano il sistema religioso di cui erano rappresentanti. E il confronto con loro toccava problemi centrali della vita politica e religiosa dei Giudei:

- che Gesù parlasse di un ingresso dei pagani nel regno di Dio e invece di un'esclusione dei capi di Israele (così Lc 13,28-29 e Mt 8,11-12, e così anche in Mc 12,1-12) doveva essere sentito come un'offesa intollerabile;

- la questione del tributo a Cesare (Mc 12,13-17) toccava il problema dei rapporti della nazione giudaica con il potere romano, che l'attività di Gesù rischiava di rendere più difficile;

- la discussione sulla risurrezione dei morti (Mc 12,18-27) toccava uno degli aspetti più controversi delle dispute tra farisei e sadducei.

Gesù stava diventando scomodo. Quando Giovanni fa dire a Caifa: "Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!" (Gv 11,50), esprime una sua convinzione personale (l'autore del 4° Vangelo non era presente alla riunione del Sinedrio), ma è una convinzione fondata. E' più che verosimile che le autorità giudaiche abbiano stabilito di prendere un'iniziativa decisa contro Gesù. Ed è comprensibile che, per agire senza troppi clamori (Mc 14,1-2: i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: "Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo"), abbiano pensato di farlo con l'aiuto di uno dei suoi discepoli.

Non è possibile sapere con certezza se Gesù abbia scoperto che Giuda stava per consegnarlo ai sommi sacerdoti, perché i preannunci del tradimento dell'apostolo che i Vangeli mettono in bocca a Gesù sono, secondo la maggior parte degli studiosi, una drammatizzazione letteraria degli evangelisti (e non possiamo sapere cosa abbia spinto veramente Giuda a "consegnare" Gesù). Ma Gesù, una volta a Gerusalemme, ha certamente compreso che la morte per lui era inevitabile e ha di conseguenza riflettuto sul significato che questo esito tragico aveva per la sua missione. Lo provano chiaramente due elementi del racconto di Marco: l'ultima cena di Gesù con i suoi discepoli e le parole pronunciate da lui durante quella cena.

 

L'ultima cena

L'ultima cena di Gesù con i suoi discepoli si è svolta in un luogo riservato, al chiuso, fra persone che abitualmente stavano insieme. Il forte significato dell'occasione ha dato un valore tutto particolare alle affermazioni che Gesù vi ha fatto. Un pasto in condivisione è in genere un simbolo di comunione di intenti, di superamento delle difficoltà quotidiane, richiama uno stato di benessere, segna un'apertura verso il futuro; Gesù lo ha solennizzato e ne ha fatto un'occasione simbolica di altissimo significato, cercando nel mangiare insieme non l'abbondanza esibita tipica dei ricchi, ma la risposta ad aspirazioni profonde di chi doveva accontentarsi di poco, la commensalità come immagine anticipata del regno di Dio.

Da tempo è oggetto di discussione tra gli studiosi il carattere preciso dell'ultima cena: una cena pasquale o no?

- Nei racconti del Vangeli sinottici essa appare come la cena pasquale che i Giudei consumavano la sera del giorno 14 nisan (o inizio del 15, visto che il nuovo giorno cominciava al tramonto). Mc 14,12-16 ricorda i preparativi fatti dai discepoli per la celebrazione della pasqua: Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: "Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?" (...) I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. E' vero che nel racconto successivo della cena non compare nessuno degli elementi tradizionali della celebrazione pasquale (né gli azzimi né le erbe amare né l'agnello), ma, da come il fatto è introdotto, per i sinottici si è trattato di una cena pasquale.

- Nel Vangelo di Giovanni, invece, si dice che Gesù è morto non il 15 nisan, dopo aver mangiato la cena di pasqua con i discepoli, ma alla vigilia della pasqua, cioè il 14 nisan, quando nel tempio si immolavano gli agnelli: quando i membri del Sinedrio vanno all'alba di quel giorno da Pilato, non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua (Gv 18, 28). La cena della sera prima, dunque, non era stata una cena di pasqua.

Scegliere la versione certa è impossibile (a meno di cercare di mettere d'accordo le due versioni, ipotizzando che abbiano fatto riferimento a due diversi calendari, una a quello ufficiale dei farisei e l'altra all'antico calendario sacerdotale: ipotesi accolta da alcuni studiosi, ma non da altri). Le maggiori probabilità sembrano dalla parte della versione di Giovanni: pare infatti impossibile, e in contrasto con la legge giudaica, che una riunione del Sinedrio sia avvenuta la notte di pasqua (giorno festivo importante), e l'episodio di Simone di Cirene di ritorno dai campi (dunque dopo aver lavorato), se ha un fondamento storico, sembra anch'esso indicare che non si trattava di un giorno festivo.

E' vero che il racconto di Giovanni è fortemente condizionato da un intento teologico (far coincidere la morte di Gesù con l'immolazione degli agnelli nel tempio e presentarla così come un sacrificio sostitutivo di quello), ma anche dietro il racconto dei sinottici c'è un intento teologico (sostituire la pasqua cristiana alla pasqua giudaica) che può per questo aver portato a creare una coincidenza con la festa di pasqua. E comunque la presenza di un intento teologico in Giovanni non comporta necessariamente l'assenza di un fatto storico alla base del racconto.

Ma se l'ultima cena di Gesù con i suoi discepoli non è stata una cena pasquale, se ne può dedurre che Gesù ha riunito i suoi discepoli il giorno prima della pasqua, per quell'insegnamento solenne che ha dato loro nell'ultima cena, perché sentiva che non avrebbe celebrato la pasqua con loro: sentiva cioè che stava andando presto incontro alla morte. Il che rende importante il significato delle sue parole durante la cena.

Quelle parole sono state trasmesse dalla tradizione dei primi gruppi di seguaci di Gesù in due forme tra loro indipendenti:

- Paolo in 1Cor 11,23-26 (lettera scritta negli anni 55 o 56 d.C.) e poi il Vangelo di Luca (Lc 22,14-20, intorno all'anno 80 o poco dopo);

- Marco (Mc 14,22-25, verso l'anno 70), seguito da Matteo (Mt 26,26-29, intorno all'anno 80).

Erano parole così importanti per la vita della comunità dei discepoli e sono state trasmesse in forma così simile (le differenze in fatti sono lievi e non toccano il significato essenziale) che non possiamo ritenerle un adattamento degli evangelisti ma devono essere state pronunciate così (o sostanzialmente così) da Gesù stesso e tramandate fin da subito. La versione di Marco, che secondo vari studiosi riflette la forma più vicina alle parole originarie di Gesù, è la seguente:

22 E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: "Prendete, questo è il mio corpo". 23 Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24 E disse loro: "Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti. 25 In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio".

Le parole sul pane e sul vino non sono così semplici come a tutta prima potrebbe sembrare (e come certa predicazione tende a spiegare, a volte banalizzando). Già solo le due metafore principaliquesto (il pane) è il mio corpo e questo (il vino) è il mio sangue – non sono così chiare come afferma certa dottrina (e la liturgia) che le ha fissate in formule indiscutibili: sono allusioni, frasi che suggeriscono più che definire con precisione (del resto l'uso stesso delle metafore è segno che si impiegano immagini note per esprimere qualcosa che si intuisce più che afferrare pienamente, o comunicare qualcosa che cerca di venire incontro alla difficoltà di conoscenza dei destinatari). Sono espressioni con cui gli evangelisti risalgono a Gesù, ma attraverso le parole che sono state trasmesse, ritrasmesse e interpretate per vari anni dai primi seguaci. Non è in discussione la loro attendibilità storica, ma devono essere esaminate senza la sovrapposizione di spiegazioni e formule dottrinali che la teologia vi ha caricato.

Poiché su un punto almeno i Vangeli non sembrano avere dubbi, e cioè sul fatto che in questa ultima cena Gesù annuncia che è arrivato il momento finale, ci si può chiedere se in queste parole ci sia un riferimento esplicito di Gesù alla sua morte violenta, che egli sentiva prossima. In effetti, se Gesù ha celebrato una cena solenne con i suoi discepoli il giorno prima della pasqua perché sentiva di dover morire, allora in queste parole non può non esserci un riferimento. Che significato, allora, aveva per lui la sua morte violenta? Tra le varie sottolineature che gli esegeti hanno proposto:

- Gesù può aver interpretato la sua morte come dono supremo della sua vita al servizio dell'avvento del regno di Dio;

- può aver riconosciuto che, prima dell'avvento del regno di Dio, egli doveva assumere la funzione del "servo di Dio" di cui parlava Isaia;

- può aver intravisto che non solo "malgrado" la sua morte, ma forse proprio "mediante" la sua morte il suo messaggio poteva realizzarsi: realizzazione paradossale e per molti versi incomprensibile.

Ma il senso fondamentale è da cercare nelle parole sul calice come riportate da Marco: Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti (Mc 14,24). Nel dono della sua vita, simboleggiato dal riferimento al suo sangue, Gesù ha visto l'inizio di un'alleanza (cioè di un legame tra Dio e gli uomini) diversa da quella mosaica, ancora legata ai sacrifici nel tempio: l'offerta della sua vita al servizio del regno di Dio toglieva ogni valore al sacrificio degli animali.

Questo – sia chiaro – non porta all'interpretazione della morte di Gesù come "sacrificio espiatorio", sviluppata nella (brutta) teologia medievale della "soddisfazione vicaria", secondo cui Dio, offeso dal peccato degli uomini, pretendeva una riparazione-espiazione-soddisfazione attraverso un sacrificio umano: la morte del Figlio per "dare soddisfazione al Padre per i nostri peccati" (è quanto troviamo, ahimè, ancora ripetuto nel Catechismo della Chiesa Cattolica ai n. 614-615!). Una simile teologia è inaccettabile per la nostra coscienza di oggi, anzitutto perché è frutto di una visione inaccettabile di Dio: un Dio giudice inflessibile, adirato con gli uomini peccatori, la cui ira necessita di essere placata e richiede come punizione un sacrificio cruento: la giustizia punitiva di Dio si scaglia su Gesù Cristo, che patisce per amore nostro i tormenti della croce inflittagli da Dio al nostro posto. Un'immagine di Dio primitiva e grossolana.

In realtà, se leggiamo con attenzione i Vangeli, vediamo che Gesù non voleva a tutti i costi morire, non considerava la propria uccisione come un fatto voluto da Dio. Basta leggere la sua preghiera nel Getsemani: Gesù prega per non dover morire; e quando dice "però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu (Mc 14,36), il ciò che vuoi tu non è la morte cruenta come sacrifico espiatorio per soddisfare il Padre, ma la fedeltà alla missione da compiere, che, nelle condizioni storicamente concrete che si sono create (il rifiuto della proposta di Gesù), imponeva una scelta: o rinunciare alla missione o rischiare la morte, ma vissuta in modo da mostrare la verità del Vangelo da lui annunciato e la piena fiducia in Dio, la fedeltà alla sua missione attraverso l'amore. Davanti al pericolo incombente Gesù sarebbe potuto fuggire, ma non lo fece. Nella piena consapevolezza che lo avrebbero arrestato, rimase dov'era, non per "offrirsi in sacrificio" ma per fedeltà alla sua missione: aveva diffuso la "buona notizia" di un Dio vicino all'uomo, un Dio per il quale ogni essere umano è importante, che chiede di donarsi rifiutando la logica del predominio, dell'affermazione e dell'autoconservazione a spese degli altri; egli doveva continuare ad affermare ciò, anche se gli sarebbe costato la vita. Questo è veramente liberatorio, non l'idea che i nostri peccati vengano pagati col sangue di Gesù senza che noi ne siamo coinvolti. La liberazione portata da Gesù consiste nell'irradiamento di quell'atteggiamento di vita che muove e cambia le persone, che genera un mondo in cui a dare il tono alla vita è l'amore, la logica di Dio che è il bene.

Non è perciò dalla sofferenza che viene la salvezza di Gesù: la sofferenza come tale non salva, è la fede in Dio espressa attraverso una amore gratuito a salvare, una fede che in Gesù ha superato una sofferenza estrema (se l'essenziale dell'esperienza di Gesù sulla croce fosse stata la sofferenza, allora anche per noi sarebbero le sofferenze a salvarci; ma l'essenziale è stata una fede che ha superato una sofferenza estrema, pervenendo a straordinari atti di amore, cosicché è la fede che fiorisce nell'amore a salvarci). 



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