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Lunedì, 24 Ottobre 2022 09:48

don Gianni Campagnolo In evidenza

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 ,Salesiano di Don Bosco.


Ha raggiunto la “meta”,

ma per chi l’ha conosciuto... rimarrà sempre un “compagno” nel proprio “cammino”.

Siamo vicini agli amici di “Operazione Uribe” o.n.l.u.s.

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Riportiamo l'omelia che l'Ispettore don Igino Biffi ha tenuto alla celebrazione funebre.

«"Ti mando nel basurero (immondezzaio) della Colombia! - mi disse il Vescovo-. E non voglio né martiri né eroi". Cercando di far tesoro di quelle parole, mi domandai subito in quale posto ero capitato». Così racconta don Giovanni nel libro autobiografico. E già da queste battute comprendiamo che siamo di fronte a un pastore che, pur di far conoscere il Vangelo, non ha avuto paura di affrontare i lupi che deturpano l'umanità. San Paolo è chiaro: guai a me se non annunciassi il Vangelo. Don Giovanni ha sentito fin da subito questa necessità, questo incalzante invito interiore.

Tra gli aspetti preziosi che possiamo trarre dalla vita di questo nostro confratello emerge certamente la temerarietà, il coraggio, la capacità di osare fino a rischiare la vita, a testimonianza che l'annuncio del Vangelo non è una passeggiata. Quando decise di affrontare direttamente i capi della guerriglia della F.A.R.C. (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) gli dissero: "Padre, se vai lì ti ammazzano". Ma lui sapeva che evangelizzare è dare la vita per le pecore, è stare con loro ad ogni costo. Oggi abbiamo bisogno di tornare a questa temera­rietà, a quel coraggio apostolico che conduce a farsi ultimi con gli ultimi, deboli con i deboli per salvare ad ogni costo qualcuno, come scrive san Paolo.

Giovanni nasce a Bessica di Loria (TV) il 6 marzo 1945 da papà Sesto e mamma Stella Baggio, mentre sono in corso gli ultimi giorni della guerra. Frequenta le scuole elementari in paese. Vista la sua brillante intelligenza, la maestra, d'accordo con il parroco, segnala ai genitori l'opportunità di fargli proseguire gli studi dai salesiani in Piemonte. In precedenza già altri ragazzi del paese e dei dintorni sono inviati a istituti salesiani del Piemonte. Molti proseguono, si fanno salesiani e qualcuno anche missionario.

Giovanni a 11 anni è accolto nella Casa salesiana di Penango (AT). Qui dal 1956 al 1961 frequenta la scuola media e il biennio del Ginnasio. In questo tempo approfondisce la conoscenza di Don Bosco, del carisma salesiano e della missione.

Giovanni, insieme ad altri compagni di scuola, presenta la domanda per essere ammesso al Noviziato e diventare salesiano. Vivrà il Noviziato a Villa Maglia di Chieri in compagnia di altri 30 giovani.

Terminato l'anno di preparazione alla vita salesiana, Giovanni è ammesso alla professione religiosa: il 16 agosto 1962 diventa salesiano. Frequenterà in seguito il triennio del Liceo Classico. Un suo compagno di studi ricorda di questo periodo due dettagli: l'abilità del chierico Giovanni nelle partite a calcio e il timbro della voce baritonale, intonatissima e capace di far vibrare i vetri della chiesa. Prosegue gli studi e l'anno successivo consegue anche il diploma magistrale. Farà la Professione Perpetua nella Congregazione Salesiana nel 1968.

Per la Teologia viene inviato a Torino Crocetta (1969-73). L'ordinazione sacerdotale sarà a Bessica, il 24 giugno 1973. In seguito don Giovanni frequenta il biennio di Missionelogia presso l'Università Gregoriana di Roma (1973-75). Successivamente sarà in procinto di partire come missionario per il Kenia, ma ragioni di salute lo obbligano ad abbandonare il progetto. Don Giovanni è allora inviato nella Casa salesiana di Caselette (TO). Nei due anni trascorsi qui si impegna intensamente nell'ambito giovanile con un lavoro di animazione e formazione dei gruppi di ragazzi e di direzione spirituale dei giovani, seguendoli in parrocchia, nei campi estivi, in ritiri spirituali e in svariate altre attività parrocchiali. Parecchi giovani trovano in lui un direttore spirituale schietto e sensibile. Più tardi alcuni lo aiuteranno nella missione oltreoceano.

Nel settembre 1982, don Giovanni parte missionario per la Colombia, dove rimarrà pressoché ininterrottamente per 37 anni. Dopo un primo periodo di ambientamento, è inviato nella Selva, nella missione salesiana dell'Arari, a Uribe e in altre località della regione, come parroco di comunità molto estese. Da quest'esperienza "limite" dal punto di vista umano e religioso, emerge il profilo di un salesiano che ha trovato il luogo in cui spendersi con generosità fino alla fine. Dopo 25 anni di missione così scrive nel volume autobiografico

Basurero. 25 anni di missione in Colombia “

«Quando, nel 1982 partii per Uribe, essendo giovane e sentendomi forte, ero spinto - non lo nascondo - dallo spirito d'avventura caratteristico di molti giovani. Nulla mi spaventava: le difficoltà iniziali, questi luoghi meravigliosi, tutto mi spingeva ad un continua sfida nella ricerca di me stesso. E questo nell'uomo è una cosa naturale.

Poco alla volta, imparando a conoscere quella gente (dura, essenziale, a volte spietata), ho incominciato a maturare una nuova coscienza religiosa e umana. Ho iniziato vedere oltre la bellezza naturale della Colombia e sono entrato dentro la sua enorme povertà (materiale, di valori, di moralità), ma anche dentro la sua ricchezza, fatta di umanità e di spirito libero. Grazie alla sua gente era sempre più forte la convinzione di essere guidato da qualcosa di immensamente più grande di me. Scoprivo giorno dopo giorno che Dio era lì, in mezzo a loro, nelle sofferenze, tra gli ubriachi nelle osterie, in mezzo ai disgraziati che si spaccavano la schiena nelle piantagioni di coca, tra i ragazzi che giocavano felici nel campetto dell'oratorio. Lo vedevo anche negli occhi di un guerrigliero moribondo, che non sapeva perché aveva vissuto così, e anche nei vagiti di un bambino che veniva alla luce in un accampamento sperduto nella selva, che un giorno probabilmente sarebbe diventato guerrigliero pure lui. Tutto quello che sembrava ingiusto e crudele, ma anche i traguardi raggiunti o un semplice grazie detto da gente non certo abituata ad esteriorità e cortesie, faceva parte del progetto divino».

Significativi lo sguardo di fede e la prospettiva teologica con cui don Giovanni guarda alla sua missione. Possiamo proprio applicare a lui le parole di san Paolo: mi sono fatto tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno.

Intanto in Italia, a Caselette, coinvolgendo amici e familiari, attorno a don Giovanni e alla sua missione si coagula un movimento vivace, che si chiamerà "Operazione Uribe". Si tratta di giovani che lo seguono da lontano, che ne diffondono la conoscenza e i progetti avviati, che lo sostengono in varie forme, anche con l'invio di volontari che si alternano svolgendo un prezioso servizio in quelle terre. A poco a poco giungono volontari da altre parti, come dalla Spagna, che mettono a disposizione le loro doti (sanitarie, mediche, sociali, educative).

Nel 2019 don Giovanni è obbligato a rientrare in Italia a causa di una brutta caduta da cavallo. Pur avendolo sperato e desiderato, non tornerà più in Colombia. Gli ultimi tempi li ha vissuto nella casa di Castello di Godego "Mons. G. Cognata" dove ritrova un confratello conosciuto in Colombia, don Giulio Santuliana. Poco tempo dopo sarà l'unico presente al suo trapasso notturno.

I confratelli ricordano divertiti i lunghi racconti con i quali don Giovanni li intratteneva. Sentendo narrare episodi leggendari, scampoli di vita missionaria vissuta "al limite", viene spontaneo definirlo il "cappellano dei capi della guerriglia". E alla fine ci si interroga se davvero chi stava dalla parte delle istituzioni fosse sempre "buono" e chi si ribellava con violenza fosse sempre "cattivo".

Tra gli infiniti episodi narrati da don Giovanni circa la vita nella selva, si può ricordare la modalità "salesiana" con cui egli si conquistò la fiducia dei comandanti della guerriglia colombiana. Dopo vari episodi non felici, pedinamenti più o meno scoperti, controlli asfissianti, decise che era ora di affrontare direttamente il vertice della guerriglia della F.A.R.C. Sconsigliato da tutti, con un viaggio avventuroso di più giorni a cavallo, riesce finalmente ad arrivare alla meta. Dopo un primo diffidente abboccamento con il comandante, viene invitato a cenare con tutti gli altri comandanti. Così racconta l'episodio don Giovanni:

«Pur con tutte le differenze e diversità di intenti che esistevano tra me e loro, queste persone nutrivano nei miei confronti un certo rispetto. Il comandante comparve più tardi, mentre già stavo riposando, e con un po' di imbarazzo mi chiese se potevo mostrargli il contenuto del mio modesto bagaglio. Rimase incuriosito del fatto che la mia borsa contenesse, oltre ai miei effetti personali e ai miei 'strumenti di lavoro liturgici', il gioco del 'bingo' (una specie di tombola) che avevo sempre con me quando andavo a visitare i piccoli insediamenti. Fu la mia fortuna: non lo conosceva. Radunò subito i comandanti e volle che io glielo insegnassi. Stanco morto passai tutta la notte a giocare a bingo!

Giocando cadde qualsiasi barriera ideologica, burocratica o gerarchica e fu una maniera molto efficace per avvicinarmi a loro. Gente che faceva tremare la Colombia, per una notte, attraverso il gioco (cercando magari di vincere una caramella!) ritornò ad un 'infanzia che forse non aveva mai vissuto».

Sono fatti come questi che dicono che basta davvero poco per dare tutto. Il Vangelo ha bisogno di umanità per essere trasmesso e l'umanità ha bisogno di Vangelo per continuare ad essere testimoniante. Chiave dell'evangelizzazione è la prossimità. Lo dice san Paolo:

Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno.

Don Giovanni con la sua vita ci insegna che la prossimità fa miracoli, ma allo stesso tempo ci testimonia che il rischio è la cifra dell'amore.

Così don Giovanni scrive in una lettera ai benefattori dell'Operazione Uribe:

Qui capisco cosa vuol dire faticare; capisco perché tanta gente si ubriaca vivendo da sola, in una famiglia senza amore e senza affetto; capisco cosa vuol dire essere senza casa e senza quasi tutto e domandare tutti i giorni le cose di cui si ha bisogno. Nonostante tutto sono contento: il buon Dio lo sento vicino quando vado solo in mula a trovare la gente e faccio fino a otto ore da solo nella foresta per raggiungere un villaggio. Lo sento nel silenzio profondo della selva e nelle bellezze della natura»

Il Signore accolga don Giovanni nella sua pace e gli doni il premio promesso ai suoi servi fedeli, che annunciano il Vangelo fino agli estremi confini della terra. E a questo nostro grande missionario chiediamo di intercedere presso il Padre affinché altri giovani facciano la scelta di spendersi come salesiani per i più poveri.

Le spoglie del caro don Giovanni riposano nella nuda terra, come lui desiderava.

don Rossano Zanellato,

direttore Comunità Casa "Mons. G. Cognata"

Letto 373 volte Ultima modifica il Lunedì, 24 Ottobre 2022 10:31

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