Famiglia Giovani Anziani

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 126

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 65

Sabato, 23 Luglio 2011 09:03

Chiedono di essere ascoltati. “Chiesa, ascoltaci”.

Vota questo articolo
(2 Voti)
Santa Sabina Santa Sabina

È un dato che in sei anni, dal 2004 al 2010, oltre un milione e centomila giovani italiani hanno dichiarato di non appartenere più alla chiesa cattolica. La chiesa è percepita come latitante o assente dalla loro vita. Gli assistenti di AC al convegno nazionale, svoltosi a Roma dal 14 al 17 febbraio, si sono interrogati su questo problema.

 

 

I giovani. La chiesa.

Dove vanno i giovani? E soprattutto chi sono? E la chiesa dov'è? Come è percepita nel variegato ambiente giovanile? Sono le questioni che hanno aperto il convegno nazionale degli assistenti ecclesiastici dell'Azione cattolica italiana, provocati dalle parole di Tonino Bello, il quale, riferendosi proprio al mondo giovanile, riconosceva profeticamente che «oggi, nonostante il grande parlare che se ne fa e nonostante il timore non sempre reverenziale che esso incute, tarda ancora a divenire il referente privilegiato della nostra diaconia ecclesiale». E infatti si moltiplicano le iniziative per i giovani, in ogni campo e in ogni ambiente. Ci si esercita in analisi approfondite e in interpretazioni suggestive, «li mettiamo anche al centro dei programmi pastorali, ma poi resta il sospetto che, sia pure a fin di bene, più che servirli, ci si voglia servire di loro... Perché sono la misura della nostra capacità di aggregazione e il fiore all'occhiello del nostro ascendente sociale. Perché se sul piano economico il loro favore rende in termini di denaro, sul piano religioso il loro consenso paga in termini di immagine» (A. Bello, Dalla testa ai piedi, ed. Meridiana).

Come ha ricordato mons. Domenico Sigalini: «I giovani chiedono giustizia riguardo alla verità di se stessi, della dimensione religiosa della vita, del significato dell'affettività e della sessualità, del mondo... Vogliono la verità su Dio che viene continuamente oscurato, sul loro passato e quindi sui fondamenti della loro identità, cancellati con pietosi inganni. Chiedono giustizia riguardo alla libertà, perché tutti danno loro la versione più sbagliata. Chiedono giustizia alla chiesa, perché le comunità cristiane non sono più abitabili dalla loro sete di Dio, di parola, di grazia, di bellezza e di bontà. Chiedono giustizia di spazi per potersi incontrare, giustizia di un rapporto tra le generazioni. Chiedono giustizia rispetto al lavoro, alla possibilità di fare famiglia, di progettare futuro».

 

Per conoscerli e amarli: cinque storie.

La necessità di una conoscenza reale ed empatica: vogliamo amarli dentro questa realtà. E allora ci si è messi in reale e doveroso ascolto delle loro domande e della loro vita, attraverso l'autorevole parola di Massimo Livi Bacci dell'Università di Firenze e di Riccardo Grassi dell'Istituto Iard di Milano e, successivamente, cinque storie: Silvia Del Gran Mastro, pubblicista che chiede più cura nella comunicazione del vangelo, Daniel De Rosa, attore che invita anche a promuovere cultura e a creare spazi di incontro, Emiliano Fatello, impegnato in politica che amerebbe sentirsi accolto anche se di idee non sempre "gradite", Andrea Fiasco, archeologo che percepisce poca comunione e qualche deriva di eccessivo protagonismo, Nico Virgili, organizzatore di eventi che nota lentezza nei criteri con i quali si analizza la società e si prova ad interagire con essa.

Nella loro percezione della chiesa, con le loro idee sui preti, tutti auspicano più accoglienza e meno giudizi, più presenza e meno prediche, coerenza, accompagnamento, passione e la testimonianza di una vita gioiosa, bella e desiderabile. Tutti con una fiduciosa volontà di non "sprecare" la vita. Qualcuno ferito da alcune parole o deluso da un gesto. Grati, perché è stata ascoltata la loro esperienza e presi in considerazione i loro suggerimenti.

 

Questi giovani, chi sono?

Chi sono questi giovani che chiedono "giustizia"? Anagraficamente hanno tra i 18 e i 35 anni. Sembrano stare meglio delle precedenti generazioni: dispongono di più denaro, hanno una maggiore aspettativa di vita, hanno facile accesso alla cultura e all'informazione, sono anche più sani e più belli. Tuttavia, il benessere è dato dalla famiglia di origine piuttosto che da reali opportunità lavorative e produttive, e nella società civile contano sempre meno: sono pochi rispetto al mondo adulto, lenti nel percorso che li rende autonomi e quindi pienamente responsabili, in ritardo nel mercato del lavoro, nella vita affettiva e nella scelta riproduttiva.

Vivono in un contesto sociale, ed ecclesiale, in cui spesso sono curati come una "specie da proteggere", anziché accolti quali soggetti del mutamento; considerati gli adulti di domani, anziché la risorsa di oggi. Insomma, una promessa che non si realizza mai, una continua delusione dei nostri desideri e un sistematico tradimento delle nostre aspettative. Essi non sono neppure una categoria sociale facilmente individuabile, poiché rispondono alle leggi di razionalità, originalità e libertà tipiche dell'umano.

Si relazionano col mondo circostante in modo diverso degli adulti: sono i "nativi digitali". Hanno un loro modo di vedere e di comprendere. Un'interiorità e una spiritualità in cui non sempre è definibile il confine tra virtuale e reale. Ma non sono vuoti! Non sono superficiali! Non hanno rinunciato alla verità, alla bellezza, alla gratuità, al sogno. Tuttavia, percorrono strade nuove, con cadenze diverse dal passato: sono i giovani di ora!

«I giovani oggi sono pochi - aveva affermato alle soglie del convegno don Armando Matteo, assistente Fuci e coordinatore del Collegio assistenti AC -, appena un settimo della popolazione nazionale, e questo fa sì che la loro voce non sempre riesca ad attirare la giusta attenzione della comunità civile ed ecclesiale: gli assistenti sono perciò chiamati a farsi compagni di viaggio e promotori di un vero protagonismo delle nuove generazioni. Oggi, non domani».

 

Dato certo è che in 6 anni (2004-2010) oltre un milione e centomila giovani non si definiscono più appartenenti alla chiesa cattolica. Eppure aumenta l'interesse per la spiritualità e il trascendente, sono affascinati da temi "alti", attratti da proposte esigenti. Insomma, sembrano allontanarsi, ma forse siamo noi ad essere percepiti latitanti, e spesso assenti, rispetto alla loro vita.

 

Inadeguatezza delle comunità cristiane.

La progressiva inadeguatezza delle comunità cristiane: vogliamo essere "casa abitabile". La comunità cristiana è molto meno abitabile dal mondo giovanile: linguaggi incomprensibili, dialogo inesistente, ascolto negato, chiusura e divisioni, strumentalizzazioni e distanza, moralismo senza dialogo e ricerca di motivazioni vere, timore di un annuncio forte di Dio, di Gesù, della sua Parola. I momenti in cui si può fare esperienza di una moltitudine credente in movimento (ad esempio, la Gmg) possono aiutare, sono importanti, ma non sostituiscono il rapporto diretto, personale, quotidiano, costante. Altrimenti si rimane a ciò che la chiesa appare o è raccontata dai mezzi di comunicazione.

 

Incontri con realtà associative.

L'Azione cattolica e le altre realtà associative possono offrire la possibilità di incontrare la chiesa "reale", rompendo lo schema che divide il mondo in due: da una parte, i difensori della libertà e della razionalità e, dall'altra, una chiesa definita autoritaria e proibizionista. Invece i giovani chiedono tracce da seguire, prima che obblighi da assolvere.

Allora le nostre comunità devono anche strutturarsi diversamente, come luoghi in cui, pur senza sconti e compromessi, si offra innanzitutto accompagnamento, chiarezza coraggiosa, percorsi di verità nella consapevolezza di andare controcorrente, ricerca di motivazioni anche razionali, proposta di testimonianze quotidiane e di vita santa, e la profezia di una grande misericordia. Case dalle porte sempre aperte, non per "farli entrare", ma per uscire, per vivere in mezzo a loro e così capirne le ragioni, condividerne le sofferenze e captarne le speranze.

Essi cercano luoghi dove poter stare senza essere sfruttati, senza dover riverire "il Principe", per intessere un dialogo tra coetanei e con gli adulti appassionati. Luoghi dove possono incontrare testimoni, fare tirocinio di responsabilità e di servizio, stazioni o crocevia di arrivo e partenze di grande respiro, in cui l'obiettivo non è "trattenerli" nella sacrestia, ma "mandarli" nel mondo.

 

La chiesa: imparare a stare tra i giovani.

Insomma non sono i giovani a dover tornare nella chiesa; è piuttosto quest'ultima che deve imparare a stare tra i giovani!

Ripensare la figura educativa del presbitero: vogliamo accogliere senza giudicare. Pensando al ruolo del prete in quanto educatore, in particolar modo dei giovani, non possono rimanere inascoltate le provocazioni e le richieste espresse ed emergenti. A questo hanno contribuito alcune riflessioni di Paola Bignardi, già presidente nazionale dell'AC, e di don Cesare Pagazzi, della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale.

C'è bisogno di preti non fermi alle convinzioni vagamente acquisite e neppure ai giudizi affrettati, ma desiderosi di lasciarsi coinvolgere in una conoscenza reciproca, reale e leale, caratterizzata dall'ascolto prima che dalla sentenza, dall'incontro prima che dalla difesa ad oltranza delle posizioni.

Sarà necessario, allora, abbandonare gli schemi obsoleti, come anche la tentazione di una pastorale che tende a riprodurre i modelli della società dei consumi, e operare alcune conversioni: più fiducia alle persone che alle iniziative; appassionarsi alle idee più che lasciarsi condizionare dai numeri; abbandonare i messaggi standard (e spesso annacquati!) che accontentano tutti e promuovere l'attenzione per ogni persona; assumere un linguaggio capace di comunicare, secondo lo stile dell'accoglienza, della comprensione e dell'accompagnamento; provare a percorrere le strade delle possibili alleanze con coloro che hanno a cuore la vita dei più giovani, anche provenienti da ambienti diversi.

Con il cuore e con competenza. Con la pazienza del contadino che semina e la misericordia del Padre che perdona. Nella gratuità, appresa dall'eucaristia, che non si aspetta nulla in cambio: né ammirazione, né gratitudine, né consenso, né il godimento dei frutti fuori stagione.

Questo stile lo apprendiamo direttamente dalla Scrittura, accolta nella sua organica interezza. Dalla storia della salvezza impariamo, infatti, che ci sono strade diverse e possibilità sempre nuove, che dovrebbero aiutare a non guardare con sospetto neppure la diversità e la complessità, che ci interpella continuamente. Così si possono leggere le pagine esaltanti e solenni, come quelle noiose e quotidiane, e si impara a vivere le relazioni accettando la vicinanza o la lontananza, la presenza o l'assenza: sempre come promessa di potersi ritrovare, e mai come rottura definitiva. E invece di fuggire dalla storia "banale", la si abita, la si ama, trovandone il senso e la bellezza. E magari con la volontà di non fissare lo sguardo ed esaurire il giudizio sul singolo caso o sull'ultimo gesto, ma di ampliare l'orizzonte verso il Principio e il Fine di ogni cosa e di ogni evento, per non cadere nella tentazione di essere ossessionati dall'immediato e ossessionanti verso il prossimo. Provare ad avere il coraggio di rompere qualche schema e abbandonare qualche narcotizzante consuetudine, condividendo le esperienze fondamentali della vita.

Come ha ricordato don Luigi Ciotti: «Dobbiamo essere preti più coraggiosi!», poiché i giovani oggi forse non cercano dei preti perfetti, ma «adulti che abbiano un po' di autenticità e di passione, che siano coerenti e credibili... Il Padre Eterno ci chiede il coraggio di spalancare le porte, di metterci il cuore, con più forza. Di essere un po' meno prudenti».

Preti mai rassegnati e mai intransigenti. Preti rigorosi con se stessi e benevoli verso gli altri. Preti adulti ma non vecchi. Come i profeti, capaci di suscitare modelli attraenti. Discepoli prima che maestri.

L'energia incontenibile della libertà: protagonisti e responsabili. La domanda di giustizia di gran lunga più sentita oggi però è quella della libertà, spesso vista come un peso perché difficile da educare.

A partire da questa libertà si coglie che ogni persona ha una dignità umana che va assolutamente rispettata in quanto tale. Conseguentemente tutto il lavoro teso a determinare il proprio modo di essere e di vivere, dev'essere condotto nella massima libertà. In questo contesto i giovani ricollocano i valori, e dal loro punto di vista quello che viene "da fuori" non ha un valore se non entra in relazione con qualcosa che è "dentro". Così ci si orienta verso i valori, ma si tende a rifiutare le regole. Sembrano dire: «se avete da dire qualcosa che mi possa aiutare ad orientarmi, a capire cosa voglio essere e diventare, a trovare e costruire me stesso, bene. Vi ascolto e vi ringrazio; ma per favore, non ditemi quel che devo fare».

Conseguentemente, dal punto di vista dell'esperienza religiosa, ogni giovane ritiene che la fede debba essere scelta e non più imposta, riguardo i modi in cui ci si sta dentro, sempre più diversificati e personalizzati. Inoltre, la religione deve anche parlare la loro lingua, entrando in risonanza con quanto sentono dentro e con il loro desiderio di realizzazione. È una spiritualità instabile, fluida, mobile. «L'immagine è quella della ricerca del campo per usare il cellulare: si ragiona in termini di fasi, di periodi, di momenti in cui "c'è campo" e momenti in cui il campo non c'è. Si vive sull'incerto crinale del credere e del non credere, avvertendo contemporaneamente il fascino delle narrazioni aperte al trascendente e l'attrazione per quelle agnostiche, senza sapere come fare a decidersi».

Una possibile risposta può essere offerta attraverso linguaggi comprensibili, entro una relazione di fiducia e aperta al confronto, che non forza la libertà, ma che neppure nega l'intelligenza o provoca la noia, sullo stile di Gesù che propone senza imporre (cf. Orientamenti pastorali, 25).

«Al più giovane il Signore rivela la soluzione migliore». La vita associativa dell'AC suggerisce che tutto ciò non è utopia, ma sentiero praticabile e speranza affidabile. Esistono giovani riconosciuti come protagonisti nella comunità ecclesiale e capaci di assumere responsabilità, nel dialogo fecondo con gli adulti e nel servizio appassionato ai più piccoli e al mondo. Ne abbiamo fatto esperienza in occasione dell'incontro nazionale del 30 ottobre scorso a Roma.

Se apparentemente, guardando gli interni delle nostre chiese, ci sembra di andare verso un futuro buio, guardando fuori, guardando oltre, incrociando tanti giovani volti, siamo come sentinelle pazienti nella notte, mentre si comincia ad intravvedere la fine della tenebra. E, citando le parole antiche e profetiche della Regola di san Benedetto, anziché accelerare la fine di un'epoca triste, coraggiosamente acceleriamo l'inizio di un tempo nuovo: «Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l'abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l'affare in oggetto. Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno. Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore».

Invece di parlare di loro, li abbiamo ascoltati. E forse, è stata la soluzione migliore davvero!

 

don Dino Pirri

Assistente Nazionale ACR

Settimana n. 9 2011

 

Letto 5706 volte Ultima modifica il Giovedì, 11 Aprile 2013 09:11

Search