Famiglia Giovani Anziani

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Martedì, 01 Marzo 2005 14:03

Ma la notte Parte 3/4

Ma la notte

Terza parte

La festa è appena cominciata

La nostra società, dalla mediazione con
altre culture, facilitata in modo particolare con le guerre di questo
secolo, ha fatto un salto - così almeno si crede - che ha anticipato i
tempi, ponendosi nei confronti del progresso in condizione di
avanguardia, o quasi di attesa. Gli incontri e le migrazioni hanno da
sempre sconvolto il mondo. Inebriati dai grandi innesti si vedono
appiattire, deteriorare, scomparire le antiche culture e, ai miti
creduti immortali, subentrano i nuovi dogmi. Filosofie attuali come la
corrente New Age, portano molti cambiamenti nel modo di vedere, di
pensare e, soprattutto, nello stile di vita che caratterizza le
famiglie. Spesso, ad un esame più sottile è possibile osservare che i
nostri cambiamenti si rispecchiano in un impoverimento culturale più
che in un essenziale rinnovamento di metodo.

Mi ha fatto riflettere il risultato di un'indagine
condotta di recente da un dipartimento della Università senese che ha
messo in evidenza dei risultati inquietanti. La popolazione che fa
esperienza di studi primari è in crescita costante, ma si tratta,
inutile usare perifrasi, di una massa sempre meno selezionata e
motivata. Naturale, quindi, che anche il numero di coloro i quali si
ritirano senza giungere alla laurea sia in aumento. Fra quelli che
riescono a terminare un regolare corso di studi, la percentuale di chi
finisce senza intaccare il "fuori corso" è irrilevante. Per citare
alcuni esempi, gli studenti che si laureano in giurisprudenza,
impiegano mediamente sei anni e otto mesi (contro i quattro anni di
corso); gli studenti di economia otto anni e un mese (quattro anni di
corso). La serie completa potrebbe risultare un pettegolezzo inutile se
non imponesse una riflessione sconcertante nella sua ovvietà. Uno
studente del liceo è costretto ad affrontare interrogazioni e verifiche
quotidiane, studia un numero notevole di materie, per alcune delle
quali nutre avversione eppure, nei cinque anni previsti, termina il
proprio curriculum. L’ingresso nella Università apre le porte al grande
futuro e alla sospirata indipendenza creativa e da questo momento si
fanno gesti che hanno come referente la volontà individuale: si sceglie
la Facoltà, si selezionano i corsi da seguire, si programmano gli
esami, si fissano le date delle prove… e come si spiega allora
l'accumulo di tanto ritardo? Vivere in una città universitaria ci porta
a costatare che per molti giovani la partenza da casa per iniziare
nuovi studi è un'occasione per affrancarsi dal controllo dei genitori,
un momento di apertura all'incontro con culture diverse, un modo per
festeggiare la propria giovinezza in maniera autonoma e senza
interferenze. E può essere tutto molto bello e giusto, visto che un
nido stretto se è scomodo per gli animali, lo è ancor più per gli
uomini, purché l'insieme dei tanti ingredienti non si trasformi in una
miscela inebriante che fa perdere la testa. Per qualcuno l'inizio di
questa festa non è altro che l'ingresso nel "paese dei balocchi". Le
trasformazioni di cui siamo spesso spettatori ci dimostrano che pochi
misteri umani sono cosi impenetrabili come la curva che descrive le
alterne fasi della decenza e della dignità personale.

Ma qualcosa di grosso e di sostanziale sta veramente
cambiando, I giovani arrivano al traguardo con la prima, grandi
responsabilità in un segmento della loro esperienza che li vede
impegnati a gestire, su un fronte parallelo, la crisi di indipendenza:
è un momento in cui vogliono fare da sé. Per contro i genitori
avvertono l'orgoglio di avere dei figli grandi, unici e, forse, con
qualcosa in più rispetto alla media e vivono nell'illusione, se anche
lontani e con difficoltà di comprensione e di comunicazione, di
"possederli" ancora. Ma le trasformazioni cui sottoponiamo le belle
cose che possediamo danno un saggio dei nostri errori di apprendisti
stregoni. Presto arrivano i conti che, puntualmente, presentano le
delusioni e, a questo punto, si verifica il grosso ribaltamento.
L’entusiasmo del genitore si assottiglia. È lui che, per paradosso,
vive questo distacco come una mutilazione, e prova sulla sua pelle la
sensazione di essere orfano. Quelle scelte che, ora, sempre meno
condivide lasciano spazio solo ai ricordi e ai rimpianti di cui sempre
più si popola la sua memoria.

E la festa? La festa, secondo il refrain di una
canzonetta sconosciuta a questa generazione, ma non a quella
precedente, "è appena cominciata ed è già finita...".

GIOVANNI SCALERA

Psicologo – Siena

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 14:02

Ma la notte Parte 2/4

Ma la notte...

Seconda parte

È qui la festa?

Rievocare le vicende di una famiglia
sarebbe privo di interesse se queste non fossero una finestra aperta
sulla storia dell'umanità. I singoli racconti si trasformano in tessere
di un mosaico che, nell'insieme, sa apparire ricco e policromo e ognuno
vi contribuisce con la propria cronaca quotidiana, dall'apparenza
spoglia e ripetitiva. Quale genitore, alla nascita del proprio figlio,
non sente di essere autore del romanzo più originale? E lo potrebbe
materialmente scrivere, se solo si limitasse a riportare il susseguirsi
dei tanti eventi. La difficoltà di rassegnarsi al ruolo di cronista,
piuttosto che a quello di soggettista, costituisce lo scoglio più
pericoloso. Un altro aspetto in apparente contrasto con le tendenze
individuali è legato al desiderio che ognuno ha di abbandonarsi ai
sogni: una peculiarità che impone di collocarsi tra le innumerevoli
opportunità vagabondate senza sosta dalla fantasia. E così, se andiamo
ad esaminare i comportamenti sociali, ci accorgiamo che la tendenza
alla festa è la più esplorata. In forma di premio al termine di una
gara, ricompensa ambita di prolungati sacrifici, abbandono dopo
logoranti fatiche, risposta consolatrice dopo attese snervanti, gioia
che esplode con l'annullamento della delusione, la festa potrebbe
essere sempre in agguato e chiedere solo di essere conquistata. I
termini che regolano ogni ambivalenza sono legati all'equilibrio di due
variabili antiche quanto l'uomo: il successo e la competizione. Tra i
tanti modi con cui possiamo combinare i due ingredienti ce ne sono
quattro che tengono banco e costituiscono le categorie di base delle
condotte umane.

Appartengono alla prima le persone che mirano al
successo sapendo che dovranno passare per il canale della competizione;
accettano le regole del gioco e impegnano le loro forze. Sono gli
equilibrati.

Nella seconda troviamo le persone che passano la
vita a competere, o almeno, così vogliono far credere, senza assaporare
mai un successo. Si danno arie impegnate ora da intellettuali, ora da
sportivi, forse perché si confrontano con traguardi fuori dalla loro
portata: gli esaltati.

Poi ci sono gli apatici. Disinteressati al successo
quanto alla competizione, non dimostrano alcuna risposta emotiva agli
stimoli. Il sociologo e antropologo E. Durkheim li definiva i "mancati
suicidi".

Infine troviamo coloro i quali ambiscono al
successo, ma non per questo accettano di entrare nel rischio e nella
bagarre della competizione: vogliono vincere e basta. Sono i violenti.

L’imperativo che vede impegnate le nostre famiglie,
oggi, consiste nel dare ai figli senza sosta, senza misura e senza un
motivo che giustifichi un premio, come se questi non dovessero aver
altri bisogni che libertà di movimenti e beni materiali. Delle tante
lezioni che potevamo ricavare dalla povertà in cui siamo cresciuti,
una, sembra, l'abbiamo capita bene: il prestigio ad ogni prezzo, il
piacere ad ogni costo. Molti genitori, fra l'inadeguatezza del ruolo di
educatori e lo scarso tempo che riescono a dedicare ai figli, pensano
di supplire alle tante carenze con la creazione di un'abbondanza che
dipinga a utile pastello questa figura latitante. Ma il risultato,
legato alle fortune effimere, si dimostra quasi sempre una delusione
perché le miserie che affiorano dopo il benessere servono a dimostrare
l'esistenza di un dramma reso più amaro dal sopravvivere dei resti di
uno scenario. Il disimpegno nel quale si educano le nuove generazioni
può avere qualcosa di preoccupante: non sarebbe fuori luogo chiedersi
se è normale che una parte di giovani scandiscano le loro giornate con
ritmi rap ed abbiano come principale interrogativo del loro
sopravvivere "è qui la festa?".

GIOVANNI SCALERA

Psicologo – Siena

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 14:01

Ma la notte Parte 1/4

Ma la notte

· Giovani che scandiscono le loro giornate con un interrogativo: è qui la festa? · Non è questo un segno del disimpegno con il quale si educano le nuove generazioni? · Ma la nostra festa, quella vera, non deve finire, non finirà: perché noi siamo "la festa".

Prima parte

(L'immagine della notte)

Poche immagini hanno stimolato la
fantasia e la ricerca come quella della notte. Punto d'incontro del
mistero per eccellenza, recinto nel quale si confinano le paure più
antiche, terreno in cui prendono corpo e si materializzano i sogni,
traguardo ambito di ogni saggezza per chi aspetta consiglio, palestra
di sfida per chi decide di osare oltre le soglie del lecito, incubo
insuperabile per gli ammalati e gli agonizzanti, momento di riflessione
e contemplazione per chi, travolto dai ritmi del giorno, non sa trovare
altri attimi per fare deserto dentro di sé. Tutte le scienze si sono
imbattute prima o poi nello studio e nell'esplorazione della notte,
fino a dare, appianandone le spigolosità più antiche, e più
frequentate, immagini e spiegazioni razionali che hanno finito col
togliere fascino e mistero al fenomeno più vecchio dei tempi. La
fantasia popolare, poi, ha riempito l'immaginario comune di figure e di
proverbi, tanto da rendere per luoghi comuni e impoverita della sua
primitiva incisività, il senso più profondo della notte… "Peggio che
andar di notte, lavoro fatto di notte non val tre pere cotte; farsi
notte avanti sera; la notte porta consiglio; ogni cuffia è buona per la
notte…".

In questa ultima generazione, fra le tendenze che
hanno trasformato i costumi, c'è quella che si adagia sul ribaltamento
dei tempi. A macchia d'olio, i nostri giovani - tanto per usare un
altro luogo comune - scambiano il giorno con la notte. Iniziano a
divertirsi esattamente nel momento in cui la generazione che li ha
preceduti andava a riposare e lasciano ben intendere che, sui tempi e i
modi di gestire la loro festa, non gradiscono interferenze. I ritmi, le
parole e i motivi delle loro canzoni sono così entrati a far parte del
quotidiano, quasi un intercalare, che ormai può definirsi uno stile. E
non avremmo mai fatto un esame di coscienza se questo loro "distrarsi"
non fosse stato portatore dei lutti e dei dolori che riempiono le
cronache del dopo-discoteca. Ma noi adulti, così pieni di
responsabilità e saggezza, prima di abbandonarci a sterili invettive
contro la società malata, cosa facciamo perché l'alternanza del giorno
e della notte sia per tutti un'occasione di festa da conciliare con la
garanzia di serenità?

GIOVANNI SCALERA

Psicologo – Siena

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 13:59

Fra normalità e patologia

Fra normalità e patologia

Spunti per riconoscere e trattare segni e sintomi

 

IL DISAGIO E’ UN INSIEME DI SEGNALI (SINTOMI) porta
quindi dei messaggi che vanno letti ed interpretati. Spesso il ragazzo
portatore di questi messaggi è lui stesso non del tutto consapevole del
loro contenuto.

IL DISAGIO può esprimere una FASE FISIOLOGICA
dell’evoluzione dei ragazzi che per potersi davvero separare dalla
dipendenza dei propri genitori debbono rifiutare i loro vecchi valori e
la loro condotta; questa separazione provoca anche dei sensi di colpa e
di sentimenti depressivi ambivalenti (= mi voglio separare, ma mi
dispiace che non mi vogliano più bene).

IL DISAGIO E’ PERICOLOSO: nonostante il fatto che
sia normale e fisiologico che in età preadolescenziale-adolescenziale
ci siano manifestazioni di disagio, alcune manifestazioni come uso di
spinelli, ormai diffuse, sono rischiose per un arresto del percorso
evolutivo, possono portare ad abbandono scolastico (burn-out), furti (e
quindi avvio di carriera penale), condotte a rischio (corse in
macchina, rapporti sessuali non protetti, uso alcool ecc.) che spesso
risultano forme di tentativo di suicidio, a volte inconsapevoli, ma non
per questo meno efficaci nel risultato. La solitudine rispetto ai
coetanei è un importante fattore di rischio e di segnale negativo.

IL DISAGIO è anche UNA SPERANZA PER LA SOCIETA’
perché provoca rinnovamento, critica alle abitudini senza motivo,
ricerca di purezza ed idealismo; in questo senso spesso le
manifestazioni giovanili sono criticate e sottovalutate bonariamente
dagli adulti proprio perché invece essi sanno del potenziale "vero" che
in esse c’è; allo steso tempo il rischio è che, se non guidato, questo
tipo di disagio si manifesti solo in inutili rotture e rumore musicale
senza nessuna costruzione.

LO SCAUTISMO E’ UN BUON METODO per trattare il disagio:



1. per raccogliere i segnali di sofferenza abbiamo
lo strumento della PPU che assume in quest’ottica grande valore e
richiede preparazione, impegno e senso di responsabilità

2. per stimolare lo sviluppo autonomo (protagonista)
delle proprie convinzioni, mantenendosi però all’interno di valori
condivisi, trattando con adulti diversi dai genitori: i ragazzi con
sintomi di disagio (problemi di comportamento) non vanno separati e
puniti, ma integrati e responsabilizzati. Da questo impegno sicuramente
emerge anche il problema della fatica del capo e della conseguente
necessità di discutere dei problemi dei ragazzi in Staff e Co.Ca. per
condividere le responsabilità.

È interessante vedere come su questa intuizione di
protagonismo si schierino specialisti nel campo della cura e della
prevenzione degli adolescenti dissociali: nelle conclusioni del testo
"I DISTURBI PSICOSOCIALI DEI GIOVANI" Michael Rutter che da anni si
occupa del disagio giovanile, sottolinea l’importanza nel trattamento
dei ragazzi devianti il coinvolgere i giovani nel progettare il proprio
futuro: i giovani dovrebbero essere coinvolti nella ricerca delle
soluzioni, non solo perché hanno molto da offrire con idee fresche ed
innovative, ma anche perché il loro coinvolgimento potrebbe affrontare
una delle difficoltà principali cui si trovano di fronte: la mancanza
di controllo sulle proprie vite e la mancanza di opportunità con cui
poter contribuire alla società.

E ancora: "i giovani accetteranno con entusiasmo
il loro ruolo di fronte ai problemi che riguardano l’intera società,
oltre che loro stessi. Ma la ragione del loro coinvolgimento non si
limita ad un effetto positivo sulla loro psicologia e non dipende dal
loro diritto di partecipare alle decisioni che riguardano direttamente
la loro vita. La società deve contare su questi giovani per agire come
una forza costruttiva verso il cambiamento sociale".
(Rutter M., Armando, Roma, 2002)


3. per mantenere agganciato il ragazzo al gruppo dei
pari con una attenzione a curare le relazioni interpersonali che
risultano un fattore protettivo determinante contro il disagio.


Stefano Costa

(AGESCI Proposta educativa)

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 13:57

Disagi

Disagi

Quadro panoramico dei diversi significati

Immaginiamo di camminare per una delle
strade delle nostre città verso l’ora di cena e di osservare le persone
che incontriamo.Quali potremo definire "a disagio"?

Incontriamo adulti (professionisti,
impiegati) che tornano da lavoro di corsa, stanchi ed affamati,
qualcuno triste, qualcuno con l’aria soddisfatta. Signore e signori
eleganti, magari più avanti con l’età, che si avviano al cinema o ad
uno dei teatri del centro. Commessi che stanno chiudendo i negozi, adolescenti a spasso o in motorino, extracomunitari con le loro bancarelle, talvolta inseguiti dai vigili urbani che hanno ricevuto l’ordine di sequestrare la merce, barboniche si preparano a dormire in questo od in quell’altro antro di una
banca o di un porticato. Tutti, credo, vivono in quel momento una
situazione scomoda, imbarazzante…a disagio. Vi è un fuggi-fuggi
generale, che spesso fa galoppare la mia fantasia.

Comincio ad immaginare la cena di quella ragazzina
con l’ombelico di fuori, con un pantalone troppo stretto per il suo
fisico, che ha attirato la mia attenzione strada facendo. Immagino cosa
si dirà a cena con gli altri componenti della sua famiglia. Che
significa quel look con l’ombelico di fuori? Negli anni ’70, gonne
lunghe a fiori e zoccoli ai piedi comunicavano voglia di andare lontano
senza mete, felici come i nomadi, amanti della precarietà senza
preoccupazioni per il domani. Impegnarsi per un futuro sicuro era da
provinciali borghesi. Anche col modo di vestire, i figli dei fiori
contestavano il mondo statico e vetusto che li opprimeva e poneva
limiti alla loro fantasia e creatività e tanti altri bla bla bla.
Allora sì che tutto andava stravolto ed in tutti i modi!

Tutti i giovani – in quanto tali – si sentivano a
disagio. Ciò che era caro agli adulti creava disagio: i pranzi nelle
case patrizie, le vacanze nelle ville di famiglia, lo studio
professionale paterno, i gioielli, l’eleganza talvolta anche la
bellezza della madre…

Certo che gli adulti ne hanno fatti di sforzi! Oggi
nessun genitore oserebbe fare una scenata al figlio che ostenta i
pantaloni strappati e gli orecchini al naso, labbro e lobo anche al 50°
anniversario di matrimonio dei nonni. Per carità…tutto è concesso,
tutto è tollerato eppure ci si veste in maniera aggressiva, violenta,
per il proprio corpo e per lo sguardo degli altri!

Ebbene, seppure regna la comprensione del mondo degli adulti, i ragazzi di oggi vivono comunque un disagio. C’è
un disagio del benessere, che forse a noi scout fa ridere e/o talvolta
rabbia: siamo – sicuramente – più sensibili a quello originato dalla
povertà, dalla marginalità e forse di più dall’handicap che non a
quello di chi non avrebbe proprio da lamentarsi!

Non dobbiamo essere indifferenti anche al disagio di
chi non ha problemi primari (cibo, casa ed affetti) perché "quei"
ragazzini – comunque – non sono felici. Piuttosto l’appagamento
generale li rende apatici a qualunque tipo di conquista: non lottano
contro niente e per niente. Non hanno alcuna speranza. Talvolta sono
soli, sono i figli di quelli che verso l’ora di cena corrono per
ritornare alla propria casa dove – da 12 ore – hanno lasciato le
proprie creature, da soli o a "qualcuno".

Quei figli belli ma sempre più fragili, sani ma
senza possibilità di conoscere i propri limiti fisici, se la cavano a
scuola ma senza progettarsi la vita, sempre al telefono, ma senza
amici, cosa faranno sabato sera o meglio cosa potrà mai divertirli
sabato sera? Qual è la sensazione forte, nuova, diversa che sperano di
vivere uscendo con gli amici? Sarà una pizza, una spaghettata, un fuoco
sulla spiaggia od altro…sempre più costoso, sempre più pericoloso,
sempre più lontano da se stessi?

Beh! Questo lo potevamo leggere dappertutto. Vorrei
illuminare con i nostri riflettori quella parte di ragazzi
completamente opposta a quanto sopra. Immaginiamo dei cosiddetti
ragazzi "sani", con una famiglia attenta e vicina, pronta a stimolare,
coccolare, sostenere. Dei ragazzi sicuri di sé, spigliati, simpatici,
con molti interessi, da quelli socio-politici a quelli culturali. Che
faranno questi il sabato sera, con chi potranno parlare delle loro
aspettative per il proprio futuro e delle loro speranze per il mondo?
Con chi litigheranno per l’ultimo film o per l’ultimo libro sull’Islam?
Ebbene anche loro scommetto saranno soli, tristi, sfiduciati. Anche
loro vivranno il proprio disagio in un ambiente scolastico degradato,
maleducato, tracotante.

Ma come si fa a stabilire quando il disagio sta per
scaturire in comportamenti pericolosi e malesseri profondi e quando si
tratta di un fenomeno tipico dell’animo in evoluzione?

Quando il "non volerci stare" porta a degli
atteggiamenti di autolesionismo e quando la mediocrità circostante
origina un’ansia di scoprire per cambiare?

Quando l’adulto educatore può intuire se
l’egocentrismo sta portando a degli estremismi a rischio o ad una
voglia di impegnarsi per migliorare?

Agli adolescenti non andrebbero fatte troppe
domande…vanno osservati ed ascoltati, compresi e non giudicati, in
qualche caso. Bisogna essere vigili, presenti ma pazienti…C’è una
canzone di De Gregori che parla di un ragazzo che aveva "una luce
strana nei suoi occhi che qualcuno ha chiamato cattiveria ma poi chissà
la gente che ne sa dei suoi pensieri sul cuscino che ne sa, della sua
rabbia in fondo al cuore che ne sa…".
Di quel terribile momento di
transizione che tutti gli adulti di oggi hanno passato! La via di
uscita è tutta da ri-cercare. I ragazzi che dovremmo sperare di poter
formare nei nostri gruppi sono sicuramente del secondo tipo. Intanto
perché la gestione è più essenziale (abbiamo idea di quanto costino le
uscite del sabato sera?) ed inoltre la sana insoddisfazione porta a una
fattiva irrequietezza, ad una voglia di fare "con" e "per" gli altri
che passo dopo passo porta a dei cambiamenti. Ma dei ragazzi "primo
tipo" chi si dovrà occupare? Vi ricordate la ragazza figlia dei fiori
di circa 20 anni fa? Secondo voi se oggi fosse un capo scout od una
madre, i suoi ragazzi sarebbero del primo o del secondo tipo?

Graziella Landi

(AGESCI Proposta Educativa)

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 13:56

EDUCARE, UN PROBLEMA PER TUTTI - 3 Parte

EDUCARE, UN PROBLEMA PER TUTTI

3) Terza Parte


Un'esperienza educativa emblematica: lo scoutismo


Possiamo
considerare, per riflettere, una realtà di crescita abbastanza
particolare, ma emblematica: lo scoutismo. In esso accade che la
realizzazione di un vissuto misterico, memoriale e simbolicofornisca credibili garanzie di autentica crescita. Da quest'esperienza
potrebbero emergere indicazioni sostanziali anche per l’ambito
familiare:


La struttura misterica


Lo scoutismo è
tale se introduce in un "mondo": il mondo fantastico, il mondo
dell'avventura e del servizio. Questi mondi sono intenzionali, perché
consapevolmente costruiti, al fine di diventare il terreno di un grande
gioco. Non sono la vita "vera"; ma nessuno scout accetterebbe
un’affermazione del genere non perché incapace di distinguere tra la
quotidianità e il mondo dell'avventura, ma per la "serietà", per
l'importanza vitale, per l'assoluta realtà che tali mondi simbolici
possiedono. Anzi, il "ritorno" alla vita quotidiana diventa tanto più
valido, quanto l'altra vita, quella dello scoutismo, è profondamente
vissuta. L'esperienza scout "salva", in tal modo, la vita quotidiana,
o, più semplicemente, la lezione del bosco guida nelle vicende di tutti
giorni. Anche nell'ambito familiare la possibilità di un’iniziazione e
la consapevole esperienza di un universo di significati possono
"salvare" la persona nel suo cammino mondano. Certo, come l’esperienza
sacramentale, anche l'esperienza scout e quella familiare debbono
essere aperte a significati "altri", che le trascendono, ma sempre
attraverso il vissuto, la presenza, la testimonianza, i segni concreti.
Si tratta di vivere una liturgia, una storia, e mai di subire l'effetto
meccanico di una causalità canonica. Nella dimensione misterica ognuno
può trovare il proprio ruolo e l'alimento che gli è più confacente,
perché si cresce in un libero "incontro", tra persone vive, dialogando
con reali presenze, nel cuore di una comunità significativa e
promuovente.


La struttura memoriale


Il mondo
fantastico, l'avventura o il servizio dello scout non sono viaggi
solitari in regioni fittizie, fuori dal tempo e dallo spazio. Entrare
nello scoutismo significa entrare in una tradizione, tra persone vere,
che hanno vissuto e stanno vivendo un'identica avventura. Certo il
campo di Brownsea e Baden-Powell non esistono più, e con loro mille e
mille scout ma non è solo lo "spirito scout" che sopravvive, è il
grande gioco che, in fondo, continua anche oggi, senza soluzione di
continuità. Lo scout si muove in modo personale e autonomo in una
"vicenda", in una tradizione. Egli condivide fatti storicamente
accaduti, che, pur consentendogli di costruire liberamente la sua
progressione personale, garantiscono un senso, propongono una
direzione. Anche nella famiglia l'esistenza di una tradizione, il
collocarsi tra un "già" e un "non ancora", può creare l'humus per la
conquista di un'identità significativa, non imposta, ma originalmente
vissuta.


La struttura simbolica


Il mondo scout,
come tutte le realtà umane che non hanno subito un processo di
"cosificazione", è simbolico, cioè mantiene tutta le complessità di
significati che provengono dalla storia e dall'uso. Questo non vuoi
dire che la schietta natura della realtà venga tradita, ma piuttosto
che la "verità" delle cose non si percepisce come monodimensionale, né
statica. Solo la positivistica decurtazione dei significati e delle
loro tensioni ha fatto sì che il simbolico diventasse sinonimo di vago,
indicativo, semplificante o falso. Ma l'esperienza scout fa toccare con
mano la concreta polisemia della divisa, di un fuoco sotto le stelle,
di una chiacchierata, di una presenza amica. La percezione simbolica
consente di non tradire con astrazioni quanto di vivo ci circonda. La
differenza tra il simbolico e il segno è riconducibile a una perdita, a
un'arbitraria decurtazione di significato e di presenza. Il segno
esiste in funzione di ciò che deve indicare, ed è costretto a ridurre
la propria consistenza per assolvere questo compito. Il simbolo (da s u m b a l l w, "sumballo", metto assieme) unifica le dimensioni più lontane, le
rende presenti e fruibili, mantenendo la propria credibilità. Per
questo una percezione simbolica fa sì che i sacramenti, l'infanzia, la
scuola, la famiglia, lo scoutismo, pur trovando in altro il loro
inveramento, pur formando al domani, pur invitando al trascendente,
promuovano un'esperienza significativa, proponendo un vissuto che non è
mai né fine a se stesso, né puramente strumentale, e mantengano intatta
l'autenticità e la libertà del presente. È in quest'ambito che
l'educando incontra la possibilità e l'invito a una vera crescita
personale, non abbandonata all'arbitrio, ma originale e comunitaria.

Crescere in una realtà misterica, memoriale e simbolica significa crescere liberamente nella complessità, maturando gli strumenti per affrontare il futuro.


GIAN MARIA e FEDERICA ZANINI


Educatori scout. Redattori di "R/S Servire"- Brescia

Da "famiglia domani" 1/99

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 13:55

EDUCARE, UN PROBLEMA PER TUTTI - 2 Parte

EDUCARE, UN PROBLEMA PER TUTTI

2) Seconda parte

L'obiettivo: il giudizio

L'unica
formazione credibile per l’uomo di domani, per un individuo capace di
affrontare autentici cambiamenti, personali e sociali, è la saggezza. Ma la saggezza è un metodo, non un contenuto; è la capacità di un uomo, non il deposito di una biblioteca.
La saggezza è quella modalità adulta, mai interamente posseduta, che
svela il senso dell'umana maturità e che si fonda sulla capacità di
giudizio. La capacità di giudizio nasce dal sapere, ma non è il
sapere - né quello tecnico-scientifico, rigorosamente consequenziale
nella sua astrattezza, né quello sapienziale, frutto della
contemplazione e della comprensione del Vero -. Conoscenza e sapienza
sono i presupposti del giudizio e ne determinano, per buona parte, la
dualità, ma se ne distinguono, perché la capacità di giudicare è, per
sua natura, un’applicazione. Da un lato facciamo appello alla
nostra cultura - nel senso più vasto del termine (tutto quello che
abbiamo letto, sentito, studiato, vissuto) -; dall'altro impegniamo la
nostra capacità percettiva, per riuscire a cogliere la situazione,
l'oggetto, le persone che ci stanno di fronte e che, qui e ora,
provocano il nostro giudizio. Alla fine c'è sempre la compromissione,
che è sempre un fatto. Questa natura del giudicare - concreta,
pratica, applicativa- comporta una serie di conseguenze di grande
rilievo per l'attività educativa. Troppo spesso si confondono le teorie
o le ipotesi con i giudizi. La con fusione è giustificata perché, lo
ripetiamo, il sapere è ciò che qualifica il giudizio e lo distingue
dall'arbitrio, dall'istintualità, dall'obbedienza. Ma il giudicare non
è fare un’ipotesi, enunciare un principio; giudicare è compiere un
passo in più, un passo decisivo, che ci trasferisce di colpo dal regno
del reversibile a quello dell’irreversibilità: la diagnosi fatta, la
sentenza emessa, la strategia scelta, l'epiteto attribuito potranno
forse essere corretti, sospesi o ritrattati, ma non sono più ipotesi,
sono, irreversibilmente, dei fatti.

Giudicare è quindi scegliere, prendendo delle responsabilità.
Per questo il giudizio non può mai essere frutto di un "sapere", ma è
sempre anche il manifestarsi di un "essere"; per questo giudicando
male, non solo si sbaglia, ma, inevitabilmente, si tradisce. Le
passioni, le speranze, i ricordi, le teorie, l'ignoranza, la
distrazione: tutto interviene nel momento delicato e fuggevole del
giudizio, tutto l'uomo e tutta la storia, in una dialettica che sfugge
a ogni schema. Non è il diritto, che giudica, ma il giudice, non è
l'economia che produce, ma l'imprenditore, non la docimologia che
valuta, ma l'insegnante.

 

Lo strumento: una metodologia "sacramentale"

E
insegnabile la saggezza? Certamente no. Si possono e si debbono creare
le condizioni perché tale "carattere" si conquisti e si eserciti; si
possono denunciare le manipolazioni e combattere gli ostacoli, ma
esiste un confine strutturale, oltre il quale non è possibile
spingersi. Al di là di questo limite si generano solo effetti contrari.
Giudicare, infatti, è sempre e strutturalmente giudicare da sé, cioè per proprio conto, ossia personalmente.
Arduo passaggio, che tutti, e non solo i giovani, rivendicano a gran
voce e che tutti, o quasi, evitano con gran cura. Arduo passaggio che
richiede vasta cultura, fiducia di sé, comprensione degli altri,
pazienza meditativa e pronta decisionalità. Se l'esperienza non
s'insegna e la saggezza non s'impara, è pur vero, però, che è possibile
creare il terreno atto a promuovere e ad alimentare questi doni
preziosi. Il cammino appare angusto, chiuso com'è tra antitesi
apparentemente insanabili: direttività-spontaneismo, ricatto
affettivo-disinteresse…, ma è ipotizzabile una pedagogia del
significato e della libertà, inevitabilmente affidata all'educando, che
generi credibilmente una saggezza adulta. I caratteri di questa
metodologia possono trovare negli elementi portanti della sacramentalità delle indicazioni stimolanti e chiarificatrici.


GIAN MARIA e FEDERICA ZANINI


Educatori scout. Redattori di "R/S Servire"- Brescia

Da "famiglia domani" 1/99

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 13:54

EDUCARE, UN PROBLEMA PER TUTTI - 1 Parte

EDUCARE, UN PROBLEMA PER TUTTI

Ÿ 1) Il futuro della società complessa pone all’educazione una serie di problemi Ÿ Passare dall’"addestramento", dove la pedagogia è centrata sull’insegnante, all’"educazione", centrata sull’educando Ÿ Nessuno educa nessuno, ognuno educa se stesso Ÿ 2) Una metodologia orientata all’acquisizione di modalità adulte di relazione Ÿ Una metodologia "sacramentale" al fine di realizzare un vissuto "misterico", "memoriale" e "simbolico" Ÿ 3) Un modello: lo scoutismo Ÿ Per crescere in libertà nella società complessa, maturando gli strumenti per affrontare il futuro.

1) Prima parte

Il nostro secolo e quello che lo ha
preceduto hanno visto l'affermarsi di nuovi soggetti, di nuove
presenze, che hanno rivendicato un ruolo non più marginale nella
storia. Dalle donne, dalle classi subalterne, dalle popolazioni
decolonizzate è giunta una domanda di formazione massiccia e
destabilizzante. All’impatto quantitativo, ben evidenziato, ad esempio,
dal fenomeno di scolarizzazione di massa, si è aggiunto il
rimescolamento dei valori, la crisi dei parametri culturali,
l'impossibilità di mantenere modelli comportamentali di antica
tradizione. L’accelerazione tecnologica ha completato il quadro,
aprendo possibilità illimitate, ma complicando le prospettive,
moltiplicando le agenzie, sovrapponendo i messaggi e i conferimenti di
senso. Il futuro non promette semplificazioni, anzi; in un contesto
planetario e sempre più accelerato i punti di riferimento sembrano
svanire sotto il peso dell'impotenza. Questa è la sfida che il futuro
presenta all'educazione; un'educazione che può scegliere tra una
strategia di difesa, di adattamento, di rimpianti e di fugaci vittorie
e il rischio calcolato di prospettive non collaudate, ma promettenti,
sorrette da una strumentazione capace di affrontare territori
inesplorati.

I parametri pedagogici e ideali di tale alternativa sono chiari.

Da un lato la miopia monoculturale,
costruita su generalizzazioni affrettate e libresche, rigide nella loro
astrattezza e spesso ignare della stessa complessità originaria della
tradizione che vorrebbero difendere. Di fronte al nuovo tali posizioni
si tingono di apertura e cercano di proporre la panoramica, il
confronto, il dialogo interculturale, ma restano incapaci di uscire
dalla propria strumentazione lessicale e concettuale. Il loro tratto
costante è il malcelato senso di superiorità. Dall'altro l'umiltà
disarmata, tenace e paziente, di chi confida nella scoperta e nella
messa a punto di "valori-problemi transculturali", di chi punta
sull'esistenza di un "umanismo generale", foriero di significati
esistenziali profondi e comunicabili, e capace di relativizzare lo
stesso pluralismo, visto come momento d’introduzione, quando non di
mistificazione, del vero ascolto e della vera integrazione. Questa
posizione si materializza nell'autentico domandare e nella capacità di
comprensione e di silenzio. Se l'alternativa teorica è questa, anche le
implicanze metodologiche dovrebbero presentarsi con sufficiente
chiarezza

Dall'addestramento...

Da un lato una pedagogia
magistrocentrica, contenutistica, centrata prevalentemente sulla
convinzione che l'educazione sia soprattutto un trasferimento di
atteggiamenti, di conoscenze e di convinzioni dall'educatore
all'educando; dall'altra una pedagogia puerocentrica, metodologica,
orientata all'ambiente e all'acquisizione di modalità adulte.

Per semplificare si tratta della differenza tra
addestramento e autoeducazione. L’addestramento, nel suo rozzo
efficientismo, nella sua indiscussa utilità, ha spesso esteso la
propria azione oltre gli àmbiti che lo giustificavano. Il fascino dei
"risultati" gli ha consentito d'imporre non solo i propri metodi, ma la
sua stessa ideologia, soprattutto dove il clima culturale ne favoriva
l’espansione.

L’addestramento è semplice, perché la sua
meccanicità si nutre di sbrigative generalizzazioni. Da un lato si
trovano i "saperi", le abilità, i comportamenti mondi, le tecniche, il
tutto chiaramente posseduto dall'istruttore, valido nella sua
organicità, collaudato nel tempo e arricchito dal fascino
dell'autorità: è tutto ciò che dev'essere trasferito. Dall'altra il
neofita, ansioso di apprendere, o comunque destinato alla
trasformazione, all’arricchimento". Al centro le tecniche, gli
esercizi, la disciplina, le tappe, che costituiscono il sicuro
patrimonio dell'istruttore: una guida che si vuole sempre lungimirante,
attenta, capace di governare il cammino di crescita ben oltre la
comprensione dell’educando. La stia abilità sta nel cogliere i limiti e
le potenzialità di chi gli è stato affidato, nello sfruttare al meglio
le potenzialità e nel superare gli ostacoli. L'abilità del neofita è
nell'obbedienza, nella malleabilità, nell'impegno. Tutto è stabilito;
discuterne rasenterebbe il ridicolo. Che si tratti del tennis,
dell'inglese o della perfezione morale, se l'educando aprisse un
dibattito sulle regole, sui modi, sui contenuti perderebbe del tempo,
uscirebbe dal gioco, o, ben peggio, assumerebbe atteggiamenti
rivoluzionari, destabilizzanti e sempre velleitari…

In realtà ciò che importa a entrambi è il risultato.
La meta agognata è il possesso, sicuro e completo, del "patrimonio" in
questione: una scalata all’"avere", pagata con la trasformazione
dell’"essere". L'addestramento ha senso in una società immobile, con
valori rigidamente formulati, con condizioni educative prevedibili, con
una selezione diffusa e con modelli sociali standardizzati. Il perfetto
esecutore, inevitabilmente senz'anima, è il prodotto più frequente e
apprezzato. Se, però, le condizioni cambiano e i contesti si
complicano, l'addestramento si sgretola, o diventa dannoso. È questa
una verità ben compresa dai militari, che si guardano bene
dall'utilizzare come spie o come reparti speciali delle truppe
semplicemente addestrate. Dove il terreno è ignoto e le decisioni
devono essere originali l'addestramento muore e deve sorgere la
formazione.

…all'educazione

Nessuno
educa nessuno, ognuno educa se stesso. L'espressione è volutamente
provocatoria; se venisse presa alla lettera implicherebbe la
dissoluzione di qualsiasi intervento educativo e, automaticamente,
della stessa umanità. Ciò che in essa interessa, invece, è la chiara
affermazione delle priorità pedagogiche e la garanzia di congruità dei
mezzi da adottare. Per necessità, per coerenza con le sfide dei tempi,
l'attenzione educativa deve spostarsi dalla scienza allo scienziato,
dalla cultura all'uomo, dall'educazione all'educando. Non è possibile
affermare la necessità di un brillante navigatore, in vista
dell'assoluta novità delle future traversate, e poi dedicare la propria
attenzione a rotte conosciute, a una scienza nautica desueta, a una
cantieristica inutilizzabile.


GIAN MARIA e FEDERICA ZANINI


Educatori scout. Redattori di "R/S Servire"- Brescia

Da "famiglia domani" 1/99

Pubblicato in Problematiche Giovanili

Il suicidio degli adolescenti: un problema che ci tocca da vicino

L’argomento è scomodo, ma parlando di disagio giovanile non possiamo fare a meno di affrontarlo.

Il suicidio adolescenziale è
sicuramente oggi uno dei problemi più angosciosi e più rimossi. Proprio
per la sua natura drammatica, inimmaginabile – la vita che si rivolta
contro se stessa – non riusciamo a pensare che il problema ci possa
riguardare. Per difesa o per orrore è difficile realizzare l’idea di un
dolore e una angoscia talmente estremi da sfociare in un suicidio.
Eppure il fenomeno esiste.

Il numero di adolescenti
che tentano il suicidio e il loro progressivo aumento, sono un dato
sicuramente allarmante e, nonostante l’ambiente abbastanza protetto dai
nostri gruppi scout, non possiamo dirci estranei alla cosa.

In tutti i paesi occidentali si
osserva un notevole incremento del tentato suicidio in età evolutiva e
in particolare in adolescenza. Esso rappresenta in Europa la seconda causa di morte fra i giovani,
considerando che le morti accidentali o violente costituiscono i due
terzi di tutte le morti per età considerata (15-25 anni). Negli ultimi
anni, questi numeri preoccupanti hanno indotto la nascita di numerose
ricerche e interventi volti alla prevenzione del suicidio e
all’individuazione dei potenziali fattori di rischio.

L’Unità Operativa di Psichiatria e
Psicoterapia dell’Età Evolutiva dell’Ospedale Maggiore di Bologna, ha
condotto, tramite un "self report" anonimo, una indagine volta a
determinare gli atteggiamenti suicidali, i fattori di rischio e le
associazioni di questi ultimi, negli adolescenti della città.
L’indagine ha interessato un campione rappresentativo di studenti di
diverse scuole superiori cittadine che hanno risposto ad un
questionario.

Le domande sono state strutturate in
modo da determinare l’ambiente di appartenenza della persona (ambiente
familiare, socio-economico, culturale), l’eventuale uso di droghe o
alcolici, il comportamento e l’orientamento sessuale; più una serie di
domande finalizzate alla valutazione dell’autostima, degli stati
depressivi, di sintomi patologici legati alla bulimia e anoressia.
Altre domande riguardavano la rilevazione della generale tendenza
suicidaria, mentre in maniera diretta, alcune erano relative
all’ideazione suicidaria, all’autolesionismo e al tentato suicidio. I
risultati sono poi stati messi a sistema con altri studi e sono state
elaborate alcune conclusioni su cui possiamo soffermarci a riflettere.

Innanzi tutto, è emerso che gli
adolescenti che hanno compiuto atti di autolesionismo sono stati il 9%;
quelli che hanno presentato una ideazione suicidaria, che hanno cioè
pensato di togliersi la vita, sono stati il 19%; quelli che ci hanno
provato il 5% (con una frequenza maggiore tra le femmine rispetto ai
maschi). Cosa vuole dire? Prendiamo un gruppo scout di 100 persone,
consideriamo che ad esempio 40 sono in età da scuola superiore: questo
vuol dire che potenzialmente, stando allo studio, 2 dei nostri ragazzi
potrebbero aver tentato (o tenteranno?) il suicidio. I numeri sono
abbastanza inquietanti.

Quando si verifica un suicidio, la
scelta premeditata e gli impulsi improvvisi relativi a tale gesto, si
combinano tanto intimamente che è molto difficile pretendere, da parte
di chi sopravvive, di comprendere perché un uomo si è ucciso.

Dallo studio compiuto emerge che alla base di tutto c’è il rapporto
familiare, che rappresenta un elemento fondamentale di sostegno emotivo
e un fattore protettivo. La presenza di conflittualità familiare, di
problemi di alcool in famiglia, di abusi con contatto fisico
intrafamiliari, e l’associazione di questi fattori aumentano le
probabilità di un tentato suicidio. La perdita di un genitore può
rappresentare un fattore di rischio significativo.

Risulta quindi fondamentale
l’importanza del funzionamento familiare, ma anche la percezione dello
stesso da parte dell’adolescente: la percezione di buone relazioni
familiari è un fondamentale fattore protettivo. Spesso, infatti, i
tentati suicidi possono essere letti come dei messaggi di aiuto inviati
principalmente ai familiari per ottenere protezione e sostegno.

L’uso
di droghe, ma ancora di più i problemi di alcol e di abuso di farmaci,
sono altri elementi significativi. Una insufficiente relazione con i
coetanei che sfocia in una improvvisa tendenza all’isolamento sociale
rappresenta una fonte di rischio suicidarlo immediato. Il crollo del
rendimento scolastico, le difficoltà di relazione con i compagni e con
gli insegnanti e l’abbandono scolastico rappresentano altre variabili
significative.
Inoltre, altri aspetti che interessano in maniere
significativa i giovani a più alto rischio suicidarlo sono: l’abuso
sessuale, l’orientamento omosessuale, la presenza di un evento
traumatico occorso negli ultimi 12 mesi e i disturbi del comportamento
alimentare. La ripetizione del gesto suicidario nel tempo è considerato
un fattore di rischio gravissimo.

In generale, gli adolescenti con
tendenza al suicidio soffrono di depressione e bassa autostima; questo
si traduce in un senso di inadeguatezza, di paura della maturità e
sfiducia nel prossimo.

Il suicidio è l’ultimo atto di un
lungo cammino nella sofferenza, la parola fine, l’ultima battuta che
non consente il diritto di replica. È una triste evidenza, ma non vi è
nulla da fare se non un' infinita prevenzione. A supporto di questo E’
NOTO CHE IL GESTO SUICIDARIO SPESSO VIENE ANNUNCIATO PRIMA DI ESSERE
REALIZZATO.

E noi capi che cosa
possiamo fare? Non dovremmo sempre pensare che i problemi siano troppo
grandi e che non siamo abbastanza competenti. Intanto, nella nostra
veste di educatori, ma anche di fratelli e sorelle maggiori, oppure
complici, dobbiamo cercare di identificare i fattori di rischio,
leggere i segnali, immaginare le possibilità e attuare tutte le misure
di prevenzione di cui possiamo disporre. Il suicidio è un gesto
drammaticamente solitario che rappresenta l’assenza di relazione. Non
abbiamo quindi paura di parlarne apertamente con i nostri ragazzi,
prendendo ad esempio spunto dai risultati del questionario per
innescare una riflessione. Cerchiamo, inoltre, di favorire i meccanismi
"dell’autoaiuto", anche fra i ragazzi, ovvero la loro capacità di
cogliere nell’altro segnali di sofferenza e di aiutarlo direttamente ad
aprirsi e confidarsi o, indirettamente, cercando di prestare maggiore
attenzione alle sue necessità e richieste.

Non è vero che possiamo fare poco: intuire e suonare un campanello d’allarme, potrebbe fare la differenza.

Il suicidio è un forte segnale di un
disagio che non riguarda solo l’inevitabile fatica del processo di
emancipazione, ma che deve spingere la società intera ad interrogarsi
sulla propria inadeguatezza e difficoltà a comunicare valori e
significati che motivino la vita stessa anziché negarla.

Qualcuno potrebbe obiettare che il
suicidio rappresenta "la massima libertà", noi dobbiamo in realtà che
non dell’infinito delle possibilità vive la libertà, ma della scelta e
dei limiti che essa induce. Il suicidio è assolutamente quello che non
deve accadere. La vita è sacra e con tutte le nostre forze dobbiamo
cercare di trasmettere e comunicare che attraverso la vita ci viene
data un’occasione unica di spenderci per gli altri, trovando in questo
modo la nostra felicità.

Sergio Bottiglioni

Pubblicato in Problematiche Giovanili

Nella società di oggi…

Aspetti attuali del disagio giovanile

 

La nozione di disagio è una delle più
diffuse nei discorsi che riguardano i preadolescenti e gli adolescenti.
Ragazze e ragazzi nell’età dello sviluppo si accorgono inevitabilmente
di queste preoccupazioni diffuse nell’aria che respirano e diventano
inquieti per quello che potrà loro accadere.

Si attiva così una sorta di distorsione percettivaper cui sembra che adolescenti prototipici siano Erika e Omar, o le
ragazzine che hanno ucciso la suora a Chiavenna, o gli sventurati che
si sono "vendicati" di Desirée. Di conseguenza, si dà quasi per
scontato che il "disagio" sia la condizione in cui tutti gli
adolescenti vivono e che il disagio implichi pericolosità sociale.
Esemplare in questo senso la domanda rivolta del figlio di 10 anni – 11
anni ad una mia collega: "Se continuo ad andare agli Scout, posso
saltare l’adolescenza?".

Credo che il problema, innegabile, del disagio di
chi cresce debba essere affrontato in modo più criticamente
sorvegliato. È ovvio che il significato etimologico del termine può
essere attribuito a tutte le situazioni, anche molto leggere, di
"cattivo agio" (e non per mancanza assoluta di agio, sia ben chiaro!).
Ma il campo semantico che gli scambi sociali (dalle conversazioni
quotidiane di ciascuno di noi a molteplici pronunciamenti di "esperti")
hanno attribuito al termine, denota qualcosa di specifico: provocato
dalle cosiddette "nuove povertà", dalla sofferenza psichica, da
conflittualità familiari devastanti, da isolamento e marginalità
sociale, e così via. Uno stato di malessere, dunque, in cui convergono
difficoltà oggettive consistenti e sentimenti soggettivi di non poterle
affrontare.

L’uso incauto del termine, però, ha provocato una
sorta di ampliamento indifferenziato di significato, per cui, nei
discorsi correnti, qualsiasi difficoltà che si incontra nella vita
quotidiana viene considerata portatrice di disagio.

E siccome il processo di crescita implica il dover
affrontare molteplici compiti di sviluppo, si giunge spesso a vedere
ogni fase dello sviluppo, ed in particolare l’adolescenza, come un
momento di grave disagio.

In un mio precedente intervento su questa rivista, a proposito della "formazione del carattere", scrivevo che a
chi cresce deve essere lasciata la responsabilità di misurarsi con i
problemi propri della sua età perché impari a risolverli con i mezzi di
cui dispone.
"Compito dell’adulto non è quello di sostituirsi a
lui, né quello di lasciarlo solo perché si arrangi…". Ora, tutti i
problemi che chi cresce incontra richiedono, per essere risolti,
impegno e fatica. Questa fatica di vivere non equivale tout-court a disagio.Andare a scuola, in sé, può essere faticoso, ma non vuol dire che
equivalga ad un disagio generazionale. Così, imparare la matematica
richiede fatica, ma non è disagio nel senso che si attribuisce al
termine, né lo è essere preoccupati per un compito in classe,
rinunciare ad un incontro con amici per studiare, dormire qualche notte
in tenda, o mangiare cibi non cucinati dalla mamma e così via. È vero
che in certe circostanze personali anche studiare la matematica, ecc.
può implicare un vero disagio, ma ciò avviene in circostanze
particolari ben più gravi dell’avere un compito da affrontare.

Il disagio c’è quando gli e le adolescenti
devono affrontare, da soli, senza alcun sostegno sociale, compiti di
sviluppo "insostenibili" o "quasi insostenibili"
: riorganizzare la
propria esistenza dopo una separazione traumatica dei genitori,
preceduta da astiose esplosioni conflittuali; assumere responsabilità
da adulto dopo un lutto che ha rotto tutti gli equilibri familiari e
provocato gravi preoccupazioni economiche; trovarsi implicati in
relazioni sessuali troppo precoci e prive di una vera dimensione
affettiva. Sono soltanto esempi, tanti altri se ne potrebbero fare.

Anche difficoltà provocate dall’attuale
organizzazione sociale possono provocare situazioni di disagio.
Inserirsi in un contesto, sia esso scolastico o lavorativo, di cui non
si conoscono le regole, non padroneggiando nemmeno il linguaggio
locale, ad esempio, è certamente disagevole.
E tanto più lo è per i bambini le cui famiglie non riescono a risolvere il problema di un alloggio stabile.

Sottoporsi ad uno spostamento quotidiano che implica
levatacce mattutine per frequentare la scuola, non disporre di una
mensa e di un punto di appoggio dove trascorrere le "ore morte",
successive all’orario scolastico e precedenti all’orario dei mezzi per
il rientro, è un altro esempio. Così come sentirsi isolati, privi
di contatti significativi, sentirsi evitati da tutti quelli che si
incontrano in un ambiente che appare ostile.

Non sono, quelle ora citate, situazioni rare, ma
assai diffuse. E questi disagi, da chi vive, comodamente, generalmente
non sono neppure percepiti.

Vale la pena soffermarsi ancora un momento su una
situazione di disagio vera, che concerne la scuola. Abbiamo già visto
che l’impegno e la fatica richieste dalla scuola non sono assimilabili
al vero disagio. Ma è indubitabile che molti ragazzi e ragazze
sperimentino a scuola un vero disagio. Abbiamo già citato il caso dei
pendolari; non solo loro, però, sono in difficoltà.

Gli studiosi parlano di disagio scolastico come
una sindrome di malessere psicologico causato da una non soddisfacente
esperienza scolastica, considerata nelle sue diverse componenti: scarso
rendimento scolastico, insofferenza derivante dall’incapacità di
adattarsi al regolamento scolastico, percezione negativa di sé
derivante sia da confronti con gli insegnanti sulle varie dimensioni
(abilità intellettuali, competenze sociali), sia da confronti con i
propri compagni di scuola, centrati sulle prestazioni scolastiche,
sulle abilità sociali, sull’aspetto fisico, ecc.

I fattori che concorrono a provocare e mantenere la
sindrome sono strettamente interdipendenti: ad esempio; lo scarso
rendimento scolastico non è attribuibile soltanto a carenze
intellettive del soggetto interessato, come si pensava in passato.

Concorrono ad esso, oltre a fattori intellettivi di
cui dispone il soggetto in quel momento dato, quanto si sente
apprezzato dalla famiglia, dai compagni, dagli insegnanti; quanto si
sente ascoltato, quanto la famiglia sostiene il suo impegno, e così
via. Altrettanto si può dire per il modo in cui è percepito il
regolamento scolastico (non conta soltanto quello che sancisce, ma come
è presentato, interpretato ed applicato dal preside e dagli
insegnanti), per i rapporti con i compagni (prevalentemente competitivi
o invece collaborativi), per i rapporti con gli insegnanti (percepiti
come competenti o impreparati sul piano culturali, autorevoli,
autoritari o permissivi sul piano relazionale). L’intera, complessa,
dimensione relazionale dell’esperienza scolastica costituisce il clima psicologicodella classe e dell’istituzione scolastica, clima che contribuisce in
modo preponderante a connotare in termini positivi o negativi la stessa
esperienza scolastica degli/delle adolescenti.

Un gruppo adolescenziale in cui il disagio
è assai diffuso è quello costituito a chi interrompe, in modo
traumatico, l’esperienza scolastica: dai così detti "drop out", degli apprendisti, ai disoccupati che riempiono la giornata bighellonando.
Su
questa categoria di ragazzi e ragazze, che troppo spesso – sino a
quando cioè non assumono comportamenti devianti – risultano
"invisibili" ai più, si dovrebbe aprire una riflessione approfondita,
che non può essere svolta qui. Antidoto al disagio è il sostegno sociale. Ma questo argomento è molto più ampio e sfaccettato, per cui merita di essere trattato da sé.

 

Augusto Palmonari

Psichiatra e Psicologo

Professore Ordinario di Psicologia Sociale

Università degli Studi di Bologna

Pubblicato in Problematiche Giovanili

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