Famiglia Giovani Anziani

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Martedì, 01 Marzo 2005 13:45

EDUCARE AL CAMBIAMENTO - Parte 3/3

EDUCARE AL CAMBIAMENTO

· Interrogativi per un’educazione al cambiamento · Quale cambiamento? · Che cosa significa educare? · Educazione diretta o indiretta? · Quali le difficoltà? · Pro-memoria per ogni educatore.

Terza Parte

UN PICCOLO "PRO-MEMORIA" PER L'EDUCATORE (E PRIMA DI TUTTO PER ME)

Mi permetto di riassumere ed esplicitare ulteriormente il discorso precedente sotto forma di un sintetico pro-memoria.

Negativamente:

non pretendere, educatore, di formare l'altro
secondo un tuo modello precostituito di uomo (sarebbe violenza e per lo
più illusione), ma impegnati a fornire all'altro gli strumenti e a
suscitare la consapevolezza perché sia lui a poter scegliere chi vuole diventare;

non presentarti mai come maestro o guru, diventi
manipolatore se non stupratore delle coscienze, ma poniti come adulto
che si mette a disposizione dell'altro per fare un tratto di cammino
con lui;

non lasciarti sconvolgere dai tuoi errori,
riconoscili, interpretane il messaggio positivo e constaterai che
possono diventare i nostri migliori maestri.

Positivamente:

è indispensabile competenza tecnica sempre da aggiornare, ma insieme passione educativa,
un dato originario fatto di intuizione, slancio, dedizione,
flessibilità, capacità di ascolto, empatia, fantasia, potenzialità che
si possono affinare, ma non creare; se non ci sono in te, è meglio per
te e per tutti... cambiare mestiere;

apprezza sempre apertamente il buono
che l'altro fa e in particolare, se non soprattutto, talvolta, il
superamento di ostacoli suoi, errori e anche scacchi: lo aiuti a
imparare ad affrontare la vita; correggi se necessario, è tuo compito,
però attiva sempre nell'altro la scoperta personale di come
trovare una via di superamento; un buon equilibrio tra apprezzamento e
correzioni è indispensabile perché l'altro acquisisca la misura del
proprio valore;

instaura relazioni sane, quindi conosci al meglio te
stesso, è la condizione per conoscere un po' più a fondo il tuo
interlocutore;

coltiva te stesso e acquisisci la consapevolezza dei tuoi sentimenti perché passano sempre nell'altro e impara a gestirli.

Ricordati soprattutto che prima del ruolo viene la persona,il suo spessore, profondità, umanità. Educare è alla radice una
relazione misteriosa tra l'essere dell'adulto e quello in divenire
dell'educando. Se non esisti come persona non susciti all'essere nessuno

E in quanto cristiano diventa consapevole che tu
semini, ma a far crescere è solo lo Spirito del Signore, come rammenta
Paolo ai Corinzi (1 Cor 3,7). Questo è fonte di senso di responsabilità
e anche di grande serenità.

Sì, amico educatore, proprio di serenità. Tu hai
fatto tutto il tuo possibile, a cominciare dall'arricchimento della tua
interiorità. Semini. In questo tuo possibile è il Signore a lavorare. E affidati, operosamente alla sua Sapienza.
Educare è atto supremo di speranza. Tu lavori per l'invisibile, il
futuro dell'altro che non conosci, che non è nelle tue mani. Dopo aver
seminato fa' come il contadino della parabola, dorme sonni tranquilli
perché sa che non è lui a far crescere e maturare il seme in stelo, poi
in spiga e grano buono. Però semina. Con intelligenza, cura e amore.

 

CARLO CAROZZO

Direttore de IL GALLO – Genova

(famiglia domani 1/99)

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 13:44

EDUCARE AL CAMBIAMENTO - Parte 2/3

EDUCARE AL CAMBIAMENTO

· Interrogativi per un’educazione al cambiamento · Quale cambiamento? · Che cosa significa educare? · Educazione diretta o indiretta? · Quali le difficoltà? · Pro-memoria per ogni educatore.

 

Seconda Parte

EDUCAZIONE DIRETTA E INDIRETTA

Questa distinzione vuole suggerire che non si
educa, ossia non si influenza, in sostanza, l’educando solo quando c’è
un esplicito intento educativo. Messaggi trasformanti (positivi o
negativi) esistono anche quando quell’intenzionalità non ci sia. Anzi,
l’educazione che ho qualificato come indiretta precede, accompagna
sempre, di fatto, quella diretta. I motivi sono parecchi. Ne indico i
principali.

1). Come ci dicono, credo unanimemente, gli studiosi di psicologia i valori si comunicano attraverso un processo di identificazione del
bimbo con figure significativa con cui entra in relazione.Si
identifica, ossia è come se dicesse "io voglio essere come te", e
allora ne interiorizza comportamenti e atteggiamenti. E’ un processo
pre-logico, pre-verbale, inconscio, ma reale. Al punto, mi diceva un
amico psicoterapeuta, che se il bimbo che sta crescendo nell’utero
della madre si sentisse (a torto o a ragione) rifiutato da lei, avrebbe
domani seri problemi di identità e relazionali.

2). Le scienze della comunicazione ci parlano anche di una meta-comunicazione, di messaggi non avvertiti dai sensi che tuttavia vengono avvertiti dall’altro anche se non se ne accorgee influiscono su di lui. Sentimenti di ostilità e di disistima, ad
esempio, passano nell’altro anche se l’interlocutore li maschera assai
bene e magari non si rende conto di provarli.

3). Le ricerche scientifiche, ci diceva a Genova il
dottor Tolomelli (ben noto ai lettori di queste pagine), ricerche mai
smentite da un trentennio, hanno stabilito che da un piano verbale
passa, nel migliore dei casi, un 10% di quello che si dice, mentre il
modo (tono di voce, pause etc) conta per il 30% e la gestualità
addirittura per il 60%. Bel ridimensionamento delle nostre ambizioni
comunicative dirette!

Questi tre dati oggettivi confermano da un lato il
ruolo essenziale della educazione indiretta e per quella intenzionale
evidenziano l'importanza decisiva della qualità della relazione
educatore-educando: se essa funziona male non passa nulla in quanto la modalità della comunicazione prevale nettamente sul contenuto, la cosa detta. La dimensione emotivo-affettiva è tanto importante che se un alunno, per esempio, a torto o a ragione, non si sente(aspetto non razionale) accettato e apprezzato dall'insegnante non
studia la materia anche quando, talvolta, questa gli piacesse. Da ciò
deriva la funzione determinante del clima in cui avviene lo scambio
verbale tra i due protagonisti del colloquio educativo.

CAMBIAMENTO, ASPETTI E DIFFICOLTÀ

Se le considerazioni proposte finora sono
fondate, si capiscono abbastanza, mi pare, le ragioni delle difficoltà
crescenti, forse, incontrate da ogni educatore per suscitare un
cambiamento positivo nell'educando. Provengono certo dal fatto che
frequentemente la famiglia è piuttosto latitante a livello educativo e
dalla presenza di nuovi fattori che influiscono in questo àmbito come
il gruppo degli amici, i messaggi dei media, la diffusa filosofia
individualistico-edonista del nostro tempo. Ma sono anche interne ai vari aspetti del cambiamento che si intende indurre nella persona in via di formazione.

C'è la dimensione intellettuale dove si tratta non solo di trasmettere conoscenze rigorose ed organiche, ma di suscitare il desiderio di imparare e la consapevolezza di quello che si sa.

C'è la dimensione etica dove contano certo i
valori trasmessi, ma questo implica la credibilità ed il fascino delle
figure di identificazione: sono figure di adulti? Di più: occorre
favorire la formazione della coscienza, di una sensibilità moraleper gran parte controcorrente rispetto alla mentalità oggi dominante e
di porre i presupposti, o almeno il problema, della necessità del discernimentotra ciò che, in concreto, ti fa crescere in umanità, da quanto ne è
ostacolo, se non una smentita. Di nuovo: ci sono adulti capaci di
accompagnare in questa direzione, invece di accontentarsi di predicozzi
o condanne che lasciano il tempo che trovano?

C'è infine la dimensione interiore, personale, ossia l'acquisizione della disponibilità a cambiare se stessimigliorando la qualità del proprio essere. E su questo piano profondo,
ma decisivo, le difficoltà sono di peso rilevante perché tutti abbiamo
sperimentato dal vivo le resistenze a cambiare dentro di noi atteggiamenti che allontanano dall'umano.

Certo, noi cristiani sappiamo che è la Grazia a
convertire il nostro profondo, ma Dio non opera magicamente, bensì
dentro e attraverso il nostro impegno. Se questo non c'è, l'agire di
Dio è, per così dire, bloccato.

CARLO CAROZZO

Direttore de IL GALLO – Genova

(famiglia domani 1/99)

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 13:43

EDUCARE AL CAMBIAMENTO - Parte 1/3

EDUCARE AL CAMBIAMENTO

· Interrogativi per un’educazione al cambiamento · Quale cambiamento? · Che cosa significa educare? · Educazione diretta o indiretta? · Quali le difficoltà? · Pro-memoria per ogni educatore.

Prima Parte

Oggi il mondo cambia a vista d’occhio sotto
l'aspetto economico, tecnico-scientifico, politico, sociale, culturale
secondo un ritmo addirittura vertiginoso. E’ possibile non proporsi di
cambiare personalmente in una società che cambia? Anche, se uno lo
sceglie. Il prezzo, però, è la progressiva estraniazione dalla società,
e per i nostri figli di trovarsi nel domani più prossimo del tutto
impreparati ad affrontare la vita, finendo nel disadattamento, con
tutto quello che solitamente ne consegue. E’ quindi un atto di lucidità
e di preveggenza scegliere di educare (ed educarsi!) al cambiamento. Quale,
però? Secondo quale concezione della vita? In vista di quali obiettivi?
Consapevoli dei rischi che certi cambiamenti comportano a livello
umano? Questioni da capogiro eppure urgenti, urgentissime. Altrimenti
il cambiamento si limiterà a preparare gente capace di riciclarsi per
trovare qualche lavoro, riducendo la persona a rotella della macchina
produttiva e conformista.

Quale cambiamento, dunque, in
quell'ambito delicatissimo dell'educazione? Per chiarezza, preciso
subito di ispirarmi ad una visione personalistico-relazionale e penso
ad un futuro cittadino che sia anzitutto un uomo capace di discernere quello che lo costruisce da quanto lo distrugge. Una riflessione, quindi, non neutrale, bensì orientata.

QUANDO DICO EDUCARE

Distinguo, anzitutto, istruire dall'educare.
Anche se il primo può avere riflessi più ampi e significativi
sull'educando attraverso la personalità dell'insegnante, di per sé, e
nel caso migliore, è una comunicazione di conoscenze che mira, insieme
col rigore del dati conoscitivi, alla formazione del senso critico in
un determinato settore, il secondo ha una dimensione più vasta e direi
più profonda.

A mio avviso, educare è l’arte di accompagnare l’altro in modo che diventi adulto e questo si realizza instaurando con lui relazioni sane e significative attraverso la chiarezza dei ruoli.
È una caratterizzazione (non una definizione perché non sono un
pedagogista) nata dalla esperienza e dallo studio, dove i vari termini
sono almeno ambivalenti ed è quindi indispensabile precisarne il senso.


  • Arte, implica la
    conoscenza dei suoi principi e regole, ma pure fantasia, intuito,
    creatività, come già accade per un buon artigiano.
  • Accompagnarepresuppone da un lato il rifiuto della pretesa e tentazione di plasmare
    l'educando secondo un modello rigido e precostituito, e, dall'altro, di
    conseguenza, la scelta e la capacità di modulare l'agire educativo
    sulla reale persona in fieri che si ha di fronte,
    sollecitandola ed orientandola perché tiri fuori progressivamente le
    proprie potenzialità (educare, dal latino "educere", appunto estrarre)
    affinché fiorisca il proprio essere originale. Questo "farsi compagno",
    naturalmente, cambia secondo l'età dell’educando: ai bimbi, per
    esempio, si comunicano regole, dei "no", pochi, precisi, su cui essere
    fermissimi affinché facciano presto l'esperienza del "limite come
    ordine", e dei "si" sollecitanti ed appaganti; a un ragazzo si
    motiveranno e si parlerà anche di "valori", ad un adolescente si
    tratterà di ascoltare con estrema attenzione inquietudini e
    contestazioni…
  • In modo, è forse una delle parole più decisive perché indica la qualità della presenzaall’altro. Se fosse sbagliato, se comunque provocasse rifiuti continui
    sarebbe sterile e diseducativa. Richiede certo competenza tecnica, ma
    pure qualcosa che di per sé nessun metodo può dare, appunto una fine
    sensibilità umana, il senso forte dell’altro come persona.
  • Diventi è un
    verbo che richiama al fatto che l'evoluzione psicologica naturale del
    piccolo dell'uomo non perviene automaticamente allo stadio adulto. Alla
    nascita l'umano è in noi una potenzialità che si svilupperà al meglio
    unicamente se immersa in un sistema di relazioni significative e se
    orientata e stimolata da presenze autorevoli. Umani lo si diventa
    attraverso un processo che, a rigore, dura forse tutta la vita.
  • Adulto,
    probabilmente, è il punto più controverso e dove maggiormente si coglie
    l'influenza della filosofia, esplicita o meno, cui ci si riferisce. A
    mio avviso, e tenendo conto degli apporti di alcune psicologie, si
    arriva allo stadio adulto quando si raggiunge un buon livello di autonomia, quindi di libertà interiore, il presupposto per assumere la responsabilitàdella propria vita, acquisire la capacità di individuare qua e ora
    quale sia la decisione da prendere per costruire se stessi e realizzare
    relazioni sane, ossia non possessive e dominatrici (almeno come
    atteggiamenti prevalenti, di nessun purismo angelicante).Questo
    richiede la costruzione di una identità aperta: io sono me
    stesso, consapevole di me e mi incontro con te senza con-fondermi con
    la tua persona e proprio perché sono chiaro con me, saldo in me,
    separato da te (io sono io e tu sei tu) posso venire da te senza mire
    conquistatrici o di sottomissione a te; e ti do qualcosa della mia
    ricchezza, ricevo qualcosa dalla tua, poi ciascuno riprende il suo
    cammino personale, animato e vivificato da questa presenza
    interiorizzata, in attesa di un altro incontro. In fondo, l’orizzonte è pervenire alla gioia di essere sé.Non è individualismo, è consapevolezza umile del proprio valore.
    Evangelicamente è la gioia di essere un dono che Dio fa anzitutto a me
    (sono figlio!) e congiuntamente per l’altro verso cui andrò o la cui
    iniziativa accoglierò.
  • Relazioni sane e significative, è
    congiuntamente la sostanza e la via dell’educare. La persona è
    relazione costitutivamente. Ma, di solito, la relazione educativa,
    l’inter-agire tra educatore ed educando, sarà costruttiva, infonderà
    all’altro fiducia, stima di sé, amore per la vita, voglia di crescere
    quando sperimenterà di essere trattato così dall’educatore.
  • Chiarezza dei ruoli: è
    un aspetto oggi a mio parere da ribadire. L’educatore, sia insegnante o
    genitore, è qualcuno con una responsabilità e compito precisi,
    l’autorità, se non sa di vecchiume questa parola (autorità, dal latino
    "augeo" significa "far crescere", non dominare!); i ruoli
    dell’educando, alunno o figlio, sono di accogliere e mettere in pratica
    indicazioni e suggerimenti dell’educatore, e, in certi casi, di
    "ubbidire" alle sue decisioni, anche se non gli piacciono, perché la
    responsabilità educativa è del primo. Genitori o insegnanti "amiconi"
    provocano disastri. Confondono l’altro perché lasciano pensare ad una
    parità di capacità e di "potere" che non c’è, lasciano l’educando
    nell’insicurezza perché egli ha bisogno di figure adulte di
    riferimento, amorevoli, ma adulte; poi, magari, le contesterà, è
    fisiologico, ma da loro ha attinto atteggiamenti e valori che, in
    seguito, riscoprirà in modo personalizzato, adatti a sé.

CARLO CAROZZO

Direttore de IL GALLO – Genova

(Famiglia domani 1/99)

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 13:42

SCENARI DI REALTÀ GIOVANILI

SCENARI DI REALTÀ GIOVANILI

· "Venite fuori, se ci siete!" · Una generazione invisibile? · Giovani
"contro", giovani "senza", o giovani "dentro"? Comunque, giovani
"ricchi", che cioè vivono spesso in uno scenario di ricchezza
· Un’alleanza educativa per progettare, insieme, il futuro…

L’intervento del commissario europeo Mario Monti ha animato l’estate del 1998. Ecco le sue parole: "Vedo
che si parla di sciopero generale, ma io dico che se c’è uno sciopero
che sarebbe giustificato, dovrebbe essere lo sciopero generazionale.
Senza cambiamenti radicali i giovani di questo Paese andranno incontro
a un futuro con garanzie e speranze lontane da quelle di loro coetanei
europei
". Strano, avrà forse pensato qualcuno, un esponente della generazione dei "vecchi" sollecita i giovani alla ribellione?

Una fotografia sfuocata

Fino a qualche tempo fa la tendenza era
quella di addomesticare le nuove leve: "dobbiamo farli stare buoni",
esortava un Preside di un Istituto superiore della mia città all’inizio
degli anni ’80, presentandomi le classi della sua scuola. Ora no. Li
provochiamo: "Venite fuori, se ci siete!". A noi piacerebbe avere una
fotografia nitida dei giovani, specie quando questi giovani sono i
nostri figli. Invece la fotografia è sfuocata. A volte non si riesce
neppure a scattare un fotogramma: scappano, si sottraggono ad ogni
indagine. Che rabbia!

* * *

Oggi, anche il genitore più sprovveduto non potrebbe
far proprie le parole che cent’anni fa Collodi metteva in bocca a
Geppetto per giustificare la sua voglia di un figlio: "ho pensato di
fabbricarmi da me un bel burattino di legno; un burattino meraviglioso,
che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali… Con
questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane
e un bicchiere di vino…". Già allora, quella semplicistica previsione
si trasformava in pinocchi, in una odissea tra generazioni che si
allontanano per poi ritrovarsi del tutto diverse dalle aspettativa
iniziali. Figuriamoci oggi. Basta pensare alle nostre attese davanti
alla culla in cui la sera adagiavamo i nostri figli: molto è cambiato
sia in noi che nella società intorno a noi.

Scioperare, perché mai?

Se scioperare significa "astenersi dal
lavoro" è chiaro come l’astensione proclamata dal professor Monti è
stata soprattutto uno stimolo alla riflessione sui temi del lavoro e
della previdenza. Da quell’intervento sono nati contributi che, da
diverse angolazioni, hanno analizzato questa "generazione invisibile"
(I. Diamanti). Abbiamo letto di "gioventù punita", di "eterni Peter
Pan", di "tribù di formiche", di "generazione senza"… Anche se per poco
tempo, i giovani sono stati all’attenzione dei mass media.

* * *

Scioperare significa anche esserci, agire contro
qualcuno o qualcosa, in una forte contrapposizione di interessi o di
valori. Ma i nostri figli –parliamo tra genitori ed educatori
occidentali- possono essere definiti "figli contro"? Non sono piuttosto
figli "nati per comprare", secondo un’espressione di Nadine Gordimer?
Da qualunque posizione ideologica li guardiamo, si può dire che i
giovani di fine millennio non sono nati per essere "contro". Sono
giovani che si ritrovano con molte possibilità fin dalla nascita:
studiano, si incontrano con coetanei di paesi lontani, hanno occasioni
molto più ampie rispetto a quelle di giovani di inizio secolo o anche
solo di cinquant’anni fa. Sono giovani "dentro". Spesso annoiati per le
troppe occasioni a disposizione e che godono, in prevalenza, di risorse
economiche rilevanti: giovani ricchi che partecipano al consumo di
ricchi genitori. Questi consumano 16 volte tanto rispetto ai genitori
dei paesi poveri…

Il "Rapporto sullo sviluppo dell’Umanità del1998"
del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite elenca i consumi dei
ricchi rispetto ai poveri del mondo.

Carne, 11 volte tanto.

Pesce, 7 volte tanto.

Carta, 77 volte tanto.

Linee telefoniche, 49 volte tanto.

Automobili. 145 volte tanto.

Energia, 17 volte tanto.

Consumo complessivo, 16 volte tanto, appunto.

* * *

I giovani italiani vivono in questo scenario di
ricchezza, anche se con en noti divari tra zone geografiche, specie tra
Nord e Sud. Sono poi cresciuti, in prevalenza, secondo la filosofia del
riscatto: "Mio figlio non deve patite quello che ho subìto io!". Gli
assetti economici e sociali del nostro paese sono profondamente
cambiati in 60 anni; basti ricordare il grande balzo in avanti compiuto
dall’economia italiana negli anni ’50 e ’60, con tassi di crescita del
reddito vicini al 6% pari a quelli della Germania e secondi solo al
Giappone: il cosiddetto "miracolo italiano", fatto di una felice
congiuntura internazionale, ma anche del tenace lavoro di tanti papà e
mamme che, impegnandosi anche il sabato e la domenica, sono riusciti a
conquistare un lavoro, la casa. Una posizione economica tranquilla. Il
tutto con una velocità mai registrata prima: ci dicono gli esperti che,
nel solo quindicennio 1948/1963, i consumi degli italiani sono
raddoppiati. E’ quello il periodo in cui le cucine all’americana
soppiantavano le madie, e il festival di Sanremo diventava l’argomento
principale nelle fabbriche e negli uffici.

* * *

Questo passaggio rapidissimo da una realtà agricole
ad un assetto post-industriale, giocato sul terziario avanzato che
spinge continuamente alla ricerca, al nuovo e alla mobilità, spiazza
soprattutto i grandi: "Ma come? Ho trovato un lavoro qui, vicino a
casa… Non è possibile che mio figlio debba trasferirsi per trovare uno
straccio di occupazione!". Se poniamo poi attenzione agli intrecci tre
stati, nazione ed etnie che si stanno verificando sentiamo quasi paura
ad "uscire di casa"… Di qui la prassi, non sempre necessitata, di
tenere a lungo i figli in casa, in attesa del posto "giusto". L’invito
del commissario Monti ha avuto il pregio di porre l’attenzione sul
ruolo che deve essere assicurato alla nuove generazioni in una società
che è profondamente cambiata; non possiamo fare dei nostri figli dei
"panchinari", né possiamo esserne i tutori a vita.

L’alleanza educativa

"… seguirono le pietruzze, che brillavano

come monete nuove di zecca e mostravano loro la via.

Camminarono tutta la notte

e allo spuntar del sole arrivarono alla casa paterna (…)

Quando sorse la luna, si alzarono,

ma non trovarono più neanche una briciola:

le avevano beccate i mille e mille uccellini

che volavano per campi e boschi (…)"

(Hansel e Gretel).

C’è , a volte, nei genitori, un conflitto: da un
lato la tentazione di abbandonare i propri ragazzi nel "bosco" della
vita e, dall’altro, il desiderio di esserne un eterno scudo. Càpita di
capire ben poco della confusione che si sente, e si vive, camminando
ogni giorno sulle strade. "Papà, vado al cinema con gli amici" - ci
avverte deciso nostro figlio adolescente. Le risposte possibili:

"Va bene";

"No, stai a casa";

"Che film è? Prima lo vediamo io e tua madre… leggeremo qualche recensione… Poi ne parleremo insieme e decideremo".

E’ quest’ultimo l’atteggiamento educante, dove
l’adulto svolge la sua funzione di aiuto e consente il passaggio ad un
gradino superiore del rapporto genitori/figli; da dispensatori di
servizi (l’abitazione, il cibo, gli svaghi…) ad alleati nell’elaborare
risposte alle domande della vita. Si comincia anche da qui a rimediare
al ritardi con cui i giovani sembrano affrontare gli snodi tipici della
vita rispetto al passato: l’uscita da casa, il lavoro, il matrimonio, i
figli (M. Livi Bacci).

Questa alleanza ha, ovviamente, anche un versante
politico per riportare ad un equilibrio fisiologico il rapporto tra le
generazioni: le politiche, giovanili, da più parti invocate, possono
aiutare in questa direzione, facilitando l’ingresso nel mondo del
lavoro e consentendo l’accesso al credito e alla casa.

* * *

Ciò che i nostri ragazzi reclamano, spesso con un
silenzio immusonito, è potersi confrontare con dei "grandi" credibili,
ovvero con adulti che non chiudono loro la bocca invocando un desueto
"principio d’autorità". Ma nemmeno si mettono a fare i "pari età". Se
ci interessano i giovani d’oggi non è solo per ottenerne un quadro
d’insieme per una "foto ricordo", ma per capirne le domande: le più
importanti sono quelle che chiedono motivazioni e storia agli
adulti. Vogliono infatti confrontarsi con gli stili, gli atteggiamenti
e i valori dei grandi. Reclamano di sapere dagli adulti la ragione
delle scelte, personali e sociali, che sono state compiute. Vogliono
essere aiutati a capire che cosa è accaduto prima di loro. Altrimenti
non avranno né sassolini né briciole da seguire. E senza un passato è
difficile progettare un futuro.

GIORGIO NOTARI

Avvocato - Direttore del Consultorio familiare e prematrimoniale

Diocesi di Reggio Emilia

(da "famiglia domani"2/99)
Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 13:41

Sperimentare ozio e noia - Parte 3/3

SCRITTORI IN CATTEDRA RACCONTANO I GIOVANI

Chi lavora nella scuola 
vive a stretto contatto con bambini e ragazzi e osserva, da vicino, le 
difficoltà che questi hanno nel gestire il tempo libero. È la società 
che teme il "non far niente" e spinge a organizzare ogni singola 
giornata.

(Terza parte)

Proprio per "parcheggiare" i figli, in realtà
 metropolitane come quella di Collegno (To), sempre più famiglie 
scelgono il tempo prolungato: "Vedo quotidianamente dei bambini 
stressatissimi, che stanno a scuola dall'alba al tramonto, mentre a 
casa si limitano a cenare. Sono così abituati ad essere "gestiti" dagli
 adulti in ogni singolo momento della giornata, che all'intervallo sono 
allo sbando, perché quasi non sanno muoversi da soli".

Quella descritta da Pent è una realtà particolare o caso emblematico? A Reggio Emilia, dove hanno gli asili d'infanzia
più belli del mondo, insegna Giuseppe Caliceti: "Temo che, se non è la
 norma, è comunque una situazione diffusa. I bambini non hanno occasione 
di compiere esperienze legate all'autonomia e quindi alla frustrazione 
nei rapporti. Non è giusto che ci sia sempre un regolatore, un giudice, 
un adulto che ogni volta appiani le difficoltà". Perché accade questo?
" se è presente un adulto, il bambino è portato a fare cose che fanno
 piacere all'adulto. C'è una preoccupazione eccessiva da parte dei 
genitori, soprattutto di quelli italiani. In una realtà multietnica 
come è sempre più quella della mia città, constato che le mamme arabe,
 africane o sudamericane tendono ad assegnare più responsabilità ai bambini, sono meno apprensive, per esempio li mandano a scuola da
 soli".

Anche Caliceti punta l'indice contro il tempo 
prolungato: "Otto ore al giorno tra le mura scolastiche sono quasi
 peggio del lavoro minorile agli albori della rivoluzione industriale, 
anche se ovviamente oggi non si tratta di sfruttamento ma di 
formazione".

Infine, Beppe Sabaste, docente all'Università di
 Parigi, ma anche in un istituto d'arte a Parma, sostiene che il 
problema del tempo libero dei ragazzi va affrontato nell'ambito di un 
discorso più ampio sull'intera società: "In questo non c'è separazione
 tra giovani e adulti. La nostra è una società che ha paura del tempo 
morto, "disoccupato". Si ha timore di un tempo in cui tutto è 
possibile, anche non fare niente. La società in cui viviamo tende a 
riempire ossessivamente il tempo con cose organizzate. Per gli adulti è 
senz'altro così". E per i ragazzi? "Sono più ottimista. Incomincio a
 notare persone che si sottraggono a questa tendenza. Gli adulti sono 
più timorosi, ma tra i giovani ce ne sono molti che rifiutano 
l'equazione "tempo uguale consumi".

Mi sembra di assistere agli inizi di una grande 
liberazione, a una riappropriazione del tempo dopo la sua saturazione".
Conosciamo bene Beppe Sebaste come un intellettuale sempre acuto e 
penetrante nelle sue analisi. Ci piace dunque concludere con una sua
 nota di speranza, che vede per protagonisti proprio i ragazzi.

Roberto Carnero

 

 

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 13:03

Sperimentare ozio e noia - Parte 2/3

SCRITTORI IN CATTEDRA RACCONTANO I GIOVANI

Chi lavora nella scuola vive a stretto contatto con bambini e ragazzi e osserva, da vicino, le difficoltà che questi hanno nel gestire il tempo libero. È la società 
che teme il "non far niente" e spinge a organizzare ogni singola 
giornata.

(Seconda parte)

Alessandro Tamburini, che insegna in un istituto 
tecnico di Trento, parla di una sostanziale carenza di tempo libero:
"Nei colloqui con i genitori noto come questi ragazzi non abbiano tempo
 per se stessi, essendo le loro giornate fittamente occupate dallo
 studio, dallo sport, da corsi di vario genere". Non esiste dunque
 alcuno spazio di libertà? "Forse la musica è un'attività scelta 
autonomamente, una delle poche davvero libere. Dico sia ascoltarla che 
farla, con gli amici, con gruppi che nascono a partire da un'autentica
 passione". Tamburini evidenzia poi un aspetto positivo della provincia:
"I ragazzi che vengono dai paesi perdono molto tempo nel viaggio, ma 
guadagnano anche qualcosa, perché lì esiste un tempo libero legato al 
territorio, per esempio nel rapporto con la natura, che i loro compagni 
cittadini non conoscono".

Marco Lodoli, che insegna in un istituto superiore
 della Capitale, parla dell'incapacità dei ragazzi di stare soli: "Mi
sembra che non sappiano vivere quei momenti di solitudine formativa 
così importanti per crescere. Affrontano la solitudine con angoscia.
 Non vogliono stare soli, e, quando capita, lo vivono come una condanna, 
non come una fortuna". In passato era diverso? "Credo di sì. Ricordo 
che da ragazzo avevo il piacere di chiudere la porta della mia stanza
 per viaggiare in spazi poetici e malinconici. Oggi quest'attitudine è
 scomparsa e al massimo viene vissuta come una sorta di domicilio 
coatto".

Ma non sarà un po' colpa dei genitori? Per Paola 
Mastrocola, insegnante alle superiori a Torino, è proprio così: "Sono
gli adulti ad avere paura della noia dei propri figli. Di fronte alla 
frase di un figlio, "Mamma, non so cosa fare", noi adulti andiamo nel 
pallone. Se avessi la pazienza di aspettare mezz'ora, vedremmo che
 nostro figlio troverebbe qualcosa da fare. E sarebbe qualcosa di suo, 
di creato da lui". Per la Mastrocola questo atteggiamento distorto dei
genitori emerge con tutta evidenza in vacanza: "Abbiamo l'abitudine di
 portare in vacanza con nostro figlio un suo amico. È una sorta di
 prevenzione della noia. Facciamo venire l'amico con cui litigherà. Non 
le sembra che tutto ciò sia piuttosto bizzarro?"

Allora come dovrebbero comportarsi i genitori?
 Carmine Abate, che insegna alle medie nei pressi di Trento, suggerisce
la chiave della piacevolezza come criterio per orientare i pomeriggi 
dei ragazzi: "Non è sbagliato introdurre delle attività organizzate, 
l'importante è che siano i diretti interessati a sceglierle e che non
 siano invece un'imposizione da parte dei genitori".

Per Abate va poi riscoperta la dimensione dello 
stare insieme: "Nelle grosse città è sempre difficile, ma bisognerebbe
recuperare tutta una serie di cose semplici, come il chiacchierare, 
l'andare a passeggio con gli amici, il giocare in maniera spontanea, 
mentre oggi anche il gioco è sempre più pilotato dagli adulti".

Questi problemi, in realtà, iniziano già alle 
elementari, come confermano alcuni scrittori "maestri". Per Fulvio
 Panzeri, insegnante in Brianza, sono i genitori che, per necessità o
 comodità, delegano ad altri l'amministrazione del tempo libero dei
 propri: "Così spesso vedo bambini che svolgono attività non 
corrispondenti alle loro attitudini né ai loro desideri, quasi come se 
fossero stati messi in una sorta di parcheggio. Una salvezza da questi tour de force di tempo non più libero sono i nonni, con i quali si rafforza il legame 
affettivo dei piccoli. Anche se il rischio è che diminuisca il dialogo
 con i genitori".

Roberto Carnero

 

 

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Martedì, 01 Marzo 2005 12:52

Sperimentare ozio e noia - Parte 1/3

SCRITTORI IN CATTEDRA RACCONTANO I GIOVANI

Chi lavora nella scuola vive a stretto contatto con bambini e ragazzi e osserva, da vicino, le difficoltà che questi hanno nel gestire il tempo libero. È la società che teme il "non far niente" e spinge a organizzare ogni singola giornata.

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Martedì, 01 Marzo 2005 12:49

Sentimenti Violati

"Sono un’insegnante di scuola media e sto avendo l’impressione sempre più forte che si parli troppo poco degli abusi psicologici e della sottile violenza sui sentimenti nei confronti dei minori."

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Martedì, 01 Marzo 2005 12:48

I giovani chiedono coerenza

Formare le coscienze non è impresa di poco conto. Lo sanno molto 
bene gli educatori e i genitori che sono alle prese con adolescenti da 
orientare nella vita sociale e con giovani che sono alla ricerca di
 forti motivazioni esistenziali.

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Martedì, 01 Marzo 2005 12:43

2 - Giovani e rischio

Rischio, trasgressione, sfida, gioco pericoloso, sembrano essere diventate le 
parole chiave per descrivere alcuni comportamenti degli adolescenti. L’adolescenza è un momento in cui il 
ragazzo desidera "rischiare". Ogni volta che si supera un’esperienza
potenzialmente pericolosa, ci si sente potenti, accettati, infallibili.

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