Formazione Religiosa

Venerdì, 30 Novembre 2007 23:45

Dall’idolo dell'efficienza alla pura azione di Dio (Severino Dianich)

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Lavoro e riposo

Dall’idolo dell'efficienza
alla pura azione di Dio

di Severino Dianich

Tutte le cose che il cristiano fa sono realtà dedicate a Dio specie se sono dirette al bene dei fratelli. L’efficienza rappresenta oggi il criterio base del lavoro; ma se essa diventa un idolo, dobbiamo opporgli la pura adorazione di Dio, la contemplazione. E’ sintomatico che l’azione liturgica raggiunga il suo scopo non per la nostra efficienza ma solo per grazia.

Tutti coloro che sul nostro pianeta, nelle più diverse culture e civiltà possono godere di un giorno, ogni sette, libero dal peso del lavoro dovrebbero sentirsi debitori verso Mosè, o chi per lui nell’Antico Testamento ha inventato l’istituzione della settimana e del sabato. «Domani è sabato, riposo assoluto consacrato al Signore», disse Mosè ispirato da Dio in Es 16,23. Non che gli altri giorni, quelli dedicati al lavoro, non debbano essere consacrati al Signore, ma così il tempo dell’uomo resta scandito dal ritmo armonioso del lavoro e del riposo, dell’azione e della contemplazione.

Gesù ha infranto il confine fra luoghi profani e luoghi sacri, fra tempo sacro e tempo profano. La sua azione più sacra, nella quale è culminata la sua opera sacerdotale di redenzione dell’umanità, fu compiuta nella profanità più brutale, quella della sua uccisione come di un delinquente condannato a morte: fuori del tempio della città santa, come fuori del tabernacolo e dell’accampamento - dirà la Lettera agli Ebrei - venivano bruciati i resti degli animali sacrificati.

Allo stesso modo tutte le cose che il cristiano fa, unito a Cristo, nell’adempimento del suo dovere sono atto sacerdotale, realtà sacra degna di essere dedicata a Dio. Anche se siamo soliti chiamare “giorno del Signore” il giorno della festa, questo non significa che i giorni del lavoro non siano di Dio e non debbano essere vissuti come sacri e dedicati a lui.

Il lavoro e l’efficienza

È dovere fondamentale di ogni uomo guadagnarsi il pane lavorando. San Paolo lo dice espressamente: «Chi non vuoi lavorare neppure mangi» (2Ts 3,10). Ora il primo criterio in base al quale giudicare il valore del lavoro e, quindi, anche quella dignità per la quale può essere dedicato a Dio, è il criterio dell’efficienza: l’azione vale in quanto uno realizza lo scopo che si era proposto, e questo dipende dalla scelta e dall’utilizzazione, compiuta in base alle competenze possedute, di un mezzo adeguato al fine inteso. E qualcosa di molto razionale, ben calcolato, che richiede il possesso dell’arte o del mestiere.

Non ci si stupisca se questo carattere così umano, quasi economico, debba essere considerato in ordine al rapporto con Dio: tanto la vita cristiana manifesta la presenza del suo amore fra gli uomini quanto i credenti alla sequela di Cristo compiono realmente e concretamente il bene dei fratelli e della società. La più pura e religiosa delle intenzioni non redime dal fallimento l’opera compiuta con inettitudine, sì che non raggiunga lo scopo al quale dalla sua stessa natura era destinata. L’offerta prescritta dall’antico rituale di Israele doveva essere perfetta: «Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno» (Es 12,5): non si dona a Dio un animale zoppo! Gesù a sua volta ha detto che ci giudicherà se noi, incontrandolo nella persona dell’uomo affamato, gli avremo dato da mangiare; non ha detto: Avevo fame e avete pregato per me (cf Mt 25,35s). Solo nel caso in cui l’insuccesso colpisca dal di fuori, imprevedibile e accidentale, l’opera attinge un altro valore, quello dell’assimilazione al Cristo in croce e allora sarà la sofferenza del fallimento ad essere degna di essere offerta a Dio.

Proprio perché siamo particolarmente tentati di ridurre tutto il valore della nostra vita unicamente all’efficienza, le cui possibilità vengono esasperate dalle tecniche prodigiose di cui siamo dotati, oggi più che mai abbiamo bisogno di un’alternativa. Quando il lavoro diventa il tempio e l’efficienza tecnologica un idolo, abbiamo bisogno di opporgli la pura adorazione di Dio, non come ritorno al sacro, ma proprio come desacralizzazione delle sacralità mondane.

Azione e contemplazione

L’alternativa ci è stata offerta da Mosè (Dt 5,12-15): «Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bue né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato». Di sabato tutto si arrestai si interrompe il lavoro di ognuno, dell’israelita, dello schiavo, del forestiero, della bestia e si entra nello spazio di Dio che ha liberato Israele dalla schiavitù del lavoro al servizio del faraone. La quiete universale è il luogo della libertà, là dove Dio agisce, mentre l’uomo è libero dall’obbligo, dal calcolo, dalla fatica. Così ogni sabato è in qualche maniera una teofania: il grande universale riposo rende vuoto lo spazio e il tempo e in questo vuoto il divino può manifestarsi.

In questo spazio vuoto ha luogo la liturgia domenicale. Anch’essa a suo modo è un’azione che richiede una sua efficienza: tanto per banalizzare, in chiesa l’impianto di amplificazione deve funzionare. Ma la liturgia è essenzialmente contemplazione fine a sé stessa. Non c’è un vero e proprio scopo da raggiungere né, se ce lo volessimo prospettare, alcun mezzo per verificarne il raggiungimento. Non si dà nessuna proporzione fra mezzo e fine: cosa è mai una genuflessione, un canto, una lettura o lo stesso mangiare il pane eucaristico rispetto alla comunione col Signore e tra i fratelli che l’eucaristia promette e realizza?

Guardini a suo tempo, in buona compagnia con Ruizinga e Ugo Rahner, ci ha insegnato il valore di questo momento nel quale l’homo faber cede il posto all’homo ludens, l’azione alla contemplazione, la tecnica alla dossologia, l’impegno operativo alla preghiera. L’ostentata interruzione del lavoro, cioè di quei processi di attività nei quali gesti e cose vengono misurati in base alla loro utilità, per riposare nello spazio dell’”inutile”, giocare nella celebrazione e nella lode di Dio, libera la comunità dalla tensione dell’efficienza e la apre all’accoglienza della pura azione di Dio. Nella tacitazione dell’attività umana si rende udibile la voce del “totalmente Altro” e si fa percettibile la sua presenza. Così appare chiara la coscienza di fede della comunità che percepisce il rito sacramentale come una pura actio Dei. Il sacramento, infatti, non raggiunge il suo scopo per la mia efficienza, ma solo per grazia. L’evidente e clamorosa nullità dell’azione liturgica, semplice gioco rituale, esprime la purezza dell’attesa che Dio si manifesti e sia lui solo a operare in noi.

* docente emerito della Facoltà teologica di Firenze

(da Vita Pastorale, aprile 2007)

Bibliografia

Guardini R. Lo spirito della liturgia, Morcelliana 1980, Brescia;
Dotolo C. (ed.), Teologia e sacro. Prospettive a confronto, Dehoniane 1995, Roma, pp. 55-75;
Heschel A.J., Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Garzanti 2001, Milano;
Maggiani S., “Riposo sabatico e festa” in Servitium 30 (1996), pp. 578-588;
De Gennaro O. (cur.), Lavoro e riposo nella Bibbia, Dehoniane 1987, Napoli;
Augé M., La domenica: festa primordiale dei cristiani, San Paolo 1995, Cinisello Balsamo.

Letto 2118 volte Ultima modifica il Venerdì, 01 Febbraio 2008 00:06
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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