Formazione Religiosa

Martedì, 21 Maggio 2019 19:03

Quella mors turpissima crucis che il Padre non voleva. Capitolo 1 §3 (Marco Galloni)

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La teoria della soddisfazione di Anselmo d’Aosta è spesso considerata un po’ come la madre di tutti gli equivoci in materia di soteriologia cristiana, la causa principale, se non addirittura l’unica, di ogni errore e fraintendimento.

3. Un trattato di sorprendente attualità

Liberata la dottrina della soddisfazione da indebite interpretazioni si può guardare al Cur Deus homo con un occhio diverso, per scoprire aspetti sorprendentemente attuali di questo trattato le cui origini, vale la pena ricordarlo, risalgono agli anni in cui Anselmo insegnava nel monastero di Le Bec, in Normandia. Anselmo ultimerà l’opera, dopo diverse redazioni in forma incompleta, solo nel 1098 (alla vigilia del concilio di Bari) a Liberi, in provincia di Capua (53). Furono proprio i discepoli di Le Bec a chiedere ad Anselmo di mettere per iscritto i suoi ragionamenti sull’incarnazione del Figlio di Dio. A questa motivazione si aggiungono le conversazioni che Anselmo ha in Inghilterra, fra l’inverno del 1092 e il 1093, con Gilberto Crispino, abate del monastero di Westminster, in passato monaco a Le Bec, discepolo di Anselmo e ora suo amico fedele. Crispino si era trovato al centro di una querelle con alcuni ebrei che gli ponevano due interrogativi: com’è possibile che Dio abbia assunto l’umanità senza arrecare offesa alla sua divinità? E ancora: non c’era altro modo per salvare l’uomo, non poteva Dio scegliere una via più semplice e più conforme alla sua onnipotenza?
Ma non ci sono soltanto le polemiche con il mondo ebraico. Quando inizia a redigere il Cur Deus homo, il che avviene a Canterbury non prima del 1094, Anselmo sa che deve tener conto anche delle obiezioni dei credenti di fede islamica e delle istanze culturali delle scuole secolari e cattedrali. Il Cur Deus homo si rivolge innanzitutto ai cristiani, questo è vero: prova ne sia la struttura del trattato, che ha la forma di dialogo tra Anselmo e Bosone, un monaco di Le Bec che riveste il ruolo di interlocutore-obiettore e che deve aver avuto un peso rilevante nel convincere il maestro a scrivere l’opera (54). Tuttavia le argomentazioni di Anselmo sono presentate in modo da avere una loro validità anche per ebrei e musulmani, che l’arcivescovo di Canterbury chiama infideles e pagani (55). In questo senso il Cur Deus homo può essere considerato anche come un trattato ante litteram sul dialogo interreligioso. Scrive A. Orazzo: «Pertanto, il Cur Deus homo anselmiano ha qualcosa da dire anche alla postmodernità, in cui i confini tra credenza e non credenza spesso non sono discernibili, e i due atteggiamenti talora convivono in misura differente nel medesimo soggetto. [...] Non è fuori luogo rilevare che il trattato può offrire anche oggi, in un contesto storico-culturale molto diverso, elementi significativi per un utile dialogo interreligioso con ebrei e musulmani, sempre da cercare e motivare» (56).
Ma il Cur Deus homo, prosegue Orazzo, può essere considerato anche «come un saggio di cristologia fondamentale adatto alla sua epoca, sulla base di un’indiscussa adesione alla fede della Chiesa e di un sano realismo conoscitivo. Esso è rivolto a credenti e non credenti, che in quel contesto storico-culturale avevano bisogno di un supporto di razionalità e di coerenza logica, rispettivamente per una conferma nel credere e un primo approccio alla fede. Merito non secondario del trattato – aggiunge Orazzo – è quello di aver offerto ai secoli futuri una riflessione profonda e razionalmente motivata sulla vocazione originaria dell’uomo, in particolare sulla sua inalienabile libertà ed esigenza di unità interiore, che lo rendono simile a Dio» (57).
Il metodo utilizzato da Anselmo per cercare un punto di incontro con i suoi interlocutori ebrei e musulmani conferisce inoltre al Cur Deus homo il carattere di un trattato sui rapporti tra fede e ragione. Anselmo ragiona remoto Christo, cioè a partire dall’idea che non ci siano mai stati né il Cristo né la sua opera salvifica. Così scrive il Doctor Magnificus nella praefatio: «Mettendo da parte il Cristo (remoto Christo), come se nulla sia mai accaduto a suo riguardo, esso [il libro I] prova con ragioni necessarie (rationibus necessariis) l’impossibilità che qualche uomo si salvi senza di lui. Nel secondo libro, poi, similmente si mostra con una ragione e una verità non meno chiara, come se nulla si sapesse di Cristo, che la natura umana è stata creata perché l’uomo goda dell’immortalità tutt’intero, sia nel corpo che nell’anima; che assolutamente si verifichi ciò per cui l’uomo è stato fatto, ma solo per mezzo di un uomo-Dio; e che debba accadere per necessità quanto crediamo di Cristo» (58). Anselmo procede in modo esattamente opposto a quello che seguiremmo noi oggi, convinti come siamo che la storicità giochi un ruolo centrale nella riflessione sul dato rivelato: l’arcivescovo di Canterbury orienta le proprie argomentazioni in senso deduttivo, facendo leva sulla sola ratio; dalla apoditticità della ragione passa poi alla fattualità della storia. È bene precisare, come fa K. Barth, che sola ratio non significa solitaria ratio; Anselmo non smette mai di basarsi sull’auctoritas biblica ed ecclesiale: è solo così che la ratio può essere lo strumento di un intellectus fidei (59). In nessuno dei suoi scritti, osserva Orazzo, Anselmo vede l’intelligere come un’attività che prescinde dalla fede (60). Più precisamente, per Anselmo l’intelligere si trova a metà tra la fides e la visio, e corrisponde alla condizione storica dell’uomo; non si tratta di contrapporre la ragione alla fede ma dell’auto-comprendersi della fede, che è un compito tipicamente umano. L’intenzione di Anselmo è di mostrare quanto la fede sia un impegno esigente e responsabile per il cristiano che voglia aderirvi con tutte le dimensioni della persona, in particolare con quella intellettiva. In questo modo il credente è in grado di aprire un dialogo costruttivo con il non credente, perché unico è l’oggetto della ricerca, anche se diversi sono gli obiettivi e le motivazioni (61). Questo esercizio della ratio conduce ben al di là dei confini che siamo soliti assegnare alla ragione. Lo fa notare ancora Orazzo, citando A. Ghisalberti: «Questa connessione anselmiana di “razionalità” e “giustizia” è fondamentale per intendere il senso delle rationes necessariae e, in generale, del programma di intelligibilità della fede calato all’interno del Cur Deus homo, che, in ultima istanza, deve mostrare l’assurdità dell’ipotesi remoto Christo, nel senso che essa conduce ad un vuoto di razionalità che è insieme un vuoto di giustizia» (62).
Riguardo ai rapporti tra razionalità, giustizia, volontà umana e libertà è illuminante quanto dice P. Sequeri: «La libertas [...] non è semplicemente il modo di esercizio della volontà congruente con la natura razionale che è propria dell’uomo. Ma non è neppure una facoltà meramente autoreferenziale, il cui esercizio debba apparire tanto più alto quanto maggiore risulti la sua soggettiva estraneità alla rectitudo dell’essere e del senso. L’avvento della libertà è direttamente proporzionale alla restituzione della volontà alla iustitia e delle sue affectiones alla dignità del soggetto umano. Ciò avviene quando l’azione umana giunge all’altezza del protagonismo che merita: ossia quando autonomia della volontà e amore della giustizia coincidono. La libertà è il potere – per definizione non dispotico – di far coincidere l’attuazione della giustizia trascendente con l’autodeterminazione della volontà storica. Più profondamente, è la condizione costitutiva dell’ordine etico-ontologico che assicura il legame dell’origine e del compimento, della creazione e del riscatto, all’altezza destinata da Dio» (63).

Marco Galloni

Note

53) Cfr. A. ORAZZO in ANSELMO D’AOSTA, Perché un Dio uomo? Lettera sull’incarnazione del Verbo, Città Nuova Editrice, Roma, 2007, pp. 20 – 21.
54) Ivi, p. 21.
55) Ivi, p. 23, n. 47: i termini infideles e pagani sono utilizzati da Anselmo rispettivamente nel capitolo III del I libro e nel capitolo XXII del II libro del Cur Deus homo.
56) Ivi, p. 49.
57) Ibidem.
58) Ivi, p. 24, n. 49.  
59) Cfr. A. ORAZZO, op. cit., pp. 24 – 25.
60) Ivi, p. 27.
61) Ivi, pp. 27 – 28.
62) Ivi, p. 28, n. 61.
63) P. SEQUERI in Anselmo d’Aosta educatore europeo, a cura di I. BIFFI, C. MARABELLI, S. M. MALASPINA, trad. it., Jaka Book, Milano, 2003, p. 127.

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Letto 1292 volte Ultima modifica il Mercoledì, 30 Dicembre 2020 11:01
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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