Vita nello Spirito

Domenica, 09 Marzo 2008 01:16

Dalla paura della morte al peccato (Luciano Manicardi)

Vota questo articolo
(5 Voti)

di Luciano Manicardi

Il mistero pasquale della morte e risurrezione d Gesù raggiunge nel profondo il cuore della persona umana. Lo raggiunge come liberazione dalla paura della morte e dono di una vita intensa e capace di bene. Il dono pasquale risana la creatura umana e la sottrae da quell’itinerario distruttivo che dalla non accettazione del limite conduce alla paura della morte, fino alla visione del mondo come oggetto di consumo.


Una antica tradizione di lettura dei primi capitoli della Genesi afferma che la sofferenza, il male, la morte, trovano la loro origine nel peccato dell’uomo, nella disobbedienza della creatura umana. E certamente in questo rapporto tra peccato e morte vi è una verità teologico-spirituale ineludibile: il peccato genera sempre frutti di morte. Il male compiuto contamina le relazioni e attenta alla pienezza di vita che l’uomo trova solamente nell’amore.

Tuttavia i capitoli iniziali della Genesi si prestano anche ad un’altra interpretazione che completa quella a cui abbiamo accennato. Si tratta di una interpretazione dei testi che mostra il rapporto inverso: la morte genera il peccato. O meglio, la paura della morte è all’origine del comportamento trasgressivo e peccaminoso dell’uomo. In effetti, la prospettiva della morte è già presente, nel testo biblico, nel capitolo secondo della Genesi, quando Dio rivolge all’uomo il suo primo comando: “Tu mangerai di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare perché, nel giorno in cui ne mangerai, certamente morirai (lett. “tu morirai”)” (Gen 2,16-17). All’origine della vicenda umana vi è dunque la parola che Dio rivolge prioritariamente all’uomo, anzi, all’origine della creatura umana e dalla storia umana vi è l’amore del Dio Padre che crea per amore, per avere di fronte a sé un partner cui fare i propri doni e con cui vivere una relazione. All’origine vi è il comando divino che insegna all’uomo la via della vita: e vivere significa accettare i limiti dell’esistenza, significa non ambire il tutto, accogliere serenamente i ‘no” che la limitatezza della condizione creaturale pone all’uomo. “Mangiare di tutto eccetto una cosa” significa appunto accogliere come vitale la legge del limite, anzi, sia la legge sia il limite. Senza legge non vi è cultura, non vi è società, non vi è convivenza possibile e senza l’accettazione dei limiti, che gli altri, la vita e la storia pongono a ciascuno, non vi è possibilità di rapporti equilibrati e sensati. Non vi è possibilità di vita, Tutti sappiamo l’importanza, nell’educazione del bambino, dei “no” che aiutano a crescere. Dunque il comando che Dio dà all’uomo è una legge di vita, un’offerta e un’indicazione di vita. Uscire da quella logica, avverte Dio, significa entrare in uno spazio di morte.

Ma ecco che la parola di Dio che evoca l’orizzonte della morte nella vita dell’uomo suscita una complessa e drammatica storia interiore nel destinatario umano di tale parola. In effetti, la figura del serpente, e un serpente che parla!, rappresenta l’insorgere della tentazione nel cuore dell’uomo. Karl Barth ha notato che più che il serpente in sé, è importante ciò che esso dice, il suo messaggio, la sua parola. Il termine ebraico che designa il serpente è significativo. Nachash (serpente) deriva da una radice che vuol dire “praticare la divinazione”, “operare incantesimi” (Lv 19,26; Dt 18,10), indicando così un rapporto con il divino sotto il segno della magia e delle tecniche divinatorie. Ma questo termine evoca anche il vocabolo ebraico che indica le “catene”, in particolare le “catene di bronzo” che immobilizzano i prigionieri (Gdc 16,21; 2Sam 3,34; 2Re 25,7). Ecco l’astuzia del serpente (“Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche”: Gen 3,1): essa consiste nella sua ambiguità. Il serpente insinua subdolamente nell’uomo la possibilità di un rapporto con Dio nella via dell’autoaffermazione, della non assunzione dei limiti creaturali, ma che arriva a rivelarsi una catena che imprigiona e a cui non è possibile sfuggire.

Dunque, le parole del serpente sono le parole interiori della donna che si sente defraudata e frustrata dall’interdetto divino: “E’ vero che Dio ha detto: Non mangerete di nessun albero del giardino?”. In verità, Dio aveva dato ordine di mangiare di tutto eccetto i frutti di una sola pianta. Ma il meccanismo in azione in profondità nella creatura è questo: se vengo privato di una sola cosa, mi sento privato di tutto. L’interdetto è intollerabile perché è un attentato alla mia libertà che deve essere assoluta (ab-soluta, senza legami, sciolta da qualunque vincolo). Se la donna reagisce a questa suggestione interiore, riportando le parole di Dio, tuttavia essa vi aggiunge due notazioni significative. Anzitutto, la donna afferma che Dio ha proibito perfino di toccare i frutti dell’albero che sta in mezzo al giardino. Ma questo non è vero. In questo inasprimento del divieto divino è attivo il meccanismo per cui la donna cerca di difendersi dalla forza del desiderio che ormai agisce in lei. Quindi la donna specifica che il fine della proibizione divina è: “altrimenti morirete” (Gen 3,3). Letteralmente, il testo significa: “per paura che moriate”. La morte sta agendo nella donna suscitando in lei ansia e paura. La parola di Dio, da comando di un Padre che orienta la vita della sua creatura nella sua pienezza, sta divenendo l’ordine dispotico di un padrone geloso e invidioso che non vuole la libertà della creatura umana (“Dio sa che, quando ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi”: Gen 3,5). In questa situazione di insicurezza e di messa in discussione della figura di Dio, il serpente vede la possibilità dell’affondo decisivo: “Non morirete affatto!” (Gen 3,4). Il serpente vince la resistenza della donna affermando l’esatto contrario di ciò che aveva detto Dio: all’oggettivo “morire, morirai” di Dio in Gen 2,17 succede, in bocca al serpente, la contro-parola “morire, non morirete” (Gen 3,4). La parola di Dio è stata storpiata nel suo contrario dal lavoro operato nell’intimo della creatura umana dalla paura della morte. La prospettiva della morte, presente nella parola di Dio, diviene nella donna paura della morte, paura della perdita, della diminuzione di sé. Ed essa cede alla parola del serpente proprio quando le viene promesso che non morirà, La tentazione, la spinta verso la trasgressione e il peccato trova nella paura della morte il suo movente più forte e profondo. E la promessa illusoria, ma potente e seducente della tentazione, sta proprio nel dischiudere una prospettiva di vittoria sulla morte nella via dell’autoaffermazione, del possesso, dell’accaparramento, del potere, del consumo, della voracità. In effetti, ciò che cambia nella donna è il suo sguardo interiore: “La donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi, desiderabile per acquistare saggezza” (Gen 3,6). Il mondo esteriore appare come oggetto, come preda, come ambito da sfruttare per soddisfare la propria ansia di affermazione. La donna evita di affrontare la prospettiva della morte, della perdita, accumulando, acquistando sapere e potere, consumando. La paura della morte la conduce a cercare il pieno che anestetizza il dolore del vuoto e della perdita.

Ecco dunque l’itinerario della donna: dalla non accettazione del limite alla paura della morte fino all’elaborazione di una contro-verità in cui il desiderio di vita (di immortalità, di onniscienza, di onnipotenza) produce una nuova visione del mondo: il mondo come preda, come oggetto da carpire e possedere. Davvero, come specifica Giacomo nel Nuovo Testamento, l’origine della tentazione è nel cuore dell’uomo, non al di fuori. “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce, poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato produce la morte” (Gc 1,14- 15).

Dunque, la paura della morte all’origine del peccato. Non è solo una realtà che possiamo verificare spesso nel quotidiano dei comportamenti nostri e di altri, ma è anche la situazione da cui Cristo è venuto a liberarci. La lettera agli Ebrei afferma che la finalità dell’incarnazione è stata quella di ” ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per paura della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14-15). La schiavitù a cui gli uomini sono soggetti, secondo il Nuovo Testamento, è quella del peccato, a cui l’uomo è condotto dalla paura della morte. La liberazione pasquale, liberazione da ogni schiavitù, ci raggiunge dunque anche in queste dinamiche profonde.

(da L’Ancora, aprile 2007)

Letto 1730 volte Ultima modifica il Sabato, 23 Ottobre 2010 23:24
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search