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Visualizza articoli per tag: Teologia, teologo

 Capitolo II (continua)

§2. I sacrifici nell’Antico Testamento: una breve rassegna

L’etimologia fa risalire il verbo sacrificare a sacrum facere, che significa rendere sacro, mettere un oggetto a disposizione del divino. La storia generale delle religioni attesta che il sacrificio è una delle sue categorie centrali. Il sacrificio esercita funzione di comunicazione e di scambio tra il mondo dell’uomo e la sfera del sacro, il mondo di Dio o degli dei. In questione, nel sacrificio, c’è il rapporto dell’uomo con il divino [82]. Il Dizionario di Teologia di Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler definisce il sacrificio come segue: «Il concetto di sacrificio, nella sua forma più completa che peraltro non sempre si ritrova in tutti i sacrifici [...], si potrebbe all’incirca descrivere così [...]: sacrificio è un atto nel quale ad opera di persone che ne hanno legittimamente il potere in quanto rappresentanti di una comunità di culto, un dono controllabile con i sensi viene trasformato nel corso di un rito cultuale e così sottratto all’uso profano, immesso nella dimensione del “sacro” e dato pienamente a Dio per esprimere la dedizione di sé, nell’adorazione, al Dio santo; in tal modo il dono, da Dio accettato e santificato, nel banchetto sacrificale della comunità di culto diventa il segno della volontà divina di instaurare un rapporto comunitario con l’uomo» [83].
La Bibbia attesta l’esistenza, e spesso la coesistenza, di diversi tipi di sacrificio. Il libro del Levitico, nei capitoli 1 – 7, li espone in modo sistematico e in linguaggio tecnico: l’olocausto (‘ôlah); l’offerta; il sacrificio di comunione (con lode, votivo o volontario); il sacrificio per il peccato (del sommo sacerdote, dell’assemblea di Israele, di un capo, di un uomo del popolo); il sacrificio di riparazione (’ašam); l’offerta. L’olocausto, il cui termine greco corrispondente significa combustione completa, è il sacrificio in cui la vittima viene per intero bruciata in onore di Jahve. Nei testi più antichi aveva lo scopo di rendere omaggio a Dio, supplicarlo, ringraziarlo e adempiere un voto; solo più tardi assunse valore espiatorio. L’olocausto è il sacrificio ordinario del culto pubblico e ne rappresenta la massima espressione; la sua mancanza costituiva la più grande minaccia contro il popolo ebraico (Dn 8,11ss). Sempre accompagnato da oblazioni e libagioni (Nm 15,2 – 16), l’olocausto era l’unico sacrificio che potesse essere offerto anche da un pagano (Lv 22,18.25). Il sacrificio espiatorio era imposto dalla Legge a colui che la trasgrediva per inavvertenza; la materia e la vittima variavano alquanto secondo la condizione del trasgressore, ma ciò che più caratterizzava questo sacrificio era il rito del sangue: parte del sangue veniva sparso attorno all’altare dell’olocausto, mentre la maggior parte era aspersa sette volte in direzione del velo del tempio e sui corni dell’altare dei profumi; benché fossero praticati in ogni periodo dell’anno, i riti espiatori raggiungevano la loro massima solennità nello jôm kippûr, il giorno dell’espiazione. Nel sacrificio di riparazione, che aveva lo scopo di riparare un danno arrecato al diritto di proprietà divina o umana, la vittima era un agnello il cui valore veniva valutato simbolicamente in relazione alla riparazione da compiere [184].
Un’altra categoria di sacrificio, assai diffusa tra i semiti, consisteva essenzialmente in un pasto sacro (šelāmîm) in cui il fedele mangiava e beveva «dinanzi a Jahve» (Dt 12,18; 14,16); l’alleanza del Sinai è suggellata da un sacrificio di questo genere. Certo non ogni banchetto sacro presuppone necessariamente un sacrificio; tuttavia nell’Antico Testamento questi banchetti di comunione di fatto implicavano il sacrificio: parte della vittima (bestiame grosso o minuto) spettava di diritto a Dio, padrone della vita, mentre la carne serviva da cibo per i commensali. Nei diversi rituali codificati dal Levitico il concetto di sacrificio tende a concentrarsi attorno all’idea di espiazione. Il sangue vi svolge una parte importante, ma in definitiva l’efficacia del sacrificio deriva dalla volontà di Dio (Lv 17,11; cfr. Is 43,25) e presuppone sentimenti di penitenza. La riparazione delle impurità rituali e delle colpe non volontarie iniziava i fedeli alla purificazione del cuore, così come le leggi sul puro e l’impuro orientavano le anime verso l’astensione dal male. Il pasto dei šelāmîm traduceva e realizzava nella gioia e nell’euforia spirituale la comunione dei commensali tra loro e con Dio, perché tutti partecipavano della stessa vittima [85].

 

Marco Galloni

 

[82] Cfr. B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 293.

[83] K. RAHNER /H. VORGRIMLER, Dizionario di teologia (titolo originale Kleines Theologisches Wörterbuch, Verlag Herder GmbH & Co. KG, Freiburg, 1968), trad. it., Editori Associati, Milano, 1994, p. 612.

[84] Cfr. A. ROLLA in Introduzione generale alla Bibbia, Elledici, Torino, 2006, pp. 263 - 264.

[85] Cfr. C. HAURET in Dizionario di Teologia Biblica (titolo originale: Vocabulaire de Théologie Biblique, Les Editions du Cerf, Paris), a cura di Xavier Léon-Dufour e di Jean Duplacy, Augustin George, Pierre Grelot, Jacques Guillet, Marc-François Lacan, trad. it., Editrice Marietti, Genova, 2001, pp. 1125 - 1126.

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 Capitolo II (continua)

§1. Importanza e universalità del sacrificio

Il cristianesimo non sacrificale di Girard può essere comprensibile come reazione a certe soteriologie grossolane nate da cattive interpretazioni dell’opera di Anselmo e in particolare del Cur Deus homo, ma non può essere accettato, preso per buono: Girard ragiona a partire da un’idea troppo restrittiva del sacrificio, che non tiene conto della realtà complessa e sfaccettata che la teologia vede invece racchiusa in questa categoria. C’è senz’altro del vero e del buono nella visione dell’antropologo francese, fa notare Sesboüé: «Girard non mette il dito su un qualcosa di molto reale nel cristianesimo storico? Non è vero che, stando a certi discorsi teologici, pastorali, spirituali, l’idea di sacrificio ha funzionato in terra cristiana così com’egli dice?» [74] . Resta il fatto che il sacrificio non può essere espunto dal cristianesimo con tanta disinvoltura. Anzi, non può esserne espunto affatto: farlo significherebbe sfigurare la Sacra Scrittura. Dice il Dizionario di Teologia Biblica di Xavier Léon-Dufour alla voce sacrificio: «Un rapido sguardo alla Bibbia ci informa sull’importanza e sull’universalità del sacrificio. Esso costella tutta la storia: umanità primitiva (Gen 8,20), vita dei patriarchi (Gen 15,9...), epoca mosaica (Es 5,3), periodo dei giudici e dei re (Giud 20,26; 1 Re 8,64), età postesilica (Es 3,1 – 6). Ritma l’esistenza dell’individuo e della comunità. L’episodio misterioso di Melchisedech (Gen 14,18), in cui la tradizione ravvisa un pasto sacrificale, l’attività liturgica di Jetro (Es 18,12) allargano ancora l’orizzonte: fuori del popolo eletto (cfr. Gn 1,16), il sacrificio esprime la pietà personale e collettiva. I profeti, nelle loro visioni del futuro, non dimenticano le offerte dei pagani (Is 56,7; 66,20; Mal 1,11). Così, quando tracciano a grandi linee il loro affresco della storia, gli scrittori dell’Antico Testamento non concepiscono vita religiosa senza sacrificio. Il Nuovo Testamento preciserà questa intuizione e la consacrerà in modo originale e definitivo» [75]. Vero è che alcuni profeti dell’Antico Testamento prendono recisamente posizione contro i sacrifici (cfr. Is 1,11 – 17; Ger 6,20; 7,21 – 22; Os 6,6; Am 5,21 – 27; Mi 6,6 – 8), ma la loro polemica, afferma Sesboüé, è di tipo dialettico, va ben compresa: non condanna i sacrifici in quanto tali ma la loro perversione, allorché sono contraddetti da una condotta di vita incoerente [76] .
Eliminare il sacrificio dal Nuovo Testamento sembrerebbe più agevole. Chi volesse farlo troverebbe facile appiglio in certi passi evangelici, come Mt 9,13 («Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio») e Mc 12,33 («amarlo con tutto il cuore, e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici»). Ma un’operazione del genere entrerebbe in conflitto con altri versetti dei Vangeli, dai quali emerge, sottolinea G. Deiana, che Gesù non intende affatto annullare il sistema rituale del tempio: al lebbroso, dopo la guarigione, chiede di offrire il sacrificio prescritto dalla Legge (Mt 8,4); egli impone la riconciliazione con il fratello prima di offrire il sacrificio (Mt 5,23 – 24); e del resto il compito di Gesù è formulato senza possibilità di equivoco in Mt 5,17 – 19:

«Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli».

C’è dunque una conferma esplicita delle istituzioni veterotestamentarie. La Chiesa delle origini, a parere di Deiana, deve aver faticato non poco per trovare il giusto equilibrio tra la tradizione giudaica e l’innovazione cristiana. Se ne può avere conferma mettendo a confronto At 15 e 21,20 – 25: secondo At 15 la comunità cristiana, già ai tempi del cosiddetto concilio di Gerusalemme, avrebbe superato il vincolo delle norme giudaiche; a giudicare da At 21,20 – 25, invece, sembrerebbe che la comunità di Gerusalemme fosse ben ancorata alle tradizioni cultuali e rituali dell’Antico Testamento [77].
Diversa è l’opinione di Sesboüé: «Quando passiamo al Nuovo Testamento, dobbiamo riconoscere con R. Girard la scarsa rilevanza del tema sacrificale nei vangeli. La menzione più significativa messa sulle labbra di Gesù è negativa» [78]; a riprova Sesboüé porta gli appena citati Mt 9,13 (cfr. 12,7) e Mc 12,33. Il teologo gesuita ammette che al momento della presentazione di Gesù al tempio i suoi genitori hanno senza dubbio offerto nel tempio «un paio di tortore o due giovani colombe» (Lc 2,24) e che «il senso delle parole dell’istituzione eucaristica è certamente sacrificale, il termine sacrificio non viene però adoperato, e gli esegeti discutono su ciò che, in tali parole, risale effettivamente a Gesù e su quanto è il frutto dell’attualizzazione liturgica della comunità primitiva» [79]. Tuttavia, aggiunge Sesboüé: «L’essenziale è manifestamente altrove. Tutta la vita prepasquale di Gesù è stata una pro-esistenza, cioè un’esistenza per il Padre e per i fratelli, un dono totale di sé che si spinge fino al dono della vita. Tutta la sua vita assumeva così il valore d’un sacrificio esistenziale, che fungerà da fondamento al senso convertito assunto dal termine sacrificio nella tradizione cristiana dal Nuovo Testamento in poi. Tale esistenza di servizio è orientata verso il passaggio di Gesù al Padre e mira correlativamente al passaggio di tutti i suoi fratelli riconciliati al Padre. Il sacrificio di Gesù, espresso anche nella preghiera, è la forma che assume il ritorno del Figlio al Padre quando egli rimette il proprio spirito nelle sue mani. Gesù, istituendo l’eucaristia, ci dice quale senso egli dona alla sua morte» [80]. Sesboüé conclude così la sua riflessione: «Tale complesso è molto coerente. Se Gesù “sembra preoccuparsi dei sacrifici rituali solo per stigmatizzarne gli abusi”, non si vede perché si sarebbe servito della categoria del sacrificio “per caratterizzare la propria vita e la propria morte”. Non stupisce quindi che i Vangeli non dicano nulla che indichi che Gesù associò la sua vita e la sua morte alla nozione di sacrificio rituale. In compenso tutta la sua vita ci invita a riconsiderare il senso del sacrificio a partire dalla sua proesistenza. Tale distanza tra la realtà e il vocabolario era senza dubbio indispensabile per operare la necessaria conversione del senso del sacrificio, senso che i profeti avevano già indicato» [81].

Marco Galloni

 

[74] B. Sesboüé, op. cit., libro I, pp. 43 – 44. 

[75] C. HAURET in Dizionario di Teologia Biblica (titolo originale: Vocabulaire de Théologie Biblique, Les Editions du Cerf, Paris), a cura di Xavier Léon-Dufour e di Jean Duplacy, Augustin George, Pierre Grelot, Jacques Guillet, Marc-François Lacan, trad. it., Editrice Marietti, Genova, 2001, p. 1124.

[76] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 299. 

[77] G. DEIANA, Dai sacrifici dell’Antico Testamento al sacrificio di Cristo, Urbaniana University Press, Roma, 2006, pp. 71 - 73.

[78] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 300. 

[79] Ibidem

[80] Ibidem

[81] Ivi, pp. 300 – 301; le frasi riportate tra virgolette alte sono di X. Léon-Dufour. 

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