Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 18 Luglio 2007 00:21

La religione del Figlio (Giovanni Vannucci)

La religione del Figlio

di Giovanni Vannucci

Due simboli nella narrazione di Mt 14, 22-33 ci indicano che si tratta di un evento rivelatore: il monte ove Cristo passa la notte in preghiera, il mare sconvolto sulla cui superfìcie cammina impavido e sereno.

La montagna come luogo di incontro del cielo con la terra si trova in tutte le tradizioni religiose. In India troviamo il monte Meru, la cima più alta della terra, il centro di tutto l’universo; nell’Iran il monte Alborj, considerato il centro del mondo attorno al quale si muovono il sole e i pianeti; in Cina la montagna di giada ove cresce il pesco dell’immortalità; nell’Islam la montagna Kaf, che ha per base uno smeraldo che si estende a tutta la terra; un po’ ovunque alla montagna santa approdò l’arca del diluvio, l’arca di Noè si fermò sulla cima del monte Ararat, e da lì iniziò la seconda creazione dell’uomo.

Nelle regioni ove non esistono montagne vennero costruite delle colline artificiali, oppure i templi furono costruiti in forma di montagna: così in Babilonia le torri-tempio erano a forma conica a sette scaglioni raffiguranti i sette cieli; in Egitto la piramide era il centro di congiunzione del cielo con la terra e della terra con il cielo, la rampa che conduce alla sua cima simboleggiava l’ascesa della vita, dal verme all’uomo regale che domina tutti gli aspetti della natura.

Nella Bibbia numerose sono le montagne sacre: il Sinai il Garizim, l’Horeb, il monte di Sion, che è il fondamento della città santa, il monte Moriah; nel Nuovo Testamento il monte della trasfigurazione, il Tabor, il monte Calvario, il monte degli Ulivi, luogo dell’ascensione; nell’Apocalisse l’Agnello sta sul monte Sion (Ap 14, 1).

Il valore simbolico della montagna è stato usato ovunque nella cristianità; ogni volta che era possibile le chiese venivano costruite su delle alture. L’altare, la cui radice è altus, alto, quindi luogo alto, i cui gradini venivano, nell’antica liturgia, saliti dal sacerdote che recitava il salmo «ludica me», «manda la tua luce e la tua verità, esse mi condurranno sul tuo monte santo».

Il mare è simbolo di tutte le possibilità delle manifestazioni delle forme viventi e della loro distinzione. Nel pensiero biblico l’acqua, il mare, è l’elemento che contiene una vita tumultuosa, confusa, prodigiosamente ricca, feconda e tenebrosa. Su di essa lo Spirito di Dio compie la sua opera creatrice. Il mare è il simbolo dell’inconscio personale e collettivo, sotto le cui profondità insondabili son racchiusi la vita e i mostri. Il popolo ebraico, separandosi dallo spirito di massa delle popolazioni egiziane, attraversa con piede asciutto il mare, raggiunge cioè l’individuazione di se stesso come popolo, chiamato a vivere un suo preciso destino in mezzo agli altri popoli. Il passaggio del mar Rosso costituì la distinzione del popolo ebraico da quello egiziano, che venne sommerso e assorbito dall’onda marina; sul monte Sinai Mosè ricevette la Legge che avrebbe dato la forma religiosa, morale, sociale al popolo eletto.

Confrontando le figure di queste strutture simboliche, monte e mare, nella narrazione evangelica, possiamo osservare alcuni particolari che sottolineano l’aspetto specifico della religione del Figlio che con Gesù Cristo cominciava. Nell’esodo dall’Egitto è tutto un popolo che attraversa il mare senza esserne travolto; Mosè ascende sul monte insieme ad Aronne, mentre il popolo era alle sue falde. Nella nostra narrazione: Cristo,dopo aver rimandato la folla alle sue case e ordinato ai discepoli di andare nel mare con la barca, sale solo sul monte, e solo attraversa il mare in tempesta incontro ai discepoli sgomenti per la burrasca. Gesù è solo sul monte e sul mare, la folla sicura nelle sue case, i discepoli protetti dall’imbarcazione.

La solitudine eroica e feconda di Gesù Cristo, in questo episodio del monte e del mare, ci rivela la natura singolare e unica della religione del Figlio. Gli uomini non sono più chiamati, per vivere la loro aspirazione all’Assoluto, a unirsi in gruppi di popoli eletti o di Dio, a rifugiarsi in imbarcazioni che, sicure, attraversano il mare agitato dell’esistenza. Ma a sentire la propria vita personale come un’avventura iniziatica, un audace impegno di trasformazione del proprio essere, che li porta a de porre le sicurezze, le protezioni che cullano la personalità e a risvegliare la propria essenzialità divina, il proprio «io» vero, non nato dalla carne e dal sangue, non formato da idee di gruppo o di società, ma che è il principio e l’assoluto psichico, l’io cosciente che, nell’esperienza della religione del Figlio, tende a rifondersi con l’io cosciente di Cristo. «Siate in me come io sono nel Padre» (Gv 14, 20). «Non io vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

L’io cosciente dell’uomo, per quanto piccolo sia, ha il potere di contenere e riflettere l’intero sole, Cristo, e il sole, Cristo, riflesso e contenuto negli altri frammenti dell’umanità. Chi vive la religione del Figlio affronta i rischi dell’inconscio personale e collettivo, ne attraversa le onde scomposte e violente con lucida coscienza, resa ardente dalla tensione verso uno scopo sovrumano: divenire il figlio di Dio, tendere verso la conoscenza di sé, dell’universo e di Dio, cercare la coscienza e la luce assoluta, evitare ogni passività dell’intelletto, ogni eccitazione passionale del corpo e dell’anima.

I discepoli nella barca, presi da passionale sgomento, sono incapaci di vedere con lucidità mentale e scambiano Cristo per un fantasma, e Pietro affonda per deficienza di quella fede che è propria dei figli di Dio. Le onde dell’inconscio, personale e collettivo, arretrano dove l’io cosciente, l’io cristico avanza. Solo nell’io cosciente e consapevole, nell’io costruito da virtù e intelletto, risiede la libertà di scelta e di orientamento; fuori di esso non vi è scelta di fronte ai vari stimoli delle forze inconsce personali e collettive. L’io cosciente e consapevole raggiunge il potere dei figli di Dio, potere di creare mentalmente, non di ripetere i pensieri pensati da altri; potere di esplicare il creato, di dominare le leggi della natura, di portare la pace nei flutti sconvolti del mare; potere di ricollegare la terra e il cielo.

(da Giovanni Vannucci, «La religione del Figlio», 19a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) CENS, Milano 1984, pp. 144-146).
Sabato, 30 Giugno 2007 02:05

Il sacerdozio universale dei laici

Il sacerdozio universale dei laici


Le traduzioni greche del testo ebraico dell’Antico Testamento (così la versione di Aquila), applicano il termine laikos, laico, non agli uomini ma alle cose. Per esempio un “viaggio laico”, una “terra laica”, il pane laico (1 Sam. 21,4) (bebelos, nei Settanta, laices panes nella Vulgata) sono le cose “profane” che non sono destinate al servizio del Tempio (1 Sam. 21, 5-6; Ez. 48, 15).

Il sogno di Dom Helder:
il grande giubileo della giustizia

di Marcelo Barros

Se dovessi presentarmi direi che io sono uno della "periferia del villaggio globale", anzi della periferia della periferia. Vengo, infatti da una regione-che-non-conta di un Paese, il Brasile, il cui governo, perfettamente ligio alle direttive del Centro, ha già deciso chi deve vivere e arricchirsi e chi deve morire.

Faccio parte di una comunità che si sforza di testimoniare e di annunciare che la vita può essere vissuta, pur tra le inevitabili contraddizioni, sotto il segno dell'alleanza, nella custodia e dedizione reciproca dei fratelli e delle sorelle. Come figura e anticipazione, nel suo piccolo, del Regno che viene.

Vorrei portare l'attenzione su una figura profetica del nostro tempo, che ha segnato la storia della Chiesa, la storia del mio Paese, la storia dei poveri del mondo ed anche la mia storia personale: Dom Helder Camara, scomparso nel settembre dello scorso anno. Credo valga la pena affrontare il discorso del Giubileo da questa angolazione, perché già qualche anno fa Dom Helder aveva avuto un'intuizione profetica in proposito.

Nel 1992, quando il mondo ricordava i 500 anni dalla conquista dell'America, Helder Camara, già arcivescovo emerito di Olinda e Recife, assieme ad altri pastori latino-americani, come Pedro Casaldaliga, Sèrgio Mendes Arceo, Samuel Ruiz, propose un Giubileo di grazia per il continente latino-americano e per il mondo intero. Doveva essere un Giubileo segnato dalla giustizia per i poveri, dalla riconciliazione tra le Chiese, dal dialogo tra le religioni e da un nuovo patto di convivenza dell'umanità con la terra.

Due anni dopo, fu il papa stesso che, riprendendo e rielaborando questa proposta, indisse il Giubileo dell'anno 2000. A sua volta Dom Helder tradusse la decisione del papa nell'ultima campagna della sua vita: "Per un anno 2000 senza miseria", uno slogan che riassume tutte le grandi operazioni che questo profeta ha lanciato.

Un Giubileo che rievangelizzi la stessa Chiesa

A Roma, in pieno Concilio, Camara riunì molti vescovi del Sud del mondo e alcuni dell'Europa. Con l'aiuto di teologi, come Congar, Chenou e altri, stilarono un documento profetico, nelle cui risoluzioni era detta la sostanza dell'impegno che intendevano assumere: "Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, rilevate le mancanze nella nostra vita di povertà secondo il Vangelo, [...] con umiltà e nella consapevolezza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e con tutta la forza di cui Dio ci farà grazia, ci impegniamo a:

- cercare di vivere come la gente comune del nostro popolo, per quanto riguarda l'abitazione, l'alimentazione, i mezzi di trasporto e tutto ciò che ne deriva;

- rinunciare all'esibizione e alla realtà della ricchezza, quale si manifesta in special modo negli abiti (tessuti ricchi, colori sgargianti) e nelle insegne di materiale prezioso (oro e argento):

- non possedere beni mobili o immobili, né conti bancari a proprio nome, intestando tutto, in caso di necessità, a nome della diocesi o di opere sociali e benefiche;

- affidare ai laici l'amministrazione delle diocesi, affinché possiamo essere più pastori che amministratori;

- rifiutare che ci si rivolga a noi con nomi o titoli che richiamino l'idea di grandezza e di potere;

- evitare tutto ciò che negli atteggiamenti e nei rapporti sociali, possa apparire come privilegio e preferenza per i ricchi e i potenti;

- dare priorità al lavoro di evangelizzazione e con i più poveri" (cfr. Concilium, n. 4/1977, pp. 43-44).

Questo progetto, che segnò una generazione di pastori, indica un primo obiettivo per questo Giubileo: rievangelizzare la vita, cominciando dalla Chiesa e dalle sue strutture.

E si può ben dire che Helder Camara tradusse in pratica questo programma, in profondità. Mai abitò in un palazzo, né possedette un'automobile, né accettò di essere chiamato "eccellenza" e nemmeno con la forma di rispetto alla terza persona, ecc. Ma, soprattutto, non confuse mai la missione profetica di testimoniare e annunciare il Vangelo con il potere ecclesiastico.

In piena dittatura militare brasiliana, quando l'ottimismo dei primi anni '60 andò svanendo, Helder Camara lanciò l'Operazione Speranza. Questo progetto cominciò con la distribuzione delle terre che appartenevano alla Chiesa e con la formazione di comunità nelle quali i contadini gestivano la terra e i suoi prodotti collettivamente. L'Operazione Speranza fu un eccellente lavoro educativo, affrontò il tema della dignità dei poveri e la ricostruzione della speranza per chi si sentiva escluso.

Dom Helder sosteneva che se l'analisi della realtà viene fatta soltanto a partire dall'osservazione dei fatti, la diagnosi non potrebbe che essere molto pessimista. Ma, se nelle "lenti" con cui osserviamo, c'è l'opzione della fede e della speranza, anche nella notte più fonda sapremo sempre distinguere le prime avvisaglie dell'aurora. Oggi, più che mai, è necessario "ricostruire la speranza".

Gli anni '70 videro la delusione di molte attese che erano fiorite nel decennio precedente. In America Latina si spense la speranza recata dalla "teoria dello sviluppo", le dittature si rafforzarono e, anche a livello ecclesiale, si assistette a una svolta conservatrice. Dom Helder fu allontanato dalla segreteria della Cnbb (Conferenza dei Vescovi brasiliani), dal Celam (Conferenza dei Vescovi latino-americani) e, in seguito, dovette assistere, in molti casi, alla messa in discussione di ciò che aveva costruito dopo il Concilio. Fu allora che egli lanciò il grido: "In tutto il mondo esistono minoranze abramiche, capaci di sperare contro ogni speranza e nuotando controcorrente. Bisogna animarle e riunirle".

Penso che oggi, in Italia, gruppi di solidarietà con il Sud del mondo vivono questa vocazione di essere "minoranze abramiche". Progetti come la Banca Etica, il bilancio di giustizia e il mercato equo--solidale sono espressioni di questo cammino e, in questo senso, sono anticipazioni del grande Giubileo della giustizia che Dio desidera per il mondo.

"Per un 2000 senza miseria"

Da molto tempo Helder Camara parlava della campagna contro la miseria. La proponeva come obiettivo, perché si continuasse, nel contempo, a lavorare agli altri progetti che sono stati qui ricordati. Quando rinunciò all'esercizio dell'episcopato, continuò a vivere a Recife, seguendo da vicino tutto ciò che accadeva. Numerosi sacerdoti, laici impegnati e semplici contadini mantennero uno stretto legame con il loro vecchio vescovo. Dom Helder ascoltava tutti e, non di rado, piangeva senza dir nulla. Progressivamente anche il fisico venne segnato dalla sofferenza. Cominciò a rinunciare a viaggi e discorsi. A quanti incontrava non si stancava di ripetere il suo: "Per un 2000 senza miseria". E quando gli chiedevano in che modo, rispondeva: "Favorendo una cultura dell'austerità e della solidarietà".

Sfortunatamente, il mondo entra nell'anno 2000 in una situazione di povertà e di ingiustizia ancora più grave di quella di allora. Ma, certamente, le "minoranze abramiche" - che anche noi siamo chiamati ad essere - non lasceranno che questo Giubileo sia solo un evento ecclesiale o transitorio.

Il Giubileo, il Giubileo biblico, se vogliamo dire così, per chi lo vuole intendere - e dom Helder lo intese bene -, ci chiama a ritornare al sogno e al progetto di Dio, cominciando a correggere quanto di contrario ad esso non cessa di rendere disumana la nostra storia, le nostre società, le nostre relazioni, le nostre esistenze. "Con le poche forze che ancora ci restano, continuiamo la nostra lotta alla miseria, in ogni luogo in cui sia possibile. Vogliamo fare ciò con tutti voi". Facciamo nostro quest'invito. Da subito e per ogni anno a venire. Allora anche il Giubileo 2000 avrà più senso e, soprattutto, sarà sempre Giubileo.

Le immagini violente di Dio:
la politica e il sacro

di Gabriele Mand’el khân *

«Nulla salus in bello. pacem teposcimus omnes»

(Nessun bene nella guerra; pace, noi tutti ti invochiamo).

(VIRGILIO Eneide, XI, 362).

Tema di questo intervento è: «Le immagini violente di Dio: la politica e il sacro». Inizio chiedendovi se vi siete mai accorti di questa semplice, abissale differenza: il sacro dà, il sacro dona, mentre la politica, qualsiasi politica, chiede, a principiare dal voto che ogni politico chiede che gli si dia. Poi domandiamoci: l’immagine di Dio nell’Islam è violenta? Leggendo correttamente il Corano, la risposta è: no! E' sempre e solo una immagine di pace. Tocchiamone allora, rapidamente, i punti salienti.

Il saluto usuale di un musulmano è: âlSalâm âleikum, «la pace sia con voi.» I cattolici hanno la bellissima frase: «Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis (Pace agli uomini di buona volontà), che è anche un concetto che si legge nel Corano, in cui la parola «pace» è citata trentacinque volte.

Ogni giorno il musulmano osservante compiendo le sue cinque preghiere quotidiane pronuncia la parola pace: venticinque volte nelle cinque preghiere canoniche (obbligatorie) e ventisei nelle eventuali preghiere supererogatorie. Poi dice il Corano (36a58): La parola di Dio è «Pace». E ancora (33a44): Il giorno dell’incontro il saluto [degli angeli ai fedeli] sarà: «Pace».

Il Corano dice ancora: (10a25) Dio chiama al soggiorno della Pace, e dirige chi Egli vuole sulla via diritta. (15a46) Entrate [in Paradiso] in pace e con sicurezza. E ancora (20a47): «Pace su chiunque segue una giusta Via».

Di Gesù il Corano dice (19a15): La pace su di lui il giorno in cui nacque, il giorno in cui morirà, e il giorno in cui verrà resuscitato vivo. E ancora nel Corano Gesù stesso ripete (19a33): La pace su di me il giorno in cui io nacqui, il giorno in cui morirò e il giorno in cui sarò risuscitato vivo.

Il termine «guerra» appare nel Corano nove volte, come pure il termine «lotta». «Combattimento», in modo esplicito ed implicito, in tutti i suoi significanti e tutte le sue accezioni, trenta volte. Guerra in arabo si dice harb. Anche qitâl, muqâtâl radicale che si legge nel versetto 2°190: Combattete [qâtilûâ] sulla Via di Dio quelli che vi combattono, ma non eccedete. Certo, Dio non ama quelli che eccedono. Guerra santa si dice âlharb âlquds (o anche âlharam âlqitâl), espressione che non appare mai nel Corano, per il quale in effetti nessuna guerra è santa.

Il termine jihâd viene tradotto a volte, in Occidente, con «Guerra santa», ma questa è una traduzione del tutto errata e capziosa. Jihâd significa «sforzo», ed è lo sforzo che ognuno deve compiere all’interno del sé per vincere le proprie passionalità terrene. Nel Corano appare cinque volte. Il termine «Guerra Santa» fu coniato invece in Europa, nel 1096, quando Pietro l’Eremita organizzò la Prima Crociata.

Si tenga presente, comunque, che il Corano, come la Bibbia, è anche un libro storico; quindi dà relazioni anche di battaglie del tempo del Profeta; per cui accenni specifici al combattimento armato sono spesso da riferirsi al tempo e alle circostanze, e non fanno parte dei precetti religiosi.

Per il Corano, comunque, la guerra è solo di difesa, ed è autorizzata in casi specifici. 22a39-40: E data autorizzazione a coloro che sono attaccati, dal momento che in verità sono lesi (e Dio è certo atto a soccorrerli); e a coloro che sono espulsi dalle loro dimore senza diritto (solo perché dicevano: «Dio è il nostro signore»). Se Dio non difendesse le genti deboli quando contro di esse muovono guerra le genti malvagie e violente, le abbazie verrebbero demolite, e così le chiese, le sinagoghe, le moschee, in cui il Nome di Dio è molto invocato. Dio sostiene coloro che Lo adorano. Dio certo è forte, è potente.

Riguardo a ciò, ecco un chiaro hadîth del Profeta: «Quando due musulmani si gettano l’uno contro l’altro con la spada in mano, entrambi, assassino e vittima, andranno all’inferno (Bukhârî, II,22)». E ancora in modo più specifico il Corano ingiunge, in 4a93: Chiunque uccide un credente, la sua ricompensa è l’Inferno, e vi rimarrà in eterno. E su di lui la collera di Dio e la Sua maledizione, e gli prepara un castigo enorme.

Inoltre, come proibizione generale per l’omicidio, in 17a33: Tranne che secondo Diritto (di legittima difesa), non uccidete anima alcuna: Dio l’ha proibito. E in 5a22: Abbiamo prescritto (ai figli di Israele) che chiunque uccide un essere umano non colpevole d’assassinio o di corruzione sulla terra è come se avesse ucciso tutta l’umanità; e chiunque gli concede salva la vita, è come se facesse dono della vita a tutta l’umanità.

Va considerato inoltre che per il Corano la religiosità non consiste soltanto nel seguire un ritualismo e basta. li Corano enuncia chiaramente: (2a177) La religiosità non consiste nel volgere il vostro volto verso oriente o verso occidente. La religiosità consiste (…) nel dare per amor Suo dei propri beni ai parenti, agli orfani, agli indigenti, ai viaggiatori, ai mendicanti, e per la liberazione degli schiavi; nell‘osservare la preghiera, nel versare la zakât. Sono veri credenti quelli che rimangono fedeli agli impegni assunti, che sono perseveranti nelle avversità, nel dolore e nel momento del pericolo. Ecco le genti sincere.

E ancora (2Sa63-76): Ecco come sono i servi del Misericordioso: camminano sulla terra con umiltà; quando gli ignari si rivolgono loro, dicono loro: «Pace» [...]. Quando dispensano, non sono ne’ prodighi né avari, poiché il giusto sta nel mezzo; e non invocano altra divinità accanto a Dio; e non uccidono anima alcuna se non secondo il diritto (di legittima difesa), perché Dio l’ha proibito; e non compiono atti osceni; chiunque lo fa incorre nel peccato, avrà un castigo doppio il giorno della risurrezione, e rimarrà oppresso dall’ignominia, a meno che non si penta, creda e compia opera buona; perché a quelli Dio muterà il male in bene - perché Dio è perdonatore, compassionevole. E non testimoniano falsamente, e passano nobilmente attraverso la vanità; e quando i versetti di Dio sono recitati non rimangono sordi e ciechi. E dicono: Signore, da’ a noi, alle nostre mogli, ai nostri discendenti, la serenità; e fa di noi un esempio ai fedeli». Del pari il Corano vieta vigorosamente e più volte il suicidio consapevole, e nessuna ragione, nessunissima ragione lo giustifica.

Poi chiaramente il Corano indica quale deve essere l’atteggiamento del musulmano nei confronti delle altre religioni rivelate: (2a 62) Sì, i musulmani, gli ebrei, i Cristiani, i Sabei, chiunque ha creduto in Dio e nel Giorno ultimo e compiuto opera buona, per costoro la loro ricompensa presso il Signore. Su di loro nessun timore, e non verranno afflitti.

(2a136): Dì: noi crediamo in Dio, in quel che ci ha rivelato, e in quello che ha rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, alle Tribù, in quel che è stato dato a Mosè e a Gesù, e in quel che è stato dato ai profeti dal loro Signore: noi non facciamo differenza alcuna con nessuno di loro. E a Lui noi siamo sottomessi. (5a68-69) Dì: Genti del Libro, sarete sul nulla fintanto che non seguirete la Torà, il Vangelo e ciò che vi è stato rivelato dal vostro Signore(…). Sì, i musulmani, gli Ebrei, i Sabei, i Cristiani - chiunque crede in Dio e nel Giorno ultimo e compie opera buona - nessun timore per loro e non verranno afflitti.

(4a163-165): Sì, noi ti abbiamo fatto rivelazione, come Noi abbiamo fatto rivelazione a Noè e ai profeti dopo di lui. E noi abbiamo fatto rivelazione ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, e alle Tribù, a Gesù, a Giobbe, a Giona, ad Aronne, a Salomone, e abbiamo dato il Salterio a Davide. Per comunicare con Mosè Dio ha parlato. E vi sono dei messaggeri di cui ti abbiamo narrato in precedenza, e messaggeri di cui non ti abbiamo narrato, messaggeri annunciatori e messaggeri avvertitori, affinché dopo i messaggeri non ci fossero più per le genti argomenti contro Dio. E Dio è Potente e Saggio.

Ma continuiamo a leggere che cosa dice il Corano a proposito della tolleranza interreligiosa: (9a6) Se un idolatra ti chiede asilo, concedigli asilo. Ascolterà la Parola di Dio. Poi fallo giungere in un luogo per lui sicuro. Ciò perché in verità è gente ignara. (18a29) La verità emana dal Signore. Creda chi vuole, non creda chi non vuole. E inoltre il Corano raccomanda il rispetto per i culti di tutte le religioni: Dio dice (22a67): Ad ogni religione abbiamo dato i suoi riti che vanno osservati. Perciò non discutano con te: invitali al Signore, e allora sarai su una giusta Via.

Quindi, la guerra è un atto umano prevaricatorio per chiari appetiti terreni, ma nessuna guerra è santa. Non è possibile muovere guerra per imporre la religione. Lo dice il Corano (2a256): Nessuna costrizione in fatto di religione: la giusta direzione si distingua da sé dall’errore, e chiunque rinnega il Ribelle e crede in Dio ha afferrato l’ansa più solida, che non si spezza. Dio sente e sa. Ancora nel Corano (23a62) Dio dice: Io non costringo nessuno, se non secondo le sue capacità. E nessuno verrà leso, poiché il detentore del Libro che dice la verità sono Io. D’altronde il Corano vieta di considerare ebrei e cristiani come nemici dell’Islam a causa della loro religione, poiché dice (29a46): Con le genti del Libro parlate in modo cortese (salvo che con coloro che sono ingiusti). E dite loro: «Crediamo in ciò che è stato rivelato a voi e in ciò che è stato rivelato a noi; il nostro Dio è lo stesso vostro Dio. A Lui noi siamo sottomessi».

E infine, lo stesso Profeta disse: «Tre sono i nemici dell’Islam: gli estremisti, gli estremisti, gli estremisti». Nulla vieta di intendere come estremisti sia gli integralisti sia i terroristi.

Oggi tutti invocano la pace ma, secondo i concetti di SEYYD HOSSEIN NASR, grande filosofo iraniano contemporaneo:

«La Pace non è mai raggiunta proprio perché dal punto di vista metafisico è assurdo aspettarsi che una cultura consumistica ed egoistica, dimentica di Dio e dei valori dello spirito, possa darsi la pace. La pace fra gli esseri umani è il risultato della pace con se stessi, con Dio, con la natura, secondo una componente etica che abbia superato false morali, preconcetti, interessi unilaterali e presuntuose ignoranze. Essa è il risultato dell’equilibrio e dell’armonia che si possono realizzare soltanto aderendo agli ideali precipui delle correnti mistiche. In questo contesto è quindi di vitale importanza la pace fra le religioni.

In tema di pace va poi detto qualcosa a proposito della “pace interiore”, che oggi gli esseri umani cercano tanto disperatamente da aver favorito l’insediamento in Occidente di pseudo-yoghi e di falsi guaritori spirituali. In realtà si avverte per istinto l’importanza dell’ascesi mistica ed etica, ma ben pochi accettano di sottoporsi alla disciplina di una tradizione autentica, la sola che possa produrre effetti positivi».

Il senso della pace, insomma, non è ancora il senso cosciente di condizione umana, quale la fede in Dio e l’adesione sincera alla religione (qualsiasi essa sia) suscitano autenticamente in ogni essere umano.

Così i Sufi dicono che l’ebraismo è la religione della SPERANZA, il cristianesimo la religione dell’AMORE, l’Islam la religione della FEDE. Ed ecco, questo è il terzo polo, equilibrio delle vicende umane in tutta la loro estensione: la Fede, la Speranza e l’Amore, origini della mistica, della spiritualità, dei valori sublimati che ci conducono alla comprensione di Dio, nostro Signore unico ed assoluto, il Creatore di tutto. La comprensione dei «valori dell’altro», il giusto equilibrio fra rispetto e reciproca conoscenza, sono i valori eminenti che possono restituire al mondo, dopo due millenni di incomprensioni e di lotte fratricide, quando la pace cui ambiscono tutti gli «uomini di buona volontà».

Un’altra considerazione, di carattere generale, è questa. Sorgono dappertutto movimenti per la pace, ma il concetto è ancor oggi uno stereotipo privo di senso reale. È più facile suscitare l’interesse di un popolo per la guerra pur usando lo specchietto per allodole della parola pace. Basta giustificare la guerra con i soliti luoghi comuni: «autodifesa; lezione di civiltà a gente barbara; portare la giusta via agli sbandati; un sacrificio nel nome della patria; diritti imprescindibili d’autoderminazione e di sovranità territoriale; difesa dalla barbarie altrui». In linea di massima si tratta solo di proiezioni (in senso psicologico). Pare che sia in vigore ancor oggi, nonostante secoli e secoli di esperienze negative, l’antico motto latino di Vegezio: «Qui desiderat pacem, praeparet bellum» (Epitome rei militaris). In psicologia questo si chiama «proiezione».

I romani avevano una frase ben nota e precisa: Homo hominis lupus. Solo se l’ebreo segue la Bibbia, se il cristiano segue i Vangeli, se il musulmano segue il Corano, l’uomo potrà vincere la sua bestialità terrena e conquistare la pace universale. Purtroppo la maggior parte degli esseri umani si professa religiosa, ma non segue in nulla i dettami della sua religione, o, ancor peggio, opera negativamente in nome della religione. Ogni religione, in effetti, predica la pace; mentre gli egoismi personali cancellano ogni propensione alla bontà, alla fratellanza, alla pace. E questo, questo sì è un considerevole soggetto di meditazione per tutti gli uomini di buona volontà.

Viviamo in un momento difficilissimo, per altro non molto dissimile da tanti altri che lo hanno preceduto. La propaganda politica fomentatrice di divisioni e di odio semina in perfetta malafede lo sconcerto, addirittura l’angoscia, per propri scopi che mirano ad un potere economico egoisticamente dittatoriale. La conseguenza è una sorta di stato di guerra continuo, e le vittime innocenti sono migliaia. Poiché gli imbecilli sono la maggioranza in questo basso mondo, la gente più proterva e più caina plaude a questo stato di cose, segue ed osanna i nuovi Hitler, beandosi del male e delle prevaricazioni che, in ultima analisi, alla fine essi stessi subiscono. Solo la pace, e solo i seminatori di pace, potranno portare a questo mondo martoriato la serenità che dopotutto è ancora in grado di desiderare.

Tutto ciò, naturalmente, quando le religioni vengono intese come espressione della propria fede, e non usate e abusate per le proprie mire politiche. Quando vengono espresse genuinamente e non sono corrotte da ignoranza, presunzione, malafede, malvagità, egoismo; quando la parola di Dio, che si riflette luminosa in ogni testo sacro che in Suo nome, predica la pace, viene seguita con purezza d’animo e con la bontà che si accompagna ad ogni fede autentica.

Tutto ciò è comunque quanto dice autenticamente il Corano. Certo, leggerlo e non capirlo è ignoranza; leggerlo, capirlo, e non metterlo in pratica è ignavia; leggerlo, capirlo, e mettere in pratica il suo contrario è scelleratezza; ma leggerlo, capirlo, mettere in pratica il suo contrario e indurre gli altri a seguire il proprio esempio è l’empietà più peccaminosa che ci sia. Notate bene: sostituendo il termine Corano con Bibbia, Vangeli, Canone buddhista, Grahant Mahal Sahib, e gli altri testi sacri, i fattori non cambiano!

E per finire. Noi sufi prediligiamo un detto del profeta Muhammad: Înna Âllâh jamîll yuhibbu âlJamâl (Certo: Dio è bello e ama la bellezza). In questo detto vi è tutto ciò che occorre all’essere umano: Dio, amore, bellezza. Se fossimo consapevoli che ogni nostra azione la compiamo al cospetto di Dio e che dopo la morte a Dio dovremo renderne conto; se compissimo ogni nostra azione amando noi stessi e amando gli altri, e se compissimo azioni belle, con il ritmo e la simmetria che Dio ha posto nel creato, allora tutto il mondo sarebbe un mondo di equilibrio e di pace, perché ognuno di noi sarebbe uno strumento di equilibrio, di pace e di amore per quel Dio unico che è il creatore di tutti noi e di tutti i nostri modi per adorarlo.


* Vicario generale per l’Italia della Confraternita sufi Jerrahi-Halveti.
Testo dell’intervento tenuto al Seminario dell’Associazione Itinerari e incontri all’Eremo di Monte Giove nel luglio 2003.

(da Vita Monastica, Gennaio-marzo 2006 n. 233)

Quadro sintetico delle relazioni
tra le comunioni gennaio- giugno 2005
(a cura di P. Franco Gioannetti)


I Cattolici ed altri Cristiani

Ortodossi

Il Cardinale Walter Kasper, presidente del PCUC si è recato a Mosca dal 20 al 23 giugno 2005 per continuare il dialogo con il Patriarcato di Mosca. Il primo incontro è stato con il metropolita Cyrille di Smolensk. Le due delegazioni hanno affermato che di fronte alla crisi morale esistente in tanti paesi del mondo le Chiese, Cattolica ed Ortodossa, debbono collaborare per promuovere i valori morali e spirituali della persona, della famiglia, della società. Poi sono stati toccati i problemi che esistono tra le due Chiese, in particolare le tensioni in atto in Ucraina tra greco cattolici ed ortodossi.

Precalcedoniani

La 16ma riunione della Commissione mista per il dialogo tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa siro-malankarese ortodossa (Chiesa indipendente) si è tenuta al Centro di Spiritualità di Kottayam dal 12 al 14 ottobre 2004.

La discussione si è svolta soprattutto su due documenti:

(1) “la tradizione liturgica dei cristiani di S. Tommaso fino al XIX secolo”

(2) “il primato petrino durante i primi quattro secoli: qualche punto di discussione”.

Le due chiese pur concordando, per molti aspetti, sul concetto di Chiesa come comunione hanno opinioni divergenti su alcune questioni essenziali, in particolare su quella relativa al primato petrino.

Per questo punto le due delegazioni hanno concordato sulla necessità di uno studio più approfondito. Si è parlato della necessità di una testimonianza comune e di un accordo e di una relativa pastorale per i matrimoni misti.

Il prossimo incontro è stato deciso per i giorni 7-9 dicembre 2005 e riguarderà:

“Riflessioni patristiche e liturgiche sul primato nella chiesa fino al secolo XVII”

“Una sola chiesa dei cristiani di S. Tommaso”.

La commissione mista per il dialogo tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Siro-giacobita Ortodossa (Chiesa autonoma dell’India sotto l’autorità del Patriarcato Siro-Ortodosso di “Antiochia che portava fino al 2004 il nome di “Chiesa Siro-Malankarese Ortodossa”) ha tenuto il suo IX incontro nel Centro di Spiritualità di Kottayam il giorno 11 ottobre 2004.

Il principale tema teologico che figurava all’ordine del giorno riguardava la Chiesa come comunione.

Sono stati discussi due documenti:

Il primo “Prospettive biblico-teologiche sulla comunione ecclesiale”

Il secondo “Camminare verso la piena comunione secondo il Concilio Vaticano II”.

Le due delegazioni hanno definito positivo lo stato del dialogo, hanno approfondito gli aspetti pastorali relativi ai matrimoni misti ed hanno deciso per i giorni 5-6/12/2005 uno studio più approfondito sui modelli di comunione del primo millennio.

La seconda riunione della commissione di dialogo tra le chiese cattolico-romana e pre-calcedoniane si è svolta a Roma dal 26 al 29 gennaio 2005 sotto la presidenza del Cardinale W. Kasper e del metropolita copto Bishoy di Damietta.

Vi hanno preso parte i rappresentanti delle chiese cattolica, copta, siriana, armena (dei due katolicosati), etiopica, malankarese, eritrea.

Vetero-cattolici

La riunione di primavera del dialogo nord-americano tra Chiesa Cattolica Romana e Chiesa Nazionale Cattolica Polacca (PNCC) ha avuto luogo a Buffalo (USA) nei giorni 10 ed 11 maggio 2005.

I punti principali della discussione sono stati un documento sulla Chiesa Polacca ed il suo impegno per l’unità ed il concetto di giurisdizione in un quadro di ecclesiologia comune.

Chiesa Assira d’Oriente

La commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Assira d’Oriente ha tenuto la sua decima riunione annuale dal 19 al 22 novembre 2004 a Londra.

I membri della commissione hanno riflettuto sugli emendamenti alla “Dichiarazione comune sulla vita sacramentale” proposti dal S. Sinodo Assiro.

Un ulteriore documento di lavoro ha riguardato gli “Elementi di Cristologia” nel Synodicon Orientale, in pratica l’eredità teologica antica della Chiesa d’Oriente.

Il tema centrale della riunione è stato però “Modelli di comunione attraverso la storia” e questo dall’età apostolica ai nostri giorni.

I partecipanti hanno convenuto che in materia teologica le tradizioni delle due chiese hanno molti elementi in comune.

Per questo quattro esperti, due per ogni chiesa, dovranno presentare degli studi alla prossima riunione di dialogo per una particolare attenzione alle implicazioni ecumeniche.

Battisti

L’Alleanza Battista Mondiale (ABM) ed il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità del Cristiani hanno organizzato congiuntamente un incontro a Washington nei giorni 10-11 dicembre 2004 per studiare i seguenti temi: “Il battesimo come ingresso nella Chiesa” e “Maria nella vita della Chiesa”.

Si è trattato del quarto incontro delle due Chiese. I documenti relativi al primo tema, sul battesimo, sono stati presentati dal Dott. Morrison, battista e da Suor Wood, cattolica.

Il tema su Maria è stato illustrato da Suor Butler per mezzo di due documenti: “Maria, madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa” e “L’Immacolata Concezione e la gloriosa Assunzione di Maria”.

Il dott. T. L. George, battista, ha invece parlato di “La Vergine Maria nella prospettiva evangelica”.

Discepoli

La commissione internazionale di dialogo tra Discepoli di Cristo e Chiesa cattolica si è riunita per la prima sessione della IV fase nel centro “Oasi S. Maria” a Cassano delle Murge (prov. Di Bari), dal 6 all’11 dicembre 2004.

In questa fase il principale tema di studio è stato:

“La presenza di Cristo nella chiesa con particolare riferimento all’Eucaristia”.

I temi dei precedenti incontri con relative “dichiarazioni d’accordo” erano stati:

- Apostolicità e Cattolicità nel 1982

- Chiesa in quanto comunione nel Cristo 1992

- Ricevere e trasmettere la fede: missione e responsabilità della chiesa 2002.

Questa sessione si è principalmente concentrata sulla “presenza di Cristo nella chiesa” e ne sono stati esaminati problemi e sfide che incontrano in proposito le due tradizioni.

II Ortodossi ed altri cristiani

Cattolici

In occasione della Festa dei SS. Pietro e Paolo una delegazione del Patriarcato Ecumenico ha comunicato che tutte le chiese ortodosse sono pronte a riprendere il dialogo teologico con la chiesa cattolica.

La delegazione ha assistito alla messa nella basilica di S. Pietro celebrata dal Papa il quale ha detto che, al di là delle divergenze esistenti sulla interpretazione e la portata del ministero petrino, cattolici ed ortodossi sono uniti nella successione apostolica; profondamente uniti nel ministero episcopale e nel sacramento del sacerdozio, inoltre essi confessano la medesima fede degli Apostoli, quale viene dalle Scritture ed è interpretata dai grandi concili.

La missione dei cristiani, ha aggiunto il papa, è di testimoniare insieme Cristo Signore e sulla base di questa unità, che è dono, aiutare il mondo a credere.

Il giorno successivo la delegazione è stata ricevuta dal papa, presente il Cardinale Kasper nel discorso di benvenuto Benedetto XVI ha detto che “l’unità che noi cerchiamo non è né assorbimento né fusione, ma rispetto della pienezza multiforme della chiesa che, conformemente alla volontà del Cristo, deve essere sempre una, santa, cattolica, apostolica”.

Il metropolita ortodosso Giovanni di Pergamo ha risposto dicendo che i santi venerati dalle due chiese ricordano che per 1000 anni cattolici ed ortodossi sono stati profondamente uniti condividendo la stessa successione apostolica e la stessa grazia sacramentale. Ha infine aggiunto che unità e cattolicità della chiesa sono inseparabilmente legate alla sua apostolicità e santità.

Precalcedoniani

Un incontro interortodosso sulle prospettive di dialogo teologico tra la Chiesa Ortodossa e le Chiese Ortodosse Orientali (precalcedoniane) ha avuto luogo dal 10 al 13 marzo 2005 presso il Centro Ortodosso di Chambesy presso Ginevra.

La riunione aveva all’ordine del giorno il proseguimento del dialogo, le critiche, formulate da molte chiese territoriali riguardo i documenti comuni del 1989 e1990. e’ stata sottolineata la necessità che la commissione mista prolunghi l’analisi dei punti controversi e chiarifichi eventuali formulazioni non chiare.

III Anglicani ed altri Cristiani

Cattolici

L’ultimo documento dell’ARCIC II: “Maria, grazia e speranza nel Cristo” è stato presentato a Seattle (USA) ed a Londra.

Si tratta di un documento che studia la mariologia, tematica contesa tra cattolici e protestanti.

Il tema ricorda che per anglicani e cattolici l’unico mediatore è Cristo e che quindi va rigettata ogni interpretazione del ruolo di Maria che possa oscurare questa affermazione.

I due copresidenti uno cattolico e l’altro anglicano, hanno affermato che la commissione ha voluto basarsi sulle Scritture e nella Tradizione comune esistente prima della Riforma e della Controriforma sforzandosi ad usare un linguaggio che evidenzi gli elementi comuni e trascenda le controversie del passato.

Maria, è stato detto, è un esempio di obbedienza fedele. Noi e Lei uniti nella preghiera e nella lode siamo una figura della chiesa.

I paragrafi § § da 6 a 30 del documento sono consacrati ad uno studio di Maria, madre di Gesù, nelle scritture..

Si è trattato di una lettura ecclesiale ed ecumenica che ha cercato di considerare ogni passaggio riguardante Maria nel contesto del Nuovo Testamento preso nel suo complesso, in rapporto al Vecchio ed alla luce della Tradizione.

I suddetti paragrafi affermano che i cristiani, nella continuità degli autori del N. T., hanno visto il punto culminante della traiettoria della grazia di Dio e della speranza di una risposta umana perfetta, nell’obbedienza di Cristo.

Su questo contesto cristologico si trova un modello similare in Maria. Il N.T. infatti non parla soltanto del fatto che Dio ha preparato la nascita di suo Figlio ma anche che ha santificato una donna ebrea nella linea delle Sante donne come Sara ed Anna.

A modo di riflessione scritturistica il § 30 afferma che la testimonianza della Scrittura chiede a tutti i credenti di ogni generazione di chiamare “Beata” Maria, questa donna ebrea che di umile condizione che viveva in una speranza di giustizia per i poveri e che Dio ha scelto e colmato di grazia.

Come era immaginabile critiche e perplessità sono state innumerevoli in casa anglicana dove si è detto che le conclusioni generali del documento sono state troppo cattoliche e quindi ben lontane dalla tradizione e comprensione anglicana.

Ma non si sono manifestate dure ostilità o progetti di interruzione al dialogo.

Ortodossi

La commissione internazionale di dialogo teologico tra anglicani ed ortodossi si è riunita dal 2 al giorno 8 giugno nel monastero ortodosso di Kikkos a Cipro. Nel suo discorso di benvenuto Mons. Nikiphoros ha espresso la speranza che questo dialogo possa portare dei frutti affinché un giorno sia possibile, per la forza dello Spirito Santo, tornare a comunicare allo stesso Pane ed allo stesso Calice.

Per giungere all’unità del mondo cristiano, ha aggiunto, bisogna pregare incessantemente e continuare il dialogo nella carità.

Il dialogo internazionale tra ortodossi ed anglicani è stato inaugurato nel 1973 con un esame dei fondamenti dottrinali del dialogo ed ha prodotto le dichiarazioni comuni di Mosca nel 1976 e di Dublino nel 1984.

L’attuale ciclo di conversazioni inaugurato nel 1989 ha per tema la fede comune nella Trinità, la persona di Cristo e lo Spirito Santo. La commissione si è riunita due volte ogni anno e nel complesso ha prodotto le seguenti dichiarazioni comuni su Trinità e Chiesa, il Cristo, lo Spirito e la Chiesa, il Cristo – l’umanità – la Chiesa, l’Episcopato – il Vescovo – la Chiesa, il Cristo – il Sacerdozio – la Chiesa, il ministero della donna e dell’uomo nella Chiesa, i concetti di eresia e di scisma, la ricezione.

Durante l’incontro di Kikkos la commissione ha rivisto gli ultimi tre testi.

Battisti

La Commissione Anglicana e l’Alleanza Battista Mondiale (ABM) hanno annunziato il 25.6.2005 la pubblicazione degli atti di cinque anni di dialogo comune.

Questa pubblicazione è il frutto di un processo ecumenico portato avanti con una formula originale; per assicurare, infatti, le voci cristiane e provenienti da tutti i continenti, i partecipanti di ognuna delle sei sessioni regionali di dialogo venivano dalla regione dove le conversazioni avevano luogo.

Soltanto un piccolo comitato di continuità ha partecipato a tutte le riunioni.

Ogni sezione regionale era stata messa al corrente dei lavori delle altre sezioni, ma ognuna di essa aveva la piena libertà di sviluppare le proprie intenzioni.

Alla fine della serie delle conversazioni il Comitato di continuità ha inviato ad ogni sezione regionale un rapporto finale pregando tutti i partecipanti di presentare reazioni e critiche.

Ambo le parti hanno espresso la loro soddisfazione per il lavoro e per i risultati raggiunti.

IV Luterani ed altri cristiani

Anglicani

Una nuova pubblicazione è apparsa, in inglese, contenente le dichiarazioni comuni ed altri risultati dei dialoghi tra luterani ed anglicani, a livello regionale, dal 1972 al 2002.

Riformati

Riunita in Sinodo generale a Parigi, la Chiesa Evangila Luterana di Francia (EELF) ha deciso di proseguire e di incoraggiare il processo di avvicinamento lanciato circa un anno e mezzo fa con la Chiesa Riformata di Francia (ERF), principale componente del protestantesimo francese con circa 300.000 membri.

Trenta delegati, su trentatre, del Sinodo dell’EELF ha approvato il processo di avvicinamento.

Una commissione composta da tre luterani e da tre riformati lavora per studiarne le modalità.






V Riformati ed altri cristiani

Pentecostali

Un incontro di Dialogo Teologico Internazionale tra i rappresentanti di alcune chiese pentecostali classiche ed i rappresentanti dell’Alleanza Riformata Mondiale ha avuto luogo dal 25 al 31 maggio 2005 a Detmold in Germania.

Si tratta della terza sessione di un ciclo di incontri aventi per tema “L’esperienza nella fede e nella vita cristiana”.

Il tema dell’incontro di Detmold era la maniera in cui i Pentecostali ed i Riformati fanno discernimento dell’azione dello Spirito Santo per comprendere la volontà di Dio e così sforzarsi di seguire Gesù Cristo e di testimoniare la presenza e la venuta del Regno di Dio.

Maria nella fede e nella vita della Chiesa

Devozione Mariana nella tradizione

di Giorgio Gozzelino

La sintesi dottrinale del Vaticano II in campo mariologico suppone e richiama i risultati del lungo cammino della tradizione della chiesa, sfociato nella progressiva esplicitazione delle prerogative mariane.

Immediatamente esaltata quale donna di incomparabile santità e come vergine e madre del Salvatore, Maria è stata via via riconosciuta nelle sue qualità di “corredentrice” e di sostegno del popolo cristiano e dell’umanità; poi, dopo secoli di intenso dibattito, come immacolata concezione, e infine come assunta e archetipo della chiesa. La comprensione dell’importanza e del valore del rapporto che ci unisce a lei richiede che si considerino anche e specialmente queste sue proprietà.

Anzitutto la concezione immacolata, che designa il punto di avvio dell’esistenza di Maria, cui si associa la santità totale come risposta a una proposta.

Immacolata concezione vuoi dire donna senza peccato (immacolata) fin dal suo concepimento (concezione): donna che viene all’esistenza in tale prossimità a Gesù da risultare del tutto sottratta, pur appartenendo realmente ad una umanità peccatrice, da qualsiasi condeterminazione nel male. E’ molto importante rilevare che questa situazione eccezionale non è stata prodotta da Maria ma da altri, a suo vantaggio; che ella, cioè, non si è fatta immacolata concezione ma si è trovata tale. Chi ha preparato questo suo inaudito punto di partenza non fu lei stessa, ma l’antico Israele, nella catena dei «poveri di Jahvé» culminanti, come insegna il vangelo dell’infanzia di Luca, precisamente in lei, la più santa tra tutte le creature, punta e apice della santità della chiesa come comunità vincolata al Cristo.

La concezione immacolata rievoca, in forza del suo statuto di proposta, l’esaltante mistero della predestinazione in Cristo, interpretandolo rettamente come verità della destinazione previa di ogni uomo alla ricapitolazione in Gesù risorto. Guardando alla condizione nativa di Maria, si comprende che nulla è assurdo all’infuori del peccato, che per nessuno la vita si prospetta nella modalità di un cammino verso l’ignoto, che tutto possiede un senso preciso: Gesù Cristo; nella gravitazione verso l’immacolatezza, intesa per l’appunto quale prossimità a Gesù e a Dio.

A sua volta, la santità eminente di Maria insegna, grazie al proprio statuto di risposta, che la vita umana in ultima istanza riesce o fallisce in quanto sviluppa o arresta la predestinazione all’unità col Cristo, null’altro. La madre di Dio si impone come la creatura più riuscita della storia sul piano del rapporto con Dio, non della realizzazione di qualche valore profano. La sua grandezza rivela che la chiave di volta del successo di un’esistenza va cercata nell’assimilazione dei valori tipici del vangelo; a tal punto che ogni altra realizzazione mantiene il proprio senso e la propria consistenza solo a condizione di integrarsi a questa assimilazione.

Vergine e madre. Mentre la concezione immacolata inaugura l’esistenza di Maria, e la santità totale comincia a delinearsi con i primi atti della sua libertà, per poi estendersi al resto della sua vita terrena e concludere nell’eternità, la maternità divina e la verginità perpetua cominciano a far parte della sua identità con l’arcana fecondazione dello Spirito svelata da Luca nel racconto dell’annunciazione. Anch’esse debbono essere viste congiuntamente, nel senso suggerito dal titolo classico: vergine e madre.

Riflettendo sulla maternità divina, i Padri amavano ripetere che ella ha concepito Gesù ben prima mediante la fede che attraverso il suo grembo di madre: prius mente quam ventre concepit. La loro asserzione è ineccepibile, perché l’evento biologico della maternità fisica di Maria è veramente umano, e dunque assai più che biologico; eppure si muove sul terreno d’una straordinaria integrazione del salvifico col biologico.

Resta il fatto, tuttavia, che la maternità di Maria differisce dalla nostra per la ragione di non essere solo salvifica ma anche biologica; e che la possibilità della nostra generazione da Gesù dipende dalla completezza della sua maternità, in cui viene alla luce lo straordinario spessore dell’essere cristiano, realizzato da lei allo stato puro.

Verginità è parola che per sé significa amore e santità (cf. 2Cor 11,12). Ma esiste un’accezione più stretta, per la quale si chiama verginità una situazione oggettiva capace di conferire una speciale visibilità ed efficacia all’attuazione dell’amore.

In questo secondo senso (che è quello designato dall’attribuzione del titolo di «vergine» alla Madonna), la verginità di Maria suppone l’asserzione della sua santità, e precisa che essa è maturata entro un contesto esistenziale oggettivo specificato dalla concentrazione su Cristo. Si parla, come è noto, di una verginità prima del parto (detta pure concezione verginale), nel parto, e dopo il parto.

La maternità divina documenta esistenzialmente che l’uomo salvato è e deve essere salvatore di se stesso e degli altri, a tal punto da contribuire a dare carne (la propria e quella dei fratelli), a colui che lo ha salvato facendosi carne come lui.

La verginità perpetua precisa che ciò si compie nell’ambito esclusivo dell’amore, nella necessaria subordinazione della fecondità alla recezione di Dio (come la maternità divina dipende dalla impregnazione dello Spirito e non viceversa, così la fecondità dell’apostolato dipende dalla santità personale e non viceversa), e con modalità oggettive diverse.

Glorificazione totale. Il rapporto essenziale di Maria col Figlio, sviluppato nella sua santità e visibilizzato con particolare intensità della verginità perpetua, si è tradotto in quel reale contributo di amore e di sofferenza all’opera di Gesù che viene tradizionalmente designato col nome, per alcuni versi controverso, di corredenzione.

Anche la corredenzione connota un tratto distintive del volto di Maria emerso progressivamente nel corso della sua vita. L’assunzione, invece, dice qualcosa che ella ha acquisito con la conclusione della sua vicenda terrena; e quindi rappresenta l’antefatto immediato della sua situazione attuale di Triade universale dell’umanità. In Maria assunta la gloria è già ora totalizzata, così come sarà al termine della storia per l’intera umanità.

Il dogma asserisce che nel caso della Vergine la glorificazione ha coinvolto anche il corpo. Perciò stesso addita in lei l’anticipazione di quanto succederà alla fine della storia, riconoscendole la capacità di ricapitolare anche sul versante del compimento l’umanità. Questo attesta che il successo del progetto di Dio sul mondo è oramai un fatto acquisito; anzitutto in Gesù, e poi derivatamente in Maria, ricapitolazione della chiesa e dell’umanità

Archetipo della chiesa. Ed eccoci alle due ultime proprietà di Maria, la sua maternità spirituale universale e l’esemplarità suprema che fa di lei l’archetipo della chiesa.

Come e perché la risurrezione ha collocato Gesù al cuore del mondo facendolo Signore della storia di tutti e di ciascuno, così l’assunzione ha reso Maria signora e regina degli uomini (Nostra Signora), aiuto, consolazione e sostegno permanente di ogni creatura.

Questo apporto di Mafia, che la coinvolge nell’attuale azione di salvezza del Cristo risorto sul mondo, viene detta da alcuni «mediazione universale» da altri «distribuzione di tutte le grazie», da altri ancora «intercessione universale». Il più delle volte si parla di «maternità spirituale universale», e sovente si passa dall’astratto al concreto parlando di Maria «ausiliatrice, soccorritrice, consolatrice, mediatrice, ecc.». Optando per questa impostazione, il Vaticano Il ha fatto ricorso a quattro termini correlati: «avvocata, ausiliatrice, soccorritrice e mediatrice» (LG 62).

L’aiuto di Maria, inoltre, comprende tanto l’ambito dell’efficacia quanto il piano dell’esemplarità. Ella è assieme sostegno e luce, spinta a procedere nel doloroso cammino della santità e manifestazione eminente dei suoi caratteri concreti. La vita di Maria costituisce l’illustrazione esistenziale più grande della realtà della grazia cristiana, e risponde pienarnente agli interrogativi sull’esito della santità.

Sulla linea della scelta ecclesiologica del Vaticano II, ci sembra dunque che la prospettiva più promettente sia quella dell’antropologia, che vede nella Madonna la chiave di lettura dei valori della chiesa e dell’uomo.

In sostanza, per ciascuno dei privilegi di Maria si fa luce una parallela proprietà del cristiano che ne riproduce i contenuti, sia pure a livello inferiore, traendo sostanza da esso. E questo significa che la Madonna verifica un principio strutturale ecclesiologico che potremmo chiamare dell’eminenza nella comunanza, da formulare più o meno così: nella chiesa tutti hanno tutto, ma ciascuno possiede i suoi valori a modo proprio; e per ogni valore esiste un apice (singola persona o gruppo) che invera quel valore in forma eminente, a beneficio di tutti. Nel caso: se nella chiesa tutti posseggono i contenuti sostanziali delle proprietà di Maria, ognuno li realizza a modo proprio; ed esiste un vertice, precisamente lei, che attua quelle proprietà nella modalità di una pienezza che arreca vantaggio a tutti.

Maria dunque è più di noi quello che noi siamo, a nostro servizio. Ella si impone non semplicemente alla ammirazione ma alla feconda imitazione. E la ragione che la fa madre e sorella, capofila dei molti fratelli della comunità umana in cammino verso Dio, sotto la guida dello Spirito di Gesù.

Maria nella fede e nella vita della
Chiesa

Maria oltre il devozionismo

di Giorgio Gozzelino


La liturgia della chiesa mette sulle labbra degli angeli che accolgono Maria in cielo una domanda piena di ammirazione: «Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?» (Ct 6,10).

Anche noi ci poniamo questa domanda, ma tendiamo a modularla in modo diverso. Segnati dalla prevalenza dell’interesse per l’utile e il conveniente, ci chiediamo prima di tutto due cose:

— quale importanza abbia la riflessione sul mistero di Maria per la comprensione della fede

— quale utilità possegga per l’attuazione concreta della fede nella vita

È la strada che intendiamo percorrere, desumendo la risposta da tre fonti di disuguale portata: una, negativa, consistente nel mettere a frutto le lezioni che provengono dalle contestazioni della dottrina e del culto mariano; e due, positive, derivate dalle indicazioni del Vaticano TI e dai preziosi suggerimenti contenuti nei dogmi mariani proposti dalla storia della tradizione cattolica.

I suggerimenti delle contestazioni

Parlando delle lezioni delle contestazioni non intendo riferirmi alle critiche ottuse o viscerali ma solo a quelle intelligenti.

Chiamo critiche ottuse le contestazioni che nascono dalla semplice ignoranza della dottrina della chiesa: quelle, per intenderci, che talora si costatano in preti che non hanno mai fatto uno studio serio della mariologia, né nei corsi istituzionali del seminario, né dopo.

Ritengo viscerali gli atteggiamenti fondamentalmente adolescenziali di chi rifiuta o disattende la teologia e il culto mariano per la sola ragione della loro scarsa compatibilità con i criteri di giudizio e di vita delle culture oggi dominanti. Non v’è dubbio che il vino forte del pensiero mariano non si contempera facilmente con i toni del pensiero debole proposto dal laicismo d’oggi.

Chiamo critiche intelligenti, invece, le riserve o i dinieghi avanzati da chi si oppone, non affatto per ignoranza o per la convinzione che il vero si identifichi con l’opinione prevalente del momento, bensì per ragioni teologiche precise, magari discutibili, ma comunque rigorose: come succede, ad esempio, nel contenzioso che separa il pensiero cattolico da quello delle altre confessioni cristiane.

Limitandoci all’area delle contestazioni motivate, prendiamo il pensiero protestante luterano.

A che cosa si debbono le difficoltà del pensiero riformato nei confronti del pensiero e della pratica cattolica riguardanti la Madonna? Certamente non ad una pregiudiziale antipatia per la Vergine di Nazaret, e neppure ad una scarsa sensibilità per l’importanza che la fede ha avuto nella sua vita. A cominciare da Lutero, la teologia evangelica non fa mistero della sua ammirazione per la santità di Maria, al punto da consentire a Giovanni Paolo Il di rallegrarsi del fatto che le comunità di occidente «convengano con la chiesa cattolica in punti fondamentali della fede cristiana anche per quanto concerne la vergine Maria» (RM 30).

Il contrasto nasce quando dall’ammirazione, aperta al riconoscimento di un eventuale ruolo di esemplarità nella chiesa, si passa alla supplica e all’affidamento, i quali suppongono la presenza di un’azione salvifica della Madonna a vantaggio dell’umanità. Qui infatti scattano inesorabilmente i meccanismi di difesa delle concezioni riguardanti punti nodali quali la dottrina della giustificazione (antropologia), l’idea di Dio (trattato su Dio), e l’interpretazione della missione della chiesa (ecclesiologia).

La qualifica mariana che suscita le più accese reazioni delle confessioni evangeliche, e di chi più o meno avvertitamente ne ha assunto le idee, non è tanto quella della verginità (per lo meno quando venga intesa, nella sua accezione più ampia, quale semplice sinonimo di amore e di disponibilità nei confronti di Dio) e neppure quella della maternità divina, bensì la proprietà di ausiliatrice, o anche - per dirla con il concilio - di avvocata, soccorritrice, “mediatrice” (LG 62). Perché essa suppone e propone una concezione antropologica, teologica ed ecclesiologica quasi antitetica a quella luterana.

Quale che sia la valutazione da dare alla contestazione di questi fratelli separati, bisogna riconoscerle il merito dell’impartire una lezione irrinunciabile: la mariologia implica e porta al limite le questioni essenziali del rapporto della creatura con il creatore; lungi dall’essere un discorso di appendice, essa rappresenta un pettine in cui si incagliano impietosamente i nodi dei più importanti problemi della fede.

La dottrina luterana della giustificazione è obbligata a proporre l’idea di un Dio che anziché coinvolgere l’uomo nell’opera della propria autenticazione e costruzione, gli impone il ruolo di un oggetto immoto, tanto più genuino quanto più inerte; di un Dio, dunque, che non promuove ma accantona.

E toglie alla santa chiesa di Dio la possibilità di essere vera ecclesia congregans, segno efficace di grazia, madre feconda di vita spirituale, per conservarle solo la qualità di ecclesia congregata, frutto felice dell’opera esclusiva di Dio in Cristo. Le mediazioni cadono.

Ebbene, la mariologia cattolica fa esattamente l’opposto. Come hanno ripetuto i maestri stessi del pensiero riformato, essa addita in Maria l’attestazione fattuale del coinvolgimento dell’umano creaturale nell’opera divina del creatore. Per ciò stesso mette in discussione l’intero impianto della teologia luterana.

Il contenzioso tuttora in atto con i nostri fratelli separati conferma con singolare chiarezza la dichiarazione del Vaticano II per il quale la dottrina mariana, ben lontana dal ridursi a un terreno di mero sentimentalismo, «riunisce in qualche modo e riverbera in sé i massimi dati della fede» (LO 65).

Le ragioni del concilio

La chiarificazione al negativo fin qui prospettata prepara ed esige l’approccio decisivo determinato dalla lettura autentica delle Scritture compiuta dalla chiesa.

Sulla base della messe di testimonianze neotestamentarie su Maria, che senso e quale giustificazione posseggono, secondo la tradizione della chiesa, la riflessione e la devozione mariana?

Desumo la risposta dapprima dal capitolo VIII della Lumen gentium. II concilio dedica alla mariologia un capitolo intero della sua più importante costituzione dogmatica. E già una prova che non la ritiene affatto un dato marginale, bensì un elemento irrinunciabile dell’autointerpretazione della Chiesa.

Il concilio intitola il capitolo dedicato alla Madonna: “La beata vergine Maria, madre di Dio, nel mistero di Cristo e della chiesa”, definendo la sua identità entro un duplice riferimento: l’uno, primario, rivolto al Cristo; e l’altro, subordinato, rivolto alla chiesa. È un invito a mantenere ben fermo il legame della mariologia con la cristologia e con l’ecclesiologia.

Il concilio parla della Madonna all’interno della costituzione sulla chiesa e le dedica il capitolo che chiude la successione dei suoi temi. Per ciò stesso sottolinea l’appartenenza di Maria alla costituzione della chiesa e suggerisce (per il naturale rimando dell’ultimo capitolo al primo) che la specificità di Maria va considerata, anziché sul piano dell’istituzionale, su quello della santità.

La prima costatazione aiuta a prendere coscienza di un fatto capitale che tronca in radice ogni discussione sulla necessità della presenza di Maria nel pensiero teologico e nella pietà della chiesa: la Madonna non è una scelta dell’uomo, ma di Dio, non è un elemento di un progetto della creatura bensì una parte integrante del concreto disegno di Dio sul mondo; da accogliere come, quanto e perché si deve accogliere questo disegno stesso.

La seconda costatazione favorisce la percezione di un ulteriore motivo di accettazione del rapporto a Maria, di pari importanza del primo. Il riferimento a Cristo della Madonna è talmente profondo da entrare nella definizione non solo di Maria ma anche dello stesso Gesù. Il Verbo è infatti tale in rapporto al Padre e allo Spirito; ed è incarnato, precisamente in rapporto a Maria. In accordo con quanto le prime generazioni cristiane hanno immediatamente compreso e formulato nei simboli della fede, l’identità di Gesù, vero uomo che è infinitamente di più di un semplice uomo, si racchiude nella semplice dichiarazione che egli è «concepito di Spirito santo e nato da Maria vergine».

Per dirla in altri termini Gesù è assieme e indisgiungibilmente il filius Patris e il filius Mariae. Dunque, come e perché lo è Gesù, anche il cristiano deve essere egli pure vero figlio del Padre e vero figlio di Maria. Da questo punto di vista la vera devozione mariana rettifica esistenzialmente la ricorrente inclinazione a dividere il Cristo della fede (ossia della propria personale interpretazione) dal Gesù della storia, a costruirsi un’immagine arbitraria e ideologica del Signore che reinventa ogni volta da capo il cristianesimo facendo leva sul fatuo principio del “secondo me” (secondo me, il Cristo è questo o quest’altro).

La terza costatazione, infine, ci obbliga a concludere che l’accettazione della chiesa comporta per forza di cose l’accettazione anche di Maria, e viceversa. L’una rimanda all’altra con tale verità che il disattendere l’una significa compromettere al contempo la vitalità dell’altra.


Venerdì, 22 Giugno 2007 02:50

Maestri da non imitare (Karin Heller)

Maestri da non imitare

di Karin Heller

Mc 7,1-23

Allora
si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da
Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo
con le mani immonde, cioè non lavate - i fari sei infatti e tutti i
Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito,
attenendosi alla tradizione degli antichi, e tornando dal mercato non
mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose
per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame
- quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non
si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con
mani immonde?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi,
ipocriti, come sta scritto:

Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.

Trascurando
il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E
aggiungeva: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio,
per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte.
Voi invece dicendo: Se uno dichiara al padre o alla madre: È Korban,
cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli
permettete più di fare nulla per il padre e la madre, annullando così
la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose
simili ne fate molte».

Chiamata
di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e intendete bene:
non c'è nulla fuori dell'uomo che entrando in lui, possa contaminarlo;
sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo».

Quando
entrò in una casa lontano dalla folla, i discepoli lo interrogarono sul
significato di quella parabola. E disse loro: «Siete anche voi così
privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal
di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel
ventre e va a finire nella fogna?». Dichiarava così mondi tutti gli
alimenti. Quindi soggiunse: «Ciò che esce dall'uomo, questo sì
contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini,
escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri,
cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia,
superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di
dentro e contaminano l'uomo».

(Marco 7,1-23)


Per
colui che non vive in un ambiente ebraico o che gli è estraneo,
l'incontro di Gesù con i farisei conservato da Marco (cf anche Mt 15,1-9 e Lc11,38) sembra emergere da un'altra epoca. Tutte queste controversie non
sono superate? Perché riportare simili discussioni, quando la
maggioranza dei cristiani è uscita dalle nazioni pagane alle quali non
è stato imposto il giogo che né i padri né coloro che sono nati ebrei
sono stati in grado di portare (At 15,10)?

Ma
per colui che crede, la Scrittura non è un cimelio del passato, un
monumento ai morti davanti al quale ci si inchina periodicamente con
rispetto: è una parola viva, la parola nella quale Dio vuole
comunicarsi a noi lungo i secoli. Ciò significa che certi eventi, e più
particolarmente i diversi incontri che si trovano a dovizia nella
Bibbia, sono inseparabili dalla rivelazione cristiana. Questa
rivelazione svanirebbe, se questi incontri non esistessero. Quindi,
nell'evento dell'incontro di Gesù con i farisei accaduto duemila anni
fa, c'è una rivelazione, una verità di Dio per l'uomo, per gli uomini
di ogni epoca. Anche per noi, uomini alle soglie del duemila. Qual è
questa verità?

La rivelazione di un male profondo

All'epoca
di Gesù, i farisei erano maestri di tutti quelli che avevano scoperto
nella Legge del Signore una lampada per i loro passi, una dolcezza più
grande di quella del miele, un tesoro più desiderabile di quello
dell'oro fino (SalAt 22,3). Allora, dove sarebbe il
«male» a voler vivere in tutto conformemente alla Legge del Signore in
cui l'uomo si compiace meditandola giorno e notte (Sal 1,2)?118,105 e 19,11). San Paolo stesso era stato formato alla loro scuola,
quella di Gamaliele, nelle più rigide norme della legge (At22,3). Allora, dove sarebbe il «male» a voler vivere in tutto
conformemente alla Legge del Signore in cui l'uomo si compiace
meditandola giorno e notte (Sal 1,2)?

Nel
passato di Marco che studiamo, la discussione tra Gesù e i fari sei
scoppia a causa dei discepoli che prendono il cibo con «mani immonde»,
cioè non lavate fino al gomito secondo la tradizione degli antichi (Mc7,1-3). A prima vista, il dibattito potrebbe sembrare una discussione
tra genitori preoccupati di inculcare ai loro figli un «saper vivere»
secondo lo stile degli antenati e i figli che non se ne curano o non ne
vedono la necessità.

Invece
l'incidente rivela un disagio più profondo di quello di un conflitto
tra generazioni. Rivela, in effetti, che I 'unità del doppio
comandamento dell' amore di Dio e del prossimo è frantumata. E, cosa
forse ancora più grave, i trasgressori coltivano l'illusione di essere
a posto in coscienza.

Gesù
denuncia l'incongruenza di tale comportamento con due citazioni
bibliche. Comincia citando Isaia: «Questo popolo mi onora con le
labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7, 6-7).
Questa citazione mette in rilievo un divario tra il culto a Dio, cioè
il comandamento dell'amore di Dio, e l'insegnamento che si allontana
dalla Parola di Dio, fino a sostituirla con la tradizione degli uomini.
Così il popolo pratica un culto che ha tutte le apparenze di un «vero»
servizio di Dio, mentre invece la sua vita quotidiana non è più
regolata secondo i precetti del Signore, bensì secondo le convenienze
di ciascuno. Il culto serve a tacitare la coscienza e il comandamento
dell'amore di Dio è usato per dissimulare il disprezzo verso il
prossimo. Poi Gesù cita Mosè, che insegna con l'autorità di Dio: «Onora
tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre o la madre sia messo a
morte» (Mc 7,10). A questo punto, Gesù mette in rilievo
l'ambiguità circa il comandamento dell'amore del prossimo che, nel caso
presente, interessa il padre e la madre. I genitori sono esposti ad
un'esistenza miserabile, se non alla morte, perché i figli hanno preso
il pretesto di dichiarare «offerta sacra» (korbàn in aramaico) i beni destinati al sostentamento di padre e madre (Mc7,11-13). Era una subdola scappatoia per evitare l'aiuto agli altri,
con il pretesto di una causa religiosa. Quando l'uomo mette davanti
«l'amore di Dio» senza curarsi del prossimo, produce una mostruosità.
L'assurdità di questo gesto diventa ancora più evidente sapendo che i
templi dell'epoca, e quindi anche il Tempio di Gerusalemme, avevano,
oltre alla loro specifica funzione religiosa, anche quella di essere un
centro finanziario; erano l'equivalente delle nostre banche. Quindi, in
questo senso «l'offerta sacra» non era un obolo per realizzare una
buona opera, ma costituiva ciò che chiameremmo oggi un investimento
finanziario.

Una rivelazione dell'identità di Gesù

Dopo
questa dimostrazione, Gesù ritorna al problema iniziale, quello che
aveva causato la sua viva reazione: perché i suoi discepoli non si
comportano secondo la tradizione degli antichi e prendono il cibo con
«mani immonde»? L'insegnamento di Gesù è comprensibile soltanto in
considerazione di ciò che Dio ha creato e voluto all'origine, quando ha
messo l'uomo e la donna all'interno di una creazione integralmente
buona (Gn 1). Infatti, all'origine non ci sono elementi puri o
impuri. Non c' è nulla che potrebbe insozzare l'uomo dal di fuori.
L'esterno, cioè la creazione; e l'interno dell'uomo sono omogenei. Non
c'è possibilità di conflitto tra loro quando l'uomo rimane unito a Dio
mediante il comandamento divino, che insegna come comportarsi nel
sistema complesso della creazione. Quando l'unità è spezzata dal
peccato, il cuore dell'uomo è diviso, il suo interno non corrisponde
più all'esterno: ciò si manifesta attraverso i perversi disegni
prodotti dal cuore dell'uomo.

Quanto
a Gesù, Lui è venuto nel mondo per riprendere il progetto originario
che Dio creatore aveva preparato per il primo Adamo. Ristabilisce in se
stesso il rapporto frantumato tra interno ed esterno, tra il cuore
dell'uomo e la creazione, affrontando il caos del deserto, vivendo con
le fiere, sostenendo la tentazione di Satana (Mc 1,12-13). In se
stesso, figlio dell'Uomo e Verbo eterno, realizza l'unione perfetta con
il Padre. È da questa unità che vede il mondo; è ancora da questa
prospettiva che giudica il comportamento dei fari sei e lo ritiene
inaccettabile.

La verità dell'incontro

Come
già notato, l'incontro tra Gesù e i farisei si colloca nella logica di
una rivelazione. Questa rivelazione non «cade dal cielo» come un
aerolito estraneo al nostro universo, ma si realizza attraverso parole
ed azioni molto precise, quelle di Gesù e dei farisei. Parole ed azioni
di entrambi sono l'espressione esteriore non dissociabile dal loro
stato interiore.

Nel
caso dei farisei c'è omogeneità tra il cuore e le azioni, entrambi
ugualmente corrotti. E tale corruzione rende la guarigione difficile,
se non impossibile. Sarà infatti molto improbabile trovare un punto di
accordo con loro che si considerano giusti. Gesù ha dichiarato di
essere venuto per i peccatori, non per i giusti (Mc 2,17). Potrà
verificarsi un incontro fruttuoso tra Gesù e i farisei ? Come potranno
cambiare, educandosi alla logica del donare senza la pretesa del
contraccambio? Nel presente caso, siamo di fronte a una parte che non
vuole comunicare con Gesù.

In
effetti, incontrare Gesù significa incontrare il Verbo eterno di Dio
venuto nella carne; solo Lui può favorire il cambiamento e solo in Lui
è data agli uomini la vita che esiste dall'eternità tra il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo. Quindi, incontrare Gesù significa per l'uomo
la possibilità inaudita di accedere alla guarigione del cuore grazie al
dono dello Spirito, di ritrovare l'unità originale tra interno ed
esterno voluta dal Padre, di entrare nella vita beata della
risurrezione. Viceversa, fallire quest'incontro significa fallire la
VITA come Dio la promette, la dà e la realizza dall' eternità nel
Figlio suo Gesù.

I discepoli uniti per grazia di Gesù

Quanto
ai discepoli di Gesù, devono ricevere una doppia rivelazione
dall'incontro del loro Maestro con i farisei. Dapprima: possono
prendere il cibo senza essersi lavate le mani, perché il loro Maestro
lo autorizza. Infatti, in ragione della presenza di Gesù, anche loro
sono già mondi per la Parola che egli ha annunciato, secondo
l'espressione di san Giovanni (Gv 15,3). Dovranno però essere
attenti e ricordare che anch'essi corrono sempre il rischio di
diventare farisei, annullando il comandamento dell'amore di Dio e del
prossimo e sostituendolo con precetti e tradizioni umane.

Se
l' incontro tra Gesù e i fari sei prende molto spazio nei Vangeli, è
giustamente perché anche noi siamo permanentemente esposti a diventare
«vecchi» fari sei forti delle nostre tradizioni di 2000, 200, 50 o 3
anni. Come era già il caso al tempo di Gesù, siamo anche noi esposti
ogni giorno al pericolo di annullare la Parola di Dio (Mc 7,9.13), il comandamento divino, per mettere al suo posto i nostri gusti, le nostre convenienze, i nostri desideri personali.

Grazie
al Vangelo, che è Buona Notizia, sappiamo come dobbiamo comportarci per
vivere correttamente il duplice comandamento dell' amore di Dio e
dell'amore del prossimo. A loro modo, anche i farisei ci rendono un
grande servizio, se non altro perché ci insegnano come non dobbiamo
comportarci.

La costruzione della torre di Babele è legata, nell'immaginario, alla confusione delle lingue e alla dispersione dei popoli. Dio avrebbe punito la creatività degli uomini e il loro sforzo collettivo? Strano mito! E ancor più strano racconto, in cui abbondano tanto i giochi di parole che le precisazioni tecniche sull'architettura mesopotamica. Per comprendere meglio il testo di Genesi 11,1-9, bisogna situarlo nel ciclo della storia primaria.

Fasi della cultura europea d'oltralpe

La teologia della crisi
e la cultura europea
in Paul Tillich (1886-1965)*

di Renzo Bertalot


A- Chi è PaulTillich

Nacque in Prussia nel 1886. Insegnò filosofia e teologia a Marburgo, Dresda, Lipsia e Francoforte. Fu molto sensibile ai movimenti del proletariato e molto vicino alle rivendicazioni socialiste che gli sembravano esprimere una “fede inconscia”, animata da uno spirito profetico aperto a richiamare molte indicazioni dell'Antico Testamento. Fu tra gli organizzatori del socialismo religioso europeo. Nel 1933 perse la sua cattedra con l'avvento del nazismo ed emigrò negli Stati Uniti. Insegnò all'Union Theological Seminary di New York e nel 1955fu eletto professore all'università di Harvard. Tillich raggiunse l'America con l'animo pieno di amarezza. Aveva conosciuto la demonia della cultura tedesca. Dentro di sé conobbe il vuoto di una civiltà distrutta e, guardando al passato, non poteva non parlare della maledizione europea. Era affascinato dai nuovi orizzonti che si aprivano sul continente americano per l'incontro fecondo con tutte le culture viventi. Il meglio di ogni tradizione nazionale diventava il patrimonio della riflessione del nuovo mondo. L’ampio respiro e l'apporto veramente universale di tante e diverse civiltà mettevano in rilievo gli aspetti demoniaci delle società europee, capaci di asservire anche gli spiriti più avvertiti del XX secolo.

Tra le sue numerose pubblicazioni va ricordata soprattutto la sua Teologia Sistematica che, nonostante il forte ritardo, apparirà anche in Italia edita dalla Claudiana. Di quest'opera R. Niebuhr, noto teologo americano, ha detto: “La lettura della Teologia sistematica può trasformarsi in un grande viaggio alla scoperta di una nuova concezione della vita umana, ricca e profonda, comprensiva eppur dettagliata in presenza del mistero di Dio: una presentazione nobile e profonda accuratamente ragionata e completa dei maggiori temi della vita”.

B - La società borghese

un pastore anglicano raccontava: “Nacquero i nonni e c'era la regina Vittoria, nacquero i padri e c'era la regina Vittoria, nacquero i figli e c'era la regina Vittoria, nacquero i nipoti e c'era ancora la regina Vittoria. Regina per oltre sessant'anni!”

In Italia, abbiamo vissuto qualcosa di analogo in chiave risorgimentale antiaustriaca. Francesco Giuseppe, prima come principe poi come imperatore, ci accompagnò in tutte le guerre d'indipendenza. Durante la sua vita, vide passare i re sabaudi, da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele III, e tutti gli eroi del nostro risorgimento e della nostra unità nazionale: un sogno d'immortalità che lasciò al suo seguito molti apprezzamenti e tante nostalgie. Non faceva eccezione l'era guglielmina tedesca: una società sostanzialmente “sana”. Nel passato Berlino aveva entusiasmato Kierkegaard come un grande sogno irripetibile. Hegel aveva conquistato con la sua filosofia molti filoni del pensiero moderno. Il suo mulino a tre pale (idea-natura-spirito) continuava a macinare; i neo-hegeliani si fecero sentire anche in Italia. Il concetto di Weltgeist, inoffensivo sul nascere, con il tempo offri il fianco alle dittature europee che s'affacciavano all'orizzonte. Il socialismo era ai suoi primi successi con il proletariato. La religione, che aveva saputo farsi il nido nelle società europee, fu contestata come “oppio dei popoli”, innanzi tutto dagli stessi teologi anglicani (C. Kingsley) e poi universalmente da K. Marx. In America il socialismo nascente e le chiese si trovarono fianco a fianco nell'affrontare i problemi del capitalismo selvaggio. La “concorrenza” fu continuamente denunciata come “demoniaca”. La nozione di Regno di Dio non fu soltanto rinviata all'escatologia trascendente, ma si cercò di tradurla in segni concreti e immanenti nell'evoluzione sociale. Il processo di “socializzazione” aveva avuto i suoi momenti fortunati e godeva in generale dell'ampio sostegno delle chiese. (1)

Kant, al di qua e al di là dell'oceano Atlantico, continuava a essere un punto di riferimento per molti pensatori. Il suo ragionamento, volutamente limitato all'interno del finito (pur essendo un uomo di fede: sosteneva infatti la sola grazia contro l'insondabile mistero del male), faceva di lui il “filosofo del protestantesimo” e il baluardo contro i sistemi chiusi e a carattere assolutistico. (2)

Intanto le notizie che giungevano sulla rivoluzione russa screditarono le proteste del proletariato; le forme più aberranti del capitalismo tradizionale ripresero vigore. Le chiese ufficiali in Europa si erano facilmente adagiate su situazioni rassicuranti, favorendo un connubio tra trono e altare e opponendosi alle idee rivoluzionarie. Nel tentativo di resistere a fermenti ritenuti pericolosi e sgretolanti, l'apologetica protestante andava perdendo terreno e forza di convinzione contro l'invadenza del progresso scientifico. L'ortodossia protestante, il rigore delle dottrine e l'aspetto sempre più eteronomo dell'etica cristiana allontanavano dalle chiese il proletariato che si ritrovava indifeso e alienato, ridotto a pura merce di scambio. Lo stesso va detto dei giovani sedotti dalle innovazioni, dalle correnti umanistiche e dalla secolarizzazione incipiente.

Il cattolicesimo si richiamò alla sua esperienza monolitica medievale e alla teologia di Tommaso d'Aquino. Il movimento modernista era troppo socialisteggiante per una chiesa arroccata e sicura nella sua tradizione. All'estero, si parlava di un cattolicesimo “addormentato” (A. Harnack). In realtà il papato aveva seri problemi da risolvere: la proclamazione di due dogmi, il Sillabo e la fine dello Stato della Chiesa. Inoltre, il modernismo raccoglieva l'interesse di uomini famosi come E. Buonaiuti, G. Belvederi, A. Manaresi, A. Fogazzaro, A. Roncalli e veniva considerato un'“eresia” condannabile e condannata. Soltanto dopo il concilio Vaticano II, fu possibile affermare che la reazione vaticana era eccessiva e “ingiusta”. (3)

Per motivi diversi le chiese avevano lasciato troppo spazio a quelle certezze che, nel passato, avevano dato buona prova di solidità. La sopravvivenza di tendenze assolutistiche non trovò in generale le Chiese ben disposte ad affrontare i tempi nuovi. Eppure bastò l'incidente di Sarajevo, con l'assassinio dell'arciduca ereditario d'Austria, Francesco Ferdinando e della sua consorte, per porre fine ai sogni di grandezza di molte generazioni. La storia ci aveva riportati con i piedi sulla terra. Si trattò ovunque di crisi, di un senso d'impotenza di fronte a mali dilaganti e incontrollabili.

C - La teologia della crisi

Se la prima guerra mondiale mandò in frantumi tante sicurezze di mondi chiusi e arroccati nel loro ottimismo, la teologia suonò contemporaneamente le sue campane a distesa e si destò di fronte a un forte appello in favore di un ritorno alla Sacra Scrittura, alla Parola di Dio. Fu K. Barth, ma non fu il solo, a rompere l'incantesimo. La religiosità (o religione) sbocciata dal basso e rivolta verso l'alto, come una nuova torre di Babele non rappresentava un momento di salute, ma piuttosto di malattia; non era armonia, ma disarmonia; non era un amico ma un nemico: un giogo, una perdizione, una sventura, un inferno, un demonio, un vicolo cieco e una catastrofe. Era diventata una parola pagana della specie homo. Ecco allora il grido dell'apostolo Paolo: “La mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte: chi mi libererà?” (Rm 7,24). Di qui, il ritorno alla Parola, al governo della storia da parte del “Vivente”. Se Cristo è la Parola di Dio, egli è tutto o non è niente. (4) Chi cerca se stesso non troverà nulla, ma chi è trovato da Dio troverà se stesso. Kant, il filosofo del protestantesimo, aveva avuto ragione di sbarrare la strada a ogni tentativo di raggiungere il “noumeno”. Limitando la riflessione umana al mero “fenomeno”, egli aveva reso un grande servizio alla teologia. Salire dal basso verso l'alto è la via del “criptoteologo”; la via del “criptofilosofo” è, invece, quella in senso contrario. Per K. Barth e i suoi colleghi sono strade vietate. L'importanza della religiosità o religione è molto relativa, può essere necessaria dal punto di vista dello studio, ma potrebbe anche trasformarsi in una ribellione alla grazia.

P. Tillich condivide con K. Barth, E Gogarten, E. Brunner e D. Bonhoeffer il movente della protesta teologica. Kant rimane un punto fermo e un severo avvertimento: trascenderne le intuizioni e procedere verso il noumeno non è possibile. Tra teologia e filosofia non c'è un terreno comune né una sintesi. Il “soprasensibile” di Kant non è il “soprannaturale”. In questo senso, egli ha reso un servizio prezioso alla fede cristiana, liberandola dalle tentazioni metafisiche che sono un “tradimento” della teologia. (5)

D - Il socialismo religioso

Tillich, pur accettando la severa critica barthiana sulla religione come ribellione alla grazia, andava interrogandosi sulla gestione divina della storia. Il mondo non è una nave senza timone abbandonata a tutte le intemperie. Dio incide con i suoi interventi sui nostri condizionamenti. I potenti non sono intramontabili. Occorre interrogare la nostra precaria condizione umana, sempre penultima, per capire lo spirito che la anima. L’annuncio del Vangelo non può essere inteso come una risposta a domande mai poste. Quali sono dunque le domande, le attese e le speranze dell'umanità? Tillich vede nel socialismo una fede nell'elezione storica del proletariato, fede alla quale soggiace una carica profetica che ricorda l'Antico Testamento e la figura del servo sofferente del Signore. Marx e Tillich intendono l'uomo semiticamente? Il profetismo socialista consiste nel rifiuto dell'alienazione umana e condivide il “principio protestante” che spezza tutte le sicurezze mal poste, sia in ambito religioso sia in quello sociale. Nella prospettiva profetica socialista c'è un forte anelito missionario che investe tutto il mondo operaio e l'avvenire di tutta la società. È vero che dove c'è speranza c'è religione, ma non è vero il contrario (così E. Bloch) perché allora si riterrebbero sicuri gli arroccamenti e le scelte sociali ormai al tramonto e verrebbe meno il coraggio di negare le utopie illusorie. Occorre un'anima per il proletariato e il socialismo religioso si propone al tempo giusto, quello della crisi, come il dono adatto per questo compito speciale. (6)

E- Kairòs

Negli sviluppi futuri del suo pensiero, nella sua Teologia sistematica, Tillich non esiterà a identificare il kairòs centrale della storia con Gesù in quanto Cristo. Il kairòs è, infatti, il centro di una circonferenza grande quanto il disegno di Dio e ampia quanto la salvezza dell'umanità. Il kairòs centrale si riflette in tanti kairoi sparsi nel tempo e nello spazio. Sono segni originali non derivati, ma che si verificano “attraverso” l'uomo e la storia e diventano “trasparenti”: l'infinito attraverso il finito. Sono eventi in cui il Signore prende le redini dell'accadere e si fa timoniere del succedersi delle epoche.

Nel periodo turbolento della crisi, Tillich vede l'incidenza centrale del Cristo (kairòs) in una serie di interventi (kairoi) nell'evolversi delle culture. In quei momenti la società dà segni profetici. La crisi distrugge l'accumularsi delle sicurezze e degli adattamenti. Si tratta di anticipazioni escatologiche del Regno di Dio che sconvolgono il presente e negano le illusioni, le ideologie e le idolatrie.

Ma la crisi determinata dai kairoi vuole anche essere un richiamo alla grazia della creazione e un appello alla conversione. Con l'apostolo Paolo la crisi è intesa come l'esortazione costante e continua a non conformarsi al presente secolo (Rm 7,4), ma a lasciarsi trasformare dalle “strutture di grazia” (Gestalten of grace). Ogni singolo kairòs è un dono, un donatore di senso, un veicolo dell'assoluto e un'apertura verso Dio, una nuova santificazione del condizionato e della sua profanazione. Senza sconvolgere l'impulso escatologico implicito nel socialismo, il kairòs odierno vuole essere un superamento della sua incredulità utopica, un trasparire dell'eternità nel tempo. Il finito riceve il lievito dell'infinito senza mai tradursi in un organizzazione sociale. I kairoi sono il realismo della fede di fronte al realismo incredulo dell'utopia. Infatti si può addirittura diventare conformisti della rivoluzione. In un mondo in continua trasformazione l'etica va intesa come etica dei kairoi. (7)

E- Il seguito

Lo scoppio della seconda guerra mondiale non fu un fulmine caduto dal cielo come la prima. Le dittature, affermatesi in Europa, lasciavano intendere l'avvicinarsi di un futuro rovente. Le chiese troppo spesso avevano ceduto alla tentazione di farsi il nido accanto al potere, anche se vi furono proteste significative. In contrapposizione ai “cristiano-tedeschi”, fiancheggiatori di Hitler, si formò in Germania la “Chiesa confessante” che, sotto la spinta di K. Barth, formulò le tesi di Barmen in antitesi al nazismo. La morte di D. Bonhoeffer rimane un esempio e un simbolo permanente. Lo stesso Tillich nella riunione di “Fede e Azione” (Oxford 1937) fu l'estensore di un documento sulle dittature contemporanee. Era troppo tardi.

Nel dopoguerra Tillich concentrò il suo insegnamento sul kairòs intorno alla figura di Cristo, il Nuovo Essere. Tutta la sua Teologia sistematica si pone in questa prospettiva (ragione, essere, esistenza, vita e storia). La teologia della crisi si riflette, ora, nel concetto di angoscia di fronte al non essere. Dal punto di vista pratico, il malessere delle chiese, e non solo della società, si concentrava sulla nozione di “provincialismo”. Chi aveva sofferto all'interno delle strettoie mentali europee era ora in grado di dare un nome alla malattia, al fine di isolarla e richiamare l'attenzione di quanti sarebbero ancora stati in grado di accogliere il suo avvertimento. Il “provincialismo” è l'unità di misura coltivata a casa nostra, con la quale andiamo misurando il mondo intero e ogni singola manifestazione di pensiero, per giudicarli mancanti. Più recentemente si parlerà, con ampie risonanze, di “integrismo” e di “esclusivismo”. È la classica tentazione delle ecclesiologie cosiddette “alternative”, che non trovano riscontro nella teologia di K. Barth, nella Sistematica di P. Tillich, nelle dichiarazioni del Consiglio Ecumenico delle Chiese e in quelle dell'Alleanza Riformata Mondiale. Se abbiamo veramente imparato che la comunione è reale anche se reciprocamente imperfetta, diventa necessario vivere sulla linea di confine, rifiutando il mito tedesco (la Germania sopra tutti) o la “mistica fascista” messa, a suo tempo, in circolazione in Italia.

In linea con il pensiero di Tillich potremmo dire che è impegnativo e necessario sapere quello che noi pensiamo di Dio, ma è determinante e decisivo sapere quello che Dio pensa di noi.

G - La cultura

Gli sconvolgimenti dell'ultimo secolo hanno prodotto anche lo scontro delle culture. Le lontane radici comuni del cristianesimo non riuscivano a suscitare i consensi necessari. In realtà, una radicale “autonomia” della cultura incentivava le libertà e le creatività, ma incoraggiava il vivere senza chiare regole condivise; lo “stare ai patti” si sgretolava lasciando dietro di sé la minaccia del vuoto. L'“eteronomia”, d'altra parte, spingeva alla rassegnazione ed esauriva i suoi principi nel vano tentativo di renderli adatti all'evolversi delle situazioni.

Per Tillich era necessario “trascendere” la contrapposizione, cioè aprirsi al nuovo emergente e mantenere quanto di ancora valido ci era stato trasmesso. La sua formula risolutiva divenne presto famosa in tutto il mondo: la religione (religiosità) è la sostanza della cultura e la cultura è la forma della religione. In altri termini la cultura non crea sostanza, ma l'attinge dai significati, dai valori, dalle paure, dalle proteste e dalle attese in atto tra la gente. La cultura raccoglie, ordina e classifica quanto di vivo (il volere) è in circolazione (Volkgeist di Hegel, lo spirito di un popolo) e gli dà una “forma” (il volere voluto) condivisibile (possibilmente senza rassegnazioni) da tutti credenti e non credenti (apud omnes gentes). È il caso specifico della cultura tibetana condivisa da musulmani e buddisti. In questo senso, la cultura ha una portata “unificante”; pur tenendo conto delle “particolarità” ci libera dai “particolarismi” che alimentano superstizioni e fanatismi. Il legislatore trasforma in lettere di alfabeto, cioè in leggi, il “volere” ancora informe della nuova situazione. La cultura diventa, così, la “culla” del diritto positivo (le leggi scritte), ma ne è anche la “bara” perché appena nato è già vecchio a causa della pressione esercitata progressivamente dal volere in formazione. (8)

Conclusione

L’Europa in via di formazione unitaria dovrà comunque prendere atto delle diversità delle culture e dei loro condizionamenti. Accanto all'occidente latino e all'oriente ortodosso si trova la forte componente del protestantesimo. È importante che le chiese sappiano evitare la costituzione di tre super-etnie di diversa tradizione cristiana. Se le chiese non si impegneranno in questa direzione non sarà possibile incoraggiare al cambiamento le piccole etnie formatesi qua e là sul continente. Questo è forse il debito più urgente che non dobbiamo perdere di vista e che ci attende nei confronti della nuova società europea. Non sarà un compito facile perché, nella sua tradizione, l'Europa non ha avuto una disposizione fraterna verso il diverso. La libertà di cui godiamo è il dono di perseguitati da ogni sorta di “integrismo”, perciò impegna innanzi tutto la nostra umiltà e la confessione coraggiosa del nostro demerito.

Note

* Il testo è ripreso e annotato da R. Bertalot La teologia della crisi e la cultura europea in Paul Tillich, in Rivista di teologia morale, n.130, (2001), pp. 199-206.

1) C.H. Hopkins, The rise of the Social Gospel in American Protestantism 1865-1915, Yale University Press, New Haven, 1940; W. A. Visser't Hooft, The Background of the Social Gospel in America, H.D. Tjeenk Zoon, Haarlem, 1928; R. Niebuhr, An Interpretation of Christian Ethics, Meridian Books, New York, 1968.

2) P. Tillich, Umanesimo cristiano al XIX e XX secolo, Ubaldini, Roma,1969, pp. 83 ss. e 213. Kant è considerato il filosofo del protestantesimo. Nell'interpretazione tomista e antikantiana della fraternità di S. Pio X, discendente da Lefebvre, la "libertà religiosa" è considerata un'eresia interna al cattolicesimo romano, eresia formatasi con il Concilio Vaticano II, cf. B. Tessier de Mallerais in Econe risponde a Ratzinger, in Il Regno, n.10, (1994), pp. 257-261.

3) P. Tillich, Lo spirito Borghese e il Kairòs, Doxa, Roma 1929 pp. 144 155 e 163; M. Strauch, La teologia della crisi, Doxa, Roma, 1928, pp. 38 ss; G. Andreotti, I quattro del Gesù Storia di una eresia, Rizzoli, Milano, 1999, pp. 72 ss. L’autore offre un'ampia panoramica delle difficoltà incontrate dal movimento modernista, ma non si addentra nei contenuti sociali, politici e religiosi.

4) K. Barth, Dogmatique, vol. III, Labor et Fides, Ginevra, 1954, pp. 52-57.

5) P. Tillich, The Protestan Era, Phonix Books, University of Chicago Press, Chicago, 1957, p. 83.

6) Tillich distingue tra il tempo “giusto" (kairòs) e il tempo "ufficiale" (kronos), cf. Tillich, Ib., p. 155.

utopie rivoluzionarie. Cf. Tillich, Ib., pp. XV 38 e 47; R. Bertalot, Educare alla libertà. Metodologia ecumenica, in Studi Ecumenici 15 (1997), pp. 21-28.

8) R. Bertalot, Religione e diritto. Una lettura protestante, E. Pazzini, Verucchio (Rn), 1996. Cf. dattiloscritto di O. Abel, Le courage et l'experience d'étre chez Paul Tillich et Paul Ricoeur, in Paul Tillich et l'experience religieuse contemporaine, Faculté de Thèologie, Losanna, 1991, pp. 42-44.

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