Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 19 Dicembre 2007 22:07

Meister Eckhart (1260ca. -1328ca.)

Meister Eckhart (1260ca. -1328ca.)


Le opere di Eckhart

Le opere di Eckhart sono edite in due raccolte:

1- Die deutschen Werke (sigla DW)

2- Die lateinischen Werke (sigla LW)

Che Meister Eckhart per importanza appartenga di diritto, contemporaneamente, alla storia della filosofia, della teologia e della spiritualità cristiana, lo si può contestare, tenute presenti le difficoltà d’interpretazione intervenute dopo; ma nell’ambito della tradizione cristiana è un’apparizione che, fino ad oggi, e anche in futuro - così almeno si spera -, non dovrebbe essere affatto inusuale. Nel cristianesimo (ma anche le altre religioni conoscono qualcosa di simile) sono continuamente apparsi donne e uomini che hanno posto la loro vasta competenza al servizio totale dell’«unica cosa necessaria», e così, accanto all’esemplarità della loro santità esistenziale, hanno lasciato un’opera che rappresenta una combinazione geniale delle forme di conoscenza e di esperienza dominanti in un determinato periodo.

I. La vita

Eckhart nacque nel 1260 e probabilmente non era di famiglia nobile. Da giovane entrò a Erfurt nel convento dei domenicani, l’ordine religioso di mendicanti che dall’inizio del sec. XIII (1215) s’era andato ampliando sempre più. Già verso il 1277 - Eckhart aveva studiato a Parigi le arti (le classiche sette «arti», come fondamento dello studio accademico). Prima del 1280 aveva intrapreso gli studi di teologia a Colonia, dove conobbe personalmente Alberto Magno (1206-1280). Nel 1293-94 Eckhart poté leggere a Parigi le Sentenze (il manuale di teologia di Pietro Lombardo). A pasqua, il 18 aprile del 1294, vi tenne una predica. Dopo il ritorno da Parigi divenne priore di Erfurt e poco dopo vicario della Turingia. Ricevette probabilmente questa nomina dall’allora provinciale della Teutonia (la provincia «tedesca» dell’ordine), Dietrich di Freiberg, il quale deve averlo profondamente influenzato nelle sue prospettive filosofiche. Come priore di Erfurt, Eckhart tenne i Discorsi sulla distinzione davanti ai giovani dominicani del suo monastero-

Nel 1302-03 Eckhart operò come magister actu regens, come professore di teologia alla cattedra di Parigi riservata a non francesi. Di questo periodo ci sono conservate due Quaestiones (la forma scolastica di condurre a soluzione, nel dibattito, determinati problemi, «quaestiones»), frammenti di una Disputa con il magister dei Francescani Gonsalvus e una predica in onore di sant’Agostino. Tornato a Erfurt, Eckhart dal 1303 al 1311 fu provinciale della provincia di Sassonia, appena creata in seguito a una divisione della provincia di Teutonia. Da testimonianze si può desumere che il Maestro in questi anni fosse estremamente impegnato nella cura dei monasteri maschili e femminili del suo ordine, nell’organizzazione e conduzione dei capitoli provinciali, e anche nelle difficili questioni di carattere politico ed economico, legate alla fondazione di nuovi monasteri (Braunschweig, Dortmund, Groningen) Negli anni 1311-1313 Meister Eckhart tornò a insegnare a Parigi, dove godette di grande fama. Di questo periodo ci sono conservate poche Quaestiones e una parte dei Commentari.

Terminato l’ultimo periodo di soggiorno a Parigi, Eckhart non tornò nella sua provincia religiosa, ma andò a Strasburgo, dove si fermò dal 1313/14 fino al 1322. Il generale dell’ordine doveva aver dato a Eckhart l’incarico speciale di controllare i monasteri femminili della Germania meridionale.

Nel 1323 Eckhart venne inviato dal generale dell’ordine allo studio generale di Colonia come magister in theologia. Accanto a lui operava allora, come lettore, Nicola dì Strasburgo. A Colonia può darsi che Enrico Susone sia stato discepolo di Eckhart. Accanto alle lezioni teologiche agli studenti, qui Eckhart ha sviluppato un’ampia attività di predicazione nella chiesa dei domenicani e anche in alcune altre chiese.

L’attività di Eckhart allo studio generale fu notevolmente disturbata nel 1326 da una misura dell’arcivescovo di Colonia Heinrich von Virneburg. Non sappiamo quale sia stata l’occasione concreta che spinse l’arcivescovo a sottoporre gli scritti e le prediche di Meister Eckhart all’esame di una commissione, perché ne segnalasse le eresie e gli errori. Al Maestro vennero presentati, nell’insieme, quattro o cinque elenchi di frasi criticabili. Eckhart reagì con uno Scritto di giustificazione mettendo in questione anzitutto la competenza dei giudici, e anche la loro attitudine. Il 24 gennaio 1327 Eckhart si lamentò presso la commissione, che stava protraendo il processo troppo in lungo. Il 13 febbraio dello stesso anno lesse al popolo, nella chiesa dei domenicani, in latino e in tedesco, una dichiarazione, nella quale rigettava ogni possibile errore in questioni di fede. Infine si mise in viaggio per Avignone. per esporre la propria causa alla corte papale. Dev’essere morto mentre si trovava ancora ad Avignone o durante il viaggio di ritorno.

Il 27 marzo 1327 apparve una bolla pontificia, In agro dominico, in cui vennero condannate 27 frasi di Eckhart: 17 come erronee ed eretiche, e 11 come sospette di eresia. Il papa dispose che la bolla venisse pubblicata solo nell’ambito dell’arcidiocesi di Colonia

Il. Gli scritti

L’intenzione che ha spinto Eckhart a pubblicare le sue opere di carattere scientifico, filosofico-teologico, è chiarita da lui stesso: gli interessava spiegare i contenuti della fede cristiana e della sacra Scrittura ricorrendo alla ragione naturale dei filosofi. A un’intenzione teologica s’unisce una metodologia filosofica, un modo di procedere che avrebbe dovuto diventare programmatico nel progetto gigantesco di un Opus tripartitum. destinato a comprendere in una prima parte un Opus propositionum, con 1000 tesi, in una seconda un Opus quaestionum, e in una terza un Opus expositionum, con commenti alla Scrittura e abbozzi di prediche. Di questo programma così grandioso è stato realizzato un certo numero di introduzioni. Tra di esse la più importante è quella sull’Opus tripartitum nel suo insieme, nella quale ciò che può essere a prima vista «inaudito, dubbio o errato» viene ricondotto nell’ambito della Scrittura e delle autorità ecclesiastiche. Ci sono poche quaestiones, un certo numero di schemi di prediche e commenti a Genesi, Esodo, Sapienza e al vangelo di Giovanni. L’attribuzione a Eckhart del Commento alle Sentenze nel cod. Brugge 491 resta fino ad oggi discussa. Eckhart sembra fosse consapevole della novità rappresentata dalla sua opera teologico-filosofica.

L’opera di Eckhart in lingua tedesca comprende tre Trattati e circa 150 Prediche che potrebbero essere sue. Di esse circa 100 possono essere dichiarate chiaramente autentiche; 86 di queste prediche si trovano nell’edizione esemplare di Josef Quint (fino ad ora 3 volumi). Un quarto volume è in preparazione ad opera di Georg Steer (Eichstatt). Quint ha potuto garantire l’autenticità di queste prediche sulla base di un sistema graduale di criteri: grazie alla convergenza di passi con lo Scritto di giustificazione o con gli atti del processo, o con brani dell’Opus sermonum, grazie a rimandi a passi di prediche ritenute autentiche senza ombra di dubbio e ad importanti paralleli, grazie a rimandi alle prediche e notevoli convergenze con testi autenticamente eckhartiani in latino e in tedesco. Inoltre sarà senz’altro possibile accertare l’esistenza di altre prediche autenticamente eckhartiane - ad esempio resti delle tradizioni dei Corpora - sulla base di un’indagine ulteriore delle condizioni in cui è stato tramandato il materiale. La fiducia nell’autenticità delle prediche di Eckhart è oggi di gran lunga maggiore di un tempo, di quando cioè si riteneva che le testimonianze dei manoscritti di cui disponiamo non fossero altro che reportationes incerte, appunti stesi da suore. P.-G. Völker e Kurt Ruh hanno potuto dimostrare, con argomenti probanti, che Eckhart stesso ha preso parte alta redazione delle sue prediche in misura molto maggiore di quanto non sembrasse un tempo.
 

III. La dottrina

Che la filosofia e la mistica possano trovarsi riunite in una stessa persona non dipende soltanto dal fatto che l’esperienza filosofica, nel suo procedere verso l’Assoluto, arriva ai confini dell’ineffabile- nell’aporia -, e quindi s’avvicina all’esperienza mistica; ma soprattutto anche - positivamente - dal fatto che il pensante, che cerca di esperimentare a livello di pensiero l’infinita unità di Dio, non può essere concepito al di fuori di essa: il pensante diventa un caso esemplare di quell’unità che egli abbraccia pensando. Così in Meister Eckhart tutti i filosofemi possono diventare theologumena, poiché in lui tutto ciò che è filosofico è posto al servizio dell’interpretazione della fede cristiana.

In pratica ciò significa che non si rende giustizia a Eckhart e alla sua intenzione se si cerca di spiegare tale intenzione riferendosi soltanto a quanto ha scritto, in tedesco, o viceversa a quanto ha scritto in latino. Ambedue i gruppi di scritti vanno interpretati in rapporto reciproco e gli uni con l’aiuto degli altri.

Presentando Eckhart come mistico si deve rimuovere subito un malinteso. Eckhart non è un mistico che ha inteso la cognitio Dei experimentalis nel senso di eventi spettacolari dell’anima o di teofanie celesti improvvise. La sua esperienza di unione con Dio non è un evento isolato dell’anima, nel senso della più antica mistica della contemplazione - che accade rara ora et parva mora -,bensì la presenza perdurante di Dio nel fondo dell’esistenza umana. Questa unione è più stabile di tutte le emozioni pensabili dell’anima, nelle quali essa potrebbe essere percepita. Così Eckhart respinge tutte le teofanie e le esperienze isolate di Dio (LW 2, 617), e ritiene valido soltanto pensare a Dio di continuo, quasi abbracciandolo col pensiero, e, d’altro canto, senza dirsi mai soddisfatto di un Dio soltanto pensato. La presenza continua e ineffabile di Dio viene colta dallo sguardo nell’atto in cui egli dona in sovrabbondanza la vita. Dio continua a essere più grande e più unito all’uomo e a tutta la realtà creata, di quanto il pensiero umano possa immaginare. Eckhart parla continuamente di questa esperienza, garantita sul piano intellettuale ed esistenziale, nella forma di un discorso dietro al quale sta non il calcolo del predicatore bensì l’intuizione che l’uomo deve imparare non che cosa fare, ma che cosa essere (DW 5, 197, 7), se vuole arrivare a Dio, presso cui egli per altro è già, sempre. In altre parole, la predicazione di Eckhart esige l’identificazione di chi ascolta con la realtà ascoltata, che chi parla comunica in modo autentico

In tal modo viene presentato un modello di comunicazione mistica che costringe all’unità il mittente e il destinatario del messaggio, una unità che il mittente (il predicatore) possiede già come punto di partenza del suo discorso.

Vogliate prestare attenzione in sintonia con il mio cuore, affinché capiate bene quel che dico, poiché è vero e la verità dice la stessa cosa (DW 1, 41. 5ss).

Mi basta che in me e in Dio vi sia la verità, che io pronuncio e scrivo (DW 5, 60, 13ss)

Il suo discorso è «originato nell’intimo» , e questo intimo non rappresenta la profondità soggettiva dell’uomo (nel senso dell’inconscio), bensì la presenza di Dio nell’uomo, ancor più abissale, come donatore di essere, come colui che pronuncia la Parola, che l’uomo - grazie all’incarnazione di Dio - può essere egli stesso per grazia.

Per il predicatore deve essere incrollabile la coerenza tra parola interiore e parola esteriore. Ed ecco le linee dell’esperienza mistica di Eckhart:

Quando predico, cerco di parlare della «ritiratezza», del «distacco» (Abgeschiedenheit), e del fatto che l’uomo deve diventare libero da se stesso e da tutte le cose. In secondo luogo, del fatto che si dev’essere nuovamente istruiti nel Bene semplice, che è Dio. In terzo luogo, del fatto che si deve pensare alla grande nobiltà che Dio ha posto nell’anima, affinché l’uomo in maniera mirabile arrivi a Dio. In quarto luogo, della purezza della natura divina: quale splendore ci sia nella natura divina, che è ineffabile. Dio è una Parola, una Parola non pronunciata.

1. L’Abgeschiedenheit (ritiratezza, distacco, isolamento) secondo Meister Eckhart non è una virtù tra le altre, ma significa qualcosa di fondamentale: l’essere completamente morti a tutto ciò che impedisce di percorrere il cammino che conduce a Dio, l’essere ridotti in tutto e per tutto all’assenza di «modi d’essere», nella «nudità», nella «povertà spirituale», nel disinteresse e nella «tranquillità». Lo scopo di questo sforzo ascetico totale è «il puro essere di Dio» che si definisce esso stesso mediante l’«assenza di modo», l’«assenza di perché» e la «ritiratezza», vale a dire che non può essere descritto o menzionato più da vicino, ma che come «negatio negationis» (LW 1, 43, 4ss; DW 1, 361, 10) si sottrae semplicemente a tutte le determinazioni. Dello sfondo speculativo della «ritiratezza» fa parte anche la concezione aristotelica della tabula rasa, o dell’occhio senza colore e quindi sensibile al colore. Solo l’apertura illimitata, nel senso di un puro svuotarsi, garantisce la possibilità alla corrente divina di grazia di fluire nell’uomo:

L’essere vuoti di tutte le creature è l’essere pieni di Dio, e l’essere pieni di tutte le creature è l’essere vuoti di Dio (DW 5 – 443 – 311).

Solo l’uomo che è liberato da ogni impedimento può arrivare «alla più grande somiglianza con Dio» poiché «che Dio è Dio è dovuto alla sua ritiratezza immobile».

Se [‘uomo deve diventare simile a Dio - se è possibile che una creatura diventi simile a Dio, - ciò dovrà avvenire nella ritiratezza (DW 5 – 412 – 711).

La rinuncia che si deve porre in atto nell’atteggiamento di «ritiratezza» non è calcolabile sul piano del contenuto, poiché è totale. Ne risultano conseguenze interessanti e sorprendenti proprio per una vita religiosa e mistica. Poiché non si tratta solo di giudicare i dettagli della vita umana e della prassi di pietà nella loro relatività ultima, ma si tratta di afferrare il carattere soggettivo-egoistico della stessa dedizione pia a Dio, e di smontarla: dobbiamo chiedere a Dio «di diventare liberi da Dio stesso» di «lasciare Dio per amore di Dio». Del tutto nel senso della «negatio negationis», anche qui, in ultima analisi, l’affermazione su Dio può significare soltanto qualcosa di positivo, poiché tutte le affermazioni negative su di lui in Eckhart mirano senz’altro alla grandezza indescrivibile di Dio. «Dio» in questo contesto è il Dio «ricco», che crea il mondo, il Dio rivolto verso l’esterno; è il Dio della gioia dell’essere, non il Dio che riposa in sé, che contiene in sé tutto ciò che dev’essere creato e che come l’Uno categoriale non può essere descritto. In questo contesto Eckhart parla spesso della «Divinità». «Dio» è Dio sotto l’aspetto della sua triplice autoestraniazione all’esterno, la «Divinità» è Dio sotto l’aspetto della sua unità.

La «ritiratezza» non è per Eckhart l’apatia stoica, anche se determinate formulazioni rimandano senza dubbio a questa tradizione filosofica. L’immobilità dell’animo è una qualità dell’ «uomo interiore»; è un ignorare anche il dolore. Ma proprio il dolore è la «cavalcatura più veloce» di cui l’uomo dispone nella ritiratezza, e quindi è necessario. La ritiratezza, il distacco così come si esprime in tutto l’uomo, è quindi una fondamentale assenza di autodifesa e un atteggiamento di apertura dell’uomo, piuttosto che una forma di autoconservazione.

Fondamentalmente Eckhart, nella sua concezione della ritiratezza, ribadisce la propria idea della creaturalità dell’uomo, sedimentatasi sul piano filosofico nella sua dottrina dell’analogia. Ogni realtà naturale per lui è caratterizzata dalla propria nullità: «Tutte le creature sono un puro nulla» (DW 1, 69, 8; 70, n. 1, altri passi). Per se stesse non hanno alcun essere proprio, poiché il loro essere «è proteso verso la presenza di Dio e dipendente da essa». Ma poiché l’uomo e le creature esistono. la conoscenza di sé è rivolta per Eckhart non all’azione, bensì all’essere nullo proprio dell’uomo Questo modo di essere va precisato più da vicino. Se la creatura per se stessa è nulla - «unum purum nihil» -, allora deriva il proprio essere da qualche altra parte, vale a dire da Dio, che con la sua irrompente corrente di essere l’abilita all’esistenza, incessantemente, ad ogni istante. Il biblico «adhaerere Deo» assume così in Eckhart un’accentuazione straordinaria e significa la dipendenza interiore totale e continua dell’esistente dalla grazia di Dio che concede l’essere. La creatura «ha» il suo essere sempre e soltanto in senso improprio, come qualcosa di prestato, mentre soltanto a Dio spetta l’essere in senso proprio (LW 2, 2S0ss).

Nel suo senso negativo perciò la ritiratezza non è altro che la percezione esistenziale della nullità e mancanza di essere, del fatto che l’esistenza umana è puramente «immagine» - si è parlato di una vera e propria «ontologia dello specchio» (Mieth) -, mentre la ritiratezza in senso positivo significa l’unità ultima, per grazia, della creatura con Dio. Sta all’uomo fare propria consapevolmente questa doppia esperienza - della nullità e dell’essere per grazia - nell’esistenza concreata.

2. Non è altro che una conseguenza del pensiero analogico di Eckhart il fatto che egli, come secondo tema delle sue prediche, menzioni il recupero consapevole del proprio essere immagine di Dio. Se l’uomo come creatura non è nulla, allora la sua propensione all’essere è costitutiva e vincolante. Ma l’essere si ha solo in Dio, più precisamente in Dio come origine di tutta la realtà creata. Il ritorno mistico della creatura a Dio si basa quindi sulla doppia dottrina del «duplex esse», l’essere doppio di tutto ciò che è creato. Nella spiegazione della Genesi si dice:

Ogni creatura ha un duplice essere. Il primo è nelle sue cause originarie, in ogni caso nella parola di Dio, ed è un essere saldo e stabile. Per questo persino la conoscenza delle cose passeggere è imperitura, salda e stabile, poiché la conoscenza comprende una cosa nelle sue cause primordiali. L’altro è l’essere che hanno le cose nella realtà esterna, nella loro forma precipua. Il primo è l’essere nella forza (della causa originaria), il secondo è l’essere determinato dalla forma (propria), e per questo è per lo più instabile e mutevole.

Richiamandosi alla tradizione cristiana Eckhart ha fatto proprio l’antico theologumenon della nascita di Dio nell’anima del credente, per descrivere in maniera percepibile lo stesso procedimento dell’unificazione dell’uomo con Dio. Egli ha rielaborato quest’immagine dinamica e questa realtà di fede, facendone il centro del suo insegnamento. Il ritorno dell’uomo a immagine di Dio raccorcia la dimensione temporale tra creazione e tempo finale - «sub specie aeternitatis», l’unico modo di vedere che è adeguato per Eckhart - riducendola ad un punto, Il «centro del tempo», l’incarnazione di Dio, abbraccia la realtà salvifica, la creazione e la fine dell’uomo. Nel modo in cui Eckhart pensa, in termini escatologico-mistici, la «creatio» e l’«incarnatio», vengono ridotte a un medesimo «in principio», in modo tale che, in questa identità, diventano la realtà salvifica, così che la fine del tempo viene donata all’uomo, che per grazia penetra nella divinità come suo principio esemplare.

Tale concentrazione dei tempi nell’unico tempo salvifico, concepibile solo puntualmente si concretizza per Eckhart nella nascita del Figlio nell’uomo. Ciò accadde un tempo a Betlemme, continua ad accadere ora in ciascun uomo che ne sia consapevole.


3. La nobiltà dell’anima consiste ora precisamente nella ritiratezza. In essa «l’uomo interiore», lo «spirito», l’«immagine di Dio nell’anima» s’apre un varco verso l’essere, la vita e la beatitudine della visione di Dio (predica sull’«uomo nobile»).

Espressioni centrali per questo ambito intimo dell’uomo - da cui dobbiamo tener lontano tutte le determinazioni di carattere organologico. spazio-temporale e psicologico - sono le seguenti: «fondo dell’anima», «scintilla della razionalità»; o in latino: «abditum mentis», «ratio superior». ecc., o anche metafore come capo, uomo, essenza, rocca, fortezza, vortice, luce, forza, qualcosa nell’anima, cima altissima, ecc. Proprio l’abbondanza dei termini mostra che non si tratta di qualcosa di statico e di fisso, ma di qualcosa di dinamico. Con questi termini si tratta di esprimere il rapporto vivo tra l’uomo e Dio stesso e non i suoi portatori organici. Si tratta del rapporto dinamico dell’uomo con Dio nel suo punto sorgivo più vitale, là dove la distinzione tra il Datore (dell’essere) e il destinatario diventano difficili; il rapporto stesso dev’essere menzionato. Per dirla in termini agostiniani, si tratta di un «interior locus, non locus» («un luogo interiore che non è alcun luogo», là dove si parla di «scintilla» o «fortezza». E poiché questi concetti indicano l’«unità in fieri» tra Dio e l’uomo, le categorie di «realtà creata» o «increata», che ingannarono gli inquisitori, sono inadeguate. Si tratta di aspetti del linguaggio.

Eckhart pone l’accento sul processo, sul compimento di questa unità; in esso la concessione dell’io da parte di Dio alla creatura, nella forma della vita più elevata, si compie senz’altro e in modo spontaneo. Le creature ricevono, in questo processo e l’uomo in modo particolare riceve, insieme alla sua umanizzazione, anche la divinizzazione, poiché - come abbiamo visto-creazione, incarnazione e tempo finale coincidono nell’attimo della comunicazione divina dell’essere.

Il quarto scopo della predicazione di Eckhart è la motivazione più profonda, “A questi devi mirare con tutte le forze, a che Dio divenga per te grande” Solo Dio importa.

IV. L’influsso

Eckhart durante la sua vita deve aver esercitato una straordinaria forza d’attrazione. I suoi contemporanei - confratelli e suore nei numerosi conventi domenicani, ma anche fedeli delle città in cui predicò - devono averlo venerato. Tanto più dev’essere stata aspra e deve aver fatto soffrire la condanna ecclesiastica del 1329. Eckhart veniva condannato per secoli all’anonimità. I suoi scritti non furono più tramandati in ampie raccolte, ma soltanto in dimensioni molto ridotte. Alcune prediche in tedesco entrarono a far parte delle raccolte di prediche di Taulero, senza che si specificasse che erano di Eckhart. In tal modo Eckhart deve aver esercitato la sua influenza su Lutero, ma anche sul pietismo.

Eckhart fu riscoperto propriamente nel sec. XIX, soprattutto grazie a Franz von Baader. Ma dovettero trascorrere alcuni decenni prima che potesse prender piede un’indagine su Eckhart impostata su basi scientifiche; uno sviluppo questo che potè giovarsi soprattutto del contributo essenziale di Heinrich Seuse Denifles.

Certamente, Eckhart costituisce il partner ideale nel dialogo con le religioni orientali, ma non bisogna ignorare a questo riguardo che egli ha condannato nella maniera più drastica qualsiasi tecnica del porsi in rapporto con l’Assoluto, e che una teologia apofatica ha il proprio posto soltanto là dove si fa il possibile perché l’unica cosa importante sia, in termini assolutamente esclusivi, la gloria di Dio.

 

Mercoledì, 19 Dicembre 2007 21:48

L'Esicasmo, yoga cristiano (Anthony Bloom)

L'Esicasmo, yoga cristiano

di Anthony Bloom




L'ESICASMO - YOGA CRISTIANO

Nella misura in cui si può definire lo Yoga come una "tecnica spiritualizzante” è legittimo parlare di uno “Yoga cristiano”. Lo scopo del presente studio è di farne conoscere le tecniche somato-psichiche e di spiegare il significato ed il valore che ad esse attribuiscono gli ortodossi che le mettono in opera.

Per facilitare l'esposizione del soggetto si possono distinguere tre gruppi principali di esercizi ascetici:

I primi non mirano che al corpo e influenzano l'anima (psyche) e lo spirito (pneuma) solo indirettamente, nella misura in cui l'uomo "totale" se ne trova modificato; sono gli esercizi di mortificazione: il digiuno, la veglia, il lavoro massacrante, la castità, ecc.

I secondi piegano il corpo a certe esigenze che hanno ripercussioni dirette sulla vita psichica e indirette sulla vita spirituale: essi sono appena conosciuti in Occidente, e formeranno una parte essenziale di questo articolo.

Gli ultimi sono esercizi ascetici che mettono in opera le potenze psichiche dell'uomo e hanno ripercussioni corporee: sono essenzialmente la meditazione e certe forme di preghiera che escono dal quadro del nostro soggetto.

ASCESI e MORTIFICAZIONE

L' uomo è stato creato dal nulla; ecco la prima verità dinnanzi alla quale ci pone la Rivelazione biblica: egli non ha alcun fondamento ontologico in se stesso: nulla ha preceduto l'esistenza del Cosmo di cui l'uomo fa parte integrante; ed alcun legame genetico collega l'uomo al suo creatore. Il caos di cui parlava il pensiero greco non era che un nulla relativo, quello della nullità, per così dire, non proprio quello del "non – essere”. Il libro della Genesi, nel suo secondo versetto, ci parla infatti di un “essere” informe e confuso: "La terra era informe e vuota; vi erano tenebre alla superficie”. ("Ora la terra era flutto e caos; e tenebra sulla faccia dell' abisso” secondo la traduzione di Edmondo Fleg), poiché, per l'antichità, soltanto l'essere ordinato aveva una esistenza. Il nulla vero, assoluto, quello che precede la creazione della prima creatura, oltrepassa la possibilità del pensieronaturale, in quanto non è una assenza o un vuoto, oppure un essere assottigliato fino all' impercettibilità: è invece la Presenza per eccellenza dell' Unico, del Solo Reale Trascendente e Sconosciuto fino al momento in cui voglia rivelarSi; il caos è una non pienezza del creato ciò che precede l' apparizione della creatura e la pienezza del l'Increato, che Dio solo conosce e rivela.

Non vi è alcuna comune misura, non vi e alcuna filiazione naturale fra Dio e l' uomo il cui solo punto d'appoggio è la Volontà divina che, accettata, gli apre l'accesso alla vita che è partecipazione alla Vita di Dio. Ed è all'uomo intero che questa vita è offerta: corpo, anima e spirito, egli è chiamato a conoscere Dio, a comunicare con la vita divina. E' infatti l'uomo totale che è ad Immagine di Dio. Per raggiungere il suo fine ultimo, l'essere creato deve dunque aprirsi a Dio, oltrepassare la sua propria limitazione ed espandersi nella misura dell'increato. ma oltre questo compito ontologico, un altro compito gli incombe dalla caduta: divenuto un sotto-uomo, deve ridiventare ciò che era all'origine, prima di poter compiere la sua vocazione e rispondere pienamente all' appello del suo Dio.

L'armonia della natura umana comporta una gerarchia delle sue parti costitutive: il corpo deve essere sottomesso all'anima (psychè) e quest'ultima allo spirito (pneuma); quanto allo spirito dell'uomo (nephesh), esso comunica col Soffio, lo Spirito di Dio nell'uomo (rouah), potenza di vita e sorgente della sua immortalità. Finché questa gerarchia non è distrutta, l'uomo resta "conforme" a Dio, suo "simile: è capace di ricevere Dio e di manifestarLo.

Ma l’uomo è creato "sovrano,,: può determinare il suo destino; la sua contingenza stessa assicura la sua indipendenza: nessuna necessità interna ha costretto Dio a chiamarlo all' esistenza; inutile alla pienezza dell' essere divino, l'uomo é posto di fronte al suo Creatore. Se vien meno a Lui, se da Lui si distoglie, l’uomo impegna la integrità della sua natura e la mette in pericolo: può cessare d' essere simile a Dio oppure unirsi a Lui. Nel primo caso, al compito ontologico di superamento del creato si aggiungerà, per chiunque voglia realizzare la propria vocazione, un compito nuovo: ritrovare l'armonia perduta.

è interessante osservare che essa e' stata nello stesso tempo improvvisa e progressiva: " E la morte si impiantò a poco a poco ,,, dice il Libro della Genesi; d'altra parte, la caduta è stata improvvisa in questo senso che un cambiamento profondo e radicale si è prodotto fin da quel primo momento che si può definire col termine di "frammentazione": Dio e l'uomo si sono trovati ad essere staccati l'uno dall'altro; lo Spirito di Dio nell'uomo (rouah) è divenuto non solamente differente, ma estraneo allo spirito dell'uomo, (nephesh); non è più la sorgente di vita, e l'uomo, restato solo, non ha potuto far altro che morire; la triplice armonia gerarchica del corpo, dell'anima e dello spirito si è trovata spezzata fin dal momento in cui non è stato più il canale per il quale la vita si diffondeva nell'anima e vivificava il corpo; e, separato dalla sorgente divina di Vita eterna, l'uomo ha dovuto cercare un appoggio per la sua esistenza nell'ordine naturale. Leggiamo nel secondo capitolo della Genesi (v. 16): "Mangia pur d'ogni albero del giardino"; ma dopo la caduta: "La terra sarà maledetta per cagion tua: tu mangerai del frutto di essa con affanno tutti i giorni della tua vita...e mangerai l'erba dei campi.

Invece di comunicare con la vita di Dio, Adamo deve partecipare alla vita del mondo materiale e per questo fatto integrarvisi fino al giorno in cui la terra riprenderà ciò che le appartiene: " ... fino al ritorno alla terra donde sei stato preso: poiché polvere sei ed alla polvere ritornerai”.

Ma ciò non è che la prima tappa di questa integrazione dell' uomo al mondo materiale da cui avrebbe dovuto sganciarsi, meglio nel quale avrebbe dovuto integrare lo Spirito divino: "'Lo Spirito mio non contenderà in perpetuo con gli uomini; perciocché anche non sono altro che carne...,, (Genesi, VI, 3). Una volta separato da Dio, l'uomo scivola sulla china dove, lo spinge lo spirito del male di cui si è fatto schiavo:

"L'Eterno vide che la malvagità degli uomini era grande e che tutti i pensieri del loro cuore si volgevano ogni giorno unicamente verso il male,, (Genesi, VI, 5), e il diluvio sopravvenne; e quando. restarono soli sopravviventi coloro che il male non aveva corrotto, ma che tuttavia hanno ereditato la fragilità progressiva dei loro parenti, il Signore,' disse a Noè ed ai suoi figli:.... "voi sarete soggetto di timore e di spavento per ogni animale sulla terra e per tutti i pesci del mare: essi sono dati nelle vostre mani; tutto ciò che si muove e ha vita vi servirà di nutrimento; vi dò tutto ciò come l'erba verde".

Questo diritto di mangiare tutto "ciò che si muove e ha vita" appare dunque come la crudele espiazione di una crescente decadenza, non come una dignità conferita all'uomo: incapace di vivere della Grazia di Dio, senza vita intrinseca, l'uomo dipende ormai completamente dal mondo creato, dalla materia nella quale egli si ingabbia sempre di più; ne ricava la vita e la morte, una vita precaria e momentanea il cui termine è il ritorno alla polvere.

Ritornare alla polvere vorrà dunque dire, fra le altre cose, rompere col dominio della materia, ritornare "autonomo". "Ahimè! ho reso la mia carne vivace", proclama un inno ortodosso; l'opposizione di due termini, la carne e il corpo è impressionante e chiara: la carne è il corpo sprovvisto di vita divina e che non mantiene la sua esistenza che nell'ordine della materia; il corpo è la materia umana penetrata dallo Spirito di Dio, ritornata all'armonia e liberata dalle servitù che sono familiari alla sua natura decaduta, quantunque ad essa estranee in ordine alla sua vocazione.

a ciò che è per noi sorgente di vita per acquistare una nuova vita. L'ascesi di mortificazione non ha senso che nella misura stessa in cui si associ ad un'ascesi costruttiva che ci renda atti a ricevere la Vita divina ed a "vivere della Parola di Dio, in altri termini che ci apra a Dio; ciò non è possibile che se, mentre da una parte ci liberiamo dal mondo materiale, dall'altra prendiamo piede nel mondo divino; e il progresso in questo secondo senso deve precedere l'opera di rinunzia o almeno andare di pari passo con essa; mancando tale condizione la "carne" muore prima che il "corpo" sia ritornato alla vita.

I diversi elementi di questa ascesi - digiuni, veglia, continenza, lavoro - non richiedono alcun commento.

Ciascuno di essi ha un valore particolare e non può essere utilizzato promisque. Se la veglia, condotta fino ai limiti delle possibilità individuali, dà all' intelligenza un'acutezza e una folgorazione sconosciute, il digiuno riporta l'uomo in se stesso, l'aiuta a far " coincidere il suo essere psichico con i limiti del corpo; e l'ascesi della sete è una delle condizioni necessarie al progresso della preghiera interiore.

In tal modo è interessante osservare ed importante sapere che non ci si può dedicare con successo ad un esercizio ascetico senza dedicarsi simultaneamente agli altri:. non si può pregare senza digiunare e senza vegliare, ma è anche possibile digiunare e vegliare se lo spirito di preghiera non ci penetra: è questa la ragione per cui le vite dei santi misurano il progresso spirituale in termini, che a noi sembrano così strani, di lunghe veglie, di digiuni appena credibili... Si tratta appunto di " morire alla terra ,, e di rivivere in Dio, di elevarsi con uno sforzo costante concertato all'altezza della propria natura vera attraverso una lotta che raddrizzi e liberi, che uccida il germe di morte affinché la vita porti frutto e trionfi.

TECNICHE SOMATO - PSICHICHE

L'ascesi di mortificazione è comune all'Occidente e all'Oriente cristiani; quella che debbo esporre ora è propria alla Chiesa ortodossa. Essa è stata stabilita e meravigliosamente sviluppata dai maestri della tradizione esicasta.

L'ESICASMO (pace, riposo), scuola o meglio tradizione spirituale, ha avuto il suo più grande sviluppo fra l'XI e il XIV secolo nei monasteri e le solitudini del monte Athos.

Coloro che sono curiosi di conoscere le origini e la storia leggeranno con profitto i due stupendi articoli del "Monaco della Chiesa d'Oriente" che la collezione Irenikon ha pubblicato col titolo Priére de Jesus (Chevetogne, 1952); uno studio dettagliato della "Technique psychologique de l'Hésychasme byzantin", dovuto al professor Wunderle, è apparso nel 1938 in Etudes Carmelitaines; sarà sufficiente dunque dire qui che l'esicasmo pone la pace interiore come una necessità primaria e come ultima realizzazione della vita spirituale: pace terrestre intelligibile, contemporaneamente corporea e mentale, che apre la via alla pace ineffabile della contemplazione luminosa di Dio. L’ascesi esicasta verte sull'essere intero: fa uso di ogni sua potenza e unisce ciascuna di esse allo Spirito di Dio. Il posto che la pace vi occupa è lungi dal farne un quietismo orientale, come spessissimo si è creduto: la pace non è assenza di lotta, ma assenza di incertezza e di turbamento.

La caduta, come abbiamo detto, ha immerso l’uomo nella materia e lo ha sottomesso ai meccanismi delle sue leggi; non solo si è appesantito corporalmente ed è divenuto tributario del mondo che doveva dominare e guidare, ma, nel suo essere mentale stesso, l'uomo si è legato e incorporato al mondo creato e decaduto; egli non può più pensare né sentire altrimenti che nella forma di questo mondo materiale, di questo mondo fuorviato, utilizzando le immagini che esso offre, ed incapace di sfuggire alla successione, poiché il pensiero è divenuto discorsivo. Quand'anche egli cerchi di liberarsene, grazie ai meccanismi dell'astrazione, è pur sempre nel circolo vizioso del creato e dei suoi meccanismi che egli si muove, secondo il modo, divenuto normativo, del discorso. Il ritorno alla norma vera consiste dunque nello stabilire l'attenzione perfetta fuori dagli attacchi della dissipazione, nella stabilità del semplice sguardo.

Notiamo dapprima che l’attenzione è, nell’esperienza spirituale, non solamente una concentrazione delle forze divergenti dell’intelletto, la sua somma in un punto, un perfetto raccoglimento che lo libera dallo svolgimento discorsivo e lo stabilisce nell’ “eterno ora di Dio” mediante il silenzio interiore, nell’amore-adorazione. Questo punto di somma perfetta è chiamato “cuore”; quest’ultimo non è la “sede delle emozioni”, come non lo è il cuore anatomico: è il “centro” della vita umana, il luogo da dove scaturisce la vita e in cui essa si ritira in ultimo. Trovare “il luogo del cuore” vuol quindi dire stabilire la propria vita interiore, e dunque la vita senz’altro epiteto, in una perfetta stabilità ed in una sovrana ed immutabile indipendenza, e raggiungere la pace ricercata.

Tutta l’ascesi corporea, che è legata alla sua ricerca ed alla sua utilizzazione, è fondata su di una constatazione psico-fisiologica che ci sembra molto semplice, ma la cui scoperta empirica appartiene al genio: vale a dire sapere che ogni attività psichica comporta una ripercussione somatica e che inversamente gli atteggiamenti e i movimenti del corpo possono favorire, ed anche provocare, stati mentali. Il corpo, in modo sensibile o impercettibile, partecipa ad ogni movimento dell'anima - che si tratti di sentimento, di pensiero astratto, di volizione od anche d'esperienza trascendente. Questa risposta del corpo è duplice: prende parte allo sforzo d' attenzione del soggetto, e si adatta al suo tema; è universalmente noto che lo sforzo d'attenzione si accompagna con un accigliamento ed un irrigidimento della maschera; che la collera, la gioia ed ogni nostra emozione si esprime in gesti e in atteggiamenti; molti sono coloro che hanno notato che il nostro corpo intero partecipa ad attività mentali le gambe del Pensatore di Rodin "pensano” con la stessa intensità della fronte. Quanto all'adattamento corporeo al tema del pensiero, non bisogna più farne la prova: la psico-fisiologia ci ha fatto sapere che ad ogni rappresentazione corrispondono sensazioni cenestetiche, attività glandolari, una messa in tensione motrice caratteristiche. Questo duplice processo non si svolge in modo qualunque: se è vero che l'organismo intero partecipa a ciascun avvenimento mentale, non è men vero che, nei diversi casi, sono regioni differenti dell’organismo ad essere interessate in modo dominante, al punto che, all’occasione, tale regione sembra essere la sola messa in azione, e che meccanismi d’esclusione mutua intervengono, legati agli antagonismi fisiologici ben noti. D’altra parte, uno stesso tema, secondo che sia pensato o sentito, che si orienti verso l’azione o resti quiescente, che provochi tale o tal’altro giudizio di valore (e quest’ultimo carattere è importante nella pratica ascetica), mette in opera centri differenti di sommazione dell’essere, di concentrazione dell’attenzione. Il “tema traccia la propria vita”.

Soltanto il pensiero errante, non sostenuto da uno stato timico definito, è sprovvisto di luogo fisico: esso ronza nella testa e sveglia reazioni somatiche passeggere che, all’occasione, possono diventare esse stesse centri d’attrazione per il pensiero che ha dato loro nascita, e fissarlo in modo spesso inatteso. Questo pensiero errante è determinato dal meccanismo complesso delle associazioni d'idee autogene, delle impressioni ricevute dall'ambiente esteriore e delle onde subcoscienti messe in moto a caso dalla meditazione; questo pensiero ha un valore intellettuale mediocre, ma presenta nella vita ascetica pericoli reali, poiché troppo spesso si comporta come l'apprendista stregone di Goethe. Appena appare un pensiero dirigente o un sentimento centrale, ogni attività psichica vi si unifica intorno, acquista una più grande semplicità, una più grande coesione; il campo di coscienza si restringe e si illumina, e simultaneamente si definisce un luogo di concentrazione dell' attenzione. L'esperienza degli asceti ortodossi ne ha definito un certo numero e li ha specificati con caratteri somato-psichici che permettono di riconoscerli. Indichiamoli brevemente.

1. Centro cranico cerebro-frontale.

É localizzato, grosso modo, alla regione sopracciliare; forse è preferibile non andare oltre; poiché le testimonianze degli autori non forniscono alcuna base per localizzazioni più esatte; ci sembra (ma ciò è soltanto una semplice supposizione personale) che essosi situi all' intersezione degli assi orbitali quando losguardo si dirige verso la regione frontale. Questo luogo corrisponde ad un pensiero astratto di una intellettualità purissima; può essere molto intenso, molto lucido e penetrante, ma e' complesso, è instabile in quanto è retto dalle leggi dell'associazione; la sua unificazione intorno ad un tema esige un grande sforzo di concentrazione volontario che ne sospenda il libero gioco anarchico; questo sforzo comporta la fatica, poi si spezza, stremato di forze, e il pensiero si dissipa. È il modo di pensiero comunemente usato quando cerchiamo la soluzione di un problema o quando ci applichiamo a risolvere una difficoltà richiedente tutta la forza viva e tutta l'abilità del nostro intelletto.

2. Centro bucco-laringeo.

Senza abbandonare completamente la regione sopracciliare, il pensiero può legarsi ed in corporarsi alla parola che l'esprime; quest'ultima, invece di essere soltanto pensata, è evocata, sentita, assaporata; acquista una potenza evocatrice propria dell'ordine dei valori emozionali (timici), di cui si carica, e si ripercuote sui pensieri più che nel caso precedente. I termini del pensiero perdono la loro astrazione, si arricchiscono di una certa colorazione timica che mancava ad essi e acquistano un valore rappresentativo più grande; il loro dinamismo tanto più si accresce; e, tuttavia, il pensiero, essenzialmente discorsivo, fissato debolmente dall'elemento emozionale legato alla parola, resta in gran parte in balia del gioco delle associazioni irrazionali; per mantenersi nei limiti che esso s' impone, deve lottare; resta instabile, alla lunga si dissipa e muore É tuttavia la forma del pensiero più comune: quella dell' intelligenza che si esprime nella conversazione, la corrispondenza, e nei primi stadi della preghiera. É alla base dell'orazione giaculatoria. Il luogo fisico che gli corrisponde si situa nell'area bucco-laringea. Localizzazioni secondarie potrebbero essere definite.

3. Centro pettorale.

È situato nella parte superiore e mediana del petto; l'orante resta molto vicino ancora alla sua esperienza precedente: pensieri e sentimenti vi vibrano allora al tempo stesso che sono espressi e gustati dagli organi della voce (alta, sussurrata o muta); oppure egli è sulla via del progresso verso il centro d'unificazione e di concentrazione perfette, e allora la sua preghiera resta silenziosa: "Il silenzio dell'anima, ha detto Sant' Isacco il Siriaco, è il mistero del secolo a venire. La stabilità del pensiero, già palesemente colorato d'un elemento timico, è molto più grande dei casi precedenti, ma è ancora il pensiero che defluisce la colorazione emozionale e che è modificato da essa; così è ricco e variato malgrado un accrescimento d'unità; non cede spontaneamente; se alla lunga vien meno, non è per effetto di un infiacchimento dello sforzo d'attenzione intellettuale che è minore, in quanto l’intelligenza è sostenuta dalla carica emozionale del pensiero, ma per un crollo della tensione timica.

4. Centro cardiaco

È situato nella “parte superiore del cuore”, un poco al di sotto della mammella sinistra, secondo i Padri greci; “un poco al di sopra”, secondo Teofano il Recluso, il vescovo Ignazio Briantchaninoff ed altri.

Forse, tenendo conto di un insieme di indicazioni disseminate, si potrebbe rischiare di dire che il luogo del cuore sia legato al seno carotideo; ci sembra tuttavia più sicuro non cercare di stabilire corrispondenze anatomiche troppo rigorose e di accontentarci della terminologia approssimativa in uso, poiché una maggiore precisione non insegnerebbe niente a coloro che non conoscono per esperienza i luoghi di cui è questione, e l'approssimazione è più che sufficiente per coloro che sanno ciò di cui si tratta.

L'attenzione è fissata " al di sopra del cuore”, dice Teofano il Recluso, come su una torre d'osservazione da cui lo spirito sorveglia i pensieri e i sentimenti che cercano di introdursi nella cittadella sacra, nel santuario della preghiera.

Il pensiero concentrato nel cuore perviene ad una coesione completa: è sostenuto da un elemento timico indivisibile, di una tale intensità che nulla di estraneo può innestarsi su questo pensiero né penetrarlo. La potenza della carica emozionale posseduta in sé dal tema che occupa il pensiero e' sufficiente ad allontanare ogni interferenza estranea; tutta la vita interiore è " istantaneizzata", vale a dire stabilita in un Presente duraturo e così ridotta all'unità; ogni emozione potente può essere l’origine di questo modo di concentrazione: nell'ordine della vita secolare può essere una gioia intensa o un grande dolore; nell'ordine della vita spirituale, è un incontro con il Dio vivente, la percezione della Presenza reale e della realtà della Presenza personale di Dio, esperienza primordiale di ogni vita cristiana.

L'intelligenza non ha da compiere sforzo alcuno per evitare che l'attenzione si dissipi; essa adempie il suo vero compito; vede e discerne; tutte le sue attività sono aspirate dal di fuori al di dentro, fissate in questo luogo fisico da un attrazione onnipotente e colà mantenute da una forza ad esse estranea, e tuttavia più intima all'anima dell' anima stessa… (Nicola Cabasilas), che ravviva il cuore e fa l'unità nel pensiero. L' intelligenza, liberata, in virtù di questa beata captività dallo sforzo necessario per concentrarsi su un tema che le sarebbe esteriore, persiste senza fatica nella preghiera o nella meditazione. Libera da ogni lotta, da ogni incertezza da ogni preoccupazione, essa acquista una lucidità una vigilanza, una potenza e uno splendore che le erano fino allora sconosciuti Questo stato cesserà quando la grazia vivificante dello Spirito Santo sospenderà la sua azione. Insieme con queste manifestazioni della sfera noetica, la concentrazione dell'attenzione nel centro cardiaco ha ripercussioni timiche: il sentimento è vivo, fervente, purissimo, spoglio da ogni emozione e da ogni passione: è una pace ardente, inintelligibile e ineffabile; è anche una potenza per le sue esigenze e la sua ripercussione sulla sfera pratica; ed una luce. Lungi dall'oscurare il pensiero, come fanno le emozioni, essa lo sgancia interamente. L'intelligenza resta pienamente e intensamente cosciente e libera - poiché l'anima, liberata dal suo ripiegamento su se stessa e svicolata non è mai passiva, agita da una forza estranea (lo stato agito è lo stato passionale stesso). Libera, può realizzare la sua vera vocazione che è di attualizzare tutto ciò che Dio ha messo in lei; d'essere pienamente se stessa, vale a dire conforme a Dio, e di diventare il Tempio del Dio vivente: "La Volontà di Dio, scrive un teologo russo, è la libertà per gli angeli, la legge per l'umanità decaduta; non è maledizione che per i demoni". In questa sinergia di Dio che si dà e della creatura che, per riceverla ed unirsi a Lui, si abbandona attivamente, l'anima talvolta conserva la piena padronanza di sé e può a suo piacimento restare silenziosa orientare la sua preghiera, tal'altra vede sorgere dalle profondità del suo essere che comunica con la vita divina la forma della sua relazione con Dio, prende coscienza del suo essere vero in Dio e si lascia condurre dallo Spirito che la chiama e la guida. Avendo percepito la Presenza, essa dimentica il mondo intero e non vede "più che Dio, ma in Lui scopre l'amore che Dio stesso porta alle sue creature e, come sulle onde del riflusso, si trova ricondotta, piena di compassione e di tenerezza ma questa volta con Dio, verso quel mondo che aveva abbandonato per essere soltanto con Lui. Di nuovo a faccia a faccia col suo Signore, prega per questo mondo creato e amato da Dio, comunica con la sua Carità e questa partecipazione la strappa ancora al creato per immergerla in Dio. In altri casi, infine, è un silenzio ineffabile che si fa nell'uomo liberato da sé, ed egli contempla, nel riposo completo di tutte le forze del suo essere, la luce divina increata i misteri del mondo, della sua propria anima e del suo corpo (Sant'Isacco il Siriaco).

Questa esperienza può aver luogo secondo un modo estatico o non. L'estasi, il rapimento, sono, infatti, il segno di una vita mistica elevata; ma lungi dal significarne l'apogeo, traducono l' incapacità dell'uomo a vivere nella pienezza della vita divina senza perdere contatto con la sua vita individuale particolare: "L'estasi, dice San Simeone il Nuovo Teologo, non è dei perfetti, ma dei ma dei novizi. L'ideale da raggiungere è una vita d'unione perfetta che sia permanente, inalterabile e nella quale sia integrato l'uomo intero; spirito, anima e corpo, senza urti né rotture d’ equilibrio, all'immagine di Nostro Signore Gesù Cristo; stato raro e di cui Sant' Isacco ha potuto dire che appena uno su diecimila può raggiungere,,. Ogni preghiera vera, vale a dire fatta in una perfetta umiltà, con lo spogliarsi di ogni preoccupazione di sé, da un orante che ha fatto la sua pace con Dio, la sua coscienza e il Cosmo abbandonandosi a Dio senza ritorno, come pure ogni meditazione condotta nelle stesse condizioni, è presto o tardi vivificata dalla Grazia dello Spirito Santo. È allora che acquista i caratteri precedentemente citati dell’ordine timico e noetico, è allora che essa diviene il fermento di ogni azione a cui serve da criterio, che si trova ad essere il tutto della vita, che cessa di essere un'attività per diventare l'essere stesso; allora la preghiera fissa la sua dimora nel luogo cardiaco, permettendo all'orante di adorare Dio dal fondo del cuore e di unirsi a Lui; altresì, il che è fondamentale, tutte le tecniche che permettono di scoprire e di localizzare questo luogo artificialmente, non hanno lo scopo di far scaturire la preghiera, e ancor meno di far nascere complessi d'emozioni somato-psichiche che sarebbero l'oggetto illusorio dell'esperienza mistica. Esse debbono indicare al novizio, cui sono destinate, dove è situato questo centro d'attenzione optima, affinché egli possa, quando sarà venuto il momento, riconoscere che è proprio da quel luogo che nasce la sua preghiera, e fissarvisi; lo stabilirsi dell'attenzione in questo luogo, crea, d'altra parte, le più favorevoli condizioni perché la preghiera possa essere profonda e stabile; ma, se è vero che la vera preghiera mette in opera questo luogo fisico dell'attenzione, occorre dire che l'attenzione può trovarvisi fissata al di fuori di ogni preghiera: e non gli assicura alcun superamento; la preghiera nasce in un atto di fede che ci mette a confronto con l' Increato, il Dio personale e vivente: essa non dipende da alcun artificio e non può essere conquistata né con l'astuzia né con la violenza; è libero dono di sé, da una parte e l'altra. il corpo non è dunque un organo produttore, ma un criterio oggettivo; ciò che si esige da esso, come pure dal pensiero discorsivo, è il silenzio ed il ritorno all'unità; è attivo, ma non creatore: è, come tutto nell'uomo, una terra fertile in attesa del seme; parte integrante dell'uomo totale, anche esso porterà i suoi frutti di santità, poiché è chiamato alla trasfigurazione, alla resurrezione e alla vita eterna.

Per il maestro, il corpo con tutti i suoi movimenti, è un prezioso strumento di prospezione, in quanto gli permette di discriminare fin dal primo momento certi stati, pur se il loro contesto psicologico è ancora impreciso, o meglio quando il discepolo è ancora incapace di percepire le sfumature della sua vita interiore. La scienza dei Padri in questa materia non è dunque un insegnamento della preghiera e nemmeno della vita interiore, ma una ascesi e una criteriologia dell'attenzione. Ciò equivale a dire l' importanza di un maestro che guidi il debuttante al tempo stesso nella vita interiore e negli esercizi corporei, che li controlli ed impedisca al novizio di lusingarsi prendendo per effetti della grazia i risultati naturali della sua ascesi. Ogni errore di tecnica e d’interpretazione può, infatti, avere le più nefaste conseguenze, come l’ha provato l’esperienza dei monaci athoniti del XIV secolo e quella dl tutti gli imprudenti e di tutti gli orgogliosi che hanno creduto poter utilizzare senza guida le tecniche somatiche.

Immediatamente al di sotto del cuore, luogo fisico dell'attenzione in una vita spirituale sana, si trova la regione "dei reni e interiora” da dove nascono tutte le sensazioni cenestesiche che, ricevute e riprese da uno psichismo peccaminoso, conducono agli stati passionali che turbano il cuore e l'intelligenza. Al loro pieno sviluppo, questi stati si traducono in manifestazioni corporee e mentali che non possono affatto ingannare: sono i desideri sfrenati della carne e dello spirito. Ma all'inizio, queste sensazioni sono abbastanza simili a quelle che descrivono certi mistici e quindi possono sviare il novizio. L'area che le libera e permette ad esse di salire fino alla coscienza chiara o crepuscolare è molto vasta: comprende tutta la regione che è immediatamente al di sotto della mammella. Monaci ignoranti, senza guide, senza esperienza né discernimento, hanno fatto la crudele esperienza di ciò che introduce nella vita interiore la concentrazione dell' attenzione su queste zone. Sono i loro errori e le loro disgrazie che hanno, da secoli, alimentato gli argomenti di critica antiesicasta di Barlaam di Seminaria, di Gregorio Acyndinos, di Niceforo Gregoras e dei loro moderni successori più istruiti ma non più illuminati, che hanno trasmesso all' Occidente le loro vedute erronee sull'esicasmo e la teologia palamita, accusando i monaci dell'Athos di cercare, con la contemplazione del loro ombelico ed esercizi di soffocazione, la creazione di stati d'estasi che sarebbero lo scopo ultimo cui pervenire.

Se si mettono da parte I dettagli che specificano i diversi "luoghi secondari” di questa vasta regione, si può dire che la fissazione dell'attenzione su uno qualsiasi dei centri di questa zona comporti l'oscuramento progressivo del pensiero lucido e della coscienza, che può andare fino alla loro estinzione completa, provocando stati crepuscolari più o meno stabili e più o meno duraturi; l'esacerbazione delle percezioni cenestetiche e, infine, l’apparizione di manifestazioni passionali, incontrollate, corporee e mentali. Il sentimento libero e lucido, e' sostituito dall'emozione somato-psichica passiva; la pace e il riposo attivo delle forze dell'anima dal turbamento e la violenza dei desideri e degli appetiti irrazionali; il silenzio del corpo dal disordine delle passioni e degli impulsi anarchici; la padronanza di sé da uno smarrimento più o meno completo del pensiero e del sentimento che diventano incapaci di comandare i nervi e di reggere il corpo. Ed il tutto porta spesso all' alienazione mentale e ai disordini fisiologici.

L'uso degli esercizi corporei esige in modo più assoluto un Maestro sperimentato e vigilante, e, da parte del discepolo, una grande semplicità e un abbandono attivo e fiducioso; le sue difficoltà aumentano, come pure i pericoli, con la complessità psichica del novizio e con l’attitudine che dà la nostra educazione moderna a “guardarsi vivere”, invece di vivere. Questa ascesi, come abbiamo detto parecchie volte, modella una forma e non ha senso che per il contenuto che vi si trova inserito; si collega in maniera necessaria ad un ascesi mentale, cui l'articolo del professor Wunderle già citato può servire da eccellente introduzione. Dobbiamo dare ora una descrizione delle tecniche stesse.

I. TECNICA DIRETTA, FONDAMENTALE

Due Maestri ce la fanno conoscere nei loro scritti: San Gregorio Il Sinaita, che, al XVsecolo, introdusse la Preghiera di Gesù al monte Athos e ne fu l'instancabile propagatore; e San Simeone il Nuovo Teologo che fu il maestro eminente dell' XI secolo.

San Gregorio il Sinaita:

“Siedi su di un seggio basso, fa discendere la intelligenza dalla testa nel cuore e mantienila in questo luogo; poi, penosamente inclinato fino a risentire un vivo dolore nel petto, nelle spalle e nel collo per la tensione dei muscoli, grida di cuore e di spirito: Signor Gesù Cristo, abbi pietà di me ! Ciò facendo, trattieni il respiro, non respirare con troppo ardire, in quanto ciò può dissipare il pensiero. Se pensieri sopravvengono , non prestarvi attenzione quand'anche fossero semplici e buoni, e non solo vani ed impuri. Trattenendo la respirazione per quanto puoi, imprigionando la tua intelligenza nel cuore e moltiplicando pazientemente i tuoi appelli al Signore Gesù, tu spezzerai e annienterai rapidamente questi pensieri con i colpi invisibili che infligge loro il Nome Divino. San Giovanni Climaco dice: "Colpisci i tuoi avversari col Nome di Gesù; non esiste arma più; potente sulla terra o nei cieli”.

Quando il tuo pensiero verrà meno, quando il tuo corpo e il tuo cuore saranno divenuti doloranti a forza di piantare in essi con frequenza il nome di Gesù, sicché ogni occupazione avrà cessato di apportar loro il calore e la gioia necessari per sostenere lo zelo e la pazienza di colui che vi si dedica, allora (soltanto) alzati e solo o col tuo discepolo, salmodia o esercita il pensiero su tale passaggio delle Scritture o rifletti alla morte oppure leggi o dedicati al lavoro manuale o a qualche altra occupazione che faccia penare il tuo corpo.

San Simeone il Nuovo Teologo: luogo vegliare a tre cose: prima, a non avere alcuna preoccupazione, buona o cattiva; in secondo luogo, devi avere una coscienza pura in tutto che nulla ti rimproveri; e per terzo, ad avere un distacco perfetto in modo tale che il tuo pensiero non inclini verso alcuna attrazione di questo mondo.

Avendo fortemente stabilito tutte queste disposizioni nel tuo cuore, stai in un luogo ritirato, solo, in un angolo; chiudi la porta, concentra la tua intelligenza, allontana da essa ogni oggetto temporale o vano, appoggia fortemente la barba contro il petto; trattieni un po' la respirazione, fa discendere la tua intelligenza nel cuore mentre dirigi al tempo stesso su di esso gli occhi del corpo tuo, e presta attenzione a ciò che avviene; costringi l’intelligenza a restarvi legata e cerca col pensiero di trovare il luogo dove si trova il cuore affinché la tua intelligenza vi si fissi completamente. Dapprima vi incontrerai le tenebre e la pena; ma poi, se perseveri in questo esercizio d'attenzione notte e giorno, tu ne ricaverai una gioia incessante. L'intelligenza, a forza di sforzarvisi, troverà il luogo del cuore, ed allora vedrà presto cose che mai ha visto e di cui non ha nozione: si vedrà luminosa, piena di saggezza e di discernimento. Ed allora, da qualsiasi parte possa venire un pensiero illegittimo, prima ancora che penetri nel cuore e vi introduca una qualsiasi immagine, l'intelligenza lo scaccerà e l’annienterà dicendo: Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me! È a partire da questo momento che essa comincia ad avere risentimento ed odio per i demoni, li insegue, li colpisce e li annienta. In merito alle altre cose che avvengono nello stesso tempo, tu apprenderai a conoscerle più tardi con l'aiuto di Dio, da te stesso, con la tua propria esperienza, nella misura stessa in cui custodirai nel tuo cuore Gesù, vale a dire la preghiera indicata: “Signor Gesù, abbi pietà di me!”.

II. TECNICA MEDIATA ACCESSORIA

San Niceforo l’Astinenteci dice:

“Prima di tutto, che la tua vita sia libera da ogni agitazione, da ogni preoccupazione, sii in pace con tutti. Poi, ritirati nella tua cella, 'chiudi la porta dietro di te; siedi in qualche angolo e fai quanto ti dirò. Concentra il. tuo spirito e fai seguire, per raggiungere il cuore, il cammino che segue l'aria, e costringilo a discendere nel cuore con l'aria che inspiri. Abitualo a non abbandonare questo luogo" troppo presto, in quanto al principio esso soffre molto di restare così rinchiuso ed allo stretto, ma quando vi si abitua non vuol più errare al di fuori”.

III. TECNICA MISTA

Consiste nella sincronizzazione di un certo numero di battiti del cuore con ognuna delle fasi della respirazione, e nell'adattamento, ad ogni battito del cuore, di uno dei termini della Preghiera di Gesù: "Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore".

IV. ULTERIORI CONSIGLI

A coloro che non ottenessero accesso al luogo del cuore con i mezzi precedenti, San Niceforo l'Astinentedà questo consiglio: "La facoltà d'elocuzione risiede nella laringe. Utilizzala dunque a ripetere incessantemente la preghiera di Gesù. Al principio, l'attenzione vi resterà estranea: a poco a poco tuttavia l' intelligenza presterà ascolto alle parole, l'attenzione si fisserà su di esse; poi il cuore ne sarà commosso e la preghiera ti introdurrà da se stessa, senza sforzo da parte tua, nel suo santuario”.

di fronte al realismo senza reticenze dei Padri e alla loro straordinaria penetrazione: agli incapaci essi offrono una via che li condurrà alle più autentiche realizzazioni dello spirito ed essi sanno lottare contro ogni nostro nemico spirituale con le sue proprie armi: agli automatismi del pensiero, oppongono un automatismo che potrà vincere i suoi avversari, in quanto è ancora più semplice di loro; al concatenamento anarchico voluto dalle circostanze della vita di relazione, essi oppongono un ritmo autonomo poiché libera dall'ambiente colui che lo mette in moto, ma anche personale, poiché ognuno si sceglie il proprio e lo installa sui ritmi profondi del suo essere fisiologico e psicologico. La nostra esperienza, pur così povera, malgrado la sua apparente complessità, non ci insegna forse che l'attenzione analitica del nostro intelletto, molto spesso, dissipa la concentrazione, ne spezza l'unità profonda, disperdendone 'lo sforzo su una moltitudine di oggetti? Invece la ripetizione monotona, ritmica, senza fretta e senza splendore, di una formula unica, breve ma possente in virtù delle rappresentazioni mentali che vi si legano e della Presenza reale di Dio, fa il silenzio nell' intelletto, unifica l'attenzione sul piano timico e realizza in fin dei conti la piena concentrazione. È da questa esperienza che è nata l’ORAZIONE GIACULATORIA. V. CONSIGLI DI TEOFANO IL RECLUSO

Infine, Teofano il Recluso, nei consigli che dà a chiunque voglia intraprendere la vita spirituale, insegna che una delle ‘condizioni' indispensabili al successo è di non ammettere mai il lasciar andare corporeo: "Sii, egli dice, come una corda di violino regolata su di una nota giusta. Senza illanguidimento né tensione: il corpo eretto, le spalle in giù, il, portamento della testa comodo, la tensione di tutti i muscoli orientata verso il cuore”.

È particolarmente interessante notare il giudizio che dà questo grande maestro di vita interiore sui metodi classici dell'esicasmo. Essi sono, egli dice, in sostanza, il frutto e la prova di una esperienza spirituale autentica. Hanno portato ad una conoscenza preziosa delle regole e delle vie della vita interiore, e hanno mostrato in particolare con evidenza l’importanza della dignità del corpo fin da questa vita nel nell’opera della salvezza e nella via di unione. "Tuttavia, in regola generale essi sono divenuti superflui sotto il loro aspetto athonita, e costituiscono un pericolo per i novizi senza maestro poiché potrebbero soppiantare in essi l'opera spirituale stessa e indurli a prendere per carismatici stati naturali divenuti inabituali per noi.

Le tecniche classiche possono tuttavia, secondo lui, essere consigliate a coloro il cui cuore si è disseccato e chiuso nel formalismo dei riti e delle regole, e che non conoscono più che la forma senza vita della religione. La concentrazione dell'attenzione al cuore, per tutto ciò che comporta come ripercussioni somato-psichiche può far loro ritrovare l'emozione naturale e la vita, e condurli, - sotto una direzione molto sicura, - ai sentimenti apassionali della vera vita interiore.

É necessario dire una volta di più che 'tutte queste tecniche non costituiscono la vita in Dio, come non lo sono nemmeno la preghiera e la meditazione: esse fanno parte di una ricca ascesi liberatrice che abbraccia tutto l'essere e che è per natura negativa. Quando l'attenzione è stata unificata nel luogo di perfetta concentrazione e pronta a ricevere e ad elevare la sua preghiera, allora soltanto comincia l'opera spirituale.

Per la loro forma e per il loro tenore, la preghiera e la meditazione debbono essere fattori di coesione e di unità. Abbiamo consacrato al loro studio la introduzione e l'ultimo capitolo di un saggio pubblicato nel 1948 in Etudes Carmélitaines; vi rinviamo il lettore curioso di maggiori dettagli, poiché le tecniche mentali dell'esicasmo sono da loro sole un vastissimo soggetto. Tuttavia, prima di terminare questa esposizione, vogliamo dire una parola a proposito delle analogie che sono state segnalate fra il metodo esicasta e il Training Autogeno. In un articolo disgraziatamente troppo breve, il dottor Paul Zacharias cerca di stabilire un parallelismo fra i metodi psicoterapici di Autogenes Training e quelli che 'noi abbiamo descritti in questo articolo: egli trova che si è di fronte a due tecniche, non soltanto analoghe, ma quasi identiche; una sola cosa sembra mancare all'esicasmo: gli esercizi di risoluzione muscolare e nervosa. Noi non siamo certi che una intera giustizia sia stata fatta a qualcuna delle condizioni preliminari”, sia di postura e sia mentali; forse una analisi più larga e più spinta dei due termini in presenza permetterebbe di precisare le analogie e di discernere qualche differenza passata sotto silenzio. Sembra tuttavia interessante osservare che uno psicologo di mestiere riabiliti nel suo dettaglio un'ascesi che è in uso denigrare in nome della scienza.

(tit. orig.: L'Esychasme Yoga cretien - in Le Yoga Science de l'Homme integral)


BIBLIOGRAFIA

Collezione Irenikon, 1947, t. XX n. 3: La Prière de Jesus ,, di un monaco della Chiesa d'Oriente.

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Philocalie Russe et Patrologie grecque de Migne: passim.

Le Chiese dell'oriente cristiano

La Chiesa Ortodossa di Cipro

di John Nellykullen

La Chiesa Ortodossa di Cipro ha sua origine nel tempo apostolico. Secondo gli Atti degli Apostoli San Paolo e Barnaba hanno evangelizzato l’isola (Atti, 13/ 4-13). Una volta l’isola faceva parte della provincia civile dell’Oriente, la cui capitale era Antiochia. I patriarchi Antiocheni volevano la giurisdizione sopra la Chiesa di Cipro e il diritto di nominare l’Arcivescovo. Il Concilio d’Efeso nel 431, però, riconobbe l’indipendenza di Cipro e stabilì che l’Arcivescovo di Cipro doveva essere eletto dal sinodo dei vescovi dell’isola.

Dalla metà del VII secolo fino alla metà del secolo X gli attacchi Arabi contro Cipro erano molto frequenti causando delle devastazioni enormi. Per questo l’imperatore Giustiniano II evacuò la popolazione cristiana dall’isola dal 688 al 695. Questi furono trasferiti nella nuova città di Dardiniani (Dardanelles) chiamata Giustiniana Nuova. L’arcivescovo di Cipro prese la sua residenza in questa città ed assunse come titolo Arcivescovo di Giustiniana Nuova, un titolo che ritiene ancora oggi. La vittoria dell’imperatore bizantino Niceforo II (963-969) sopra gli Arabi inaugurò un periodo di pace nell’isola e promosse la ristrutturazione delle Chiese e dei monasteri ed una nuova fioritura della Chiesa nei secoli XI e XII, Però vi fu sempre un forte risentimento contro i governatori bizantini che opprimevano la popolazione.

Nel 1191 il Re Riccardo Cuor di Leone d’Inghilterra ha conquistato l’isola, però dopo la vendette ai cavalieri Templari, che a loro volta passarono la proprietà ad un francese Guy de Lusignan nel 1192. Il Lusignan era il Re di Gerusalemme mandato in esilio dai crociati. Lui fondò una società feudale a Cipro ed una dinastia che rimase sul trono per 300 anni. Una gerarchia latina fu eretta causando difficoltà ed ingiustizie agli ortodossi. Dal 1260 i monasteri ortodossi furono sottomessi ai vescovi latini. Il numero dei vescovi ortodossi fu ridotto da 15 a quattro e furono tutti sottomessi al nuovo arcivescovo latino di Cipro. Diversi ordini monastici occidentali aprirono una loro casa in Cipro, usando le proprietà ecclesiastiche degli ortodossi che erano state confiscate. La situazione continuò anche dopo la conquista dell’isola da parte di Venezia nel 1489.

Gli Ottomani conquistarono l’isola nel 1571. Il sistema feudale fu abolito e così pure la gerarchia latina. Furono però riconosciuti gli ortodossi. Sebbene gli ortodossi avessero ottenuto il diritto di eleggere l’arcivescovo rimasero soltanto le quattro diocesi, che la gerarchia latina aveva lasciato sopravvivere. Questi vescovi ortodossi erano, contemporaneamente i capi ecclesiastici e civili dei Greci. Furono considerati colpevoli quando iniziò la rivoluzione greca nel 1821 e furono uccisi con altri membri eminenti della Chiesa. Una nuova gerarchia fu mandata sull’isola dal patriarca d’Antiochia. La situazione migliorò, però i greci soffrirono molto a causa della tassazione pesante da parte dei turchi. Nel 1878 la Gran Bretagna occupò l’isola al posto dei Turchi e nel 1914 questa divenne una colonia inglese. Un movimento politico nacque tra i greci in favore della enosis, cioè dell’unione con la Grecia. I capi religiosi ortodossi furono ovviamente coinvolti in questo movimento. Quando Cipro divenne indipendente nel 1960, l’Arcivescovo di Cipro, Makario III fu eletto come primo presidente. L’invasione turca nel 1974 e la fondazione della “Repubblica Turca di Cipro Nord” cambiò la situazione. Tanti monasteri e chiese al nord furono distrutti ed agli ortodossi fu proibito l’entrare in chiesa o nei monasteri. Solo dopo 20 anni il 30 novembre del 1994, due preti ebbero il permesso ad entrare nella Repubblica del nord per celebrare la Santa Messa nel monastero di S. Andrea a Penisola Karpas.


Nell’aprile del 1973 iniziò una crisi nella Chiesa di Cipro. Tre metropoliti dell’isola dichiararono deposto l’Arcivescovo Makario, considerando il suo ruolo di presidente incompatibile con il suo incarico di vescovo. Però un Sinodo Maggiore dei Patriarchi e dei Vescovi di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e dalla Chiesa greca ha dichiarato deposti questi tre vescovi ciprioti nel luglio dello stesso anno, e così fu risolto il problema. Furono nominati dei nuovi vescovi aumentando il loro numero da quattro a sei.

Secondo una statistica del 1997 ci sono, a Cipro, nove monasteri maschili con 84 monaci, e 14 comunità femminile con 142 suore. La comunità maschile più importante è quello di Kykkos, un monastero sulle montagne di Troodos. I monaci di questo monastero insegnano nel seminario della Chiesa. La scuola teologica intitolata all’Apostolo Barnaba è a Nicosia.



TERRITORIO
: Cipro

GUIDA: Arcivescovo Crisostomo (nato nel 1927, eletto nel 1977)

TITOLO: Arcivescovo di Nuova Giustiniana e di tutta Cipro

RESIDENZA: Nicosia, Cipro

SITO WEB: http://www.churchofcyprus.org.cy/

Lezione Quindicesima

LA CHIESA SACRAMENTO DI SALVEZZA

 




Introduzione

La storia della salvezza realizzata nella persona di Gesù di Nazareth, raggiunge il suo culmine e la sua definitività, ma non si conclude con lui. La sua opera di salvezza, espressa pienamente nel mistero pasquale della sua passione-morte-risurrezione, è destinata a continuare finché dura la storia dell'umanità. Venuto tra gli uomini per salvarli («per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo…»), Cristo li ha associati in modo indissolubile a sé e li destina ad essere il tramite della salvezza per coloro che ancora non credono in lui. La Chiesa, in quanto comunità dei credenti in Cristo, è intimamente legata al Signore Gesù e ne è, in qualche modo, la continuazione della sua presenza salvifica nel mondo.

C’è un filo rosso che si snoda lungo tutti o quasi i documenti del concilio: il richiamo costante ai tre uffici o compiti che ricevono i credenti in Cristo, in virtù del dono del battesimo.

La lettura spirituale
nella dottrina monastica di S. Bernardo

di Sr. Maria Pia Schindele o. cist




San Benedetto nella sua Regola indica la lettura spirituale quale «strumento delle buone opere» (RB 4,55), la chiama Lectio divina e menziona come contenuto la Sacra Scrittura e i Padri della Chiesa: «C’è in fatti una pagina, anzi una parola, dell’antico o del nuovo Testamento, che non costituisca una norma esattissima per la vita umana? O esiste un’opera dei padri della Chiesa che non mostri chiaramente la via più rapida e diretta per raggiungere l’unione con il nostro Creatore? E le Conferenze, le Istituzioni e le Vite dei Padri, come anche la Regola del nostro santo padre Basilio, che altro sono per i monaci fervorosi e obbedienti se non mezzi per praticare la virtù?» (RB 73,3-6).

1) Il sapere che dona salvezza

San Bernardo valuta il sapere in relazione alla luce della salvezza. A lui preme sempre, portare l’uditore o il lettore a Dio e, di conseguenza, indica loro, la storia della salvezza, per scoprire e accogliere la possibilità della propria salvezza, questo è lo scopo dei sermoni 36, 37 e 43 del suo commento sul Cantico dei cantici.

a) Insegnamenti per ottenere il sapere

Nel sermone 36 Super cantica canticorum Bernardo specifica la differenza tra ignorantia pericolosa e non pericolosa, ossia tra l’ignoranza che ci danneggia e quella che è irrilevante. Pericolosa è la ignorantia sui ed Dei, cioè il non sapere riguardo a sé e né riguardo a Dio perché «l’una si volge contro di noi l’altra contro Dio».

«Voi sapete che oggi ci eravamo proposti di parlare dell’ignoranza, o piuttosto, delle ignoranze; poiché di due, se ben ricordate, si trattava; ignoranza di noi stessi e ignoranza di Dio; e abbiamo già avvertito che l’una o l’altra si devono evitare, perché entrambe sono degne di condanna 1»

Bernardo riferendosi agli artigiani e ai maestri delle arti liberali, spiega che invece non è pericolosa l’ignoranza nei campi che riguardano le cose e le scienze esatte, per quali non si è responsabili perché diversi sono i talenti e le professioni. Poi tira fuori l’esempio degli apostoli, che non provenivano dalle scuole di retorica e filosofia. Tuttavia il Signore compì attraverso loro sulla terra opere di salvezza, facendoli diventare, attraverso fide e lemitate – fede e bontà -, santi e maestri.

«Per esempio se ignori l’arte del fabbro, o del carpentiere, o del muratore, o altro del genere, che vengono esercitate dagli uomini ad uso della vita presente, costituisce forse questo un impedimento alla salvezza? Anche senza tutte quelle arti che si chiamano liberali, sebbene si imparino e si esercitino con studi più onorevoli e più utili, quanti uomini si sono salvati, piacendo a Dio con i costumi e con le opere: quanti ne enumera l’Apostolo nella lettera agli Ebrei, resi amati non dalla scienza delle lettere, ma dalla coscienza pura e dalla fede sincera. Tutti piacquero a Dio nella loro fede sincera. Tutti piacquero a Dio nella loro vita, e per merito della condotta, non della scienza. Non per sapienza, quasi che in essi ve ne fosse più che in tutti gli altri, come un Santo ha potuto dire di se stesso, ma nella fede e nella mansuetudine li ha fatti salvi, e anche santi, e anche maestri»2.

La pericolosa ignoranza riguardo se stesso si supera solo attraverso la vera conoscenza di sé. Succede talvolta che l’amara vista di sé rende l’uomo triste, ma lo provoca anche ad aprirsi alla conoscenza di Dio. La lettura spirituale aiuta questo processo del quale Bernardo dice: “In questa maniera la cognizione di se stesso sarà come gradino alla conoscenza di Dio”3.

Bernardo indica pure una scienza contraria alla salvezza, nella quale non si trova la conoscenza della verità, ma la vanagloria. La nomina scientia inflans - scienza gonfiata - che reprime il desiderio di salvezza ed impedisce l’accesso all’esperienza di salvezza.

«Vedete come differiscono le scienze e come una gonfi mentre l’altra rattrista. Ma vorrei che voi mi diceste quale di queste vi sembra utile o necessaria alla salvezza: quella che gonfia o quella che duole?»4 .

Si richiama inoltre alla parola dell’apostolo Paolo: «Per la grazia che mi è stata concessa io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato». – Poi s’interroga - «Che cosa significa essere saggio con moderazione? Significa osservare con molta attenzione che cosa convenga maggiormente e in primo luogo convenga maggiormente e in primo luogo sapere. Il tempo infatti è breve. Pertanto ogni scienza di per sé è buona, purchè sia appoggiata alla verità; ma tu che, data la brevità del tempo, ti affretti con timore e tremore a operare la tua salvezza, preoccupati di conoscere maggiormente e in primo luogo le cose che avrai sentito più vicine alla salvezza» 5.

Bernardo spiega che il contenuto e il modo di fare la lettura devono essere determinati dall’ordine, dall’interesse e dallo scopo da raggiungere:

«Con quale ordine si studi prima ciò che è più urgente per la salvezza; con quali sentimenti si cerchi con più ardore ciò che spinge con più forza all’amore; con quale scopo non si cerchi la vana gloria o la curiosità, o alcunché di simile, ma solo l’edificazione propria e del prossimo6».

b) Leggere ed apprendere

Nel sermone 37° Super cantica canticorum Bernardo cita il versetto del profeta Osea: «Seminate per voi secondo giustizia e mieterete secondo bontà» (Os, 10,12) e poi aggiunge: «e solamente dopo illuminatevi con il lume della scienza». Qui egli si riferisce, al seme che cade nell’anima di chi ascolta la buona novella e manifesta la sua forza vitale con abbondanti slanci verso il bene.

«Chiunque di voi sente in sé operarsi queste cose, sa che cosa dica lo Spirito, la cui voce e la cui operazione non sono mai discordanti tra di loro. Perciò dunque comprende le cose che sente al di fuori, perché le sente al di dentro»7.

In virtù di questo «dono primordiale» dello Spirito Santo, la Sacra Scrittura viene interpretata mediante la propria esperienza donando ulteriori chiarimenti sulla vita spirituale trasmessa dalla Parola di Dio e già sperimentata dall’anima. Così s’instaura un dialogo tra Dio e il lettore, il quale sa di essere toccato dal Signore attraverso la Sacra Scrittura, ed è mosso a risponderli nella preghiera e, nello stesso tempo, si sente spinto a comunicare la sua esperienza di Dio ai confratelli, affinché trovino anche loro il proprio colloquio con Dio.

Per acquistare la vera e propria conoscenza della Sacra Scrittura, per san Bernardo è importante indagare sull’esperienza degli autori perché considera che la scienza della Scrittura aiuta la professione di fede, vero scopo della Lectio divina.

c) La filosofia di Bernardo: Gesù Cristo

Bernardo nel sermone 43 Super cantica canticorum è colpito dal versetto dell’apostolo Paolo ai Corinzi: «lo ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1 Cor 2,2).Qui egli segue il modo di filosofare in uso fin dal XI secolo e che Jean Leclercq spiega, nei suoi studi sul vocabolario del medioevo, come ricerca della «vera saggezza» secondo una conoscenza della verità che il filosofo trova nella sequela di Cristo.

Con questa intenzione Bernardo raccoglie i singoli fatti della vita e della sofferenza di Cristo come un mazzetto di fiori e se lo pone sul petto, in modo da avere sempre presente l’opera di salvezza quale pienezza del sapere, per cui confessa:

«Ho chiamato sapienza meditare queste cose, in esse ho fatto consistere per me la perfezione della giustizia, in esse la pienezza della scienza, le ricchezze della salvezza, in esse l’abbondanza dei meriti»8.

In seguito su Gesù e la sua opera salvifica dice:

«Perciò io ho spesso queste cose sulla bocca, come voi sapete, e nel cuore sempre, come lo sa Dio. Queste cose sono familiari alla mia penna, come è risaputo, questa è la mia più sottile e interiore filosofia, conoscere Gesù e Gesù crocifisso (cfr 1 Cor 2,2)».9

2) Sapere e volere

Il sapere aiuta esclusivamente la salvezza, se il volere accetta quanto ha conosciuto, perché è stato «catturato» dalla conoscenza, quindi indirizza la sua azione conforme alla sua cognizione.

In un sermone per la sesta domenica dopo Pentecoste, Bernardo ci presenta il vangelo come «specchio di verità». Nel sermone 36 sul Cantico dei cantici, descrive i pericoli spirituali del sapere non digerito, considerando una conoscenza senza la conseguente azione. Il suo primo sermone per la festa di Pentecoste ha per oggetto l’azione dello Spirito Santo nell’anima dell’uomo e infine, nel trattato De consideratione, esorta ad accogliere il frutto donato da Dio.

a) Specchio della verità

Il vangelo è per l’uomo uno specchio di verità, chi lo legge si vede chiaramente tale e quale è, ma allo stesso tempo ciò lo fa diventare libero tanto dalle paure inconsistenti come dalle illusioni. Su questo Bernardo parla nel suo sermone In dominica VI post Pentecosten:

«Quanto al vangelo, è uno specchio di verità, che non lusinga nessuno né a nessuno conduce a inganno. Ci si vede in questo specchio così come si è, non si ricava alcuna ragione di timore, se non ci sono timori ad avere, né nessun argomento di rallegrarsi, se si è fatto il male» 10

E per chiarire cita il versetto della lettera di Giacomo: «Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena si è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era» (Gc 1,23-24). Di conseguenza, Bernardo, richiama i suoi monaci:

«O miei fratelli, vi esorto, che non sia così con noi, non, che ne non sia così; ma esaminiamoci attentamente in questo brano del vangelo che ci è stato letto, ed approfittiamo da esso per correggersi, se troviamo qualcosa che debba essere corretto in noi»22.

Poi egli trae le conseguenze:

«Partecipe del nome, lo sono anche dell’eredità, Sono cristiano, fratello di Cristo. Se sono veramente quello che sono detto, sono erede di Dio, coerede di Cristo»23.

Quanto dice qui sull’annuncio della fede, vale anche per la formazione della fede, mediante la lettura spirituale.

«Donde pensi sia derivata in tutta la terra una così grande e improvvisa luce di fede, se non dalla predicazione del nome di Gesù?»24.

Dagli autori ed oratori spirituali Bernardo si aspetta il nome del Signore quale nutriente alimento dell’anima:

«Se scrivi, non mi sa di niente se non leggerò ivi Gesù. Se discuti o ragioni, non mi sa di niente se non risuonerà ivi Gesù»25.

L’uomo sperimenta la forza salvifica del nome di Gesù, quando la sua conoscenza della fede si immerge nella preghiera e quando «chiama» il Signore:

«Ora intanto hai una medicina per il braccio e per il cuore. La possiedi, dico, nel nome di Gesù, con cui puoi correggere i tuoi atti cattivi, o supplire a quelli meno perfetti; così pure, sia per preservare i tuoi sentimenti, perché non siano guastati, sia per sanarli qualora fossero corrotti»25.

b) L’utilità della Sacra Scrittura

Bernardo afferma, nel sermone 22 Super cantica canticorum, che l’intelletto comprende, nello studio della Sacra Scrittura, «soltanto quanto apprende attraverso l’esperienza». Percepire le verità di fede particolarmente importanti per la vita spirituale, è per lui un ambito intimo che definisce con le parole:

«Lo Sposo sa di quali letizie lo Spirito inondi la diletta, di quali aspirazioni nutra singolarmente i suoi sensi e di quali profumi la inebri»27.

Egli anche rispetta questa intimità nei suoi fratelli come: «giardino chiuso, fontana sigillata» (Ct 4,12).

Come abate sente il suo dovere di stimolare la lettura della Sacra Scrittura nei suoi monaci e lo fa richiamandosi alle proprie esperienze:

«Del resto, di qui esse fluiscono nelle piazze pubbliche (cfr. Pr 5, 16). lo confesso di averle a portata di mano, e quindi nessuno mi sia molesto o ingrato se attingo da un luogo pubblico e le servo. E per parlare un poco di questo mio servizio, dirò che esso comporta parecchia fatica e lavoro, il dover uscire, cioè, ogni giorno, ed attingere anche dai ruscelli aperti delle Scritture, e da essi trarre quanto serve per la necessità di ciascuno, onde ognuno di voi, senza suo lavoro, abbia a disposizione le acque spirituali»28.

Questo dimostra che Bernardo vede il contenuto di salvezza della Scrittura in viva relazione con i suoi monaci e attende, nella Parola di Dio, il salutare sostegno dall’opera dello Spirito Santo.

c) L’abitazione di Dio

Nell’uso del Nuovo Testamento Bernardo preferisce il vangelo di Giovanni e le lettere dell’apostolo Paolo, perché rafforzano in lui il convincimento che nella Parola di Dio è il Signore stesso che parla. Dal momento che la Bibbia porta all’incontro con la PAROLA divina, Bernardo si aspetta dalla lettura spirituale quanto promise lo stesso Signore: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).

Poi, nel sermone 69 Super cantica canticorum, descrive l’esperienza della presenza di Gesù, quale Sposo dell’anima:

«Se mi accorgerò che mi viene aperta l’intelligenza per comprendere le Scritture, o che un discorso sapiente quasi mi ribolle dall’intimo, o che mi si rivelano i misteri alla luce celeste infusa dall’alto, o se mi sembrerà che mi si apra come un amplissimo grembo del cielo, e discendano nell’animo abbondanti piogge di meditazioni, non dubito che lo Sposo è presente. Sono, infatti, queste ricchezze del Verbo, e queste abbiamo ricevuto dalla sua pienezza»29.

Il Padre e il Figlio comunicano all’anima lo Spirito Santo che coordina i suoi sentimenti e le sue azioni, a proposito Bernardo scrive:

«L’amore di Dio genera l’amore dell’anima, e rivolgendosi per primo verso di lei, fa si che anch’essa sia tutta intenta a lui, e la sollecitudine di lui rende sollecita anche lei»30.

Bernardo ammette che Dio subordina la sua condotta al comportamento dell’uomo nei suoi confronti. È per questo che per gli esercizi della vita spirituale, ai quali appartiene anche la lectio divina, ci da un’indicazione importante riguardo al tempo che dedichiamo ad essi:

«Pertanto, quale tu ti preparerai per Dio tale ti apparirà Dio: sarà santo con il santo, e con l’uomo integro sarà integro. Cosi, similmente, amante con chi lo ama, si tratterrà con chi si trattiene volentieri con lui, si rivolgerà a chi si rivolge a lui, sollecito con chi è sollecito per lui 31».

Note

(1) BERNARDO di CHIARAVALLE, Sermoni sul Cantico dei cantici, a cura di Domenico Turco Ed. Vivere In, Roma 1986, vol. I, 36, 1, (d’ora innanzi SC).undefined

(2) SDC, 36, 1

(3) SC, 36,6

(4) SC, 36,2

(5) SC, 36,2

(6) SC, 36,3

(7) SC, 36,3

(8) SC, 43,4

(9) SC, 43,4

(10) Domenica VI post Pentecostes, 1,1 (d’ora in poi VI p P9:

(11) VI p P, 11,

(12) SC, 36,4

(13) In die Pentecostes, 1,5 (d’ora in poi Pent)

(14) Pent, 1,5

(15) Pent, 1,5

(16) Le opere di san Bernardo, a cura du F. Gastaldelli, Scriptorum Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 1984, vol. I Trattati, De consideratione, 5, 27, (d’ora in poi Csi)

(17) Csi, 5,30

(18) Csi, 5,39

(19) GUGLIELMO DI Saint-THIERRY, Vita di San Bernardo, Opere/2, a cura di Mario Spinelli, Città Nuova 1997, 4,24

(20) SC, 15,1

(21) SC, 15,2

(22) SC, 15,3

(23) SC, 15,4

(24) SC, 15,6

(25) SC, 15,6

(26) SC, 15,7

(27) SC, 22,2

(28) SC, 22,2

(29) SC, 69,6

(30) SC, 69,7

(31) SC, 69,7.


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Giovedì, 13 Dicembre 2007 00:07

Educare all'unità (Vladimir Zelinskij)

Educare all'unità

di Vladimir Zelinskij



La lettura del documento di Ravenna sulle conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa riaccende una speranza quasi spenta in questi ultimi anni: che i due continenti cristiani, divisi da circa mille anni, sono ancora capaci di parlare la quasi dimenticata lingua della comunione. Se possiamo riconciliare i concetti di autorità e di conciliarità, di diversità e di cattolicità e mettere al centro l’eucarestia come manifestazione della koinonia, sembrerebbe che un accordo definitivo non possa essere così lontano. A questi 46 punti di Ravenna aggiungiamone ancora una decina (o otto per scongiurare la cifra emblematica del 1054, anno dello scisma) e le campane d’Oriente e d’Occidente annunceranno il ritorno – o la riscoperta? – dell’unità perduta. Quell’annuncio sarà accompagnato da grandi visite e da celebrazioni solenni. E poi? Temo che il giorno dopo i problemi cadranno come una valanga di pietre e potranno subito seppellire questo fragilissimo albero dell’unità, coltivato nella serra delle commissioni teologiche.

Si può ragionare insieme sulla bellezza di alcuni concetti teologici, come la responsabilità del Popolo di Dio per il patrimonio della fede, ma quel patrimonio - ahimé! - porta anche il grande peso della divisione millenaria. Il peso ha una sua dogmatica e una sua sensibilità. La Tradizione per cui il popolo è responsabile, si scrive e si vive con due t – maiuscola e minuscola – e non c’è una frontiera netta fra di loro. La resistenza all’Occidente fa parte della mentalità orientale (non di tutti, naturalmente) e questa parte è diventata molto più attiva dopo l’occidentalizzazione forzata che è seguita al crollo del comunismo all’Est. Quella mentalità non è mai invitata a firmare i documenti comuni. Forse – e questa è solo una suggestione – la delegazione russa ha lasciata il tavolo delle trattative anche per non essere coinvolta in decisioni che il popolo, dietro le sue spalle, non avrebbe accettato.

Alcuni diranno che la presa di decisioni così impegnative come il ritorno all’unità chiederebbe l’approvazione del Grande Concilio panortodosso (una bella idea, ma poco fattibile). Altri affermeranno che tutti questi ecumenisti delle commissioni miste siano degli uniati e dei criptocattolici che vanno scomunicati. I più radicali si staccheranno dalle Chiese per formarne delle proprie, quelle vere, seppure minuscole. Poiché nessuna firma ed anche nessuna autorità potrà costringere il popolo ortodosso ad accettare cose che si è abituato di considerare come inaccettabili. Ravenna ha compiuto un passo reale nel dialogo cattolico-ortodosso, ma affinché i prossimi passi siano decisivi, bisogna saper non solo formare, ma educare all’unità. Questa educazione dei cuori deve essere reciproca. La presidenza nell’amore di Roma - quando non è puramente onorifica - potrebbe fare i miracoli. Anche in Oriente.

di Giovanni Nicolini

La rappresentazione del Natale da parte dei cristiani d’oriente è complessa e ricca di scene. Conta non la schiera, ma la disposizione dei personaggi. C’è posto anche per il dramma e il dubbio, nell’icona che si fa preghiera.

La pace non solo diventa un grido di speranza per toglierci di torno il silenzio disgustato di Dio, ma assume un realismo sconvolgente, una sorta di messaggio a salvare la terra alle radici...

Venerdì, 07 Dicembre 2007 00:10

L'ecumenismo spirituale (Walter Kasper)

L'Ecumenismo spirituale

Card. Walter Kasper



I. Sono trascorsi più di quaranta anni dalla conclusione, l’8 dicembre del 1965, del Concilio Vaticano II, che ha segnato una svolta decisiva per l’impegno ecumenico, definendo nel Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani uno dei suoi principali intenti. Questo documento inizia con le parole: “Il ristabilimento dell'unità da promuoversi fra tutti i Cristiani, è uno dei principali intenti del Sacro Concilio Ecumenico Vaticano Secondo” (UR 1). Questa opzione del Concilio Vaticano II è fondata sul mandato di nostro Signore, che alla vigilia della sua morte ha pregato “affinché tutti siano una cosa sola.” Il Decreto chiarisce che non si tratta di un ecumenismo qualunque, ma di un ecumenismo della verità e dell’amore, volto a ricomporre l’unità visibile della Chiesa (cf. UR 2 s.).

Da allora in poi l’opzione ecumenica del Concilio è stata dichiarata irreversibile da Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint (1995) (UUS 3), dove egli aggiunge che essa non è una semplice “appendice” all’attività tradizionale della Chiesa (UR 20), ma “una delle priorità pastorali” del suo pontificato (UR 99). E Papa Benedetto XVI fin dal giorno successivo alla sua elezione a sommo pontefice, in un discorso programmatico pronunciato davanti ai cardinali riuniti nel conclave, si è dichiarato disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell’ecumenismo, ribadendo poi questa affermazione durante la cerimonia d’inaugurazione del suo ministero, il 24 aprile 2005 in Piazza San Pietro. Da allora Papa Benedetto ha ripetuto questa affermazione in più occasioni.

Da quando la Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, si è aperta ufficialmente al movimento ecumenico, il dialogo ecumenico ha compiuto grandi passi in avanti. Questo è avvenuto sia a livello delle singole chiese locali che a livello della Chiesa universale. Il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani ha stabilito dialoghi ufficiali o conversazioni ed incontri con quasi tutte le Chiese e Comunità ecclesiali, con le Federazioni o Alleanze confessionali mondiali e con il Consiglio Ecumenico delle Chiese. Ne è scaturito un gran numero di documenti. Grazie a questi dialoghi è stato possibile pervenire ad avvicinamenti sostanziali in varie questioni ed, in alcuni casi, persino a consensi. Pietra miliare di questo percorso è stata la firma della “Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione” con la Federazione Luterana Mondiale (1999), e l’adesione a questa Dichiarazione da parte del Consiglio Metodista Mondiale nel luglio scorso.

Accanto a questi dialoghi è importante ricordare le visite di Papa Giovanni Paolo II a quasi tutti i Patriarchi orientali e soprattutto la recente visita di Papa Benedetto XVI al Patriarca ecumenico e la visita dell’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia a Roma. Le due visite a cui ho appena accennato sono da considerarsi storiche. Oltre ad esse, il rilancio del lavoro della Commissione teologica internazionale per il dialogo con le Chiese ortodosse nel loro insieme ha segnalato una nuova fase nei rapporti con le Chiese ortodosse. Ciò non vuol dire che abbiamo dimenticato i contatti con le comunità che nascono dalla Riforma del XVI secolo. Si potrebbe accennare a tanti incontri incoraggianti ad alto livello con queste Comunità ecclesiali durante l’anno scorso, l’ultimo in ordine di tempo è stata la visita di una delegazione finlandese all’inizio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

Ancora più importante dei singoli risultati dei dialoghi e degli incontri ufficiali ai vertici delle chiese è tuttavia ciò a cui Papa Giovanni Paolo II fa riferimento nella sua Enciclica sull’ecumenismo Ut unum sint (1995), ovvero la fratellanza nuovamente scoperta tra i cristiani. Oggi non parliamo più tanto – come fa osservare il Santo Padre – di “cristiani separati” o di “fratelli e sorelle separati”, ma di “altri cristiani” e di “altri battezzati”. Questo ampliamento di vocabolario è rappresentativo. I cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali oggi non si vedono più come avversari; non si pongono più gli uni di fronte agli altri con sentimenti di antagonismo, di competizione o di indifferenza, ma si considerano come fratelli e sorelle che hanno intrapreso insieme il cammino verso la piena unità.

Già oggi si impegnano insieme a favore della pace e della giustizia nel mondo. Sin dall’inizio del moderno movimento ecumenico la promozione dell’unità e la missione nel mondo sono andate di pari passo. Nella promozione dell’unità e nella missione si attua l’auto-trascendenza della Chiesa e inizia la raccolta escatologica di tutti i popoli già annunciata dai profeti.

Alla base di questo sviluppo positivo ed incoraggiante, là dove il movimento ecumenico è inteso nella giusta maniera, non c’è né un filantropismo liberale, né un relativismo o un pluralismo postmoderno che non tiene conto delle differenze confessionali o abbandona l’identità cattolica; anzi, la base dei dialoghi è la comune confessione di fede nella santissima Trinità e in Gesù Cristo, unico e universale salvatore e redentore, e il mutuo riconoscimento dell’unico battesimo, attraverso il quale tutti i battezzati entrano a far parte dell’unico Corpo di Cristo e sono pertanto, fin da ora, in una comunione reale e profonda, anche se non ancora completa. La nuova fratellanza ecumenica dunque non significa semplicemente una realtà sentimentale e una sensazione familiare di cordialità, ma riguarda una realtà spirituale ontologicamente fondata.

Nonostante questi progressi incoraggianti, non si può tuttavia tacere che, al di là delle singole difficoltà, normali e facenti parte della vita, il dialogo si è in qualche modo arenato, anche se non si sono arrestati i colloqui e gli incontri, le visite e la corrispondenza. La situazione è mutata, l’atmosfera non è più la stessa, sono apparse all’orizzonte nuove sfide come per esempio l’enorme crescita dei movimenti evangelicali, pentecostali e carismatici che si sono sviluppati soprattutto nell’emisfero meridionale del mondo. D’altra parte, in alcune comunità protestanti si mostrano tendenze liberali soprattutto in questioni etiche, che creano nuove differenze e difficoltà. Mentre immediatamente dopo il Concilio si constatava talvolta un’atmosfera ottimistica e utopistica, oggi si prevede che il cammino ecumenico, almeno secondo le misure umane, sarà ancora lungo. Come frutto di questa riflessione il tema dell’ultima Sessione plenaria del PCPUC nel novembre 2006 aveva come titolo “L’ecumenismo in via di trasformazione”.

Come sempre ci sono diversi motivi per il cambiamento di una situazione. Uno dei motivi sta nel fatto che, dopo aver superato molti malintesi ed aver conseguito un consenso fondamentale sul fulcro della nostra fede, ora siamo giunti al nocciolo delle nostre differenze ecclesiologiche, o piuttosto delle nostre differenze istituzionali ed ecclesiologiche. Nel dialogo con le Antiche Chiese Orientali e con le Chiese ortodosse questa divergenza riguarda la questione del ministero petrino, mentre, nei rapporti con le Chiese riformate, concerne la questione della successione apostolica nel ministero episcopale. Quest’ultimo punto è tuttavia solamente la punta dell’iceberg di una differenza più profonda nella stessa ecclesiologia. Per poter risolvere tali punti, la Chiesa cattolica ritiene che sia fondamentale affrontare due questioni fondamentali.

Primo: abbiamo bisogno di un ecumenismo fondamentale, cioè dobbiamo rafforzare i fondamenti del nostro impegno ecumenico, la fede in Dio e in Gesù Cristo. Non solo per le altre Chiese, ma spesso anche per noi queste verità fondamentali e centrali stanno scomparendo in molti fedeli. Ma come si può parlare della giustificazione dei peccatori da parte di Dio, se non c’è più un vivace rapporto con Dio e se non c’è più la consapevolezza d’essere peccatore e di avere bisogno della redenzione? Secondo: la questione delle Chiese, quelle intese come Comunione. Intanto dobbiamo essere grati che la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio mondiale delle Chiese ha pubblicato un documento ancora provvisorio su “La natura e la missione della Chiesa”, alla cui elaborazione ha collaborato il nostro Consiglio e alla cui stesura finale vogliamo continuare a cooperare attivamente. Speriamo che questo possa essere un passo e un contributo importante per raggiungere la piena comunione e cioè la comunione eucaristica con i nostri fratelli e sorelle, il che è lo scopo dell’impegno ecumenico.

II. Dopo aver affermato tutto questo e tenendo in considerazione anche i vari passi di avvicinamento, rimane comunque un certo sentimento di delusione e di frustrazione. Per rimettere in moto la situazione attuale, è necessario un impulso ben più forte e vigoroso di quello che, per loro natura, i dialoghi accademici possono dare. In questo momento critico, dobbiamo richiamarci alla forza motrice originaria del movimento ecumenico ed alla dimensione pneumatologica dell’esistenza cristiana e della Chiesa. Perciò accanto alle basi teologica e ecclesiologica già menzionate bisogna riflettere sulle basi pneumatologica e spirituale. Perché l’unità dei discepoli di Cristo non si può “fare”, né tramite dialoghi teologici anche se sono importanti e irrinunciabili, né tramite una certa così detta diplomazia ecclesiastica o tramite azioni pragmatiche, anche se hanno una loro utilità. In ultima analisi l’unità della Chiesa è, sebbene visibile, una realtà peumatologica e quindi un dono dello Spirito di Dio. Secondo l’apostolo Paolo c’è una diversità di carismi nella Chiesa, ma uno solo è lo Spirito (1 Cor 12,4), che è quasi l’anima della Chiesa. È significativo che le parole di Gesù “affinché tutti siano una sola cosa” non è un comandamento ma una preghiera; e l’ecumenismo in ultima analisi non è altro che unirsi a questa preghiera di nostro Signore e farla nostra.

Queste per me non sono solamente riflessioni astratte, sono pensieri che vengono della mia esperienza personale, maturata nel corso di molti anni ma anche di ogni giorno. In questo lasso di tempo ho partecipato a molti dialoghi e a molti incontri ecumenici. Ed era sempre lo stesso. Se questi dialoghi rimanevano soltanto a livello accademico erano forse interessanti ma non portavano frutto. Spesso, quando non c’era preghiera e un’atmosfera spirituale, si poteva dimenticarli. Mentre se c’era un clima di preghiera i cuori si aprivano, era possibile superare malintesi e pregiudizi, promuovere comprensione anche per le differenze, trovare convergenze e talvolta anche consensi e soprattutto cresceva il mutuo amore e lo slancio per continuare.

Questa esperienza personale è confermata dall’esperienza storica della Chiesa. Le divisioni in seno alla cristianità non sono dovute primariamente a dispute a livello di discussioni o a controversie su formule dottrinali divergenti, ma ad un’esperienza di vita che ha portato ad un reciproco allontanamento. Varie forme di vita di fede cristiana sono diventate estranee le une alle altre, fino a non potersi più capire. Così le divisioni del passato sono il risultato – come ha detto il Concilio – di un raffreddamento dell’amore. Problemi, come tali risolvibili, sono diventati ostacoli insormontabili, da differenze, di per sé legittime, sono sorte controversie, che si sono esagerate e assolutizzate. Alla fine ci si è allontanati e non ci si è più compresi. Questo ha condotto ad inevitabili fratture. Diverse condizioni e costellazioni culturali, sociali e politiche hanno svolto un ruolo importante in tutto ciò. Con questo non vogliamo scordare che si è trattato anche di una ricerca della verità e di serie differenze di fede. Ritorneremo in seguito su questo importante aspetto. Ma la ricerca della verità è stata sempre iscritta nell’esperienza concreta e legata a questa inscindibilmente.

D’altra parte già agli inizi, il movimento ecumenico fu in gran parte alimentato da un movimento spirituale, che ha trovato una sua espressione soprattutto nella Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, avviata nel 1933 dall’Abate Paul Couturier, e per noi questa settimana è tuttora il centro ecumenico dell’anno liturgico.

Il Concilio Vaticano II, nel suo Decreto sull’Ecumenismo Unitatis Redintegratio, vede il movimento ecumenico come impulso ed opera dello Spirito Santo (UR 1; 4). E non a caso il Concilio ed il Papa di allora hanno descritto l’ecumenismo spirituale come il cuore del movimento ecumenico (UR 8). Ecumenismo spirituale secondo il Concilio significa: preghiera, soprattutto preghiera ecumenica comune, conversione personale e riforma istituzionale, penitenza e sforzo per la santificazione personale (UR 5-8). Papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica Ut unum sint e in molti altri documenti ha spesso ripetuto e sottolineato questa posizione e Papa Benedetto XVI continua sulla stessa scia.

Recentemente il PCPUC ha pubblicato un piccolo libro sull’ecumenismo spirituale, che si fonda su molte esperienze concrete. La pubblicazione era stato raccomandata dalla Plenaria del 2003. Un primo progetto era stato presentato e discusso alla Conferenza internazionale tenutasi a Rocca di Papa nel novembre 2004 in occasione della celebrazione del 40mo anniversario del Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II. Nel frattempo abbiamo ricevuto molti suggerimenti da organismi ecumenici internazionali e locali. Così il libro è il risultato di molte esperienze mie personali e di tanti altri in varie situazioni e parti del mondo. L’intento della pubblicazione è di dare suggerimenti concreti e pratici a tutti coloro che – come si suol dire sono alla base, cioè nelle diocesi, nelle parrocchie e nelle varie comunità – sono impegnati nel lavoro ecumenico.

Il particolare accento posto sull’ecumenismo spirituale è importante anche alla luce della situazione spirituale attuale che, da una parte, è segnata dal relativismo e dallo scetticismo postmoderni, e dall’altra presenta un desiderio nostalgico di esperienza spirituale, spesso vago e imprecisato. È evidente una scontentezza che scaturisce da un vuoto lasciato da una civilizzazione tecnica, funzionale ed economica. Si percepisce anche una scontentezza con una chiesa prevalentemente istituzionale, che non dà abbastanza nutrimento spirituale, che non soddisfa i desideri più profondi del cuore. Questo è uno dei motivi per cui tanti fedeli lasciano la Chiesa e si associano in comunità carismatiche e pentecostali o si affidano a pratiche esoteriche. Questa situazione ci obbliga a chiarire dapprima il concetto di spiritualità.

III. Attualmente, la parola “spiritualità” è molto utilizzata e racchiude molti significati. È bene allora, per prima cosa, fare un po’ di chiarezza su questo termine e sul suo significato. E poi potremo dare suggerimenti concreti.

Spiritualità è un “prestito” lessicale, che proviene dal cattolicesimo francese. Tradotto letteralmente significa: “pietà”. Tuttavia, con ciò, non è coperta tutta la gamma di significati di tale concetto. Il Dictionary of Christian Spirituality descrive la spiritualità come quel comportamento, quella fede e quell’insieme di pratiche che definiscono la vita degli uomini, aiutandoli a raggiungere realtà che vanno oltre la percezione dei sensi. Per migliorare questa descrizione, potremmo dire che spiritualità è uno stile di vita guidato dallo spirito. Il Lessico ecumenico dice pertanto: “La spiritualità consiste nel dispiegamento dell’esistenza cristiana sotto la guida della Spirito Santo.”

È chiaro allora che il concetto di spiritualità ha due componenti: una dimensione che proviene “dall’alto” e che non è influenzata dall’uomo poiché è opera dello Spirito di Dio, ed una dimensione “dal basso”, che racchiude la condizione umana e la situazione contingente in cui si trova l’esistenza cristiana ed in cui essa tenta di forgiarsi e definirsi spiritualmente. La spiritualità vive dunque in tensione tra l’unico Spirito Santo, che opera ovunque ed in tutto, e la varietà delle realtà e delle forme di vita umane, culturali e sociali. È quindi nella tensione tra unicità e pluralità che risiede fondamentalmente il significato della spiritualità.

Con questa tensione la spiritualità racchiude il pericolo o di una spaccatura o di preponderanza di un elemento. In quanto espressioni culturali e terrene della fede incarnata, le spiritualità portano in sé il rischio del sincretismo, quando la fede cristiana si mischia ad elementi religiosi e culturali non adatti, che falsano la fede stessa. Le varie spiritualità possono anche unirsi a scopi e questioni politiche, conferendo alla fede cristiana non solo un tono nazionale, ma anche un’impronta ideologica pseudo-spirituale o nazional-sciovinista. In alcune forme di fondamentalismo religioso tale pericolo è estremamente evidente. A fianco di queste, esistono altre forme di spiritualità, di cosiddetta spiritualità ecumenica che sono solo emotive e sentimentali e possono essere descritte come banalizzazione borghese della fede cristiana.

Ogni spiritualità deve pertanto chiedersi da quale spirito si lascia guidare, dallo Spirito Santo o dallo spirito del mondo e del tempo. La spiritualità richiede un discernimento degli spiriti. La spiritualità non è esonerata dalla ricerca della verità. Per questo, non ci si può sottrarre comodamente alla teologia richiamandosi alla spiritualità. La spiritualità, per rimanere sana, ha bisogno di una riflessione teologica.

IV. I grandi maestri della vita spirituale ci hanno lasciato un ricco tesoro di esperienze per il discernimento degli spiriti. Le più conosciute sono le regole per il discernimento degli spiriti del libretto di esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Vale la pena rileggerle attentamente, dal punto di vista ecumenico; è possibile, in tal senso, trarne un grande beneficio. Tuttavia, io preferisco intraprendere qui un altro cammino ed interrogarmi, in tre punti, su quale sia la natura e l’opera dello Spirito a livello sia biblico che sistematico per giungere ad una spiritualità ecumenica oggettiva sulla base di una teologia riflettuta dello Spirito Santo.

1. Il significato fondamentale in ebraico e in greco di “spirito” (ruah, pneûma) è vento, respiro, soffio e – poiché il respiro è segno di vita – vita, anima ed infine, in senso traslato, lo spirito come principio vitale dell’uomo, come sede delle sue sensazioni spirituali e della sua volontà. Non si tratta tuttavia di un principio immanente nell’uomo; si riferisce piuttosto alla vita donata e resa possibile da Dio. Dio dona lo spirito e lo può anche riprendere. Lo spirito di Dio è dunque la forza vitale creatrice di tutte le cose. Esso dà all’uomo sensibilità artistica e perspicacia, discernimento e saggezza.

È lo Spiritus creator, che opera in tutta la realtà della creazione. “Lo spirito del Signore riempie l’universo, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce” (Sap 1,7; cf. 7,22-8,1). Secondo l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, soccorre nelle attese e sofferenze del mondo, intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili (Rom 8,26 s). Secondo Agostino, lo Spirito è “la forza di gravità della carità, lo slancio verso l’alto, che si oppone alla forza di gravità verso il basso e conduce tutto alla realizzazione in Dio” (Conf. XIII, 7,8). Ogni verità – come ci insegna Tommaso d’Aquino – da ovunque essa derivi, proviene dallo Spirito Santo (cf. S. th I/II,109,1).

Una dottrina dello Spirito Santo pertanto non si deve rintanare fin dall’inizio dietro le mura di una chiesa o ripiegarsi su se stessa. Essa deve situarsi all’interno di una prospettiva universale. La pneumatologia è possibile soltanto nell’ascolto, nell’attenzione rivolta alle tracce, alle attese, alle gioie e alle vanità della vita, nell’osservazione dei segni del tempo che si trovano ovunque, là dove la vita nasce, è in fermento, si espande, ma anche là dove le speranze di vita vengono frantumate, strozzate, imbavagliate e soppresse. Ovunque si mostri la vita vera e nuova, là è all’opera lo Spirito di Dio.

Il Concilio Vaticano II ha visto questo operare universale dello Spirito non solo nelle religioni dell’umanità, ma anche nella cultura e nel progresso degli uomini (cf. Gaudium et spes, 26; 28; 38; 41; 44). Papa Giovanni Paolo II ha sviluppato ulteriormente questo pensiero nella sua Enciclica sulle missioni Redemptoris missio, dove leggiamo: “Lo Spirito, dunque, è all’origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell’uomo, la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti, ma dalla struttura stessa del suo essere”. Poi il Santo Padre continua: “La presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni. Lo Spirito, infatti, sta all’origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell’umanità in cammino” (n. 28).

Una spiritualità ecumenica ispirata alla Bibbia non può dunque ripiegarsi su se stessa o essere esclusivamente ecclesiocentrica. Essa deve essere attenta alla vita e servire la vita. Deve occuparsi della quotidianità, delle piccole esperienze di tutti i giorni, così come delle grandi questioni di vita e sopravvivenza dell’uomo moderno, ma anche delle religioni e delle opere della cultura umana. Secondo un principio della mistica tardomedioevale e di Ignazio di Loyola, è possibile trovare Dio in tutte le cose.

Spiritualità ecumenica significa cooperazione in favore della vita, della giustizia, dei diritti dell’uomo e della pace. In questo contesto non penso in primo luogo a azioni spettacolari, ma a cooperazione nelle opere di carità di ogni giorno, per i bambini, i giovani, i malati, gli handicappati e gli anziani. Penso anche alla cooperazione nella pastorale per i turisti, nei mass media ecc. In tutti questi ambiti dobbiamo superare lo spirito di competitività, perché deve imperare la solidarietà. Possiamo fare tante cose insieme, e tramite questa cooperazione ci conosciamo meglio e cresciamo insieme.

2. Lo spirito nella Bibbia non è solo forza creatrice di Dio: è anche la forza divina che si esplicita nella storia. Lo Spirito parla attraverso i profeti e viene promesso come lo spirito messianico (Is 11,2; 42,1). È la forza della nuova creazione, che trasforma il deserto in paradiso e lo rende luogo di legge e di giustizia (Is 42,15 ss). “Non con la potenza, né con la forza, ma col mio spirito” (Zac 4,6). Lo spirito avvicina dunque la creatura che geme e soffre al Regno della libertà dei figli di Dio (cf. Rom 8,19 ss).

Il Nuovo Testamento annuncia la venuta del Regno della libertà in Gesù Cristo. Egli nasce dallo Spirito (Lc 1,35; Mt 1,18.20); nel momento del battesimo, lo Spirito discende su di lui (Mc 1,9-11); tutta la sua opera sulla terra è nel segno dello Spirito (Lc 4,14.18; 10,21; 11,20). Lo Spirito riposa in lui; così egli può annunciare il messaggio di gioia ai poveri, la libertà ai prigionieri, la vista ai ciechi e la giustizia agli afflitti (Lc 4,18). La sua risurrezione avviene nella forza dello Spirito (Rom 1,3) e nella forza dello Spirito egli continua ad essere presente nella Chiesa e nel mondo. “Il Signore è spirito” (2 Cor 3,17).

Poiché in Gesù Cristo, nella sua vita sulla terra e nella sua opera come Redentore, l’azione dello Spirito iscritta nella storia della salvezza giunge alla sua pienezza escatologica, lo Spirito è per Paolo lo Spirito di Cristo (Rom 8,9; Fil 1,19), lo Spirito del Signore (2 Cor 3,17) e lo Spirito del Figlio (Gal 4,6). La confessione di Gesù Cristo è quindi il criterio fondamentale per il discernimento degli spiriti: “…nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: ‘Gesù è anatema’, così nessuno può dire: ‘Gesù è Signore’, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12,3).

Con ciò viene affermato il criterio cristologico, che è decisivo in una spiritualità ecumenica. Esso vuole lottare contro il pericolo di un relativismo e sincretismo spirituale, che minaccia le esperienze spirituali delle varie religioni, confondendole tra loro o selezionandole in maniera eclettica. La spiritualità ecumenica preserva l’unicità e l’universalità del significato salvifico di Gesù Cristo. Essa è anche contraria alla tentazione sognatrice ed esaltata di eliminare l’intermediazione cristologica e accedere direttamente a Dio. E ricorda: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18).

Una spiritualità ecumenica legittima sarà dunque in prima linea una spiritualità biblica ed avrà un influsso sulla lettura comune delle scritture e sullo studio comune della Bibbia. Essa si impregnerà della Lectio divina, tanto raccomandata dal Concilio (DV 25), cioè la lettura della Bibbia legata alla preghiera che diventa un colloquio fra Dio e l’uomo. Essa rifletterà continuamente sui racconti biblici della venuta di Gesù, sul suo messaggio di libertà, sulla sua opera liberatoria e salvifica, sul suo servizio degli altri, sulla sua kenosi fino alla morte, sulla sua intera persona e sul suo intero operato, facendo di questi il criterio fondante. Essa si impregnerà della sequela di Gesù e continuerà a cercare il volto di Cristo, come ha menzionato in maniera programmatica Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica Novo millennio ineunte del 2001. Tale spiritualità si rivela in ciò che Paolo definisce i frutti dello Spirito: carità, gioia, pace, pazienza, affabilità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22).

Spiritualità cristocentrica significa spiritualità dell’ascolto della parola e significa anche spiritualità sacramentale. Cristo è presente nella parola e nei sacramenti; il Concilio ha rinnovato l’immagine della mensa della parola e del corpo di Cristo (DV 21). Ecumenicamente abbiamo in comune soprattutto il Battesimo, tramite il quale siamo membra dell’unico corpo di Cristo e già adesso in una comunione profonda sebbene non piena. Pertanto le celebrazioni di commemorazione del Battesimo comune sono centrali per una spiritualità ecumenica. Si può pensare alla festa del Battesimo di Cristo o a cerimonie nel periodo della Quaresima. Purtroppo non è possibile una piena comune partecipazione all’eucaristia. Conosco bene i problemi pastorali che ne possono scaturire. Negli ultimi anni si è sviluppata la consuetudine, che coloro che non possono pienamente partecipare e non possono comunicarsi chiedono la benedizione del sacerdote; così non si sentono esclusi e partecipano come è loro possibile.

La spiritualità cristologica valorizza anche i testimoni di Cristo. Abbiamo in comune molti santi dei primi secoli e abbiamo moltissimi testimoni, che possiamo chiamare martiri soprattutto nel secolo scorso. Essi sono modelli ed esempi della sequela di Gesù. Non da dimenticare Maria, la Madre di Gesù. Anche molti evangelici oggi la riscoprono come una figura biblica e come sorella nella fede.

Infine, nello Spirito, possiamo e dobbiamo dire “Abba, Padre!” come Gesù ha detto a Dio (Rom 8,15.26 ss; Gal 4,6). Pertanto, una spiritualità ecumenica è una spiritualità della preghiera. Come Maria e gli Apostoli – ed insieme ad essi – tale spiritualità deve raccogliersi sempre nella preghiera per la venuta dello Spirito che unisce tutti i popoli nell’unica lingua, nella preghiera per la venuta di una Pentecoste rigeneratrice (cf. Atti 1,13 ss.). Una spiritualità ecumenica vive, come lo stesso Gesù, della preghiera; si accorda alla preghiera di Gesù e si unisce a lui, nel chiedere che tutti siano uno (cf. Gv 17,21). Nella preghiera sopporta, come Gesù sulla croce, anche l’esperienza dell’abbandono dello spirito e dell’abbandono di Dio (cf. Mc 15,34); solo nella forza della preghiera può sopportare difficoltà e delusioni ecumeniche, come pure l’esperienza ecumenica del deserto.

3. Accanto al criterio cristologico per Paolo c’è anche il criterio ecclesiologico. Paolo collega lo Spirito alla costruzione della comunità e al servizio nella Chiesa. Lo Spirito è stato donato per il bene di tutti. I vari doni dello Spirito devono servire quindi gli uni agli altri (1 Cor 12,4-30). Lo Spirito non è uno Spirito di confusione, ma un Dio di pace (1 Cor 14,33). Però l’opera dello Spirito non è limitata alle istituzioni della Chiesa e monopolizzata da esse, lo Spirito è dato a tutti come afferma la Bibbia, ognuno ha il suo carisma. Ma lo Spirito non opera quando gli uomini sono gli uni contro gli altri, ma quando essi sono gli uni con gli altri, e grazie al contributo personale da parte di ciascuno. Lo Spirito è avverso ad ogni divisione in fazioni e partiti. Il maggior dono dello Spirito è la carità, senza la quale la conoscenza non ha nessun valore. La carità non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio; tutto sopporta e non viene mai meno (cf. 1 Cor 13,1-4.7).

La tradizione teologica ha sviluppato proprio questo aspetto. Secondo Ireneo di Lione, la Chiesa è “il recipiente, in cui lo Spirito ha riversato la fede e la mantiene fresca”; là dove è la Chiesa, è anche lo Spirito di Dio; là dove è lo Spirito di Dio, là è la Chiesa e tutta la grazia” (Adv. haer. III, 24,1). Ed Ippolito dice: “Festinet autem et ad ecclesiam ubi floret spiritus” (Trad apost. 31; 35). In tutta la tradizione occidentale, ispirata soprattutto da Agostino, lo Spirito è l’amore tra Padre e Figlio, è ciò che c’è di più interno a Dio ed al tempo stesso è di più esterno a Dio, poiché, in lui e attraverso di lui, l’amore di Dio si riversa nei nostri cuori. Nello Spirito Dio dona il suo intimo all’esterno cosicché noi possiamo condividere la sua vita. Lo Spirito è dunque il principio vitale della vita cristiana e quasi l’anima della Chiesa (cf. LG 7).

La spiritualità ecumenica è dunque una spiritualità ecclesiale e, per questo, una spiritualità comunitaria. La spiritualità ecumenica si sforzerà di giungere al “Sentire ecclesiam”, tenterà di entrare più profondamente nell’essenza, nella tradizione ed in particolare nella liturgia della Chiesa, rendendo la liturgia attuale e consapevole. La spiritualità ecumenica vive della festa della liturgia. Tale spiritualità ecumenica perlopiù viene vissuta soprattutto in gruppi e circoli ecumenici. Questi gruppi, tuttavia, non possono distaccarsi dalla più ampia comunità della Chiesa ed elevarsi sopra di essa. Non possono fare ecumenismo a loro proprio gusto e maniera. Debbono sentirsi come membri che contribuiscono alla vita di tutto il corpo della Chiesa e d’altra parte ricevono anche dalla comunità più grande. La spiritualità ecumenica si studia di conservare l’unità dello Spirito (cf. Ef 4,3).

Vivere nella Chiesa, con la Chiesa e vivere la Chiesa vuol dire soffrire anche nella Chiesa e con la Chiesa. Essa soffre e sanguina per le ferite inferte dalle divisioni. Tale sofferenza è essenziale per la spiritualità ecumenica. Così, la spiritualità ecumenica mobilita la coscienza della Chiesa, impedendole di ripiegarsi su se stessa e sulla sua autosufficienza confessionale stimolandola, al contrario, a ricorrere e ad attingere alla ricchezza delle altre tradizioni per cercare una più ampia unità ecumenica e, in tal modo, pervenire alla pienezza concreta della sua cattolicità. Essa, quindi, schiude in maniera profetica una visione del futuro davanti alla realtà ecclesiale concreta, senza sfuggire di fronte a questa realtà, ma sforzandosi invece con pazienza e costanza di giungere al consenso.

È lo Spirito che ci fa entrare nella verità sempre più grande e sempre più profonda; esso deve guidarci in tutta la verità (Gv 16,13). Ciò avviene in vari modi, uno dei quali, secondo il testo conciliare già citato, è l’esperienza spirituale. Di questa fa parte anche l’esperienza spirituale ecumenica. Infatti, il dialogo ecumenico non è semplicemente uno scambio di idee, ma uno scambio di doni e di esperienze spirituali (UUS 28). Ciò è possibile per ogni cristiano, nel luogo e nel modo suo proprio, poiché ognuno a suo modo è un esperto, è una persona che ha fatto delle esperienze e vuole comunicarle ad altri. Per il dialogo ecumenico vale dunque quanto ha detto Paolo per ogni raduno della comunità: Quando vi riunite, ognuno porti il proprio contributo (cf. 1 Cor 14,26).

Negli ultimi decenni noi cattolici abbiamo imparato molto dalle esperienze dei nostri fratelli e delle nostre sorelle protestanti per quanto riguarda il significato della Parola di Dio e l’interpretazione della Sacra Scrittura; essi, a loro volta, imparano dalla realtà dei nostri segni sacramentali e dal nostro modo di celebrare la liturgia. Nell’incontro ecumenico con le Chiese orientali, possiamo apprendere dalla loro ricchezza spirituale e dal loro rispetto per il mistero, mentre esse possono condividere le nostre esperienze pastorali e le nostre esperienze a contatto con il mondo odierno. Come suggerisce un’espressione ispirata di Papa Giovanni Paolo II, la Chiesa può dunque imparare a respirare di nuovo con due polmoni.

Pertanto, il dialogo ecumenico non ha come obiettivo primario quello di indurre gli altri a convertirsi alla nostra Chiesa ma la conversione di tutti a Cristo. Naturalmente, le singole conversioni nel senso tradizione non possono e non devono essere escluse; dobbiamo avere un grande rispetto per le decisioni prese a livello di coscienza personale che motivano tali scelte. Tuttavia, anche nel caso della singola conversione, difatti non si tratta di una conversione ad un’altra Chiesa, ma di una conversione alla piena verità di Gesù Cristo. In tal senso, tutti devono convertirsi, dato che la conversione non è un atto compiuto una volta per sempre, ma è un processo continuo.

L’incontro ecumenico sostiene tale conversione, poiché conduce all’esame di coscienza ed è inseparabile dalla conversione personale e dal desiderio di una riforma della Chiesa (cf. UUS 16; 34 ss; 83 ss). Quando, scambiandoci le nostre reciproche esperienze confessionali e partendo dai nostri diversi presupposti, ci avviciniamo a Gesù e raggiungiamo la misura della piena statura di Cristo (Ef 4,13), allora diventiamo con lui una cosa sola. Lui è la nostra unità. In lui, dopo aver superato le nostre divisioni, possiamo realizzare storicamente, in maniera concreta, anche tutta la pienezza della cattolicità.

Chiediamoci adesso: qual è l’unità della pienezza verso cui ci avviamo? La risposta è la seguente: non si tratta di una fusione come quella delle grandi ditte internazionali nel nostro mondo globalizzato; non è neppure un sistema complessivo, dal punto di vista speculativo o istituzionale, nel quale gli opposti si annullano, sul tipo della dialettica hegeliana. In questo risiede la differenza di fondo tra dialogo e dialettica. Certo, il dialogo tenta di dissipare i malintesi e superare le divisioni tra i partner, tendendo alla riconciliazione. Ma proprio la riconciliazione non cancella l’alterità dell'altro, non l’assorbe e non la risucchia, facendola scomparire. Al contrario, la riconciliazione riconosce l’altro nella sua alterità. L’unità nella carità non viene raggiunta quando l’identità dell’altro è annullata e assorbita, ma, al contrario, quando questa viene confermata e riempita.

Quest’esperienza dell’unità nella carità è il modello dell’unità cristiana ed ecclesiale. Essa trova, in ultima analisi, il suo fondamento nell’amore trinitario tra Padre, Figlio e Spirito Santo ed è il modello per l’unità ecclesiale; l’unità della Chiesa è come un’icona della Trinità (cf. LG 4; UR 3).


In ultima analisi, l’ecumenismo e l’unità sono un evento spirituale. Là dove si perviene ad un consenso ecumenico, questo consenso sarà sperimentato come un dono spirituale e come una nuova Pentecoste. Di questa nuova Pentecoste ha parlato Papa Giovanni XXIII, aprendo il Concilio Vaticano II con una chiara prospettiva ecumenica. Sono convinto che, se noi preghiamo come Maria e gli apostoli nel Cenacolo (Atti 1,12-14) e se ci impegniamo per quanto ci è possibile, un giorno riceveremo questo dono.

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