Vita nello Spirito

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Il linguaggio dell'amore:

1 - La rassicurazione

2 - I momenti speciali

3 - La collaborazione

 

Ciascuno di noi possiede un linguaggio dell’amore, ovvero una modalità del tutto personale di esprimere i propri sentimenti e le proprie sensibilità. E non è detto che le due componenti della coppia parlino lo stesso linguaggio. Spesso la costruzione di un linguaggio condiviso è anzi il frutto di un processo lento, di reciproca conoscenza e comprensione. Tuttavia, non è così difficile come si potrebbe credere. Basterebbe infatti riflettere sul proprio linguaggio per renderlo più facilmente comprensibile all’altro, aprendosi al contempo alle sue esigenze.

Quali momenti sono speciali per noi? E in che modo viviamo l’esigenza di essere rassicurati? O di collaborare? Alle volte basta un gesto, una parola che venga incontro alla necessità del partner di sentirsi voluto bene, di sentirsi compreso e apprezzato, per dare un valore positivo all’amore e portare un sorriso in famiglia.

Troppo spesso, invece, la mancanza di comunicazione alimenta le incomprensioni e le difficoltà di relazione.

Bisognerebbe dunque interrogarsi su quale sia il proprio linguaggio dell’amore, che è fatto sì di parole di rassicurazione e tenerezza ma anche della capacità di vivere e condividere momenti speciali (regalarsi una cena romantica, uscire con il proprio partner per una passeggiata...), di donare e ricevere doni, di aiutarsi a vicenda nella gestione delle incombenze quotidiane, di contatto fisico.

Occorre perciò scoprire qual è il proprio linguaggio preferito e comunicarlo all’altro.

Un discorso simile vale anche per i figli, nei cui confronti bisogna utilizzare un linguaggio dell’amore condiviso che consenta di interrogarsi e di capire cosa desiderino veramente, aldilà delle apparenze e delle superficialità.

Maurizio Andolfi


Vedi anche:  Il linguaggio dell'amore: il contatto fisico - comprensione dei bisogni - saper vedere insieme

I maggiori condizionamenti che oggi subisce la famiglia e i disagi conseguenti

 

Le profonde trasformazioni che hanno investito la nostra società nel corso degli ultimi anni hanno avuto notevoli ripercussioni sul sistema familiare, producendo una serie di condizionamenti che tuttora ne influenzano l’evoluzione.

Tali trasformazioni hanno difatti generato un contesto sociale “rischioso”, sottoposto a continui rapidi mutamenti che richiedono sempre nuovi sforzi di adattamento. Si pensi, ad esempio, all’aspetto economico: recenti indagini statistiche rivelano come in Italia stiano rapidamente aumentando le famiglie che vivono al di sotto della soglia minima di povertà, che si trovano in difficoltà anche in quello che concerne il soddisfacimento delle più elementari esigenze, come il pagamento dell’affitto o delle spese medico-sanitarie... Ebbene, i condizionamenti economici costituiscono un’indubbia fonte di disagio all’interno del contesto familiare.

Un ulteriore condizionamento emerge nel rapporto tra la famiglia e il mondo del lavoro, sempre più frequentemente caratterizzato da un “conflitto di lealtà” tra ruoli lavorativi e familiari e dalla difficile costruzione di un equilibrio tra tempo di vita e tempo lavorativo. Le attuali trasformazioni del mercato del lavoro impongono infatti, all’interno del contesto familiare, nuove fratture fra il bisogno di stabilità affettiva e quelle esigenze di indipendenza ed autorealizzazione che nella famiglia tradizionale non trovavano pieno appagamento.

Ad una serie di condizionamenti di carattere socio-culturale si può infine attribuire un ruolo non trascurabile nelle trasformazioni demografiche (calo della natalità, riduzione della nuzialità, aumento della disgregazione familiare...) che oggi caratterizzano il sistema famiglia.

Dinanzi a queste sfide, ed alle molte altre che si apriranno, la famiglia dovrà porsi ancora una volta in maniera flessibile, studiando risposte “adattive” che le consentano di affrontare e risolvere problemi.

Maurizio Andolfi

Solitudine... in famiglia ... subita... ricercata per conoscersi meglio

Ci sono diversi modi di intendere e di
vivere la solitudine: essa può derivare da esperienze di emarginazione
familiare e sociale, o può essere ricercata e vissuta come momento di
riflessione e di crescita individuale. La solitudine, di per sé, non ha
quindi un’accezione positiva né negativa. Essere soli può però
costituire un peso qualora non derivi da una scelta personale. Sul
piano sociale, sono numerosi gli esempi di questa solitudine "subita",
che sempre più frequentemente si verifica anche all’interno della
famiglia.

Nella società attuale i bambini trascorrono spesso
troppo tempo da soli, privi della compagnia di fratellini e coetanei,
aspettando il rientro di genitori che, oberati dal troppo lavoro, a
volte non trovano neppure il tempo di parlare, di giocare con i propri
figli. Nel contempo gli anziani, pur vivendo in famiglia, possono
avvertire l’isolamento che deriva dal mancato riconoscimento della loro
funzione sociale, o da un bisogno di comunicazione che non sempre trova
soddisfazione negli altri membri della famiglia, producendo
emarginazione e frustrazione.

Ovviamente, sono i soggetti più deboli sul piano
socio-economico ad avvertire in maniera più incisiva il problema della
solitudine.

Se dunque è vero che questa tipologia di solitudine
va indagata perché ad essa si trovino delle risposte adeguate, è pur
vero che esistono altri modi di vivere la solitudine. L’isolamento può
essere infatti vissuto in maniera creativa, allorché è frutto di una
scelta che l’individuo persegue per ricavarsi uno spazio di riflessione
in cui ritrovare la propria soggettività al di fuori del caos
quotidiano. In questa accezione, la solitudine costituisce un momento
positivo, un fattore benefico di arricchimento che ci porta a
riappropriarci di una dimensione di tranquillità interiore che nel
mondo di oggi siamo indotti a trascurare con sempre maggiore facilità.

Prof. Maurizio Andolfi

Sabato, 05 Febbraio 2005 18:53

Un’informazione che non informa

Un’informazione che non informa

Ricordo di aver sentito dire una volta, in un Convegno, che il modo migliore per eliminare il problema immigrazione è evitare che se ne parli. Effettivamente, nella contemporanea Società dell’Informazione, la crescente accessibilità dell’informazione aumenta smisuratamente il potere che deriva dal controllo delle sue fonti. Ne è prova evidente il fatto che l’effettivo verificarsi di un evento può essere persino messo in dubbio se di esso non si dà traccia sui media.

Questa riflessione porta a chiedersi perché un certo tipo di informazione, che pure esiste ed è ben nota ai professionisti del settore, poi non emerge al di fuori di questi contesti “chiusi”.

Una probabile ragione si può rintracciare nel predominio di una logica economica che induce gli operatori di questo settore a porsi come obiettivo più che la diffusione di un’informazione “formativa”, l’ampliamento delle vendite che, nel tentativo di accaparrarsi un numero sempre crescente di nuovi lettori, porta i media ad adeguarsi a livelli sempre più bassi, perseguendo logiche commerciali, di “spettacolarizzazione”.

I temi sociali sono i primi ad essere sacrificati da questa logica. Prendiamo, ad esempio, l’immigrazione: dai media italiani questo argomento è stato sempre trattato, e lo è tuttora, quasi esclusivamente come un problema di sicurezza, senza che alcuna attenzione venisse posta al problema dell’integrazione, alle modificazioni, sia positive sia negative, che l’inserimento di queste persone introdurrà nella nostra società, ai problemi degli immigrati... Un simile approccio, più attento agli aspetti sociali del fenomeno, potrebbe promuovere una cultura più aperta e disponibile all’accoglienza e far passare il concetto che l’immigrato è una persona portatrice di valori diversi e non soltanto una fonte di manodopera, un numero, un nemico.

Maurizio Andolfi

 

 

Giovedì, 18 Novembre 2004 14:36

Claudio e Margherita (Prof. Maurizio Andolfi)

 
Claudio e Margherita 11.01.02
Siamo Claudio e Margherita, sposati da … tempo, dei nostri due figli Alberto è andato a vivere da solo, Elisabetta si è sposata ed ha la sua famiglia. Tutto questo è avvenuto da poco tempo ed ora abbiamo l’impressione che questa nuova realtà stia toccando l’equilibrio della nostra coppia. Come affrontare questo nuovo momento?
Siamo Claudio e Margherita, sposati da … tempo, dei nostri due figli Alberto è andato a vivere da solo, Elisabetta si è sposata ed ha la sua famiglia. Tutto questo è avvenuto da poco tempo ed ora abbiamo l’impressione che questa nuova realtà stia toccando l’equilibrio della nostra coppia. Come affrontare questo nuovo momento?

La situazione presentata da Claudio e Margherita è molto frequente e spesso viene chiamata "sindrome del nido vuoto", per indicare l’uscita dei figli dalla casa dei genitori.

Indubbiamente se una coppia deve modificare profondamente il proprio legame affettivo per dare uno spazio all’arrivo di un figlio, è altrettanto vero che a distanza di molti anni, quando i figli, adolescenti o giovani adulti, escono di casa, deve essere capace di ritrovare un’intimità a due e una rinnovata curiosità nel coltivare il rapporto con l’altro per molti anni "condizionate" dalle esigenze e dai bisogni di cura e di accudimento nei confronti dei figli.

Quindi, i figli rappresentano un indicatore assai potente delle capacità di mantenere un’intesa a livello profondo dei due coniugi. Non è infrequente che crisi e conflitti di coppia possano insorgere e svilupparsi in entrambe queste fasi evolutive.

In particolare è necessario che Claudio e Margherita accettino di perdere la continuità di un rapporto affettivo sia con Alberto che con Elisabetta. L’arte di un genitore è di saper essere presente con i figli al momento opportuno e di sapersi separare da questi quando è necessario.

Inoltre sia Alberto che Elisabetta si sentiranno più forti e avranno la sensazione di aver avuto il "permesso" dai propri genitori nel distaccarsi da casa e nell’iniziare il proprio percorso da adulti, sia sperimentandosi in una vita da soli che con l’arrivo di una nuova famiglia.

Una coppia ormai matura può gioire anche dei risultati educativi e affettivi conseguiti, liberando i propri figli da vincoli di dipendenza.

Nello steso tempo se conoscersi nella prima fase del matrimonio è una parte importante nella costruzione dell’intimità di una coppia, è ancor più vero che ritrovarsi da soli in due può rappresentare un momento assai importante di trasformazione, sia sul piano individuale che su quello duale. E’ un po’ come andare a raccogliere insieme i frutti di ciò che si è seminato.

Se poi dovessero emergere delle difficoltà o delle incomprensioni nel ritrovarsi in due, sarà molto utile utilizzare le risorse disponibili nel proprio contesto sociale: sistema di amici, colleghi di lavoro, attività parrocchiali o altri interessi che facilitino la ripresa di un entusiasmo non più proiettato nella vita dei figli, ma più centrato sulla propria.

Nel caso in cui queste difficoltà dovessero accentuarsi, perché non ricorrere ad una terapia familiare, così da trovare un terzo competente neutrale in grado di riindirizzare le energie e le risorse di una coppia?
 
 

Giovedì, 18 Novembre 2004 14:35

IL CASO DI MARIO (Prof. Maurizio Andolfi)

IL CASO DI MARIO

Sono, Mario, un uomo sposato e ritengo di non essere un maschilista. Guardandomi intorno riconosco che le donne sono state e sono protagoniste della propria emancipazione ma noto anche, nelle figure maschili, un diffuso smarrimento, come se non trovassero più il loro ruolo.

Mario, un uomo sposato e ritengo di non essere un maschilista. Guardandomi intorno riconosco che le donne sono state e sono protagoniste della propria emancipazione ma noto anche, nelle figure maschili, un diffuso smarrimento, come se non trovassero più il loro ruolo.

La situazione di Mario è assai emblematica nella nostra società moderna. Negli ultimi vent’anni, sicuramente, il ruolo della donna si è trasformato alla radice. La donna ha conquistato uno spazio sempre più autorevole e distinto in ambito lavorativo e comunque in generale nelle attività extradomestiche, ma, soprattutto, ha acquistato una maggiore coscienza di sé come persona autonoma e non più come "la dolce metà" del marito.
E’ fuor di dubbio che, nel momento in cui è venuta ad occupare spazi maggiori nel mondo esterno, è cambiato anche il suo ruolo all’interno della famiglia. Un prezzo assai alto pagato dalla donna è sicuramente l’impossibilità o la maggiore difficoltà ad avere più di due figli (sebbene la media nazionale sia decisamente inferiore di questo numero) e ad accudirli per il tempo che vorrebbe.

Non c’è dubbio che l’uomo, un po’ costretto dalla situazione, un po’ per sua scelta, sia cambiato, in particolare rispetto al diventare una figura significativa per i figli, anche piccoli, attraverso il gioco, la tenerezza e una sua maggiore presenza. Non altrettanta sicurezza e disinvoltura ha acquisito nei confronti delle mogli maggiormente emancipate e più autonome ed è questo che, probabilmente, ha prodotto questo diffuso senso di smarrimento negli uomini di cui Mario parla.

Se è vero che da molto tempo è obsoleta la metafora di chi "porta i pantaloni" in casa, ma non è ancora chiaro come si possano condividere le vicende familiari e i ruoli professionali in modo armonico. Se l’uomo oggi si sente il "sesso debole", si produrranno nelle famiglia le stesse incertezze che avevano i figli quando tale prerogativa era della parte femminile; con l’aggravante che la società non sembra sostenere con empatia uomini che si presentano, oggi, inspiegabilmente deboli. La soluzione non è facile e non è generalizzabile, ma la condivisione dovrebbe nascere dal sentimento reciproco di rispetto e di accettazione dei bisogni l’uno dell’altra.

Giovedì, 18 Novembre 2004 14:34

Sulle famiglie ricostituite (Prof. Maurizio Andolfi)

 

Sulle famiglie ricostituite

Nella società odierna si assiste a un crescente numero di rotture familiari sia in una fase precocissima di costituzione della coppia (tra il primo e il terzo anno di matrimonio), che in una successiva (dopo il quindicesimo anno).

Questo fenomeno di disgregazione familiare si può spiegare da un punto di vista evolutivo. Purtroppo la nascita di un figlio non è sempre un elemento di unione coniugale, soprattutto laddove i due coniugi sono totalmente impreparati ad assumersi la responsabilità di una famiglia o immaturi sul piano della propria crescita personale.

Fenomeno altrettanto critico è "l’uscita di casa" dei figli o quantomeno la condizione di convivenza con figli adolescenti. In questa situazione evolutiva la coppia deve fare di nuovo i conti con se stessa e con la propria capacità di trasformarsi e ritrovare un interesse autentico di coppia senza più terzi da accudire.

Le famiglie ricostituite si fondano proprio sullo scioglimento del nucleo familiare originario, in particolar modo in queste due situazioni; prevalentemente si tratta di madri giovani con figli piccoli, che si legano a un nuovo compagno oppure di famiglie più complesse con la presenza in casa di adolescenti provenienti dal precedente matrimonio di uno o dell’altra o di entrambi.

Spesso vengono richiesti interventi di psicoterapia per i problemi insorti in un figlio; generalmente lo spunto può essere un disturbo psicosomatico, comportamentale o scolastico di un bambino piccolo nel primo caso, mentre nel secondo si può trattare di un problema più serio e strutturato in un adolescente (ad esempio, comportamento violento a casa o a scuola, uso di droga, dipendenze alimentari, ecc.).

Sarà compito del terapeuta aiutare le famiglie ricostituite a ritrovare il "bandolo della matassa", ovverosia comprendere e lavorare attivamente su tensioni familiari attuali, su quelle che possono invece scaturire da separazioni coniugali precedenti non sufficientemente concluse, sulle difficoltà che possono insorgere tra le famiglie d’origine o tra i figli dell’uno o dell’altro coniuge.

Se si affronta il problema familiare a monte sarà più facile risolvere le difficoltà presentate da un figlio.

Chi ha esperienze di lavoro terapeutico con famiglie ricostituite sa bene quanto i sintomi di un bambino o di un adolescente riflettano le difficoltà della coppia di nuova costituzione, spesso confuse o sovraccaricate dalle vicende coniugali precedenti e dal modo in cui ci si è riusciti a separare.

Maurizio Andolfi

Giovedì, 18 Novembre 2004 14:33

TERESA E L'ARTE DEL DIALOGO (Prof. Maurizio Andolfi)

TERESA E L'ARTE DEL DIALOGO

"Sono madre di famiglia e nonna, ciò che scrivo è condiviso anche da mio marito.

Abbiamo avuto tre figli, una femmina e due maschi.

Sono tutti sposati ed hanno dei bambini.

Non credo nelle situazioni ideali ma credo nelle situazioni vivibili e perciò abbastanza soddisfacenti.

Nel caso di queste tre coppie nutro delle perplessità, non mi sembra che sappiano comunicare, non credo che parlino mai "per sentimenti", indubbiamente non si riservano degli spazi per loro-coppia.

Sono pessimista? Realista?

Esiste l’arte del dialogo? La si può apprendere? "

Teresa G.

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Uno dei problemi più difficili per la generazione di adulti maturi (genitori o nonni) è quella di accettare che il costruirsi e l’evolversi delle nuove coppie (quelle dei figli) parta dai presupposti affettivi, organizzativi e sociali assai differenti.

Noi adulti maturi siamo cresciuti nell’ideale che parlare dei sentimenti sia un modo per conoscersi e per approfondire un rapporto di intimità. Oggi si parla molto di meno, ma si riescono a comunicare sentimenti e sensazioni attraverso canali indiretti: attraverso le cose, programmi concreti, internet, ecc. Molte persone hanno più facilità a farsi conoscere senza guardarsi negli occhi o tenersi per mano, come invece è accaduto per molti di noi delle generazioni precedenti.

Il dialogo non esisteva poi tanto neppure nelle famiglie cosiddette "più unite", che spesso, lo erano più per mostrare una bella facciata che nella realtà.

Il dialogo con i figli, poi, esisteva pochissimo ed era spesso sostituito da una serie di regole e di "consigli di vita" da dare ai figli, così da farli crescere sani e ben protetti.

Oggi tutto ciò è saltato e quindi il dialogo, se deve realizzarsi, deve partire da situazioni di ascolto reciproco, in cui non solo gli adulti chiedono ai figli e i figli devono parlare di sé con i genitori, ma, ad esempio, anche i genitori possono far conoscere ai figli le loro debolezze, idiosincrasie, ambivalenze, ecc., cose su cui si preferisce tenere il più ampio riserbo, anziché vedere tutto ciò come una forma di scambio affettivo.

Il dialogo è quindi senz’altro l’arte di incontrarsi in un territorio intermedio, dove si apprende gli uni dagli altri.

Prof. Maurizio Andolfi

Giovedì, 18 Novembre 2004 14:31

L'intimità della coppia (prof. Maurizio Andolfi)

 

L'intimità della coppia

Un cammino di conoscenza, accettazione di sé, accettazione dell’altro, dialogo profondo, intimo

Perché si realizzi una vera intimità di coppia è necessario che si superi l'antico detto "sei la mia metà" e si ragioni piuttosto in termini di "due interi" che si incontrano.

Abbiamo spesso lavorato con coppie dove la scarsa differenziazione dell'uno era complementare a quella del partner. Quindi il primo problema non è a livello di coppia, ma riguarda ogni singolo adulto e la sua modalità di essere se stesso all'interno del suo mondo di affetti e di relazioni sociali.

La vera palestra di realizzazione della propria individualità è la famiglia in cui si nasce e la capacità di separarsi bene e in modo relativamente completo dalle proprie famiglie di origine.

Se si rimane in condizioni di dipendenza, di intimidazione nei confronti dei propri genitori e non si acquisisce un Io adulto, è molto difficile poter stabilire rapporti di intimità a livello coniugale. Se invece si riesce a fare il salto e a portare con sé i propri valori familiari (tradizioni, miti, valori religiosi, ecc.) come una vera e propria dote è più facile che ci siano le premesse per un cammino autentico di conoscenza

Costruire e mantenere una relazione intima è difficile ed entusiasmante allo stesso tempo: è necessario però nutrire il rapporto e rinnovarlo continuamente per evitare che subentri l'abitudine e la routine.

I figli, se non usati male, sono una risorsa inesauribile di creatività e di gioco con cui alimentare la propria conoscenza di coppia.

Prof. Maurizio Andolfi

 

Il piacere come forza creativa

Raggiungere il piacere richiede che ciascun partner sia capace di liberarsi di ogni forma di compiacimento di se stesso (piacere narcisistico) per incontrare l’altro in un territorio adulto condiviso che potremmo chiamare il terzo pianeta. Condividere un’esperienza di intimità è un atto creativo che scaturisce dalla capacità di mettersi a nudo con se stesso e con l’altro, senza ricorrere al meccanismo assai comune della mutua protettività (il cosiddetto rischio calcolato che per altro perde ogni carattere di reale ricerca dell’altro).

Molti partner vivono insieme per anni senza conoscersi perché hanno sostituito allo scambio autentico una modalità di rispetto formale, basato sul non dirsi mai quello che si pensa dell’altro e quello che si sente nel rapporto: il tutto nascosto dietro una "facciata di coppia" ben funzionante e socialmente integrata, salvo poi a scoppiare improvvisamente in modo apparentemente imprevedibile. Questo forse è il motivo per cui spesso all’esterno si sente dire: era una gran bella coppia, proprio non riusciamo a capire cosa sia successo!

Due sono i meccanismi più comuni che impediscono la costruzione di un rapporto autentico basato sulla curiosità reciproca e sulla condivisione della creatività di ciascuno : da un lato la routine con tutto il suo corredo rassicurante e ripetitivo di riti di coppia: orari , visite programmate alle famiglie, impegni fissi ecc.; dall’altro l’aspettativa magica che la coppia sia un dispositivo perfetto capace di rispondere e di contenere tutti i problemi del mondo e le reciproche contraddizioni.

Se si riusciranno a fare errori e a condividerli si potrà anche sognare di essere una coppia meravigliosa perché la grandiosità di tale progetto sarà costantemente guidata e ridimensionata dal principio di realtà e dalla accettazione delle proprie debolezze, che una volta riconosciute diventeranno risorse creative e arricchenti.

Prof. Maurizio Andolfi

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