Vita nello Spirito

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L’amore di sé è un tema centrale nella cultura contemporanea. Ma è anche un tema ambivalente se non regolato da un sano equilibrio. Non si pecca solo di gretto egoismo, ma anche di falso altruismo. C’è un egoismo sano e un altruismo patologico.

Condizioni per incontrare il Signore

Un invito. Impariamo a pregare

 


Le riflessioni che qui pubblichiamo sono tratte da un opuscolo scritto a mano intitolato Impariamo a pregare. L’autore vive da alcuni anni una specie di vita eremitica. Ciò che propone è perciò frutto della sua esperienza, o meglio, del suo cammino spirituale. Si chiama p. Franco. Dietro di sé ha una storia interessante che merita di essere conosciuta, poiché manifesta quanto sono mirabili le vie di Dio, e creative quelle dello Spirito. È lui stesso a raccontarcela.

L’inesauribile creatività dello Spirito

Carismi antichi e nuovi per una Chiesa "bella"

di Fabio Ciardi


Dall’inizio de! secolo scorso, ma soprattutto dopo il Concilio, hanno cominciato a sorgere nuove fondazioni con caratteristiche spesso completamente diverse da quelle tradizionali. Esse nascono da un comune vasto movimento di ritorno alle fonti (bibliche, liturgiche, patristiche, ecumeniche) e da esperienze di ecumenismo pratico.

«Lo Spirito, che in tempi diversi ha suscitato numerose forme di vita consacrata, non cessa di assistere la Chiesa, sia alimentando negli Istituti già esistenti l’impegno del rinnovamento nella fedeltà al carisma originario, sia distribuendo nuovi carismi a uomini e donne del nostro tempo, perché diano vita a istituzioni rispondenti alle sfide di oggi. Segno di questo intervento divino sono le cosiddette nuove Fondazioni, con caratteri in qualche modo originali rispetto a quelle tradizionali» (VC 62).

Nelle molteplici forme di vita evangelica nate lungo la storia della Chiesa lo Spirito sembra sbizzarrire la sua inesauribile creatività. Anche per i nostri tempi egli ci ha riservato nuove sorprese.

Le realtà del XX secolo

All’inizio del ‘900, a Vallendar in Germania, nasce l’Opera di Schönstatt, fondata da padre Kentenich per far presente in una società scristianizzata la vita evangelica secondo l’esempio di Maria, la prima cristiana. Nel 1921, la Legio Mariae, ispirata da un laico, Frank Duff, prende forma in Irlanda dilagando rapidamente nel mondo.

Le ceneri causate dalla seconda guerra mondiale si rivelano il suolo adatto sul quale fioriscono nuove spiritualità, come quella del Movimento dei Focolari che nel 1943 trascende il conflitto mondiale e le sue conseguenze per puntare sull’unità di tutti gli uomini. In Francia, le Equipes Notre-Dame, fin dal ‘39 offrono una spiritualità coniugale, una grande novità a quel tempo.

In Spagna nel 1949 l’esperienza dei Cursillos de cristiandad risveglia l’impegno cristiano attraverso un cammino comunitario. Agli anni ‘50, in Polonia, risalgono le origini del movimento Luce-Vita che supera il divieto fatto alla Chiesa di promuovere organizzazioni per la gioventù. In Ungheria, Regnurn Marianum aiuta la gente a sopravvivere alla violenza del sistema politico. In Italia, padre Lombardi fonda il Movimento per un Mondo Migliore. Contemporaneamente prende vita, con padre Rotondi, il Movimento Oasi per la formazione spirituale e apostolica.

Nell’ambiente universitario di Milano, nel 1954, il carismatico don Giussani è ispirato a dar vita a una iniziativa che sarà la matrice della futura Comunione e Liberazione. Durante il Concilio i Padri riconoscono che è avviata «una nuova stagione aggregativa dei fedeli laici». Col passare del tempo i protagonisti in prima linea per attuare la nuova visione della Chiesa conciliare sarebbero stati i nuovi movimenti, che negli anni post-conciliari prendono sempre più vigore.

Nel 1964, in Spagna, il giovane laico Kiko Argüello insieme a una giovane ragazza, Carmen Hernàndez, inizia un’esperienza di pastorale nuova per le parrocchie: è il Cammino neo-catecumenale. Nello stesso anno, a Trosly, nel nord della Francia, il canadese Jean Vanier realizza la prima comunità deIl’Arche dove le persone handicappate mentali e altri condividono la vita pienamente, vivendo e lavorando insieme.

Nel 1967, il Movimento carismatico, un fenomeno già presente da vari secoli nelle Chiese protestanti, espIode nella Chiesa cattolica negli Stati Uniti. Oggi tocca la vita di oltre 80 milioni di cattolici in tutto il mondo. Nel contesto delle rivolte studentesche del ‘68, germogliano i primi semi della Comunità di Sant’Egidio: leggendo il Vangelo, Andrea Riccardi e i suoi amici si sentono chiamati a vivere la Chiesa là dove c’è la violenza, l’emarginazione e la povertà.

Con l’avvento del sinodo sui laici del 1987, la Chiesa prende atto delle dimensioni mondiali e interculturali dei movimenti. Giovanni Paolo Il porta oltre 60 movimenti a celebrare la Pentecoste del 1998 insieme a lui, in un fine secolo testimonianza dell’unità nella diversità e nella ricchezza di carismi che lo Spirito Santo elargisce nella Chiesa alle soglie del terzo millennio. «Voi qui presenti siete la prova tangibile di questa effusione dello Spirito».

Le nuove forme

Assieme ai movimenti ecclesiali (quando non addirittura in seno agli stessi movimenti) fioriscono “nuove forme di vita consacrata” e “nuove comunità”. Possiamo ricordare la Tenda del Magnificat, la comunità Nôtre-Dame de l’Alliance, la Communauté de l’Emmanuel, la Fraternité de la Résurrection, la comunità Pain de Vie, la Comunità missionaria di Villaregia...

«L’originalità, delle nuove comunità», leggiamo in Vita consecrata 62, «consiste spesso nel fatto che si tratta di gruppi composti da uomini e donne, da chierici e laici, da coniugati e celibi, che seguono un particolare stile di vita, talvolta ispirato all’una o all’altra forma tradizionale o adattato alle esigenze della società di oggi».

Le caratteristiche di queste nuove esperienze di vita evangelica sono: una forte insistenza sulla vita comunitaria; l’ospitalità e l’accoglienza di quanti vogliono condividere la gioia della vita comune, della preghiera, del servizio; l’ecumenismo inteso come apertura alla grande tradizione cristiana così come viene espressa dalle differenti Chiese; la composizione mista di uomini e donne, che spesso comprende anche gli sposati con l’intera famiglia; la riscoperta dei valori della gioia e dell’amicizia.

Un tipo particolare di “nuove comunità” è quello di indole monastica. Pur scegliendo di appartenere all’ordo monasticus tradizionale, esse intendono realizzare un monachesimo nella Chiesa locale, senza alcuna esenzione canonica dall’autorità episcopale. Basterà accennare alla Comunità di Bose, che è diventata luogo di ispirazione per altre analoghe comunità, alla Comunità di Monteveglio, alla Comunità monastica di Gerusalemme...

Tra le caratteristiche di questo “nuovo monachesimo”, il forte ancoraggio alla Scrittura, il riferimento alle molteplici tradizioni monastiche antiche, comprese quelle orientali, una liturgia comprensibile a tutti, la sobrietà e la semplicità dello stile di vita, l’affiato ecumenico, l’accoglienza e la condivisione della vita con gli ospiti, la riscoperta della laicità e del lavoro...

Il grande “movimento”

Per capire le nuove forme di vita carismatica, evangelica e di consacrazione presenti oggi nella Chiesa occorre tuttavia tenere presente il più ampio ambiente ecclesiale in cui esse sono maturate e la sensibilità nuova venutasi a creare. Esse nascono infatti da un comune vasto “movimento” di ritorno alle fonti (movimento biblico, liturgico, patristico, ecumenico...) e di apertura al mondo contemporaneo che lo Spirito Santo ha impresso a tutta la Chiesa del nostro tempo. Esse sono il frutto di una nuova spiritualità, non più di minoranze, quasi elitistica (legata a ordini e congregazioni religiose) ma aperta a tutti (vocazione universale alla santità); una spiritualità comunitaria ed ecclesiale, subentrata a una spiritualità coltivata in funzione della propria relazione personale con Dio; una spiritualità della vita e dell’impegno nel mondo e nella storia come luogo della presenza e dell’amore di Dio.

Da qui derivano gli aspetti che caratterizzano le nuove esperienze ecclesiali, i movimenti in modo particolare:

1 - La laicità. Anche se nel loro seno vi sono persone consacrate, la maggior parte dei membri dei movimenti sono laici. Viene messa in evidenza soprattutto la consacrazione battesimale e il sacerdozio comune. Si è parlato in proposito di una “Pentecoste laica”.

2 - Nello stesso tempo si presentano come luogo d’incontro e di comunione tra tutte le vocazioni della Chiesa, quasi a ricreare un bozzetto di Chiesa. In esso convergono, almeno potenzialmente quando non praticamente, tutte le vocazioni del popolo di Dio.

3 - La varietà di vocazioni implica - ed è un’altra caratteristica - l’elasticità e la varietà nelle forme di appartenenza e di impegno. Essa è richiesta anche dalla grande diversità di situazioni in cui vivono i fedeli laici e in cui continuano a vivere quando aderiscono al movimento.

4 - La partecipazione attiva alla missione della Chiesa, sgorgante dalla vocazione battesimale, è riscoperta nella sua specificità: portare lo Spirito di Cristo in tutte le realtà sociali, politiche, economiche, culturali, una missione aperta a innumerevoli iniziative personali e comunitarie.

5 - La novità portata dai movimenti è infine data da una profonda carica spirituale, evangelica, comunionale che fa rivivere gli elementi della vita cristiana con insolita genuinità, freschezza e semplicità.

Siamo nell’alveo della grande tradizione della Chiesa, che ha visto sorgere nel suo seno sempre nuovi “movimenti” di spiritualità, di pensiero, di azione («La Chiesa stessa è un movimento», ha detto Giovanni Paolo Il). Nel medesimo tempo siamo davanti a qualcosa di nuovo, della novità dello Spirito. Carismi antichi e carismi nuovi chiamati a una comunione sempre più profonda perché la Chiesa possa splendere in tutta la sua bellezza e compiere la sua missione sacramentale di unità degli uomini tra loro e con Dio.

(da Vita Pastorale, aprile 2006)

Bibliografia

AA. VV., Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico spirituali ed apostoliche, a cura di Favale A., LAS 1991, Roma; I movimenti nella Chiesa. Atti del Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali. Roma 27-29 maggio 1998, “Laici oggi” 1999; Castellano J., Carismi per il terzo millennio. I movimenti ecclesiali e le nuove comunità, Edizioni OCD 2001, Roma; Torcivia M., Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Piemme 2001, Casale Monferrato; Favale A., Comunità nuove nella Chiesa, Messaggero 2003, Padova.

La santità è «vivere con»

di Pietro Andrea Cavaleri


Note

1) M. ZAMBRANO, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondatori, Milano 2000, p. 29.

2) Cfr H. ARENDT, Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano, 1995.

3) Cfr M. CACCIARI, L'Arcipelago, Adelphi, Milano 1997.

4) Cfr G. SALONIA, Dialogare nel tempo della frammentazione, in E. ARMENTA - M. NARO (a cura di), Impense Adlaboravit, Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia, Palermo 1995, pp. 571-586.

5) Cfr H. KOHUT, La guarigione del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1992; La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1993,

6) M. SPAGNUOLO LOBB, G. SALONIA, P.A. CAVALERI, Individual and community in the Third Millennium, “British Gestalt Journal”, 2 (1997), pp. 107-113.

7) P. CODA, Il Cristo crocifisso e abbandonato redenzione della libertà e nuova creazione, “Nuova Umanità», XVIII (1996/3), n. 105-106, p. 375.

8) Cfr C. LUBICH, Lezione per la laurea Honoris Causa in “Let­tere” (Psicologia). Malta 26 febbraio 1999, “Nuova Umanità”, XXI (1999/2), n. 122, pp. 177-189.

­9) Per un approfondimento su questo tema cfr H. U. VON BALTHA­SAR, Gloria. Nello spazio della metafisica. L'epoca Moderna, Milano 1978; G. ZANGHI, Quale uomo per il terzo millennio?, “Nuova Uma­nità”, XXIII (2001/2), n. 134, pp. 247-277.

10) Cfr K. HEMMERLE, Partire dall'unità. La trinità come stile di vita e forma di pensiero, Città Nuova, Roma 1998.

11) Cfr K. HEMMERLE, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinno­vamento del pensiero cristiano, CittàNuova, Roma 1996.

12) Per un approfondimento del paradigma trinitario come mo­dello sociale cfr E. CAMBÒN, Trinità, modello sociale, Città Nuova, Roma 1999.

13) Cfr C. LUBICH, op. cit.

14) Cfr P. A. CAVALERI, Verso una psicologia in dialogo, “Nuova Umanità”, XXII (2000/3-4), nn. 129-130, pp. 409-445.

15) A questo riguardo cfr G. CICCHESE, I percorsi dell'altro. An­tropologia e storia, Città Nuova, Roma 1999.

16) Cfr H.G. GADAMER, La molteplicità d'Europa. Eredità e futuro, in AA.vv., L'identità culturale europea tra germanesimo e latinità, a cura di A. KRALI, Jaca Book, Milano 1988.

17) Cfr E. LÉVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano 1990.

18) Cfr P. RICOEUR, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993.

19) Cfr J. L. MARION, Dato che. Saggiò per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001.

20) Cfr G. CICCHESE, op. cit.

21) Cfr D. STERN, Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987; La costellazione materna, Bollati Borin­ghieri, Torino 1995.

22) Cfr C. TREVARTHEN, Empatia e biologia, Raffaello Cortina, Milano 1998.

23) J. BRUNER, La ricerca del significato. Per una psicologia cultu­rale, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

24) Cfr A. OLIVERIO, Esplorare la mente. Il cervello tra filosofia e biologia, Raffaello Cortina, Milano 1999.

25) Cfr D. J. SIEGEL, La mente relazionale. Neurobiologia dell'espe­rienza interpersonale, Raffaello Cortina, Milano 2001.

26) D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1996.

27) D. BONHOEFFER, op. cit., p. 441.

­28) D. BONHOEFFER, op. cit., p. 462.

29) Sul tema della diversità nell'esperienza relazionale cfr O. SALONIA, Kairòs. Direzione spirituale e animazione comunitaria, Edb, Bologna 1994.

30) «E diceva che sarebbe buon frate minore colui che riunisse in sé la vita e le attitudini dei seguenti santi frati: la fede di Ber­nardo, che la ebbe perfetta insieme con l'amore della povertà; la sem­plicità e la purità di Leone, che rifulse veramente di santissima pu­rità; la cortesia di Angelo, che fu il primo cavaliere entrato nell'Or­dine e fu adorno di ogni gentilezza e bontà,' l'aspetto attraente e il buon senso di Masseo, con il suo parlare bello e devoto; la mente elevata nella contemplazione che ebbe Egidio fino alla più alta perfe­zione; la virtuosa incessante orazione di Rufino, che pregava anche dormendo e in qualunque occupazione aveva incessantemente lo spi­rito unito al Signore; la pazienza di Ginepro, che giunse ad uno stato di pazienza perfetto con la rinunzia alla propria volontà e l'ardente desiderio d'imitare cristo seguendo la via della croce; la robustezza fisica e spirituale di Giovanni delle Indi, che a quel tempo sorpassò per la vigoria tutti gli uomini; la carità di Ruggero, la cui vita e comportamento erano ardenti di amore; la santa inquietudine di Lucido, che, sempre all'erta, quasi non voleva dimorare In un luogo più di un mese, ma quando vi si stava affezionando, subito se ne allonta­nava, dicendo: Non abbiamo dimora stabile quaggiù, ma in Cielo” (FF 1782).

31) Sul conflitto e sulle problematiche comunicative che da esso derivano cfr H. FRANTA - G. SALONIA, Interazione comunicativa, LAS, Roma 1988; P. A. CAVALERI - G. LOMBARDO, La comunicazione come competenza strategica, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 2001.

32) Su questo tema cfr M. CACCIARI, L'invenzione dell’individuo, “MicroMega - Almanacco di Filosofia” 9 (1996), pp. 121-127.

33) Cfr K. HEMMERLE, Partire dall'unità, cit.

Cfr G.M. ZANGHI, Dio che è amore. Trinità e vita in Cristo, Città Nuova, Roma 1991.

35) “Come nei monasteri - dove si prega e si contempla - il silenzio e la solitudine, la grata e il velo aiutano l'unione con Dio, così per noi il fratello amato. (...). Occorre, dunque essere pronti a date la vita per l'altro. E, se è così, occorre anche fare uno sforzo per aiutare il nostro fratello a raggiungere la perfezione che noi desi­deriamo per noi. Si va a Dio, quindi, attraverso i fratelli e le sorelle, ma anche assieme a loro” (C. LUBICH, Unione con Dio e con i fra­telli nella spiritualità dell'Unità, in “Nuova Umanità”, XXIV, 2002/5, n. 143, p. 559).

36) Cfr C. LUBICH, L'Eucaristia, Città Nuova, Roma 1977.

37) Sull'Eucaristia come chiave a lettura dei rapporti interpersonali cfr G. SALONIA, Eucaristia e dinamiche familiari, “Via Verità eVita”, XXXIII, gennaio-febbraio (1984), pp. 42-53.

38) Sul concetto di “traità“ cfr M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 1993.

39) Cfr K. HEMMERLE, Partire dall'unità, cit.40) Cfr C. LUBICH, op. cit.

41) GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte, nn.43, 57.

42) Cfr K. RAHNER, Nuovi Saggi, Edizioni Paoline, Roma 1968.

43) K. RAHNER, Elementi di spiritualità nella Chiesa del futuro, in AA,vv., Problemi e prospettive di spiritualità, a cura di T.GOFFI - B. SECONDIN, Queriniana, Brescia 1983, pp. 440-441.

La santità è «vivere con»

di Pietro Andrea Cavaleri


Quegli aerei che si avventano
contro le altere torri,
quel volo a capofitto di vite umane
contro altre vite...
La mente vacilla, l’animo e soverchiato, oppresso...
Si preparano, forse sono già venuti,
tempi in cui sarà richiesto
agli uomini di essere altri
da come siamo stati. Come?»

Mario Luzi

1. Cristo evento relazionale

Per comprendere più agevolmente il senso che oggi assume la dimensione relazionale nella vita di ognuno di noi può essere utile, seguendo le riflessioni della filo­sofa spagnola Maria Zambrano, immaginare la storia come una progressiva rivelazione dell'uomo e l'uomo co­me «un essere nascosto che deve rivelarsi a poco a». (1)

L'uomo, in questo suo lento “rivelarsi”, ha impie­gato oltre trentaduemila anni prima di scoprire se stesso come individuo, prima cioè di distinguersi dalla primi­tiva comunità e di porsi di fronte ad essa. L'uomo greco, infatti, e già in grado di porsi di fronte alla natura e alla comunità come singolo soggetto, come io capace di “pen­sare” ciò che ha davanti a sé, interrogandolo, vagliandolo criticamente, dominandolo con gli strumenti della tecni­ca che egli stesso crea. Prometeo è l'immagine di questo uomo che, dopo vari millenni, approda finalmente alla soggettività individuare e sta di fronte alla realtà, pen­sandola, agendo su di essa.

Inizia, allora, per l'umanità una parabola, durata circa duemila anni e culminata nell'epoca moderna, du­rante la quale l'uomo-individuo si scopre centro dell'urn­verso, sancisce la sua assoluta supremazia sulla natura e sulla storia. (2) Giunto all'apice della massima “asserzione di sé”, l'uomo-individuo della modernità e della post­modernità vive oggi una “notte oscura epocale”.

Ripiegato su se stesso e contratto asfitticamente nel­la propria soggettività, e gli si vede sfuggire il senso della totalità e della relazione con l'altro. Avvinto dall'onni­potenza della Tecnica e dal mito di un progresso inar­restabile, l'uomo contemporaneo si è decisamente proiet­tato verso una autonomia e una separatezza del tutto inospitali; (3) ha posto nell'oblio più assoluto ogni rela­zione con l'altro che non sia funzionale alla specifica af­fermazione di sé. L'autoreferenzialità etica e la fuga da ogni forma di intimità affettiva, da ogni forma di appar­tenenza, sembrano costituire la sintesi estrema della sua condizione attuale. (4)

Affermata la propria individualità, assenta la pro­pria differenza nei confronti della comunità, l'uomo di oggi avverte come “tragica” la distanza che lo separa dall'altro e che lo rende, a sua volta, irraggiungibile. (5) Ormai annichilito dalla solitudine e dall'assenza di ogni significato, attraverso modalità spesso distorte e aber­ranti, egli continua tuttavia ad esprimere ancora il suo insopprimibile bisogno di incontrare l'altro, manifesta la sua incontenibile «fame» di relazionalità. (6)

Nel suo travagliato “rivelarsi”, l'uomo è pervenuto oggi ad uno snodo molto delicato della sua storia. Egli, infatti, è alla ricerca di un nuovo modo di relazionarsi in cui “appartenenza” e “differenza” possano finalmente coesistere insieme. È in attesa di “chi” gli sveli un mo­dello relazionale in grado di coniugare il suo vitale bi­sogno di appartenere (all'altro, alla comunità) e la sua legittima istanza di individuarsi, di differenziarsi.

In questa sorta di “notte oscura epocale”, nella quale sembra caduto, l'uomo contemporaneo attende «l'aurora” di una relazione con l'altro che gli consenta di sperimentare il calore dell'incontro, senza rinunciare alla sua differenza; che gli permetta di esprimere la sua individualità, senza per questo subire la freddezza dell'isolamento, del rifiuto, della mancata accoglienza.

Questo nuovo, “aurorale”, modo di porsi in rela­zione con l'altro, che l'uomo contemporaneo attende, è quello stesso che Cristo interamente incarna nella storia e manifesta all'umanità.

Mi ha molta colpito l'affermazione del teologo Piero Coda secondo cui l'evento Gesù Cristo “è un evento essenzialmente relazionale”. (7) È, cioè, un evento che introduce, nella millenaria storia dell'umanità, un modo radicalmente diverso e nuovo di rapportarsi fra gli uo­mini, fon dato non solo sulla unilaterale donazione di sé all'altro, ma anche e soprattutto sulla “donazione reci­proca”.

Se prima di Cristo i rapporti reciproci erano sanciti soltanto dai vincoli di sangue o venivano imposti dall'appartenenza ad una medesima casta sociale, con la ve­nuta di Gesù ogni uomo diventa un “valore” e l'incon­tro con lui si trasforma in una misteriosa occasione di incontro con Dio stesso. (8)

Da questo punto di vista, sulle orme di san Paolo e di Teilhard de Chardin, possiamo affermare che Cristo costituisce un “salto” qualitativo nell'evoluzione psico­logica e sociale dell'umanità. Egli, infatti, manifesta in sé un “modo nuovo» di essere uomo, interamente centrato sulla reciprocità, ad immagine della dinamica rela­zionale intratrinitaria.

Si tratta di un “salto” evolutivo carico di profonde e innumerevoli implicazioni ancora non pienamente colte, sia sul versante sociale, sia su quello psicologico ed edu­cativo. La dimensione intersoggettiva, originaria e fon­dante l'ispirazione del pensiero cristiano, rimane ancora oggi impigliata nelle categorie del pensiero greco e stenta a manifestarsi in tutta la sua novità. (9) E la novità con­siste essenzialmente nel fatto d'e l'uomo, attraverso Cri­sto, può finalmente penetrare il mistero dell'Altro, apren­dosi all'altro ed essendo-per-altro.

Ancora oggi l'evento Gesù Cristo, in quanto evento relazionale, costituisce per l'uomo un “appuntamento mancato” nel lungo e travagliato svelarsi a se stesso. La relazionalità che Cristo mostra agli uomini è a imma­gine della Trinità. Se vogliamo fare nostro il “salto”evolutivo che Egli ci propone, diventa dunque fondamen­tale cogliere più in profondità il “paradigma relazio­nale” che alimenta e anima la dinamica trinitaria.

2. La vita trinitaria come paradigma relazionale

La Trinità è, innanzitutto, amore reciproco fra le tre Persone, è “inabitazione reciproca”. L'espressione clas­sica con cui la teologia denomina questo “reciproco es­sere l'uno nell'altro” è pericoresi. Come è noto, in ori­gine pericoresi era il nome di una danza la cui caratte­ristica consisteva nella reciprocità del danzare: uno dan­za intorno all'altro, l'altro danza intorno a lui, in un costante e reciproco circondarsi. (10) L'immagine di questa danza, dunque, esprime bene la continua tensione reci­proca che caratterizza la dinamica intratrinitaria.

Essa, infatti, è sempre protesa alla edificazione reci­proca. In essa la diversità asserisce se stessa non contraddicendo o negando l'altro, ma divenendo «dono» per l'espressione piena dell'altro. Nella “edificazione reci­proca” la diversità si compone nell'unità, si manifesta e ha senso nell'unità, è per l'unità. Le differenze, cioè, non emergono per entrare in conflitto e per competere con l'altro, per mostrarsi ad esso nella loro superiorità, ma per cooperare alla sua espressione e alla sua edifi­cazione. (11)

D'altra parte, ciascuna differenza viene alla luce e raggiunge la sua pienezza soltanto quando si trasforma in “dono”, soltanto se è per l'altro e si delinea in que­sto suo essere- per-l’altro. Pur avvolta nel suo insonda­bile mistero, la vita della Trinità manifesta all'uomo un paradigma relazionale in cui ognuno deve agli altri la sua vita personale e in cui le molteplici differenze si dispie­gano soprattutto come molteplicità di doni reciprocamen­te interdipendenti, in un 'unica vita fondata sull'amore vicendevole.

Si delinea così un modello (12) di relazione nel quale ogni identità esprime se stessa senza negare la reciproca interconnessione con l'altro; si configura un percorso nuovo all'interno del quale coesistono insieme diversità e appartenenza, distinzione e unità, sviluppo di ciascuna delle personalità coinvolte e vita di comunione.

Se nell'antica Grecia l'affermazione di sé implica il sacrificio dell'altro, sicché Crono mangia i propri figli ed Edipo uccide il proprio padre; nel paradigma trini­tario, che Gesù svela all'uomo, i termini della relazione con l'altro si capovolgono radicalmente. L'affermazione di sé non passa più attraverso la cancellazione dell'altro, ma segue una strada del tutto nuova, quella del “donar­si” e del “donarsi di ritorno”, che è propria della reciprocità.

Nella prospettiva trinitaria, la mia accoglienza dell'altro e delle sue differenze non solo conferma questi nella sua specifica distinzione da me, ma “espande” il mio stesso universo esistenziale, mi «fa essere” in mi­sura maggiore, sicché la mia vita e la mia realizzazione personale risultano indissolubilmente legate all'altro. (13)

Se, poi, il riconoscimento e l'accoglienza, così come nella dinamica trinitaria, assumono il carattere della re­ciprocità, allora l'esperienza relazionale acquista una valenza qualitativa tale da fare esprimere, con autentica pienezza, ciascuno dei partecipanti. Il paradigma relazio­nale che Gesù svela all'umanità, infatti, scardina il tra­dizionale modo di concepire i rapporti fra gli uomini non solo in quanto capovolge le vecchie logiche, ma so­prattutto perché propone la relazione con l'altro come “luogo” di incontro con Dio e con se stessi.

La possibilità di penetrare nel mistero di Dio e nel mistero della mia stessa esistenza è legata all'altro, alla sua misteriosa presenza nella mia vita. Nella misura in cui la mia esistenza quotidiana si “apre” all'altro e si pone in ascolto del mistero che in lui si cela, Dio si disvela a me e, con Esso, si disvela il senso compiuto del mio vivere. Più mi «abbandono” all'incontro con l'altro e mi espongo al “rischio” di questo evento misterioso, più mi appartengo.

Questa sorta di. “sacralità” dell 'incontro con l'altro, già nota al pensiero cristiano, trova un'autorevole con­ferma non solo in alcuni filosofi contemporanei, ma anche nelle più attuali ricerche condotte nell'ambito delle scienze umane. (14)

3. La relazione con l'altro nella ricerca contemporanea

Nel corso della seconda metà del '900 l'altro e l'alte­rità sono stati molto spesso al centro della riflessione filosofica (15) Gadamer, ad esempio, esprimendo alcune sue considerazioni sul futuro dell'Europa, sottolinea che l'al­tro non è soltanto l'altro da me, cioè l'assolutamente e il radicalmente altro, ma è anche l'altro di me, cioè colui il quale partecipa della mia stessa umanità e del quale, in vario modo, io sono responsabile. (16)

Lévinas, da parte sua, pone in rilievo il forte nesso che unisce l'identità stessa dell'io con la responsabilità per altri. A suo giudizio, infatti, la possibilità che ogni essere umano ha di definire l'identità del proprio io è legata non solo alla relazione con l'altro, ma soprattutto all'assunzione, da parte dell'io, di una responsabilità eti­ca nei confronti di lui. (17)

Anche Ricoeur esplora in modo originale la dialet­tica del e dell'altro da sé, affermando che l'uomo trova il proprio senso e la propria costituzione nel rap­porto con l'altro. Egli sostiene, a questo riguardo, che l'altro non si “aggiunge dal di fuori” all'identità di ognuno, ma esso (l'altro) contribuisce a fondare, a costi­tuire e a dare senso all'identità stessa. (18)

Più di recente il filosofo cattolico Marion sottolinea come la relazione che ci unisce all'altro, l'amore, non è un aspetto periferico e secondario dell'esistenza umana, ma ne è il centro. La
soggettività individuale, a suo pa­rere, non nasce da una istanza conoscitiva (cosa posso conoscere?), ma da un bisogno relazionale (c'è qualcuno che mi ama?). (19)

Da queste riflessioni, appena accennate, emerge con evidenza, pur nella differenza dei toni, un modello antropologico che pone l'accento sulla dimensione rela­zionale dell'uomo. Non è l'individuo, ma l'essere con, l'essere umano in reciprocità l'aspetto che viene posto in maggiore risalto. La relazione con l'altro, il reciproco incontrarsi e riconoscersi, individuati come aspetti cen­trali e salienti della esperienza intersoggettiva, divengo­no, in questa prospettiva, elementi originari e costitutivi per ogni uomo.

Ciascun sé, infatti, è “rivelato” a se stesso
dall'altro e viceversa. La possibilità che il sé ha di definirsi, di delinearsi, di emergere, è legata inequivocabilmente alla concreta e reale presenza dell'altro. L'incontro e il con­fronto con il mistero racchiuso in questa presenza per­mette al sé di aprirsi al mistero di se stesso e a quello della comune origine. (20) Si profila, in tal modo, una rela­zione sé-altro scandita dalla reciprocità e dalla co-appar­tenenza, tanto da rendere ancora più comprensibile l'af­fermazione di Gadamer, prima ricordata, secondo cui l'altro è soprattutto l'altro di me.

Sul versante psicologico, durante questi ultimi de­cenni, sono in particolare le teorie evolutive e le ricer­che in ambito psico-sociale a sostenere un modello antro­pologico per molti aspetti prossimo a quello dei pensa­tori ai quali si è già fatto cenno.

Daniel Stern, ad esempio, individua nelle relazioni con l'altro il principio organizzatore primario dello svi­luppo infantile. Il delinearsi dell'identità, la comparsa del senso di sé implicano il contemporaneo delinearsi dell'altro e il configurarsi della relazione con lui. Il senso del sé viene, a giudizio di Stern, “organizzato” e in qualche modo “rivelato” al bambino dal senso che per lui l'altro assume nella relazione.

La vita psichica, nelle ricerche di questo autore si rivela profondamente connessa all'altro e alla relazione con lui che ognuno sperimenta fin dai primi anni di vita. È questa interazione con l'altro che, fin dall'inizio di ciascuna esistenza, dà origine all'esperienza del sé, fatta di emozioni, sentimenti, affetti, difficilmente sperimen­tabili fuori da un contesto relazionale.

È convinzione di Stern che soltanto attraverso il re­ciproco riconoscersi e “sintonizzarsi”, reso possibile dalla mutua condivisione della relazione intersoggettiva, gli uomini possono dominare i loro sentimenti di insicu­rezza, di solitudine, di isolamento. (21)

Secondo Trevarthen la tendenza a stabilire rapporti intersoggettivi (cioè rapporti attraverso cui è resa pos­sibile la “condivisione” dell'esperienza soggettiva di cia­scuno) è una capacità umana innata. Dalle ricerche di questo autore la relazione intersoggettiva emerge con grande evidenza come un bisogno psicologico primario. (22) La mancata soddisfazione di questo bisogno, cioè la mancata esistenza di adeguate esperienze di condivisione, provoca nel bambino il blocco di un funzionale sviluppo psicologico e nell'adulto innesca la sofferenza del disagio psichico.

Alla luce di queste considerazioni, dunque, la rela­zione intersoggettiva, in quanto esperienza di mutua condivisione e di reciproco riconoscimento, appare non solo come condizione decisiva per il benessere e lo sviluppo di ogni singolo individuo, ma si rivela soprattutto come di­mensione cardine per la sopravvivenza stessa del genere umano e per la sua ulteriore, potenziale, evoluzione.

Bruner, (23) a sua volta, afferma che la piena espres­sione dell'attività mentale di ogni uomo dipende in modo inestricabile dalla sua vita relazionale, in definitiva dal rapporto con l'altro, dal sostegno e dall'aiuto di un altro. Anche le ricerche di questo autore confermano che la mente umana sviluppa e matura la propria organizzazione attraverso l'interazione reciproca con gli altri, con menti diverse. Èattraverso l'interazione reciproca che gli inter­locutori costruiscono i significati e danno senso alle vi­cende di cui sono co-protagonisti.

Bruner concepisce il Sé e la vita di ogni essere uma­no come un “testo”, che prende forma e senso solo nella misura in cui è narrato, interpretato, reinterpretato, con­diviso, Non a caso il riconoscimento reciproco è conside­rato da Bruner come uno dei processi psicologici più importanti per l'elaborazione e lo sviluppo del Sé. Senza il riconoscimento reciproco non è possibile comunicare, elaborare significati condivisi, cogliere le intenzioni dell'altro, in una parola non è possibile la vita umana.

Il reciproco riconoscimento diventa, così, indispen­sabile per la sopravvivenza stessa della specie. Narrandosi all'altro e ascoltando le altrui narrazioni, riconoscendo l'altro ed essendo da lui riconosciuto, l'individuo non solo trova l'accesso alla propria identità soggettiva, al proprio Sé, ma modifica in modo positivo e alimenta in modo vitale la comunità a cui appartiene.

Dalle ricerche degli autori fin qui ricordati emerge con evidenza un modello antropologico molto utile alla nostra riflessione. In esso l'altro non si pone come mio antagonista, non mi contraddice, ma, al contrario, costi­tuisce il termine essenziale di un processo attraverso il quale io posso appropriarmi di me stesso e delle mie potenzialità più nascoste.

Dunque, non una relazione fatta di negazione e di insanabile conflitto, quella che mi lega all'altro, ma un rapporto di reciproca implicazione, in cui l'uno risulta indispensabile alla vita e alla crescita dell'altro. Ne consegue che, ponendoci da questa prospettiva, la piena rea­lizzazione di sé non avviene asserendo se stessi a disca­pito dell'altro o contro l'altro o nonostante l'altro, ma può aver luogo soltanto attraverso l'esperienza di condi­visione e di reciproco riconoscimento.

Tale conclusione trova interessanti riscontri persino nell'ambito della psicobiologia (24) e della neurobiolo­gia. (25) Numerose ricerche, infatti, dimostrano che le rela­zioni interpersonali hanno il potere di influenzare in modo significativo lo sviluppo delle strutture cerebrali non solo nei primi anni di vita, ma anche nel corso dell'intera esistenza umana. Mentre, al contrario, l'assenza di adeguate esperienze interpersonali può portare a feno­meni di morte cellulare e può indurre processi di inibi­zione del potenziale genetico che ogni cervello umanò possiede.

Anche in questo specifico ambito della ricerca è stato dimostrato che le relazioni interpersonali più adeguate e funzionali allo sviluppo del cervello sono quelle che crea­no momenti di significativa “corrispondenza”, che han­no cioè carattere di “reciprocità” e che rendono, quindi, possibile l'esperienza di riconoscere e di essere ricono­sciuti.

Abbiamo cercato, fin qui, di porre in evidenza quale siano lo spazio e l'attenzione che il pensiero contempora­neo e le più attuali ricerche in campo scientifico riservano alla relazione con l'altro, soprattutto sotto l'aspetto car­dine della reciprocità. Essa emerge come l'elemento no­dale e come la condizione indispensabile per lo sviluppo della mente, per la piena realizzazione di sé, per la cre­scita individuale, per la sopravvivenza stessa dell'intera specie umana.

In un passaggio epocale, come quello che stiamo vivendo, nel quale ogni possibilità di incontro sembra tragicamente preclusa, come attuare e sostenere in con­creto l'apertura all'altro? Come trasformare, nella nostra quotidiana esistenza, la relazione con l'altro in un luogo di reciproco riconoscimento e il conflitto con lui in una fonte di crescita vitale? E, in fine, come “ripensare”la santità?

Per meglio rispondere a questi non facili interrogativi, vorremmo prima soffermarci sulla testimonianza di un uomo a noi contemporaneo che, per molti aspetti, si avvicina ad un modello di santità estremamente attuale e del tutto coerente con le riflessioni che sono fino a questo punto emerse. Alludiamo a Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano, oppositore del nazismo fino all'estremo sacri­ficio della propria vita.

4. Verso un nuovo modello di santità

Bonhoeffer (26) parte da un interrogativo di fondo: Cosa è per noi oggi il cristianesimo? Cosa è per noi vera­mente Cristo?

A suo giudizio è ormai passato il tempo in cui era possibile rispondere a queste domande parlando agli uo­mini attraverso le “parole della religione”; è passato il tempo in cui era possibile rivolgersi all'interiorità e alla coscienza dell'uomo. Il tempo a cui stiamo andando in­contro è, infatti, un “tempo completamente non religio­so», in cui gli uomini non sono o “non possono più essere religiosi”, in cui le fondamenta stesse del “nostro cristianesimo” sembrano essere del tutto scalzate.

In un mondo ormai “non-religioso”, cosa significa essere Chiesa, essere comunità, vivere da cristiani, par­lare con Dio? Come è possibile, in un tale contesto, che Cristo diventi il signore anche dei non-religiosi?

Per attraversare questo tempo e per parlare agli uomi­ni di questo tempo, occorre riscoprire Cristo in un'ottica di fede totalmente rinnovata, in cui Dio si rivela nel “tu”, nella relazione con l'altro e nella responsabilità verso di lui.

Per molti secoli gli “uomini religiosi” hanno parlato di Dio come di un deus ex machina che è soluzione ai problemi insolubili, antidoto alla debolezza e ai limiti umani. Ma Dio, secondo Bonhoeffer, non sta “al di là”, dove vengono meno le capacità umane. Egli, al contrario, sta “al centro del villaggio”, dove gli uomini si incon­trano e si pongono in relazione fra loro.

Nell'epoca moderna “il mondo è diventato adulto» e Dio, inteso come deus ex machina, soccorso ai limiti e alla morte dell'uomo, è divenuto “superfluo», “inu­tile”, non più “necessario”. Dio non entra più in concorrenza con l'uomo ormai divenuto maggiorenne. Dio non si manifesta più nella sua rassicurante onnipo­tenza, della quale è possibile oggi fare a meno; ma si nasconde nel misterioso silenzio della debolezza di Cristo e di ogni uomo che incontro.

In questo mutato contesto storico e culturale, la mi­sura della santità è data dal riconoscimento e dall'acco­glienza dell'altro; la misura della responsabilità è defi­nita unicamente dalla necessità, dal bisogno, dalla sof­ferenza di cui l'altro è portatore. È da questo esclusivo “esserci-per-altri”, incarnato compiutamente da Cristo, che scaturisce la santità, “l'azione responsabile perso­nale”, l'apertura al rischio dell'incontro, il superamento della “mediocrità” borghese, il delinearsi dell'ántropos téleios, cioè dell'uomo intero, completo, che non conosce distinzione tra interiorità ed esteriorità.

Non si può essere “uomini completi” da soli, ammo­nisce Bonhoeffer, ma unicamente insieme ad altri. L'uomo intero, infatti, ponendosi davanti a Dio e all'altro, vive tanto dall'“esterno” verso l'“interno”, quanto dal­l'“interno” verso l'“esterno”. Egli non relega Dio “in qualche ultimo spazio segreto”, ma sa riconoscerLo negli eventi della vita e soprattutto nella presenza inelu­dibile dell'altro.

In questa prospettiva “non è l'atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella sofferenza del mondo”. (27) È possibile, dunque, continuare, in un mondo “non-religioso”, a testimoniare Cristo, a parlare di Dio, soltanto se si è capaci di “essere­aldiquà” della vita, cioè capaci di essere-per-altri, stando pienamente radicati nella propria concreta quotidianità.

L'autentica trascendenza è l'esserci-per-altri mostrato e incarnato da Gesù. Solo dall'esserci-per-altri fino alla morte nasce l'onnipotenza e l'onniscienza. Il rapporto con Dio, nella riflessione di Bonhoeffer, non è il rapporto con un essere astratto e lontano, benché il più alto e potente che si possa pensare, quanto piuttosto una nuova vita che si sostanzia concretamente nell'esserci-per-altri, partecipando così all'esserci stesso di Gesù.

Il trascendente, secondo Bonhoeffer, non è l'irrag­giungibile, ma il prossimo che è dato di volta in volta e che è raggiungibile: «Dio in forma umana! Non il mo­struoso, il caotico, il lontano, l'orribile in forma di ani­male, come nelle religioni orientali; ma neppure nelle forme concettuali dell'assoluto, del metafisico, dell'infi­nito ecc.; e neppure la greca forma divino-umana dell'uomo in sé; bensì “l'uomo per altri” e perciò il cro­cifisso”. (28)

Il cristiano (come la Chiesa) è soltanto se esiste per altri: è questa la convinzione che Bonhoeffer esprime at­traverso acute riflessioni teologiche, ma soprattutto testi­monia attraverso un coraggioso impegno in difesa della dignità umana, gravemente negata dalla follia nazista.

La lezione di Bonhoeffer ci orienta decisamente verso un suggestivo e più attuale modello di santità, che nella relazione con l'altro trova il suo principale criterio di riferimento e la sua esigente misura. Alla luce di queste preziose intuizioni, come “rivisitare” in modo nuovo i nostri rapporti con gli altri? E, in particolare, come reinterpretare le dinamiche conflittuali, i blocchi emotivi e le molteplici disfunzioni che quotidianamente sperimen­tiamo nei nostri contatti interpersonali?

5. Il conflitto come luogo d'incontro e di accoglienza

L'irripetibile unicità di ogni essere umano si esprime continuamente attraverso la sua diversità. I contorni del­la sua singola individualità si delineano attraverso il suo differente modo di sentire, di valutare, di percepire. Potremmo dire, al riguardo, che non può esserci iden­tità individuale senza diversità. Allo stesso modo non può esserci autentico dialogo o vera integrazione se non a partire dall'esistenza della diversità. (29) Non a caso, ad esempio, san Francesco amava descrivere il frate perfetto, integrando fra loro le diverse caratteristiche dei suoi primi compagni, additando quale modello da imitare la fede e la povertà di Bernardo, la semplicità e la purezza di Leone, la cortesia di Angelo, il buon senso di Masseo, la pazienza di Ginepro. (30)

Ma la diversità non è solo fonte di dialogo e di inte­grazione. Essa, inevitabilmente, porta con sé anche la separazione, la distanza, il conflitto. È soprattutto nel conflitto che la presenza dell'altro e la sua diversità di­ventano per noi particolarmente misteriose, si trasfor­mano in una realtà del tutto incomprensibile ed inaccet­tabile.

Ogni volta che sperimentiamo una relazione conflit­tuale con l'altro, egli ci appare puntualmente in tutta la sua radicale “differenza” da noi, e questo lo rende ai nostri occhi distante, estraneo, quasi un nemico ostile a cui contrapporsi con forza. Qualsiasi contesto sociale o comunitario, prima o poi, non tarda ad esprimere si­tuazioni di conflitto che rendono estremamente difficile la possibilità di rapportarsi con l'altro. (31)

Posti di fronte al conflitto, ci difendiamo da esso re­lazionandoci con l'altro in modo non autentico, negando, accusando, aggredendo secondo modalità palesi o masche­rate. Le situazioni di conflitto ci rendono inevitabilmente più vulnerabili, riducono la nostra funzionalità psichica, aumentano la nostra autodifesa, ci spingono con più faci­lità al giudizio e alla chiusura, producono una sorta di “cecità relazionale” che ci impedisce di “vedere” realmente l'altro.

Ciascuno dei contendenti inizia a “leggere” e a “pun­teggiare” la realtà in maniera diversa dall'altro non interpretando in maniera corretta i messaggi che riceve o non fornendo adeguate informazioni al suo interlocu­tore. Una “punteggiatura» arbitraria e faziosa degli eventi rende l'interazione conflittuale ancora più confusa e ambigua.

Tale arbitrarietà, poi, è spesso alimentata dall'imma­gine che ognuno ha di sé, dalle paure e dalle ferite che la sua storia personale gli ha lasciato in eredità. Sicché, non di rado, la percezione che si ha dell'altro risulta for­temente deformata dalle nostre stesse fragilità, dalle no­stre “proiezioni”. Da questo punto di vista il conflitto con l'altro, prima ancora che manifestarci la sua diversità, ci permette di prendere contatto con le nostre parti vul­nerabili e con i nostri problemi irrisolti, cioè con l'estra­neo che è in noi.

A motivo di ciò, il conflitto costituisce un momento molto importante sia per il migliore sviluppo dei rap­porti interpersonali, sia per la crescita della singola per­sona. Il conflitto con l'altro, infatti, non solo mi «ob­bliga” a prendere atto della sua radicale diversità, ma soprattutto mi costringe a guardare i limiti della mia condizione, che in questa “presa d'atto” emergono.

Nel conflitto sperimento in modo inedito l'estraneità ostile dell'altro, ma anche l'estraneità ostile di quella parte di me stesso che ho estromesso dalla mia consape­volezza. Lo “straniero” che incontro fuori. di me, in definitiva, ha molto a che vedere con lo “straniero”che abita dentro di me e col quale ostinatamente rifiuto di confrontarmi. (32)

Il travaglio di ogni conflitto è dovuto non solo alla faticosa accoglienza della diversità altrui, ma anche alla sofferta riappropriazione di parti della nostra identità per lungo tempo estromesse o rifiutate (fantasmi del passato, paure antiche, fragilità emotive ecc.). Il conflitto con l'altro si alimenta non solo di problemi “esterni”, reali e obiettivamente rilevabili, ma anche di problemi «in-terni», ancora aperti e insoluti, che ognuno di noi si porta dentro, insieme al timore di affrontarli.

Visto da questa prospettiva, il conflitto diventa il luogo dove “aprirmi” all'accoglienza dello “straniero”, interno ed esterno, oppure il luogo dove posso perpetuare la sterile chiusura verso i miei limiti, proiettandoli all'in­finito sull'altro che ho di fronte.

Il conflitto diventa insolubile e distruttivo quando “sacrifica” una delle parti in causa, quando culmina nell'annullamento di essa e nella sua “cancellazione”. Al contrario, la dinamica conflittuale si compone e si rivela indispensabile momento di crescita quando si tra­sforma in occasione di “reciproco riconoscimento” e di “vicendevole accoglienza»; quando, cioè, ciascuno dei contendenti è capace di prendersi cura della propria di­stinzione e al contempo sa come “ospitare” la diffe­renza irriducibile dell'altro.

Ciò che rende difficile la composizione di ogni con­flitto è, tuttavia, il fatto che in esso sperimentò la “ne­gatività” del limite che grava sulla condizione umana, mia e altrui. La “finitudine” in me si manifesta sotto forma di istanza sempre aperta, di bisogno sempre insod­disfatto; mentre nell'altro si palesa puntualmente come incapacità a comprendermi definitivamente.

Ma è proprio questa finitudine che fonda e rende possibile il dono di sé, l'apertura all'altro, la trasforma­zione di ciò che si oppone a me e mi limita in luogo di comunicazione e di condivisione. Il fatto che la negati­vità del limite sia possibilità di reciproca apertura, di incontro, di vicendevole dono di sé, non è una teoria, né un astratto postulato, ma una persona: Gesù. In Gesù ogni finitudine umana viene trasformata in “porta di ac­cesso all'altro”, in luogo di incontro “dal basso” fra Dio e l'uomo, fra l'uomo e l'uomo. (33)

Lo scacco del primo Adamo è essenzialmente uno “scacco dei rapporti umani”, che porta in sé l'impos­sibilità di comunicare, di sanare i conflitti, di pervenire ad una comunione piena. Nel primo Adamo si mani­festa una esperienza relazionale monca, sbiadita, in-compiuta. Solo nel secondo Adamo la relazione viene svelata all'uomo in tutta la sua potenzialità e pienezza. (34)

Introducendo la dinamica trinitaria nei rapporti uma­ni, Gesù sollecita la libertà dell'uomo ad “autolimitarsi”per donarsi all'altro, per farlo essere e per farlo, a sua volta, capace di autodonarsi, in una continua “relazione di reciprocità”, che è il novum da riscoprire. Gesù ci rivela, infatti, una verità che ancora oggi appare lontana dall'essere stata compresa e cioè che l'altro “mi fa essere” e io, a mia volta, sono nella misura in cui af­fermo l'altro. (35)

Tale verità può essere colta in tutta la sua immensa profondità solo se ci accostiamo a Gesù sapendo che il suo “modo di essere uomo” discende direttamente dalla Trinità. Egli, infatti, è un dono che il Padre fa a noi uomini per comprendere come diventare «uomini inte­ri”. Gesù, però, è un “donato” che, a sua volta, ci fa un suo dono: l'Eucaristia, (36) modello e chiave di lettura di ogni relazione umana.

6. L'Eucaristia come chiave di lettura dei rapporti interpersonali

L'Eucaristia, il dono del “donato”, racchiude in sé lo stesso mistero di Gesù e ci indica costantemente lo stes­so cammino che Egli ha fatto: “dono - sacrificio -risurrezione/comunione”. La celebrazione eucaristica è la celebrazione del modo di essere uomo che Cristo ha incarnato nella storia, facendosi dono fino al sacrificio di sé sulla croce, fino all'abbandono del Padre, per poi giungere alla risurrezione. Nell'Eucaristia si ripropone quotidianamente a noi la vicenda di Cristo che, Crocifisso e Abbandonato, risorge nell'unità e nella comunione pie­na con il Padre, facendosi modello, mai completamente compreso, del nostro modo di rapportarci con l'Altro e con gli altri. (37)

Quando inizia un'importante relazione di amicizia o un coinvolgente rapporto di coppia o, ancora, una si­gnificativa esperienza di comunità, l'altro ci appare at­traente e luminoso, una risorsa della quale non potremmo fare a meno, un “salvatore” in grado di ascoltarci sem­pre e di capirci compiutamente. Desideriamo, per questo, stare con lui e con lui condividere ogni cosa che ci ap­partiene. A lui ci piace donare il nostro tempo, la nostra attenzione, noi stessi.

Successivamente, però, l'altro inizia a deluderci, non risponde più alle nostre aspettative, perde l'iniziale lumi­nosità, ci mostra, in tutta la loro crudezza, i suoi limiti. È il difficile momento che ogni rapporto attraversa e nel quale viviamo la morte dei nostri sogni, delle nostre attese, dei nostri progetti. Il dono, prima spontaneo e irrefrenabile, adesso si trasforma lentamente in duro e amaro sacrificio. L'apertura all'altro, che prima agivamo con gioiosa impazienza, adesso diventa una pesante sof­ferenza da cui fuggire. Intesa diventa la tentazione di “evadere” dalla relazione o di “rassegnarsi” passiva­mente ad essa.

La via che porta alla “rifondazione” del rapporto con l'altro si intraprende quando siamo capaci di assu­mere in prima persona i nostri bisogni; quando rinun­ciamo per sempre a quello che dall'altro avremmo voluto e che lui non ci ha potuto o saputo dare; quando siamo in grado di elaborare la nostra rabbia e il nostro risenti­mento, aprendoci così, nel perdono, ad un rapporto reale e creativo. L'altro, nella fase della “rinascita”, diventa allora amico della nostra solitudine, fratello del nostro limite, compagno di una rinnovata crescita.

Tutte le relazioni umane, pur nel loro molteplice con­figurarsi, presentano una costante dinamica che si arti­cola nei passaggi prima ricordati: la fase in cui predo­minano l'amore che dona e l'amore che riceve; la fase in cui subentrano il limite, la delusione, l'amore che muore; la fase in cui la relazione finalmente risorge, ridi­ventando comunione piena ed autentica. Si tratta della medesima dinamica che l'Eucaristia ci ripropone, cele­brando la morte e la risurrezione di Cristo.

Ogni patologia della relazione umana (crisi di cop­pia, conflitti familiari, tensioni all'interno di una comu­nità ecc.) è sempre riconducibile ad una nostra “stanchezza” o ad un nostro “ritardo” nei confronti del mistero racchiuso nella morte e risurrezione di Cristo. Le relazioni umane possono pervenire alla loro pienezza solo se vengono percepite e vissute da noi come una realtà che partecipa della vita trinitaria e ad essa costan­temente si apre.

Il rifiuto di questo mistero, invece, porta con se la chiusura e la fuga dall'altro, provoca l'inaridimento no­stro e di ogni rapporto di cui siamo protagonisti. In ogni momento della nostra giornata possiamo scegliere di mo­rire per amore, per costruire una comunione autentica con l'altro, o possiamo scegliere di morire per miope sterilità, per arida chiusura in noi stessi. Posto di fronte a questo continuo dilemma, ciascuno di noi trova nell'Eucaristia un forte richiamo a vivere i rapporti umani in una «logica nuova”, quella di Cristo.

In questa prospettiva, l'Eucaristia non rimanda ad una intimistica e solipsistica unione con Dio, ma ad una comunione con Lui che costantemente è generata dal rap­porto con l'altro. Quando ci nutriamo dell'Eucaristia, viene nutrita in noi la capacità di accogliere l'altro, di fecondare in vita ogni momento di morte che l'altro ci procura ferendoci o deludendoci.

Mentre ci trasforma in Cristo, facendoci “altri Lui”, l'Eucaristia ci rende fertili nella nostra vita relazionale, ci fa protagonisti di rapporti liberi e liberanti, riempie di senso l'amore e la morte che ogni giorno sperimentiamo vivendo accanto all'altro.

7. Alcune considerazioni conclusive

L'uomo del nostro tempo potrà risorgere dalle ceneri della cultura occidentale se saprà incarnare questo “nuo­vo” modello relazionale che Gesù propone e che ruota interamente attorno alla “reciprocità”. Non solo io rico­nosco e accolgo l'altro da me, ma questi, a sua volta, riconosce e accoglie me. La mia e la sua identità si espri­mono, senza per questo negare la comunione. La “rela­zione di reciprocità” si profila così come esperienza nella quale possono insieme coesistere e svilupparsi personalità singola e comunione.

La comunione è una “realtà terza” che si stabilisce e si consolida a partire dalle due personalità singole che si “riconoscono” e si “accolgono” nella piena “reci­procità”. Si tratta di una “realtà terza” che non è né in me, né nell'altro, ma “tra” me e l'altro. Ed è in questo “tra”, (38) in questa “realtà terza”, che trova spazio «la presenza di Cristo” nella storia dell'uomo. (39)

Quella reciproca non è una relazione qualsiasi. Essa presenta caratteristiche che la configurano come un esito ulteriore e qualitativamente specifico della relazione in­terpersonale. La reciprocità nel riconoscimento e nell'ac­coglienza dell'altro, nel dono e nella comunicazione di sé, dischiudono un nuovo modo di stare insieme, di vivere-con-l'altro, in cui è racchiusa tutta la novità della “rela­zione cristiana”, intesa come incarnazione della “rela­zione trinitaria”.

Una delle personalità più rappresentative della spi­ritualità contemporanea, Chiara Lubich, sostiene che si va a Dio non solo attraverso l'altro, essendo-per-l'altro, ma anche «insieme” all'altro, “con” l'altro. (40)

Tale intuizione trova conferma nella Novo millennio ineunte, soprattutto laddove il Santo Padre sottolinea la necessità di promuovere una “spiritualità di comu­nione” che sia capace di permeare la vita della Chiesa a tutti i livelli: fra i Vescovi, fra le diverse vocazioni, fra i membri di ogni famiglia, in ciascuna comunità. È in questa prospettiva che la Chiesa diventa “casa e scuola di comunione».

Una comunione che nasce dalla capacità di sentire l'altro “come uno che mi appartiene, per saper condivi­dere le sue gioie, le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia”. (41) Ogni forma “esterio­re” di comunione risulta vana ed inutile senza una auten­tica “spiritualità di comunione”, capace di «fare spa­zio” all'altro in una costante e viva reciprocità. La stessa celebrazione eucaristica, colta da una prospettiva comunitaria, diventa il momento nodale per una rigene­razione radicale e permanente dei rapporti fraterni.

Il nuovo millennio, ricorda il Santo Padre, dovrà vederci impegnati a sviluppare ogni ambito e ogni stru­mento necessari a garantire e ad assicurare la comunione, il “vivere-con”, Se tale esortazione vale per ogni co­munità cristiana, essa ha un valore ancora più specifico e particolare per le comunità religiose, come in più pas­saggi viene ricordato nel documento Congregavit nos in unum Christi amor.

Se in un lontano passato la via alla santità era soprat­tutto una via “individuale”, fatta di isolamento ascetico dal mondo e di mortificazioni corporali, nel corso del secondo millennio diventa sempre più nitido un nuovo modello di santità, attento alla sofferenza del prossimo e tutto imperniato sull'essere- per-l'altro.

In questa ottica si diventa santi non allontanandosi dall'altro, isolandosi da lui, sfuggendolo, ma attraverso di lui, essendo per lui. È una scelta di vita che traspare ampiamente nell'esistenza eroica di tanti Padri Fondatori, i quali hanno saputo negli ultimi secoli testimoniare l'amore e la predilezione della Chiesa per gli ultimi.

La tensione alla vita comunitaria, espressa oggi da diversi movimenti di spiritualità, le energiche esortazioni che emergono dalla lettera apostolica Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II, ribadiscono l'esistenza di un terzo modello di santità. In esso la via alla santità non solo ruota intorno alla presenza dell'altro ed è scan­dita dall'essere per l'altro, ma soprattutto è percorsa con l'altro, in sua compagnia, insieme a lui e in comunione con lui, in un rapporto di piena e continua reciprocità.

È nota la famosa affermazione del teologo Karl Rahner, secondo cui il cristiano di domani o sarà un mistico o non sarà. (42) L'esperienza mistica di Dio alla quale egli allude è quella che può fare solo chi ama l'altro, il suo prossimo. “Penso - afferma Rahner - che in una spiritualità del futuro l'elemento della comunione frater­na, d'una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinante, e che lentamente ma decisa­mente si debba proseguire lungo questa strada”. (43)

Una vita di comunione, interamente originata e ali­mentata dall'amore reciproco, costituisce di certo la via alla santità del nuovo millennio; la sola che possa testi­moniare Cristo ad un mondo ormai divenuto "non religioso”; la sola capace di coniugare insieme l'asserzione della personalità individuale con l'appartenenza ad una comunità, di integrare armoniosamente le molteplici dif­ferenze nell'unità.

La “santità di comunione” si svela, a questo punto, non solo come una via di “riedificazione” della Chiesa contemporanea, ma soprattutto come l'unico percorso possibile attraverso il quale operare oggi quel “salto”evolutivo che permetta all'umanità di “assimilare” nella sua storia, in modo definitivo, la presenza di Cristo, l'uomo intero.

(tratto da AA.VV., Protesi verso il futuro… per essere santi, Roma 2003, pp. 105-132).


Note

(Per motivi di spazio le note sono pubblicate a parte).

L’immagine del religioso e della religiosa del secolo XXI che desidero presentare la sintetizzerei in otto tratti fondamentali, a cui si è giunti dopo le esperienze fatte, gli errori e le esagerazioni commessi e le nuove linee di forza che sono maturate.

Martedì, 13 Marzo 2007 02:10

Scrutatori di nuovi orizzonti (Rino Cozza)

LA SPERANZA PER UN FUTURO POSSIBILE

Scrutatori di nuovi orizzonti

di Rino Cozza csj


Realizzare un progetto di vita innovativo significa pensarsi in modo nuovo per poter pensare il nuovo; ma ciò non è possibile se si deve fare riferimento a realtà nate nel contesto di quella cultura secolare in cui ciò che in quel tempo è percepito come “verità” assume il carattere di immutabilit
à.

Anche nella nostra vasta area geografica, imprevedibilmente, stiamo assistendo a una inaspettata vitalità delle forme di vita evangelica delle quali la vita religiosa ne è un particolare modello. Numerose sono le nuove fondazioni, che esprimono una incuriosente vitalità, sorte in questi ultimi decenni, la cui forma aggregativa è originale rispetto alle canoniche. Il fine primario – che è quello di rendere attuale la presenza di Cristo e la sua missione sanante – è comune a tutte queste e alle forme di antica fondazione.

Quanto sta avvenendo ci induce a essere attenti scrutatori di orizzonti ove convergono le linee dei tramonti e delle aurore.

SPERANZA E RICOLLOCAMENTI RICHIESTI

Si tratta di rispondere alla domanda: che cosa debbo fare per avere la vita?” consapevoli che le risposte del Signore sono sempre all’interno di un dato contesto culturale e storico.

In alcuni interventi dello scorso anno, su questa rivista, mi ero soffermato nel dire che la speranza era riposta nella capacità di riacculturare la spiritualità, che non significa soltanto diventare più spirituali ma avere la capacità di marcarla con le attuali coordinate di vita e di ridirla con il linguaggio di coloro a cui ci si rivolge, non essendo più sufficiente quello delle nostre origini. Secondo: che per poter essere fermento la vita religiosa deve cercare spazi nel dinamismo della vita ecclesiale, impastandosi con le altre vocazioni. E ancora: rispondere alla istanza di fraternità, vale a dire alla esigenza di passare dall’essere “confratelli” all’essere “fratelli” per una esperienza spirituale vissuta insieme, in funzione del divenire “creatura nuova” nell’oggi, non estranea alla maturazione delle esigenze che vanno meglio a esprimere autenticamente la persona.

Ora, nella attuale riflessione enucleo altri “semi” in cui è riposta la speranza.

Nel passato, per i Religiosi/e l’identità era data per lo più da ciò che facevano, ora – e questo è stato detto più volte e da più parti – le opere apportano pochissimo all’identità: «Questo fatto può essere letto come un segno provvidenziale che invita a recuperare il proprio compito essenziale di lievito, di fermento».(1)

NUOVE TRACCE DI SENSO

È tempo dunque di passare dalle opere alle sfide e di accogliere in particolare le povertà a cui nessuno risponde. Dire questo non significa preclusione a ogni tipo di opera ma a quelle che non sono trasparentemente strumento in funzione delle sfide. Come andare avanti non frenati da verità virtuali (non nel senso teologico) espresse con parole senza senso per l’attuale sensibilità culturale? La chiave è nella capacità di inventiva o creatività, che significa capacità di produrre nuove rappresentazioni dei problemi e delle soluzioni; di rifigurare a ogni appello i propri sistemi organizzativi e mentali ricollocando dinamicamente l’identità a misura del bisogno per poter porre il Vangelo nell’oggi della storia. Creatività è la capacità di proporsi dei progetti che siano passibili di continuo adattamento ai bisogni sempre nuovi. Tutto ciò può essere prodotto da quei gruppi capaci di pensare mondi possibili, spinti dal sogno, vale a dire da un valore intravisto e sostenuto da una positiva emozione e dalla voglia di “esserci”, perché nessun valore entra nella vita della persona se questa non ha partecipato a costruirlo. Il futuro è «in piccoli gruppi di giardinieri che si sostituiscano ai notai»,(2) e in “spazi” che consentano di liberarsi da eccessive pressioni di conformità per poter essere grembo fertile di significati nuovi in riferimento a un valore, in grado di inventare nuove forme di vita individuale e collettiva.

BISOGNA DE-ISTITUZIONALIZZARE

Ogni fondatore, al gruppo di iniziatori ha dato il nome di “famiglia” religiosa; con il passare di pochi decenni lo stesso gruppo si è ritrovato “istituto” religioso, non solo per esigenze di diritto canonico ma per un processo naturale che si chiama istituzionalizzazione. Il carisma nasce da una inedita e libera azione dello Spirito, l’istituzione viene in aiuto con la sua funzione di volano che è quella di immagazzinare la forza dinamica delle origini per riproporla via via nel cammino della sua storia. Il momento però diventa critico quando finisce un’epoca, per il fatto che il volano (istituzione) non è capace di disimparare per apprendere. Quando sopravvengono nuovi contesti l’originalità di ispirazione deve essere tutta incentivata dai nuovi orizzonti sociali ecclesiologici e antropologici e non solo dai “saperi” immagazzinati dal “volano”. Certamente i termini carisma e istituzione non sono in contrapposizione, ma è altrettanto certo che il loro rapporto rimane sempre dialettico e che in ogni caso l’istituzione è in funzione del carisma e non viceversa. La storia di san Francesco è quasi il paradigma di questa conflittualità permanente tra carisma e istituzione, tra VR come segno profetico e VR come modello istituzionale (3) Non è certo possibile prescindere dalla dimensione istituzionale essendo questa un rilevante patrimonio di memoria e intelligenza ma è altrettanto vero che un carisma nato in controtendenza, estemporaneo alle norme sociali ed ecclesiali finisce dall’essere da queste “normalizzato”. Per poter abitare il futuro la vita religiosa dovrà ricomporre l’equilibrio ora sbilanciato sulle norme. G. Riglet, un sacerdote belga vicerettore dell’università di Lovanio, sintetizza bene questo punto: i nostri contemporanei vogliono senso, sì, ma rifiutano l’esorbitante pensiero normativo. E la Chiesa fa fatica a produrre senso senza produrre norme. Ecco la straordinaria conversione che è chiesta alla vita religiosa. E capisco che sia un cambiamento vertiginoso: proporre senso senza rinchiuderlo. Un senso che dia respiro”. (4)

Che dire di varie nuove comunità monastiche che nella riplasmazione di nuovi modelli hanno scelto di non far parte dell’ Ordo monasticus per dar vita a un monachesimo nella Chiesa locale? In effetti realizzare un progetto di vita innovativo significa innanzitutto pensarsi in modo nuovo per poter pensare il nuovo, il che non è possibile se si deve fare riferimento a realtà nate in contesto di quella secolare cultura secondo la quale ciò che in quel tempo è percepito come “verità” assume il carattere di immutabilità.

CARISMA CONDIVISO CON LE ALTRE VOCAZIONI

Questo discorso – è bene riproporlo – è presente nello strumento di lavoro del Congresso 2004 dove si dice che «si sta definendo un nuovo modello di vita consacrata attorno a nuove priorità, nuove forme organizzative e di collaborazione aperta e flessibile con tutti gli uomini e le donne di buona volontà». (5) Nel processo rifondativo il punto di partenza dei religiosi è l’accoglienza di alleanze come una questione radicale dell’esistenza consapevoli che un sistema chiuso va verso l’entropia e l’asfissia: laici e religiosi sono due polmoni che favoriscono la dinamica respiratoria. (6) La maggior parte delle nuove forme di vita evangelica – come già ho avuto modo di dire in un altro articolo – adotta, in funzione del carisma, la forma di realtà concentriche che consiste nel diverso livello di partecipazione e di appartenenza. Al centro c’è un cerchio più piccolo che sceglie a tempo pieno la forma della consacrazione, stabilendo vincoli giuridici stretti con l’istituzione. Radialmente poi ci sono cerchi sempre più ampi, formati da quelli che si riconoscono nell’ispirazione carismatica in forme di impegno diversificato. Nella strategia delle realtà concentriche dunque sono possibili livelli di maggiore o minore prossimità integranti l’unico carisma in modo differenziato, dinamico e progressivo.(7) Da tale forma organizzativa è derivata, anche, la fortuna dei movimenti. Per parte dei laici e dei religiosi partecipare a uno stesso carisma significa, assumendone la globalità, condividerlo in qualche suo aspetto, come parte di un tutto con il quale confrontarsi, integrarsi, sistematizzarsi, senza “confondersi”, a partire dal presupposto che come religiosi «non solo abbiamo qualcosa da dare ma anche molto da ricevere», specialmente quello di riesprimere in situazione di secolarità il nostro bagaglio spirituale a partire dalla consapevolezza che le risposte di ieri non bastano più.

Segno di un carisma che ha fatto la scelta della integrazione è dato dal sentire che ognuno cresce nell’esercizio dello scambio di doni che sono quelli della laicità e della consacrazione. Allora per carisma condiviso si intende una realtà nuova «in cui si dilata e si arricchisce il carisma spirituale e apostolico del fondatore». Questa è grande novità: la ricchezza di un carisma che si manifesta in pienezza quando si concretizza nei diversi modi di vivere la vita cristiana e fa maturare una comunione di vocazioni. Quanto espresso conduce a dire che il carisma nelle sue due dimensioni, spirituale e apostolica, per poter essere dono alla Chiesa nella pienezza delle sue potenzialità, non soltanto concede spazi ma necessita di complementarietà.

CARISMI D’ISTITUTO IN COMUNIONE TRA LORO

L’immagine comunionale della Chiesa è centrale nella teologia del Vaticano II. È interessante quanto fa notare al riguardo Von Balthasar secondo il quale il termine communio, dal punto di vista filologico può derivare da cum-munio che significa difendersi insieme, fare corporazione, oppure, altra lettura, da cum-munus, che vuol dire mettere insieme i propri doni, due significati che non si oppongono. S. Paolo si esprimerebbe così: “a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1 Cor 12,4-5). C’è come una tensione nella Chiesa, cioè un movimento incessante: dalla diversità all’unità, dall’unita alla diversità. La diversità senza l’unità porta alla frantumazione, al caos; l’unità senza la diversità porta alla massificazione, quindi all’inerzia, alla paralisi nella Chiesa. L’esortazione apostolica Vita fraterna in comunità parla di indebolimento della fraternità nella Chiesa originata dalla “scarsa qualità della fondamentale comunicazione dei beni spirituali. Ogni carisma è rilevante, perché dono della Trinità alla Chiesa per il mondo, tanto che non è possibile immaginare di esaurirlo all’interno della propria vocazione. I carismi, per manifestarsi pienamente, devono far leva sulla condivisione perché sono doni che non appartengono esclusivamente a chi li detiene. Condivisione di carismi significa scambio reciproco di un qualcosa che non si possiede come proprietà privata ma come dono da ricevere e donare.

Allora è tempo di un ripensamento creativo circa le relazioni tra carismi, perché la Chiesa non può essere «un supermarket di valori (carismi) ma un’unica grande comunione, a somiglianza trinitaria». Questa comunione non significa sfondersi ma prendere coscienza della propria identità per aprirsi all’alterità, diversamente ci si consegna a un inevitabile destino di estraneità e diversità, con la conseguenza che un dato carisma diventa insignificante.

In conclusione si può dire: la vita religiosa non è soltanto in funzione dell’annuncio dell’aldilà atteso, ma è costituita perché l’aldilà sia presente nella storia con sforzi di prefigurazione, di profezia reale, di storie vissute, in funzione dell’avere più vita. Per questo uno sceglie di consacrarsi: per avere la vita in abbondanza, certamente secondo logiche evangeliche, che però oggi si calano su un concetto di persona evoluto secondo alcune istanze antropologiche in precedenza misconosciute. Da questi presupposti «sorgono da ogni parte nuove proposte – particolarmente dal laicato – che per la loro spontaneità e il loro entusiasmo di gioventù, tracciano un sentiero dinamico e stimolante».(8) La maggior parte degli iniziatori sono laici e come tali portano all’interno della consacrazione la sensibilità ai valori terreni, specie la gioia dello stare assieme, l’amicizia.

Per quanto riguarda la VR quali gli ostacoli alla speranza di futuro? Il Congresso 2004 avvisava del pericolo in atto di investire il più delle forze sul possibile del “già” piuttosto che sul possibile del “non ancora”. È l’istinto di autoconservazione, di autodifesa di fronte all’incertezza del futuro (9) che porta a cogliere la propria identità prevalentemente dal tempo precedente: ma questo è come volere che un giovane in fase evolutiva leghi la propria identità nel passato. La preoccupazione del “già” induce a operazioni di ordinaria manutenzione, deboli in tempi in cui non sono neppure sufficienti i lavori di straordinaria manutenzione ma necessita mettere mano alle fondamenta della “casa”.

Le prospettive di futuro chiamano in causa il tipo di formazione dei consacrati. Perché tanti insegnamenti non generano apprendimento? M. Guzzi risponde così alla domanda che lui stesso si pone: «perché l’apprendimento è inteso come trasmissione di informazioni e non come ristrutturazione di significati e muove da una concezione individuale e non relazionale, nega dimensioni come le emozioni, il tempo, l’ambiente… Ciò avviene perché la maggior parte di coloro che insegnano, lo fanno in base a quello che hanno imparato quando sono stati allievi. Lo stile è quello indicativo di nozioni certe, lineari, e aconflittuali.

Al centro della formazione non c’è la creatività ma la ripetitività, mentre è un processo continuo di definizione e ristrutturazione del significato”. (10) Da quanto detto si può presumere che usciranno dall’attuale situazione critica quelle forme di VR che sapranno cogliere il momento presente come parola di Dio iscritta nella odierna storia di salvezza e con quella sollecitudine che solo la novità può alimentare, senza cedere alla tentazione di racchiuderla negli schemi cristallizzati di un sistema culturale che ci portiamo dietro perché “fedeli” a logiche di quel tempo che non c’è più.

Note

1) Ripartire da Cristo (n. 13).

2) M. Guzzi.

3) P. Arnold.

4) M. Guzzi in Servitium, Bergamo 2000, pag. 169.

5) Instrumentum laboris, Congress 2004 n. 73.

6) P. Generale Fatebenefratelli.

7) J.B. Libanio.

8) S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline p. 111.

9) F. Ciardi.

10) M. Guzzi.

(da Testimoni, 15 settembre 2006 n. 15)

Come disciplinare la vita
(esperienza spirituale monastica)

di P. Adriano Dall'Asta OSB


Premessa

Non è facile affrontare in modo esauriente tutta la ricchezza di stimoli provenienti dal tema proposto: "Come disciplinare la vita". Occorrerà quindi necessariamente operare delle scelte tralasciando inevitabilmente qualcosa.

Un altro aspetto da tener presente all'inizio di questa riflessione è la "terminologia": "disciplina", "disciplinare" sono vocaboli che noi moderni usiamo dandone un'accezione generalmente giuridica, normativa, anzi molto spesso ricordano qualcosa di duro e di penoso necessario, d'altra parte, per crescere. Nella vita religiosa (o "vita consacrata") all'interno del Cristianesimo ed in modo particolare nel Cattolicesimo, questa parola è addirittura passata ad indicare una precisa pratica ascetica penitenziale (la flagellazione), e questo praticamente fino al Concilio Vaticano II.

In origine, nel senso latino classico e presso i primi scrittori cristiani (Tertulliano, Cipriano, Agostino...) il termine indicava insegnamento, educazione, modo di vivere, dottrina, usanze, regola di vita, ordine e, di conseguenza anche l'insieme di correzioni e di pene atte a garantire l'attuazione di tutto questo (cfr. latino "Disco" = imparo, da cui "discipulus" = discepolo).

In ambito monastico questo linguaggio si affermò facilmente data la struttura stessa della vita in comune, ma col tempo si accentua l'accezione di "castigo", soprattutto col finire dell'epoca patristica, pur trovandosi autori che usano il termine in senso spirituale o intellettuale (Guglielmo di St. Thierry).

Verso la fine del sec. XIII il termine cessa di arricchirsi e designa solamente la buona condotta.

Per la riflessione sul modo in cui il Monachesimo cristiano può costituire una "disciplina di vita", mi rifarò pertanto allo sfondo biblico e tradizionale dei primi secoli della Chiesa per metterne in luce la dimensione spirituale e morale positiva.

Le parti di questa relazione:

1. Il "Vangelo": norma suprema di vita cristiana e annuncio di libertà.

2. Il Monachesimo cristiano: realizzazione concreta del vangelo..

3. La Regola di S. Benedetto (RB): un modo per "disciplinare la vita".

1. Il "Vangelo", norma suprema di vita cristiana e annuncio di libertà

Il Cristianesimo è racchiuso sostanzialmente in una frase scritta nel Vangelo di S. Marco (1,15): "Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo". VANGELO significa "buona notizia" per l'uomo da parte di Dio. Se è un lieto annuncio significa che Esso contiene una risposta (una Parola) per una situazione in cui c'è l'attesa di una salvezza.

Tutta la narrazione della vita di Gesù Cristo, nei 4 Vangeli (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) e in tutti gli scritti del Nuovo Testamento vuole dimostrare che Gesù stesso è questa "buona notizia" per l'uomo: in Lui Dio, Creatore e Padre dell'umanità, si è definitivamente rivelato, si è fatto conoscere nel suo Amore eterno.

C'è un'altra pagina del Vangelo, di Luca, questa volta (4,16-21), in cui è spiegato in cosa consiste questo lieto annuncio. Gesù si presenta, in mezzo ai suoi compatrioti, come l'inviato del Padre, il Messia (l'Unto = il consacrato), venuto per liberare l'umanità da ogni forma di schiavitù annunciando la Grazia del Signore, cioè la sua Misericordia. Accogliere Gesù Cristo, credere in Lui, nella sua Parola e cambiare per mezzo suo, significa FEDE. La fede fa diventare di conseguenza FIGLI di DIO (Giovanni, 1,12-13), cioè partecipi della stessa Vita di Dio. Ma vivere in questa fede, cioè essere “Cristiani”.. da atto iniziale personale (ascolto, illuminazione) deve continuare attraverso il seguire il Signore Gesù ogni giorno nella vita (Luca 9,23...) sorretti dalla forza della Sua Parola che provoca di conseguenza alla CONVERSIONE, cioè alla disponibilità quotidiana a lasciare il male, l'egoismo che sempre ci accompagna. Da qui il senso della "rinuncia" essa non è solo frutto della volontà di seguire Gesù, ma è soprattutto esigenza di fedeltà all'Amore di Dio (Matteo 6,24). In questo senso bisogna leggere il "DISCORSO DELLA MONTAGNA" (Matteo cc. 5-7). Qui sta la radice dell'esigenza di "disciplinare" la vita in chi segue Gesù. cioè si mette alla sua scuola come discepolo (cfr. Matteo 9,28-30). In realtà, Gesù in tutta la sua esistenza e soprattutto con la sua morte, realizza pienamente l'Alleanza di amore che Dio già nell'Antico Testamento aveva stipulato con il popolo d'Israele, ma le cui esigenze di fedeltà erano state più volte dimenticate (Libro dell'Esodo e soprattutto Deuteronomio 4,6-4,12 e 7,7-12). La vita del Cristiano allora non cresce a causa degli sforzi della volontà umana, non è primariamente un impegno etico, quanto piuttosto rapporto di amore con il Padre mediante l'ascolto della Parola del Figlio Gesù, custodia di questo Patto di Alleanza, risposta ad una chiamata ad entrare in comunione con la Trinità mediante lo Spirito Santo (cfr. Lettera ai Romani c. 8). In questo modo ogni ascesi o disciplina nella vita cristiana è finalizzata alla libertà, prerogativa dei "figli di Dio" (Giovanni 1,12-13 e 8,31-32).

2. Il Monachesimo cristiano: realizzazione concreta del Vangelo

Ogni Monachesimo, all'interno delle diverse religioni, nasce come genere di vita fissato in funzione di uno scopo spirituale, diversamente definito, trascendente l'orizzonte terreno e che viene considerato come necessario per dare unità (o senso) alla propria esistenza. (cfr. Dict. Spir. t. X, "Monachisme").

Nel Cristianesimo la vita monastica nasce accompagnata più o meno dalle medesime caratteristiche antropologiche e spirituali delle altre culture ( cfr. i terapeuti, gli esseni, gli encratiti, manichei ...), così come vi troviamo analoghe esigenze ascetiche (continenza, digiuni, essenzialità di vita, cenobitismo o eremitismo). Tuttavia diciamo subito che se ne distacca quanto alle motivazioni di fondo. A questo riguardo presento solamente qualche fonte monastica (una goccia nell'oceano di questa letteratura) per dimostrare la specificità del Monachesimo cristiano.

- "Quanto a noi, è per amore del Signore e del bene che osserviamo la continenza, santificando in noi il tempio dello Spirito Santo". (Clemente di Alessandria, II secolo).

- "...Non erano ancora passati sei mesi dalla morte dei genitori e, come al solito, andava in chiesa; mentre camminava e meditava fra sé e se, pensava a come gli Apostoli avessero lasciato tutto per seguire il Salvatore come quelli di cui parla negli Atti, venduti i propri beni, portassero il ricavato e lo deponessero ai piedi degli Apostoli perché fosse distribuito a chi ne aveva bisogno... entrò in chiesa e proprio in quel momento veniva letto l'Evangelo e senti il Signore che diceva al ricco: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri; poi, vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli" (Mt 19,21)... Antonio subito uscì dalla Chiesa, donò alla gente del villaggio i beni che aveva ereditato dai genitori... Entrato di nuovo in chiesa, come senti il Signore che diceva nel Vangelo: "Non preoccupatevi del domani" (Mt 6,34) non potè restare più oltre, ma uscì... si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa, vigilando su se stesso e sottoponendosi ad una dura disciplina..." (S. Atanasio, Vita di Antonio, IV secolo).

- "Ai suoi discepoli insegnava anzitutto a rinunciare ai propri beni e a se stessi, e a seguire il Salvatore che dà questo insegnamento, perché è così che si porta la croce" (Vita Prima di S. Pacomio, IV secolo).

"I monaci sono persone che non prendono quasi affatto parte alle cose della terra. Ogni loro preoccupazione è di cantare giorno e notte le lodi di Dio. Non possiedono nulla dì quei beni fragili, di cui il principe del mondo si serve per prendersi gioco degli uomini... Dio solo è il termine cui tendono tutti i loro desideri e vi si tengono inseparabilmente uniti a pietra ferma e solida. Conducono una vita nascosta in Gesù Cristo..." (S. Gregorio Naz. Poemata, IV secolo).-"Viviamo (i monaci) disinteressatamente l'amore fraterno; temano Dio nell'amore, amino il loro abate con affetto sincero umile, assolutamente nulla antepongano a Cristo, il quale ci conduca tutti alla vita eterna" (RB LXXII, 8-12; VI secolo). Da queste testimonianze tratte dal Monachesimo cristiano dei primi secoli appare evidente la motivazione che spinge uomini e donne ad abbracciare questa forma di vita: è la risposta ad una chiamata che nasce dall'ascolto del Vangelo di Gesù Cristo. Come nell'esperienza di Antonio, "padre dei monaci" l'aver ascoltato con fede il Vangelo nella sua Comunità Cristiana ha provocato in lui la decisione a lasciare tutto per amore del Cristo, così è stato per ogni monaco. Anche se con differenti tradizioni legate alla cultura locale (monachesimo orientale Basiliano e monachesimo occidentale in gran parte benedettino), l'unico Vangelo è stato ed è tutt'ora alla base della decisione di chi entra in un Monastero cristiano. In secondo luogo è necessario ricordare che la forma concreta di questo seguire Gesù Cristo si è servita dello strumento della "Regola". All'inizio del monachesimo ogni carità aveva una sua Regola dettata da un capo "carismatico" e che spesso nasceva dai quesiti che i discepoli ponevano al loro Padre spirituale (cfr. le due Regole di S. Basilio). Spesso queste regole più antiche non intendevano risolvere tutti i problemi pratici della comunità, erano semplicemente un "ri"dire il Vangelo stesso, o tutta la Scrittura, perché si era consapevoli che quella era la vera norma. In questo contesto infine vanno inserite tutte le prescrizioni, le "osservanze" da praticare per formare l'uomo di Dio.

Un'ultima considerazione

Monachesimo cristiano, cosi inteso nei suoi tratti molto generali, non è solo una "disciplina di vita" per chi risponde alla chiamata del Signore per questa via, ma nella Chiesa e tra gli uomini, anche non credenti, possiede una forza simbolica: esso, cioè, è un appello vivente per l'uomo ad unificare la sua esistenza a partire dal proprio cuore, rientrando in se stesso per scoprirvi proprio li la luce di Dio e, di conseguenza, vivere pienamente l'esistenza quotidiana.

3. La Regola di S. Benedetto: un modo per disciplinare la vita

Dopo questo sguardo così veloce sul Monachesimo cristiano, soffermerò ora l'attenzione su una delle sue forme storiche più famose ed affermate in Occidente: la tradizione benedettina.

Conosciamo l'autore di questa Regola dalla sua vita narrata dal Papa S. Gregorio Magno in una delle sue, opere: il Libro dei "Dialoghi" (anni 593-594).

Benedetto nasce a Norcia in Umbria da una famiglia I di origine romana. Mandato a Roma per gli studi, ben presto l'abbandona disgustato e cerca sulle montagne di Subiaco, nella solitudine, per tre anni, un'altra vita.

Qui dà inizio alla sua esperienza monastica raccogliendo attorno a sé i primi discepoli, fondando i primi monasteri. In seguito si trasferisce a Montecassino dove porta a compimento il suo cammino e stende definitivamente la Regola in cui certamente raccoglie il frutto maturo del suo cammino personale e delle esperienze positive e negative accumulate in precedenza. Le date tradizionali della sua nascita e della sua morte sono il 480 e il 547 circa. La Regola inizia la sua decisiva diffusione in Europa dal IX secolo in poi, non solo per gli interventi imperiali, ma soprattutto per il suo equilibrio e discrezione rispetto a tutte le Regole monastiche precedenti e seguenti (cfr. ad esempio la Regola di S. Colombano fondatore di Bobbio). Benedetto raccoglie nella sua Regola il meglio della tradizione monastica precedente: la spiritualità dei Padri del deserto, Cassiano, S.Basilio Magno, S.Leone Magno, la Regola del Maestro… In realtà non inventa nulla di nuovo anche sul piano ascetico e disciplinare, ma organizza la sua comunità in modo completamente personale mettendo in evidenza la sua conoscenza profonda della S. Scrittura, lasciando trasparire spesso la sua personale esperienza spirituale. Non è semplice suddividere la RB secondo uno schema preciso, ma possiamo per comodità suddividerla almeno in tre sezioni.

1. Sezione “dottrinale/spirituale”, Prologo e cc. da 1 a 7;

2. Sezione organizzativa della vita comunitaria. cc. 8-66; 

3. Conclusione: cc. 67-73.

Prologo e cc. 1-7

Il Prologo è la chiave di lettura di tutta la Regola poiché i temi qui presentati sono ripresi in vari modi nei primi 7 capitoli e costituiscono lo sfondo spirituale del resto degli argomenti. "Ascolta o Figlio gli insegnamenti del Maestro...": sono le prime parole che indicano subito la prospettiva con cui disporsi nell'intraprendere la vita monastica secondo S. Benedetto (cfr. la fonte sono i libri "sapienzali" della S. Scrittura e S. Basilio). La conversione è la prima conseguenza di questo atteggiamento; la guida nel cammino è Cristo che chiama in mezzo alla folla il suo operaio, paragonato anche ad un "soldato" che combatte per il suo re, ma è anche un discepolo che entra nella "Scuola del servizio del Signore" il cui insegnamento è il Vangelo e il cui obiettivo è l'Amore, cioè entrare in comunione con il Padre. La prima cosa da chiedere a Dio in questo cammino è che Lui stesso porti a compimento questa "opera" nel sito discepolo.

CC da 1 a 7 seguono i capitoli che presentano i fondamenti spirituali che fanno da struttura in questo "edificio" o "scuola". Cap. I: anzitutto il tipo di monaco, il "cenobita"; Cap. II: poi stabilisce la funzione della guida, "abate" (rappresentante di Cristo); Cap. III: la funzione del dialogo in comunità; Cap. IV: gli strumenti dell'arte spirituale; Capp. V-VI-VII: obbedienza, silenzio e umiltà, le principali "virtù" che Benedetto chiede ai suoi discepoli.

Organizzazione della vita comunitaria (cc. 8-66)

Preghiera e "Lectio Divina' ; i responsabili dei vari servizi e gli aiutanti dell'Abate; "codice penitenziale"; il lavoro, l'uso degli oggetti, la "proprietà privata"; i servizi domestici; alimentazione e abbigliamento; i viaggi; l'ospitalità; accoglienza e formazione degli aspiranti alla vita monastica; la Quaresima; l'ordine nella Comunità.

Conclusione: cc. 67-73

Sono molto probabilmente capitoli aggiunti da Benedetto alla fine della sua vita ispirandosi soprattutto a S. Agostino. Qui è esposto l'ideale benedettino della vita cenobitica allo stadio definitivo. Riguardano un'aggiunta sui fratelli che tornano dai viaggi, l'obbedienza impossibile, i rapporti reciproci tra i monaci, il senso vero della Regola. Questa conclusione, in particolare il cap. 73° collegato con il titolo della Regola, riportato da alcuni codici. "Si chiama Regola per il fatto che dirige il comportamento di coloro obbediscono", ci può dare l'idea della. relativizzazione del concetto di "legge" per Benedetto. Egli non la esclude, ma la colloca giustamente all'interno dell'itinerario verso la libertà che consiste nella carità perfetta (vedi la conclusione del cap. VII sull'umiltà: "Saliti, dunque, tutti questi gradini dell'umiltà, il monaco arriverà subito a quell'amore di Dio che, perfetto, scaccia ogni ti-more, e attraverso dì esso comincerà a custodire senza sforzo alcuno, quasi naturalmente e per abitudine, tutto ciò che prima osservava non senza paura, non più per timore dell'inferno, ma per amore di Cristo..."

Alcuni esempi di osservanze tratte dalla Regola

Prima sezione:

"Il quinto gradino dell'umiltà consiste nel manifestare all'abate, attraverso un'umile confessione, tutti i pensieri malvagi che sopraggiungono e quanto di male si è commesso nascostamente..." (VII, 44...).

Seconda sezione:

"...appena cominciato il Gloria, tutti si alzino in piedi in segno di onore e di adorazione alla Trinità Santa..." (IX, 7).

Cap. XLIII, il ritardo all'Ufficio divino e alla mensa...

Cap. XXIII, senso della scomunica.

Cap. XXVII, l'Abate, anche per i casi più gravi, abbia cura degli scomunicati, anzi per essi applichi il rimedio più efficace: la preghiera.

Cap. XXXI, il cellerario e il senso delle cose.

Cap. I.VIII, la Professione monastica simbolo di tutta l'esistenza del monaco e del Cristiano.

Conclusione

Leggiamo nel libro III dei "Dialoghi" di S. Gregorio Magno che un eremita viveva vicino al Monastero di Benedetto. Un giorno decise di incatenarsi nella sua grotta, per non poterla lasciare mai più. Lungi dall'ammirare questo gesto, "l'uomo di Dio" inviò uno dei suoi discepoli a portare al solitario questo messaggio: "Se tu sei vero servitore di Dio non ti le-gare con una catena di ferro. Legati con la catena che è Cristo!". Mi sembra che, a questo punto, possiamo riassumere così il modo in cui Benedetto offre la sua "disciplina di vita" non solo ai monaci, ma ad ogni Cristiano e ad ogni uomo.

- Ascolto attento di Dio attraverso la sua Parola mediata dalla Comunità e dall'Abate per vivere costantemente da discepolo (conversione);

- Percorrere la strada della storia personale e comunitaria, nella accoglienza della quotidianità della vita (rapporti umani, lavoro, cose, sofferenze...).

Venerdì, 12 Gennaio 2007 02:31

Una "identità" in esodo... (Dalmazio Mongillo)

Una "identità" in esodo...di Dalmazio Mongillo, o. p.

L'importanza di una corretta impostazione del problema

La riflessione sulla vita consacrata nella Chiesa e nel mondo d'oggi introdotta con un'analisi sulla "natura e l'identità" di essa (Lineamenta, Prima parte), risulterebbe più vigorosa e convincente se si chiarisse meglio la problematica che si vuole affrontare e la prospettiva nella quale la si considera. La vita consacrata prima che in se stessa e nei valori essenziali che la costituiscono, va vista nel disegno dell'autorivelazione di Dio manifestata in Gesù Cristo e condotta alla sua piena intelligenza e realizzazione nello Spirito. Questa rivelazione è per l'umanità e per la Chiesa, e il consenso, la recezione di essa, è per tutti fonte di unità e di pace, condizione di salvezza. Anche quando l'attenzione si concentra su un aspetto di essa è nell'insieme e dall'insieme che trae forza e vigore, e nel contesto del tutto arricchisce e vincola le decisioni e le responsabilità sia del tutto sia delle singole parti che lo costituiscono e che sono corresponsabili della pace del tutto, della sua armonia storica e finale. Diventa perciò un modo di procedere che depista l'attenzione dal vero problema attuale e non facilita la diagnosi dei mali che oggi devitalizzano il dinamismo interno e missionario della comunità cristiana nella molteplicità delle sue componenti, limitarsi a fare l'elencazione degli "elementi fondamentali" della vita consacrata considerata come una monade e attuare questa lettura con sottolineature così diverse che non si riesce a coglierne il criterio ispiratore e a percepire la meta a cui si vuole pervenire e i mali che si intende riparare.

Inizialmente vengono enumerati i tratti "comuni ed essenziali" a tutte le forme di vita consacrata in un'ottica astratta, universale, atemporale e la riflessione culmina nel richiamo dell'impegno spirituale (nn. 5-13) che la chiamata alla vita consacrata comporta. I nn. 27-28 rileggono la stessa realtà considerando le "res novae", le nuove espressioni e manifestazioni della vita consacrata (n. 27) e, sul piano negativo, i fenomeni di deterioramento favoriti dalle ambiguità e sfide contemporanee che variano secondo i contesti culturali; il tutto si abbina alla rilevazione degli aspetti maggiormente in crisi e di quelli da promuovere con consenso diffuso.

Queste ultime rilevazioni rendono ancora più inquietante il bisogno di diagnosticare le vere situazioni che ritardano la recezione di quanto ha proposto il Vaticano II sul mistero della Chiesa e delle entità che la compongono e, inoltre, di chiarire come e perché, nonostante il riconosciuto "profondo rinnovamento" spirituale e apostolico promosso dal Vaticano II (cf n. 25) e gli "essenziali progressi" (ivi) compiuti negli ultimi decenni nelle diverse famiglie religiose, e nonostante la fioritura di nuove forme di vita evangelica (n. 24), non possiamo ancora constatare che le cose vecchie sono passate e le nuove sono nate (cf 2 Cor 5, 17) e si attende quella primavera di fioritura, armonia, pace, sia per le famiglie della vita consacrata., sia per la Chiesa e la sua missione di evangelizzazione. L'identità che oggi si cerca di delineare è multidimensionale e ha parecchi livelli.

È quella costitutiva della vita consacrata nell'interno del più ampio mistero della Chiesa e del disegno di salvezza.

E quella relazionale interna alla Chiesa tutt'intera è se stessa nel disegno che il Padre ha rivelato e nel quale si riconosce come una comunione di comunioni costituite da un dono sacramentale o da una vocazione carismatica. La comunione con e tra tutte queste sue componenti è dignità e responsabilità personale e solidale. Nessun membro della Chiesa è vivo e vitale se non nella relazione reciproca nella medesima sorgente e nella orientazione comunionale verso lo stesso fine. Sottrarsi alla verità comune è nuocere a sé e alla comunione di cui si è parte. Questo riconoscimento non si identifica e non si valuta definendone gli elementi essenziali ma qualificando le relazioni. Le mutuae relationes di cui si trattò nel 1978 tra vescovi e religiosi, oggi vanno impostate in un contesto globale. Anche se hanno una loro attuazione a livello di vertice, diventano effettive quando coinvolgono e trasformano la vita delle singole comunità e delle persone, quando integrano i programmi di vita e orientano le attività quotidiane. Le mutuae relationes di oggi debbono partire da quelle interne alle singole famiglie, superando certi orientamenti verticistici e rivedendo la questione dei rapporti tra le loro componenti maschile-femminile-laicale ed estendersi a tutta la vasta gamma di comunioni che si sviluppano nella comunità cristiana e nell'umanità. Si pensi per esempio a quelle tra vita consacrata-presbiteri-laici e, nell'ambito di questi ultimi, alle relazioni tra uomini e donne, tra le famiglie, i popoli, le religioni, per far sì che tutti insieme cooperiamo alla giustizia e alla pace reciproca e con Dio. La vita consacrata è per la santità della Chiesa e del mondo e l'entità non ha confini, ha una sua specifica valenza ma non è settoriale.

L'identità della vita consacrata oltre che sul piano relazionale va ridescritta alla luce della situazione contemporanea. La vita consacrata si conosce e si apprezza nelle relazioni che vive e nella presenza che attua nella Chiesa e nel mondo. Oggi queste relazioni sono disturbate da tutta una gamma di situazioni che vanno da quelle estreme delle omissioni e dei silenzi, alla disattenzione e ai sofferti tentativi di realizzare una presenza significativa, alle incomprensioni che ostacolano l'intesa e la collaborazione, non è un mistero per nessuno il fatto che la vita consacrata nel suo sviluppo e nel suo dinamismo interno, non risplende per gioiosa e armonica comunione; nella vita ecclesiale ha una presenza che spesso è "esente"; nell'influsso sulle nuove generazioni del mondo occidentale è incerta e molto diversificata.

Un approccio ristretto al problema quale sembra quello seguito dai Lineamenta si presta a dar credito all'idea di coloro che pensano che l'attuale fiorire di interesse per la vita consacrata sia ispirato da un progetto di allineamento, di serrare le file, di eliminare i sintomi negativi (cf n. 28), fornendo parametri in base ai quali controllare la situazione e porre le premesse per riaffermare con forza il diritto dei pastori della Chiesa universale e locale a comandare, e il dovere della vita consacrata, particolarmente femminile, di obbedire e di partecipare alla realizzazione dei progetti pastorali.

Per un approccio all'individuazione del nodo del problema

La prima domanda del questionario - la percezione e la valorizzazione della vita consacrata, con particolare riferimento alla professione pubblica dei consigli evangelici - mette su una pista che meglio fissa l'attenzione sulla fisionomia occidentale contemporanea della vita consacrata. Essa non è né un'essenza, né una categoria logica, nè un'istituzione solo giuridica: è una famiglia di famiglie radunate per la grazia dello Spirito e vive nella comunione di comunioni che strutturino la comunità cristiana pellegrina e missionaria nel mondo. Come comunione sussiste nelle sue relazioni multiple, sempre nuove, da costruire, verificare, nelle quali si riconosce e che concorre a qualificare e perfezionare. Lo Spirito che di questa comunione è la sorgente e l'ispirazione, la guida in tutta la verità (Gv 16, 13) e, nelle diverse fasi della storia, le affida compiti che, nella linea della medesima fedeltà, sono sempre diversi e si qualificano per il crescente orientamento verso la perfezione finale, verso il non ancora del compimento. Ciò conferisce una fisionomia specifica all'identità comunionale che non si fissa solo in base a criteri e realizzazioni già consolidate e riconosciute, bensì in riferimento alla specificazione che assumono nelle ere della storia. Ciò non significa, è evidente, relativizzare i carismi, ma disporre di un criterio per l'identificazione delle loro esigenze. L'identità carismatica non si oppone a quella istituzionale, resta primaria nei confronti di essa, in essa si attua, in obbedienza allo Spirito che guida alla conformazione con Cristo che, nel tempo della Chiesa e in essa, porta a compimento la missione del Padre.

Nel delineare in qualche modo la complessa e multiforme realtà con temporanea prendo come punto di riferimento il cammino promosso e iniziato dal Vaticano II. Esso in gran parte ha segnato lo spartiacque di un processo che negli anni successivi è cresciuto in intensità ed estensione e che ha avuto riflessi determinanti sull'autocomprensione e sulla valutazione ecclesiale ed umana della vita consacrata. Il Concilio è stato il kairos che ha risvegliato e beneficamente inquietato una situazione a dir poco di stallo.

Ridurrei a tre i dati veicolatori di stimoli di rinnovamento.

* Il legame intimo tra Chiesa e vita consacrata. Questa sussiste, è se stessa, nella, con e per la Chiesa vivificata dallo Spirito che guida l'umanità e il cosmo alla pienezza della verità comunionale in Cristo per la gloria del Padre.

* Il fatto che la vita consacrata, radunata dal e nel carisma di fondazione, è una realtà carismatica.

* Infine l'autopresentazione della Chiesa come mistero-comunione-missione che inizia e affretta la parusia, la piena manifestazione del Regno ed è costituita missionaria di unità e di pace nel mondo.

Queste tre verità hanno messo in moto un profondo processo di rinnovamento per la vita consacrata. Esso si è verificato soprattutto a livello della ricerca della sua identità carismatica, della revisione delle costituzioni e dell'apertura missionaria delle comunità più vive e dinamiche. La missione è stata sempre più chiaramente vista non nella linea della riproduzione interna delle comunità ma della presenza solidale e di servizio nel mondo, soprattutto presso i settori più poveri dell'umanità. Questo cammino ha coinciso con il verificarsi di molte e radicali trasformazioni in tutti i settori della vita personale e associata. La pretesa di elencazioni esaustive è inutile e improba. Si pensi, per citare qualche esempio, alle rivoluzioni nell'assetto politico ed economico dei popoli dell'Est-Europa e dei Paesi nei quali la vita consacrata occidentale ha avuto una presenza più lunga e incisiva; all'affermarsi di nuove relazioni ecumeniche e tra le religioni; alla radicalità della lotta per i diritti umani e la giustizia sociale; all'affermarsi e dilatarsi di nuove epidemie e piaghe sociali, ecc. Il tutto ha alimentato grandi speranze e profondi conflitti, ha fatto percepire il peso delle strutture tradizionali inadeguate alla dinamicità, complessità, precarietà, evoluzione delle situazioni odierne. Le speranze sono diventate contesto di belle e nobili iniziative, le resistenze hanno prodotto divisioni, discussioni che hanno minato seriamente l'intesa comune sulla stessa identità carismatica delle famiglie, sulla rilevanza pubblica di essa, sull'unitarietà e la comunitarietà degli stili di vita, sulla qualità e la portata delle relazioni con la gerarchia e con i movimenti ecclesiali e politici e con le altre comunioni specifiche che operano nella Chiesa.

Si è parlato di Chiese parallele, di settarismi e si sono determinate fratture e separazioni tristi e dispersive, ecc. Il tentativo di ovviare a queste situazioni ha assorbito enormi energie e in molti è maturato il dubbio se sia ancora il caso di prenderle in considerazione o di impegnarsi seriamente nella missione nella speranza che siano le cose nuove a disincantare le caduche. Le difficoltà di armonizzare pacificamente, vitalmente, reciprocamente, comunitariamente queste diverse esigenze sono però vive e ritardano la partecipazione alla missione della Chiesa, per liberare e potenziare "in" e "con" l'umanità, le relazioni di appartenenza, condivisione, convergenza che rendono giusto, pacifico, amico di Dio, il cammino storico. Il fatto che oggi non sussistono le condizioni perché in tutta la Chiesa - e perciò nella vita consacrata - si realizzi questa condivisione mi pare un elemento qualificante e imprescindibile della diagnosi e soprattutto della terapia che il Sinodo propone. Per vocazione la Chiesa deve operare perché questa vasta rete di rapporti si sviluppi nella verità e carità e sia immagine e riflesso della Comunione Trinitaria (CS 24).

Identità in tempo di esodo

1. La descrizione dell'identità della vita consacrata non può prescindere dalla esplicitazione delle relazioni in cui sussiste e in cui si configura nel contesto contemporaneo. È perciò fondamentale promuovere ed evidenziare le condizioni e le prerogative del riconoscimento affettivo ed effettivo da parte di tutta la comunità ecclesiale, dell'insostituibile e imprescindibile presenza della vita consacrata nella sua identità di comunione di mistero e di santità. La vita consacrata è dono dello Spirito al Cristo e alla sua Chiesa per la gloria del Padre occorre affermare con assoluta chiarezza che nessun fedele può vivere in amicizia e docilità con lo Spirito se non riconosce e non si adegua a questo suo dono alla Chiesa e a ciascuno dei suoi membri. La vita consacrata non è una realtà opzionale, senza di essa la Chiesa non è quella che Gesù e lo Spirito vivificano e conformano. Non è, però, neppure opzionale per la vita consacrata la sollecitudine e la missione per la santità della Chiesa. Essa non è mandata per fare qualsiasi cosa, per svolgere attività di supplenza, ha una sua inequivoca e specifica missione la cui qualificazione concreta e specifica deve essere autenticata dai pastori. Il servizio del Sinodo dei vescovi, in questo senso, è dono prezioso e servizio di portata eccezionale. Tutta la Chiesa, e la vita consacrata in essa, ha la responsabilità di chiedere e volere che la vita consacrata sia riconosciuta per quello che la Chiesa stessa ha affermato: dono di santificazione per se stessa nella Chiesa e nell'umanità. Se omette questa sollecitudine non può in alcun modo vivere in pace con Dio. La fedeltà alla comunione e alla missione integra e struttura la fedeltà a Dio. Poiché questa fedeltà oggi si vive in contesto di rapidi e profondi cambiamenti ed è caratterizzata da conflittualità profonde e acute tra carisma e istituzioni (costituzioni, regole, tradizioni, ecc.), dalle lacerazioni prodotte dall'invecchiamento e dalla carenza di persone, dalla necessità di lasciare opere cui vincolano legami affettivi intensi, da incertezze sul domani, da appelli urgenti per nuove presenze, e anche in rapporto a tutto ciò che occorre discernere e qualificare con indicazioni concrete e orientamenti fecondi l'identità personale e comunitaria.

2. Per usare un'espressione di matrice biblica, si può qualificare il nostro come tempo di esodo. Siamo sempre pellegrini, in cammino verso la patria. La vita consacrata è per vocazione testimone di questa condizione che impone di tenersi all'erta, vigili docili nel discernere e seguire le indicazioni dello Spirito che orienta verso la meta. Questa itineranza si vive con maggiore intensità quando occorre inventare e realizzare nuovi assetti personali, comunitari, ecclesiali, interumani, relazionali. L'esodo è un tempo di grazia e di liberazione, è denso di gioie e di teofanie, porta nel deserto e in esso mette in contatto con il mistero luminoso e conformante della presenza di Dio. Esso però è anche il tempo delle prove, dello spogliamento, delle tentazioni, delle recriminazioni. La perseveranza fedele in questa realtà complessa esige contemplazione, digiuno, implorazione, lotta, discussioni. ecc. Il tutto comporta investimento e logorio di energie, concentrazione di potenzialità, capacità di rigenerare gli entusiasmi, povertà e vigilanza per non sottrarre persone e creatività alle urgenze indilazionabili dell'evangelizzazione, della testimonianza, della solidarietà: persone e comunità tanto occupate di sé, dei problemi interni e relazionali, non riescono a riservare disponibilità all'ascolto di ciò che lo Spirito dice alla Chiesa. Tutto ciò ha riflessi molto importanti sul piano delle prerogative nelle quali le persone e le comunità oggi debbono coltivarsi. L'oggi, può essere vissuto in fedeltà solo da persone profondamente innamorate del Signore e intensamente contemplative. La vera questione non è se oggi si può essere contemplativi, ma se si può essere fedeli e onesti senza coltivarsi costantemente nella contemplazione del mistero, senza tener viva nella comunità credente la nostalgia della comunione storica e finale con Dio. L'urgenza del vigilare e operare perché il popolo si tenga in esodo, Mosè l'attesta in modo inequivoco, esige persone che vivano in costante unione, amicizia, contemplazione di Dio. Solo nella relazione con lui maturano e si purificano le prerogative di mediazione, di riconciliazione, di perseveranza, che integrano la personalità di coloro che rendono testimonianza della speranza (cf 1 Pt 3,16). Solo persone dialogali, sagge, forti e perseveranti nel gestire la solitudine e l'isolamento che si accompagnano ai cammini fedeli possono impedire che la comunicazione diventi tattica, temporeggiamento accomodamento. Qualcuno ha osservato che lo spirito evangelico non è tanto forte da vincere la logica dell'interesse delle istituzioni (Quinzio). Ciò è vero a corto termine e quando le comunità e le persone in esodo omettono di vigilare e non hanno più l'autorevolezza e la forza di distruggere gli idoli che il popolo si costruisce e di riportarlo a riconoscere e assecondare l'alleanza. La vita consacrata deve imparare a trarre dalla sua origine carismatica, la luce e la forza che la sostiene nel non tradire la vocazione e la missione, nonostante le sofferte resistenze personali e sociali, interne ed esterne. Nei tempi di transizione la fedeltà al carisma si esprime nella vigilanza e nel discernimento per far sì che non si attenui la nostalgia della terra promessa e le comunità abbiano la forza di liberarsi delle armature che impediscono l'agilità di movimento necessaria per lottare contro Golia (1 Sam 17, 32 ss).

Il carisma è dono dello Spirito; abilita coloro che ne vivono, ad implorare, accogliere (disporre della forza di perseverare nella riconciliazione intelligente e amorosa del mondo con Cristo nel Padre). Nessuna persona può vivere in santità se omette di essere fedele al carisma e questa fedeltà oggi passa attraverso la perseveranza nella conversione alla cooperazione nella riconciliazione. Descrivere qual è la vera grazia di Dio, per quali vie si esprime la fedeltà ad essa, quali "strutture" ne potenziano e assecondano le espressioni, esortare e sostenere nel restare saldi in essa, sapendo che i fratelli e le sorelle sparsi nel mondo subiscono le stesse sofferenze (cf 1 Pt 5,9 ss.) è indicare la via per la quale la vita consacrata si rigenera e vive. Le grandi trasformazioni che si verificano nella storia sono opera delle persone che seguono la via di Gesù Cristo, il giusto per gli ingiusti. Le piaghe che in lui hanno prodotto le ferite inflitte dalla perversità umana di cui egli si è fatto carico, indicano da quale sorgente scaturisce la guarigione dei mali umani e per quali vie il pastore riconduce le pecore erranti (cf 1 Pt 2, 21.25; 3,18).

La vita e la forza di irradiazione della comunità è la comunione. La resistenza. a volersi in comunione reciproca; la lentezza nel darsi autentiche strutture di comunione e nel discernere e attuare comunitariamente e reciprocamente quelle adeguate; la difficoltà. a consentire sulle esigenze del carisma e assumerle nella trasformazione e programmazione del vissuto, sono aspetti che evidenziano le situazioni di crisi, potenziano gli individualismi, le appartenenze con riserva, le iniziative di gruppo, tutte le tendenze che favoriscono divisione e dispersione, che insidiano la vitalità delle comunità e stancano la fedeltà e la perseveranza delle persone. La rigenerazione di tutta la comunione ecclesiale che scaturisce, vive e culmina in quella trinitaria è oggi compito primario e indilazionabile. La difficoltà di attuarlo è il segno più inequivoco delle resistenze che incontra l'inculturazione del vangelo e la chiamata a lasciarsi accogliere nella comunione trinitaria a confidare in quella dei santi e delle sante ispirandosi al cammino delle prime comunità cristiane (At 2,42 ss.): l'esperienza attesta che non sono insormontabili. La vitalità, o la carenza della comunione effettiva e affettiva, costituisce la questione centrale della vita consacrata e della Chiesa in cui sussiste.

3. Illustrare le prerogative, le esigenze e le dimensioni di questa comunione di comunioni; orientarne le condizioni di crescita e di sviluppo; discernere le espressioni che la rendono vitale e il contesto in cui si purificano e crescono, smascherare le pseudo manifestazioni di fedeltà, sono altrettante vie che affrettano il superamento di quella condizione di stallo che contestualizza la sofferenza e la mancanza di vitalità di molte comunità cristiane contemporanee. Non alimentano comunione le attese, le pretese, le incomprensioni, le strutture di manipolazione o di comodo che quale che ne sia la sorgente prossima, mettono in crisi i rapporti e potenziano gli individualismi, favoriscono le iniziative non condivise, nutrono i pregiudizi, le diffidenze, le incomprensioni, ecc. Queste situazioni fanno sì che ciascuna componente della realtà ecclesiale si ritenga falsamente percepita e riduttivamente valorizzata, e perciò legittimata a impostare e vivere male le relazioni interne ed esterne e a rinchiudersi nell'indifferenza nei processi di autorealizzazione o nell'autocommiserazione o nell'accusa, terreno fecondo del malessere che impedisce di perseverare insieme nella via della pace (Lc 1,79; 19, 42; Rm 3,17).

Conclusione

Questa lettura diventerebbe deviante qualora da essa si traesse la conclusione che la questione è morale, intendendo questo termine in accezione riduttiva e che, conseguentemente, la soluzione di essa vada cercata sul piano normativo, in provvedimenti e controlli dettati da una rivalorizzazione dell'obbedienza non sottoposta a una radicale conversione nei parametri di riferimento che ne normano le espressioni; essa è e resta essenziale nella linea del riferimento permanente all'autorivelazione del Padre e all'obbedienza di Gesù. Senza un'esperienza autentica di Cristo non c'è vita cristiana e consacrata, e questa non si realizza al di fuori dell'obbedienza al Cristo che nella sua Chiesa gerarchicamente ordinata, opera quello che piace al Padre, si fa carico del peccato del mondo per liberarlo nella sua carne. La conversione della Chiesa a quanto afferma di se stessa nella LG esige il riconoscimento fedele, esistenziale, dinamico, strutturale delle vocazioni specifiche in cui sussiste la promozione della loro comunicazione. Come in altre svolte importanti della storia della Chiesa, il rinnovamento della vita consacrata è frutto e espressione di un più vasto movimento di evangelismo che la rinnova tutta e assume configurazione specifica nella vita consacrata, la quale spinge in questa via in proporzione alla docilità a lasciarsi muovere dalla forza del carisma dello Spirito che la vivifica nella e con la Chiesa e tutto opera per la santificazione del Corpo di Cristo nella sua obbedienza al Padre (cf 1 Pt 1, 2). La comunione ecclesiale è riflesso e via a quella trinitaria e solo nella conversione permanente a questa sua sorgente è autentica. Gli aspetti socio-culturali della questione da soli non sono sufficienti a operare quel cambiamento da tutti auspicato e di primaria importanza per la pace delle famiglie religiose e la vitalità della loro missione.

La conversione alla comunione ha riflessi morali ma è fondamentalmente frutto di azione e implorazione di persone che si lasciano conformare nella misericordia del Padre e che ne traggono ispirazione e vitalità dal dinamismo delle missioni trinitarie creduto, celebrato, assecondato, implorato nella fedeltà alle Costituzioni e alle esigenze attuali della missione. La teologia oggi deve promuovere la conseguenza verso una più comune e condivisa visione del progetto di Dio nel quale la Chiesa, nella pluralità delle comunioni in cui sussiste, si riconosca radunata per essere riconciliata alla disponibilità totale a cooperare alla volontà salvifica universale del Padre nella luce di Ef 1 e di 2 Cor 5,16 ss.

I domenicani e lo studio della teologia
Una lettera d'amore a Dio
di Mario Chiaro

La saggezza è un fuoco: i teologi sono i fuochisti che lo alimentano. Dai domenicani viene lo stimolo per la decisa promozione di una teologia più al femminile e più radicata nella vita delle persone e delle culture. Gustavo Gutiérrez sintetizzando il pensiero di molti scrive: “Per me fare teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio”.

Per i discepoli di san Domenico, fin dall’inizio, il sogno di Dio sì è legato al “fare teologia”. Domenico trascorse la sua vita incoraggiandoli a creare tavoli di studio e confronto con altri e fu imitato nel tempo da Caterina, Tommaso, Montesinos, Eckhart: senza questa stretta interazione teologica, nessuno di loro avrebbe potuto,da solo produrre ciò che invece ha prodotto. In particolare poi il fondatore dei domenicani ha mostrato che lo studio è inutile se non arreca beneficio ai poveri: a Palencia infatti vendette i suoi libri per procurarsi denaro e nutrire gli affamati, dichiarando di non voler studiare “su pelli morte, mentre quelle vive muoiono di fame”. Oggi una rinnovata coscienza di collaborazione tra consacrate e consacrati nella ricerca teologica, in una prospettiva di impegno per giustizia e pace, porta a testimoniare come, gettando ponti sopra le acque del genere, del potere e dell’esclusione, si possano superare le distanze fra i singoli e Dio, fra uomini e donne, fra ricchi e poveri.

DONNE FORMATE AD APRIRE GLI OCCHI

Nella spiritualità dominicana, lo studio è il processo di apertura verso l’altro, uno stile permanente che diventa “disciplina di veridicità che apre gli occhi” (cf. T. Radcliffe). Aprirsi per imparare dalla parola di Dio e da ogni frammento di verità e bellezza che ci sta intorno è studiare la teologia in contemplazione. Sr. Thérèse P. T. Bach Tuyet (delle domenicane vietnamite di Santa Caterina da Siena), direttrice dell’istituto domenicano intercongregazionale di san Tommaso a Ho Chi Minh City, ci tiene a sottolineare come la predicatrice domenicana in formazione debba essere innanzitutto una teologa con gli occhi aperti allo Spirito Santo nella società in cui vive. “Il contributo delle domenicane vietnamite consiste in questo momento nel difendere e promuovere la vita attraverso l’educazione nella fede e la cultura, nello sviluppo sociale e nella cura della salute dei poveri, dei giovani, delle donne e bambini, degli handicappati, dei tossicodipendenti, dei malati di Aids. Per tradurre nella pratica queste missioni, la Chiesa richiede alle donne consacrate una nuova formazione, non inferiore a quella riservata agli uomini”.

Fare teologia significa così risvegliare nelle donne la coscienza della propria dignità e dei propri diritti. “Per me come cristiana e domenicana, la teologia è sostegno per vivere la mistica e la prassi di Gesù, è un’occasione di apertura verso il significato amorevole della vita, della giustizia e della solidarietà. La riflessione teologica, la contemplazione nella prospettiva dell’incarnazione di Gesù mi ha portato a compromettermi con la realtà del mondo, in altri termini ad assumere una dimensione di fede, di speranza e a riconoscere i segni del nuovo cielo e della nuova terra presenti nell’oggi. Sono visibili le conquiste e le vittorie delle comunità ecclesiali di base nei movimenti sociali organizzati” (sr. Rosa Maria Barboza, brasiliana, provinciale della congregazione domenicana romana).

Una teologia al femminile permette di pensare al divino portando alla ribalta le represse immagini femminili di Dio, specialmente in un momento storico in cui la Chiesa diventa conscia di essere veramente universale: “E’ essenziale per il futuro della Chiesa in Asia che le donne asiatiche prendano il loro posto nella Chiesa come professioniste teologhe e studiose della Scrittura e che si esprimano con sicurezza… Oggi è imperativo che le donne domenicane (anche donne religiose e donne cristiane laiche) siano preparate a entrare intelligentemente e competentemente nelle relazioni dialogali con altre tradizioni religiose come una parte essenziale della missione della Chiesa” (Helen Graham delle suore di san Domenico di Maryknoll, per oltre 35 anni docente nelle Filippine).

“Fare teologia, per me è cercare la verità – dichiara sr. Diane Jagdeo, docente di teologia sistematica al seminario regionale di Trinidad. E la mia ricerca della verità è come quella della donna del Vangelo che, avendo perso la sua dracma, diligentemente la cerca fin quando non la trova… Oggi, se rifletto sulla mia vocazione di teologa, mi affliggono ancora le paure e le speranze e la profonda angoscia del nostro popolo caraibico… Sanare la terra e sanare la vita (il benessere dell’ecologia e degli uomini) mi sembra che siano all’ordine del giorno teologico per noi nei Caraibi”.

UOMINI CONSACRATI MA NON AUTOSUFFICIENTI

Lo studio della teologia è vitale per la formazione di una sintesi interiore che è necessaria per la maturità umana e spirituale, non solo delle donne ma anche degli uomini. Oggi infatti si entra nella vita religiosa con un bagaglio nella mente e nell’immaginazione che deve essere organizzato internamente, secondo i principi del Vangelo .Padre Wojciech Giertych, membro della provincia polacca e docente all’università Angelicum di Roma, sottolinea come lo sfondo del pensiero dei nuovi consacrati debba essere “riorganizzato perché la fede e la vocazione non siano basate sulle incertezze affettive. Bisogna che la fede entri nella vita dell’intelletto e nella sfera della libera scelta”.

Lo studio dunque è oggi prioritario in vista della identità umana e cristiana, oltre che in vista dell’apostolato. Così la teologia al maschile deve aprirsi alla teologia delle donne: “L’approccio femminile è meno razionale, più intellettuale, più descrittivo e poetico… Se manchiamo di approfittare dell’approccio femminile, la nostra teologia diventa rigida e asciutta, diventa troppo concettuale e non invita al mistero”.

”Il giorno in cui la teologia è fatta, o almeno condivisa, dai laici, certamente cambierà il volto della teologia. Certamente essi ci presenteranno un diverso volto di Dio e un diverso volto della fede. Pensare Dio e la fede a partire dalla secolarità, dal matrimonio, dal lavoro manuale, dall’economia, dalla politica, a partire da … tutti gli angoli della vita terrena: questa sarà una buona notizia per la riflessione teologica. E il giorno in cui la teologia è fatta, o almeno condivisa, dalle donne, è certo che cambierà il volto della teologia” (p. Felicisimo Martinez, docente in Spagna e Venezuela).

Una teologia così compresa, meno clericale e androcentrica, può essere molto utile alla questione lancinante di sapere come presentare la parola di Dio oggi in modo che sia davvero una buona novella e non dottrina fondamentalista. “Si tratterà – afferma p. Roger Houngbedjii del Benin – di elaborare una teologia che miri da una parte a far aderire i nostri contemporanei in modo radicale al Cristo, e dall’altra a renderli edotti dei loro diritti e doveri, delle cause profonde delle situazioni di ingiustizia e di povertà di cui sono vittime, in modo da condurli a essere responsabili del loro futuro. È in questa prospettiva che io credo di comprendere l’impegno del teologo domenicano nel contesto attuale dell’Africa”. Esiste dunque un legame intrinseco e dinamico tra ricerca teologica, vita di preghiera e solidarietà con i poveri, primi destinatari della buona novella.

LA MISERICORDIA DELLA VERITÀ

Lo studio insomma non è fine a se stesso: è il mezzo per aiutare il prossimo nella sua ricerca di salvezza e nell’approfondimento della propria relazione con Dio. Non si tratta di creare intellettuali, ma di formare evangelizzatori. In questo modo si apre la strada a una migliore inculturazione della fede, acquisendo uno stile di integrazione e flessibilità nell’apertura a popoli diversi dal proprio.

Si confessa sr. Antonietta Potente (che attualmente vive in una comunità di campesinos in Bolivia): “Sento che il sogno di un Dio vicino alla vita soggiace come qualcosa di nascosto, sempre più nascosto; sono sempre di meno le persone che hanno l’ardire di andare a Dio partendo dalla vita e soprattutto dalla vita più inedita. Sento che c’è tanta paura, che alcuni continuano a far teologia fra sicuri dogmatismi e superficiali diplomazie, quasi a cercare di sopravvivere fra le mode post-moderne le antiche tradizioni.

C’è chi continua a confondere la sete con il relativismo e pertanto continua a lanciare anatemi proibendo la novità dei versi del lavoro teologico. L’ordine a volte si dimentica delle sue origini … ho la sensazione che si studi poco, soprattutto tra i frati, affascinati dai facili successi o compensatori proselitismi pastorali e, noi donne, troppo chiuse in modelli di vita religiosa femminile a volte compensatori, a volte frustranti”.

Studiare teologia viva significa metterla al servizio della giustizia, poiché “la lotta per un mondo più giusto è inseparabile dalla verità. In special modo, tutti i teologi, se vogliono che il loro lavoro abbia davvero qualche valore, devono mostrarsi sensibili alla nostra povertà di significato, alla profonda sete di tutti gli esseri umani per il significato dell’esistenza, senza il quale non c’è speranza” (p. Timoty Radcliffe). Il nostro mondo globale è ferito da crepe e fratture, dalla marginalizzazione dei popoli più poveri: la sete di riconciliazione può essere lenita dalla presenza di teologi ed evangelizzatori sulle linee di frattura, invece che in aule asettiche.

La teologia è funzione ecclesiale che si compromette con la storia, che cerca di costruire un linguaggio su Dio con un popolo che vive la fede, nel contesto storico della sofferenza degli innocenti. Il noto teologo della liberazione, peruviano, Gustavo Gutiérrez (docente a Roma e a South Bend negli Stati Uniti) non esita a dire, sintetizzando il pensiero di molti: “Per me fare teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa e al popolo a cui appartengo. L’amore continua a essere vivo, però si approfondisce e cambia la maniera di esprimerlo.

Cf. il volume dal titolo Superare le distanze: le figlie e i figli di Domenico fanno teologia, a cura di Suore domenicane internazionali, Pontificia università san Tommaso e Commissione internazionale giustizia e pace dell’ordine dei predicatori (Angelicum University Press di Roma e Edizioni Domenicane Italiane di Napoli). Trentasette teologhe/gi domenicane/i rispondono sotto forma di lettera a una griglia di domande sul senso e sullo stile del fare teologia oggi.

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