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Venerdì, 12 Settembre 2008 23:05

NO A GESTI PLATEALI

NO A GESTI PLATEALI

di Giuseppe Scattolin
Nigrizia – maggio 2008

Il battesimo conferito da Papa Benedetto XVI a Madgi Allam, giornalista di origine egiziana, ufficialmente di fede musulmana (e che oggi, per sua scelta, si chiama Madgi Cristiano Allam), ha suscitato e continua a suscitare numerose e diverse reazioni. Alcuni ritengono che si sia trattato di un atto legittimo di una giusta scelta di libertà religiosa. Altri, pur sostenendo la legittimità della scelta, hanno messo in dubbio l’opportunità della sua amplificazione mediatica, che può essere fraintesa in molti ambienti islamici. Altri ancora vi hanno visto aspetti meno chiari, date le idee controverse del giornalista, non da tutti condivise.

Come si poteva prevedere, da molti ambienti islamici si sono avute reazioni negative (richiamando lo spettro dello scontro di civiltà e di religioni), anche se, finora, non hanno raggiunto l’intensità registrata dopo la lectio magistralis del Papa all’università di Ratisbona. Credo che per valutare un simile evento, senza cadere in giudizi parziali, sia necessario tener presenti molti aspetti. Accenno a due fondamentali.

C’è, innanzitutto, il tema della libertà di religione, uno dei diritti umani fondamentali, sanciti da molti testi di tutte le religioni e anche dalla Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite. Diritto indiscutibile, anche se non ancora del tutto recepito dalla stragrande maggioranza dei musulmani.

Alcuni versetti del Corano affermano chiaramente questo principio. Tra questi, il supercitato testo: «Nessuna costrizione nelle cose di religione» (2, 256). Però, una lunghissima prassi islamica, di natura politico-giuridica, ha sempre dichiarato che chi abbandona l’islam è un “apostata” (murtadd) e, quindi, passibile di morte: prassi che vige tuttora in quasi tutti i paesi islamici, soprattutto in quelli che applicano la legge islamica (shari‘a) in modo scrupoloso. Purtroppo, molti tra gli intellettuali musulmani non hanno fatto una seria riflessione critica su questa prassi: pochi ne hanno chiesto con vigore una revisione; pochissimi hanno alzato la propria voce per contestarla quando è stata attuata. Risultato: il musulmano che si converte deve o emigrare dal proprio paese o vivere una vita da “clandestino”. E questo accade non solo nei paesi islamici, ma anche in quelli di emigrazione (in Europa, ad esempio). Va ricordato, inoltre, che anche i “laicissimi” sostenitori della libertà di pensiero di casa nostra, che pure sono pronti a scagliarsi contro la chiesa a ogni minimo sospetto in materia, non si sono molto preoccupati di studiare il fenomeno e di chiedere un intervento della giustizia per proteggere i convertiti dall’islam.

La libertà di religione costituisce uno dei punti più importanti di ogni serio dialogo interreligioso. Non mancano sforzi per portare il pensiero islamico e i suoi rappresentanti ad accettare senza riserve questo principio. Peccato che questo faticoso lavorio non sia pubblicizzato come meriterebbe.

In secondo luogo, è necessario valutare l’impatto che un evento come il battesimo di Madgi Allam può avere – e di fatto ha avuto (come mi è stato comunicato da numerose fonti) – sulle società islamiche e le comunità cristiane presenti in esse. C’è chi pensa che il sacramento avrebbe potuto essere celebrato in un contesto più ristretto (una comunità cristiana locale), per attribuirgli un’approvazione più ufficiale in un secondo momento.

Tensioni e dialogo

Il mondo islamico si trova in una situazione esplosiva. Non era difficile prevedere che la solennità data al battesimo del giornalista avrebbe potuto essere interpretata come un “gesto aggressivo”, suscettibile di reazioni anche violente. Chi può controllare un miliardo e mezzo di persone agitate da intensa propaganda fanatica, anti-occidentale e anti-cristiana? Quando queste reazioni avvengono, termini quali “crociate”, “missioni”, “colonialismo”, “proselitismo”, “Bush and Co.” sono uniti in una sola idea di base: quella di un complotto occidentale-cristiano contro l’islam, portato avanti con tutti i mezzi (anche bellicosi e distruttivi). La recente politica occidentale in materia non ha fatto che accreditare tale idea. Questo è il pensiero che domina oggi il mondo islamico, risvegliando i demoni del fanatismo e dell’estremismo religioso.

Personalmente, credo che un cambio di questa mentalità potrà avvenire soltanto attraverso un dialogo interreligioso serio, responsabile e impegnato. Come sono convinto che la questione del diritto alla libertà religiosa va trattata in modo più convincente a livello d’incontro fra i responsabili delle comunità religiose, sulla base di studi seri e documentati, tali da spingere a dichiarazioni che impegnino tutti.

Insomma: prima di indulgere in gesti plateali, è sempre bene fare un serio lavoro di base. In caso contrario, i pregiudizi possono scatenare reazioni irrazionali e devastanti. Penso a cosa potrebbe succedere, se tutta l’“opera di presenza” e il grande sforzo compiuto a livello di opere sociali dai vari istituti religiosi nel mondo islamico fossero interpretati dal punto di vista di un’ideologia del sospetto, cioè come “subdoli mezzi di proselitismo”, e quindi squalificati, se non addirittura ostacolati e proibiti.

E che dire della pressione quotidiana che pesa sui cristiani in situazione di diaspora nei paesi musulmani, oggi resa forse ancora più pesante da questo gesto, letto come “aggressione all’islam”? Che senso ha, poi, lamentarci del fatto che sempre più cristiani lasciano i paesi islamici, e che il Medio Oriente, culla del cristianesimo, è ormai vuoto di cristiani?

Nonostante tutto, spero che il gesto non provochi reazioni estremiste che mettano in difficoltà i cristiani che vivono in ambiente islamico, ma possa, alla fine, contribuire ad accelerare l’impegno per un dialogo positivo e costruttivo tra il mondo cristiano e quello islamico.

Occorre fare passi positivi in tal senso. In Egitto, dove lavoro, si svolgono molti incontri di dialogo e si trovano risposte positive anche da parte musulmana. Nel dicembre scorso ho diretto una tesi di magistero sulla mistica islamica fatta da uno studente musulmano in una università egiziana al 99% islamica, riscontrando stima e accoglienza da parte di professori e studenti. So di altre persone che stanno portando avanti simili esperienze in contesti di vera e fruttuosa collaborazione culturale.

Solo attraverso un dialogo serio e impegnato, il mondo islamico si potrà aprire ai valori della libertà religiosa, e non solo a livello di nobili dichiarazioni, ma anche in termini di cambiamento di mentalità pratica e di leggi di stato. Solo allora, nel rispetto dei diritti umani da parte di tutti, una convivenza pacifica fra l’islam e il resto del mondo sarà possibile.

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Mercoledì, 10 Settembre 2008 23:11

GUERRAFONDAI PURCHÉ CASTI

GUERRAFONDAI PURCHÉ CASTI

di Frei Bettoscrittore
Nigrizia – Maggio 2008

Il governatore della stato di New York, Eliot Spitzer, coinvolto in uno scandalo a luci rosse, ha prontamente dato le dimissioni. Come se non bastasse la delusione dei suoi elettori, ha sottoposto la moglie all’umiliazione di posare al suo fianco davanti alle tv, in silenzio, mentre lui esprimeva il suo «profondo rimorso».

Gli è succeduto il vice-governatore, David Patersan. Il quale s’è affrettato a confessare «di non essere un santo». Parlando alla tv Paterson e la moglie Michelle hanno ammesso di avere avuto ambedue una relazione sentimentale mentre erano già sposati, ma di essersi poi riconciliati e perdonati. A parità di colpa, il perdono reciproco sembra più facile.

La morale statunitense è profondamente contrassegnata dall’ideologia analitica: vede l’albero, ma non discerne la foresta. Il presidente Richard Nixon cadde in seguita allo scandalo “Watergate” una serie di attività illegali della sua amministrazione contro il Partito democratico. BilI Clinton si scusò davanti alle televisioni nazionali per l’adulterio commesso con una stagista alla Casa Bianca. Spitzer ha abbandonato la sua carica per aver speso una fortuna con prostitute, si parla di 80mila dollari.

E la foresta? Cosa dice la morale made in Usa sugli abusi dei diritti umani praticati su ampia scala da Nixon e Clinton? Perché è considerato etica invadere l’Iraq, provocando un genocidio (89mila civili iracheni e 4mila militari statunitensi morti dal 2003), a praticare la tortura nella prigione di Abu Ghraid, a Baghdad, o sequestrare supposti terroristi in Europa e confinarli nell’inferno carcerario della base navale di Guantànamo, un luogo del tutto alieno ai principi del diritto? E’ forse morale tenere per 110 anni una nazione come Porto Rico priva delle proprie sovranità e indipendenza? È morale punire Cuba con un embargo che dura ormai da 48 anni?

Forse le radici di questa morale fondamentalista - che colpevolizza una debolezza sessuale e accondiscende a un genocidio - affondano in una lettura sbagliata della Bibbia. La storia del re Davide, uno dei personaggi biblici di cui si hanno più informazioni, è emblematica: fu punito per aver commesso adulterio con Betsabea e per aver fatto uccidere il di lei marito, così da aver libera la strada al letto della donna desiderata (2 Sam 11).

Si sa, tuttavia, che re Davide, noto per aver composto il Miserere, fu un guerriero prima e dopo essere salito al trono: “uccise numerosi re nemici”, “mise In fuga eserciti avversari”, “massacrò 18mila idumei”, “sterminò 40mila aramei”… e via uccidendo, sempre “in nome di Dio”. Non consta che si sia pentito di tutte queste morti, né che fu punito per il sangue versato. Si pentì - e fu punito – solo per il caso di Betsabea. Ed ecco l’eredità che un certo tipo di esegesi biblica ci ha lasciato: se uccidi una persona, sei un assassino; se ne uccidi migliaia, sei un eroe, Il presidente Bush ne sembra convinto: butta ogni giorno bombe su popolazioni civili, ma ogni sera riposa il suo capo sulla spalla di Dio .Viene in mente il titolo di un film di Akira Kurosawa, nel 1960: Warui yatsu.hodo yoku nemuru (I malvagi dormono in pace).

Finché la nostra idea di Dio ci consentirà di evocarlo come complice dei nostri interessi egoistici e meschini - come il controllo delle risorse petrolifere in Medio Oriente -, continueremo a soffrire della “sindrome abramitica del sacrificio”, secondo la quale Dio avrebbe richiesto ad Abramo di sacrificare il suo unico figlio, Isacco; più tardi, non ancora del tutto soddisfatto, avrebbe sacrificato sulla croce il proprio unigenito, Gesù. Quindi, in vista di un presupposto bene maggiore - la democrazia insegnata, e regolata dai signori del denaro - un’intera nazione può essere sacrificata!

Una lettura più contestualizzata della Bibbia (il testo deve sempre fare i conti con il contesto spaziale e temporale) ci consente di capire che Jahvé non accettò che, in nome di una nuova fede (quella monoteistica), Abramo uccidesse Isacco, come prescrivevano i culti politeistici e i loro riti arcaici dell’oblazione delle primizie. Al contrario, Jahvé rivelò al grande patriarca di essere un Dio della vita, non della morte. Per questa salvò Isacco dalla miopia religiosa di Abramo (Gen, 22).

Nella stesso modo, è blasfemo pensare che Gesù sia morto per placare la sete di “sangue espiatorio”, di un Dio che, offeso e risentito, si trasforma in un omicida più crudele del re Erode. La verità è che Gesù fu ucciso da poteri politici. La “volontà” di Dio fu che il Figlio continuasse ad amare anche in quella situazione di peccato.

Al contrario della morale made in USA, Gesù perdonò la donna adultera e ogni possibile “figlio prodigo”, come pure il rinnegamento di Pietro, mentre fu rigorosamente esigente con coloro che avevano fatto del tempio di Dio (oggi diremmo l’universo, il pianeta terra, la vita umana) «una spelonca di ladri» (Mc 11,17). Se volessimo inquadrare la scena della cacciata dei mercanti dal tempio nel contesta odierno, potremmo dire che Dio è implacabile quando la sacralità della vita viene sacrificata sull’altare degli interessi pecuniari del mercato.

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Mercoledì, 10 Settembre 2008 23:09

BATTESIMO E SPADA

 BATTESIMO E SPADA

di Mostafa El Ayoubi
giornalista
Nigrizia – Maggio 2008

La vicenda del battesimo del noto giornalista da parte dì Papa Benedetto XVI, trasmesso da televisioni di mezzo mondo, è stata per diversi giorni oggetto di un dibattito acceso tra musulmani e cattolici, l’evento ha sollevato in sostanza, due questioni complesse: la libertà religiosa e il dialogo tra le due più grandi comunità religiose del mondo.

Grazie all’illuminismo, la libertà religiosa è stata una grande conquista per i paesi cristiani occidentali. La chiesa cattolica, dopo un lungo travaglio interno, ha fatto suo questa importante conquista: nel 1965, con la dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano Il, il principio della libertà religiosa è stato introdotto nel sua insegnamento. Nel mondo islamico, il nodo della libertà religiosa rimane tutt’oggi irrisolto. In alcuni paesi il diritto di professare una fede diversa da quella islamica o di abbandonare l’islam non è garantita: sono previste pene severe (perfino la pena di morte) per chi, ad esempio, è accusato di apostasia.

Benché il Corano affermi che «non vi è costrizione nella fede» (2, 256), in diverse realtà islamiche prevale il codice della shar’ia, che nega tale diritto. Da questo grave limite consegue una forte restrizione della libertà di opinione. Chi critica l’islam mette spesso in pericolo lo sua incolumità fisica. Magdi Allam, che ha spesso scritto articoli duri nei confronti dei musulmani, da cinque anni vive sotto scorta per le minacce di morte da parte dei fondamentalisti islamici. Ora che è convertito al cattolicesimo, la sua situazione si è ulteriormente aggravata.

Ma è mai possibile che, ancora oggi, una persona rischi la morte per le sue opinioni? E’ possibile che non ci siano argomenti per rispondere a quelli di Allam - spesso offensivi e poco costruttivi - e che l’unica mezzo per contrastarla sia la “spada”? Nessuno opinione - anche la più infamante - può recare al sua autore la privazione della sua libertà di movimento, di espressione e di fede o mettere la sua vita in pericolo. Per i musulmani che si sentono offesi, l’unico mezzo per difendersi è l’uso della ragione.

L’altra questione sollevata dalla vicenda è il difficile dialogo - spesso formale - tra il vertice della chiesa cattolica e i rappresentanti del mondo islamico. A complicare questa dialogo precario è intervenuto il discorso del Papa a Ratisbona nel settembre 2006. nel quale citò un imperatore bizantino del Trecento che accusava l’islam di essere una religione della spada. Nell’ottobre scorso, un appello al dialogo con i cristiani, firmato da 138 musulmani, è stato accolto positivamente dal Vaticano, che, assieme ai promotori dell’iniziativa, sta preparando un incontro di dialogo interreligioso per il prossimo novembre.

Tuttavia, la decisione della Santa Sede d’impartire per mano del Papa il battesimo a Allam è stata una nuova battuta d’arresto sulla via del dialogo. Aref Ali Nayed, uno dei promotori dell’appello dei 138, in un duro comunicato, ha definito l’evento «una provocazione» simile a quella di Ratisbona e ha accusata la chiesa di fare proselitismo nelle scuole cattoliche dei paesi musulmani. Ha poi aggiunto che, con questa operazione, la chiesa ha voluto dimostrare di aver segnato un punto a suo favore nella corsa alle conversioni. Questo giudizio - affrettato e offensivo, da parte chi solo pochi mesi prima invitava il Papa a dialogare con i musulmani - pone degli interrogativi sull’utilità di questa tipo di appelli calati dall’alto e che, al primo ostacolo, si rivelano superficiali.

Altrettanto fragili e prive di prospettive le risposte da parte cattolica. C’è chi, come il vaticanista Sandro Magister, considera che, per dialogare con l’islam, il re saudita Abdollah, “custode dei luoghi sacri dell’islam” (che nel novembre scorso si è recato per la prima volta nella storia in visita al Vaticano) è meglio dei 138 “saggi”. In quell’occasione, il sovrano regalò al Papa una spada (in oro e pietre preziose): un imbarazzante dono, tanto per rafforzare i pregiudizi! Non sarebbe stato meglio, ad esempio, regalare al Papa una Bibbia scritta in arabo, in memoria dell’antica comunità cristiana di Najran, vissuta a Medina all’epoca del profeta Mohammed?

Per rispondere alle critiche circa il battesimo di Allam, alti responsabili della chiesa hanno affermato che si è trattato di un contributo verso l’affermazione del principio della libertà religiosa. Benissimo! Ma allora perché lo stesso principio non è stato ricordato in modo esplicito al re saudita - guida di un paese dove vive circa un milione di cristiani in totale mancanza di libertà religioso - quando si è presentato in Vaticano con la sua spada d’oro?

Il caso dello conversione di Cristiano Allam resterà a lungo come una velenosa spina nel fianco del tortuoso processo di dialogo islamo-cattolica. Allam, all’indomani del suo battesimo, ha scritto di nuovo dure critiche nei confronti dell’islam, definendola «un’ideologia che legittima la menzogna e la dissimulazione. La morte violenta…». Probabilmente continuerà la sua battaglia anti-islamica. E’ libero di farla, Il problema è che tutto quello che scriverà evocherà nella mente dei molti lettori musulmani un’immagine negativa del Papa e dei cattolici. Questa, oltre a vanificare il dialogo, rischia di rendere difficile la vita quotidiana di milioni di cristiani che vivono nei paesi a maggioranza islamica.

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MARX NON È MORTO E LE SUE DENUNCE SONO ANCORA ATTUALI

di Giannino Pianadocente di teologia moraleJesus – Maggio 2008

Con la caduta del muro di Berlino e il fallimento delle esperienze del socialismo reale, perciò di tutti i sistemi a economia pianificata, molti hanno ritenuto che Marx fosse definitivamente morto (ricordate il famoso slogan di Woody Allen?) e che i suoi scritti andassero definitivamente traslocati in soffitta. Le considerazioni che avevano, con maggiore frequenza, il sopravvento erano improntate alla denigrazione: all’ideologia marxista venivano infatti attribuiti i crimini consumati nell’Urss, specialmente durante il periodo staliniano e, più in generale, le varie forme di repressione, spesso cruenta, che hanno caratterizzato la conduzione di molti Paesi dell’Est nell’epoca del predominio del comunismo. Chi si dimostrava più benevolo non mancava di riconoscere al marxismo alcuni meriti storici, legati per lo più all’analisi della realtà sociale del tempo, ma tendeva in ogni caso a demolirne la dottrina, qualificandola come una utopia del tutto disincantata e astratta.

Oggi le cose sono cambiate. Al momento di grande enfasi del capitalismo, che si era preso radicalmente la rivincita, è subentrata negli ultimi anni una stagione caratterizzata da un atteggiamento più critico verso di esso; atteggiamento motivato sia dall’incremento delle sperequazioni, soprattutto a livello mondiale, e perciò dall’accentuarsi della conflittualità sociale, sia dall’affiorare, in modo sempre più drammatico, della questione ecologica che mina alle radici le possibilità stesse dello sviluppo.

Ciò che ai nostri giorni avviene sembra dunque confermare la plausibilità di alcune analisi di Marx; mette, in altri termini, in luce il realismo di alcune sue posizioni critiche e soprattutto la lungimiranza di quelle pagine in cui egli smaschera le illusioni del capitalismo e ne svela le contraddizioni.

Alla rinata consapevolezza dell’attualità della sua dottrina (o almeno di alcune parti di essa: altre sono infatti decisamente cadute perché divenute anacronistiche o perché rivelatesi in partenza sbagliate) per la politica dì oggi si deve (forse) il successo editoriale di una recente antologia dei suoi scritti, curata da Enrico Donaggio e Peter Kammerer (K. Marx, Capitalismo. Istruzioni per l’uso, Feltrinelli, 2007), dove, oltre a emergere con chiarezza l’importanza assegnata da Marx all’economia quale struttura portante della vita collettiva - importanza oggi confermata dalla centralità assunta dal mercato in tutti gli ambiti della vita - sembra ricevere grande plausibilità la dottrina (per molto tempo contestata, perché ritenuta illusoria) del plusvalore, che acquista nuova credibilità a partire dallo stravolgimento avvenuto all’interno del capitalismo che ha condotto a confondere il valore d’uso con il valore di scambio: nell’attuale sistema economico infatti a determinare il prezzo di mercato non è più la qualità, ma il marchio, il quale trasfigura il prodotto, dando luogo a una forma di concorrenza sempre più sleale, dove il guadagno ha sempre meno a che fare con il valore oggettivo della merce.

A confermare l’attualità dell’analisi marxiana concorre inoltre una serie convergente di recenti studi sociologici - è sufficiente ricordare qui il volume di Luciano Gallino (Il lavoro non è una merce. Contro Io flessibilità, Laterza 2007) - nei quali il concetto del lavoro come “merce” - concetto centrale nel pensiero di Marx - viene largamente ripreso per mettere sotto processo una situazione di profondo disagio, in cui identità soggettiva, autostima, conoscenze e crescita professionale contano sempre meno o sono prerogativa di una ridotta minoranza.

Lo stato di sempre maggiore insicurezza provocato da una esasperata flessibilità dell’attività lavorativa finisce per dare vita a una società precaria e dove sussistono sempre meno diritti. La centralità che Marx attribuisce al lavoro e al suo stretto rapporto con il sistema economico, in quanto fattori dominanti attorno ai quali ruota la vita personale e collettiva, sembra comprovata oggi dai fatti, con l’aggiunta di nuove motivazioni.

Nella società globalizzata il mercato del lavoro è sempre meno controllabile, e le esperienze che avanzano non sono certo rassicuranti; si assiste infatti all’aumento delle forme di alienazione, con l’esito di una deriva sempre più estesa, anche a causa dei processi di omologazione in atto.

La denuncia di Marx suona perciò ancor oggi come un monito che deve essere assolutamente ascoltato, se è vero che dalla qualità dell’attività lavorativa dipende, in larga misura, la qualità della vita umana, e dunque il livello di umanizzazione proprio di una società.

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Sabato, 06 Settembre 2008 18:09

CONFLITTI DI INTERESSI

CONFLITTI DI INTERESSI

da Adista

Questo articolo di Pierre Hassner, professore di relazioni internazionali all’Institut d’études politiques a Parigi, è apparso sul quotidiano francese “Le Monde” (4/4/2008). titolo originale: “les dilemmes de l’occident”

I governi occidentali sono sempre più spesso chiamati a prendere posizione su crisi e conflitti fra una nazione, imperiale o postimperiale , dominante e un popolo dominato. C’è accordo unanime su tre punti che sono altrettanti dilemmi. Innanzitutto, essi si proclamano legati alla difesa dei diritti dell’uomo e, insieme, alla sovranità degli Stati e alla stabilità delle frontiere. Poi, devono, a livello d’azione, gestire una tensione tra i principi universali - morali o giuridici - che professano e gli interessi, le alleanze e gli impegni dei loro rispettivi Stati. Infine, è più facile per loro arbitrare in favore dei principi quando l’oppressore non è una grande potenza economica o militare.

Sono tre i casi che qui ci interesano, tanto per le loro similitudini quanto per le loro differenze: quelli della Cecenia, del Kossovo e del Tibet. In tutti e tre i casi si tratta di nazioni a statuto giuridico incerto e fluttuante, ma dall’identità culturale e storica e dalla volontà politica affermate, vittime della conquista e dell’oppressione di regimi nazionalisti, comunisti o postcomunisti. Nei tre casi, la nazione dominante dichiara che “La Cecenia è la Russia”, “Il Kossovo è la Serbia”, “Il Tibet è la Cina”, né più né meno dello slogan “L’Algeria è la Francia”.

La Cecenia è stata conquistata a duro prezzo dalla Russia nel XIX secolo, e la sua popolazione deportata da Stalin dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Il Kossovo, dopo aver conosciuto, in successione, la dominazione dei bulgari, degli imperatori bizantini, dei serbi, degli ottomani, fu conquistato dai serbi, con una brutalità estrema, nel 1912, staccato dall’Albania - divenuta indipendente - con un negoziato fra le grandi potenze e infine incorporato prima nel regno jugoslavo, poi nella Jugoslavia di Tito, con un doppio statuto di autonomia all’interno della Serbia e a livello federale.

Il Tibet, erede di un impero considerevole, ha avuto legami religiosi e talvolta di antichi protettorati con la Cina e ha conosciuto nel corso dei secoli varie invasioni, punteggiate da fughe e ritorni del dalai-lama di turno, ma non è stato mai conquistato ed incorporato alla Cina se non da Mao Zedong nel 1950. Ha conosciuto una grande rivolta popolare nel 1959, repressa nel sangue.

In tutti e tre i casi, i popoli dominanti, russi, serbi, cinesi, nutrono un grande disprezzo, ai limiti del razzismo, per la cultura dei popoli dominati. In tutti e tre i casi, la resistenza di questi ultimi assume di volta in volta il carattere di protesta contro gli abusi di cui sono oggetto e, da un certo punto in poi, di rivolta o di insurrezione anticoloniale, nazionale e identitaria. Ma in tutti e tre i casi questa rivolta è stata inizialmente guidata da leader moderati, alla ricerca di un negoziato, come Aslan Maskhadov in Cecenia, o pacifisti e nonviolenti come lbrahim Rugova e il dalai-lama. I quali, davanti all’intransigenza che si son visti opporre, hanno finito per essere contestati o superati da partigiani della lotta armata (i fondamentalisti islamici in Cecenia, l’Armata di liberazione del Kossovo - Uck -, una nuova generazione di immigrati tibetani).

Le tre storie cominciano a divergere nel loro esito provvisorio. In Cecenia, i russi hanno probabilmente vinto, una volta ancora, per una generazione, distruggendo il Paese, provocando un numero considerevole di morti e di rifugiati, e consegnando il potere ad un transfuga della resistenza, corrotto, assassino e torturatore, Ramzan Kadyrov, che, tuttavia, ha ricostruito la capitale in modo spettacolare, e sempre più sembra essere, in piena obbedienza a Vladimir Putin, il padrone del suo Paese. Nel Kossovo. contrariamente alle previsioni pessimiste e malevole, non è stato l’Uck a prendere il potere dopo la liberazione (che non avrebbe avuto luogo se non ci fosse stata, a fianco di quella dell’Uck, l’azione congiunta della Nato), ma Ibrahim Rugova e il suo partito, risultati vittoriosi in elezioni libere. Se, dieci anni dopo, è Hashim Thaci, ex leader dell’Uck, a diventare primo ministro, è per via parlamentare, come risultato di altre elezioni libere. Come i governi precedenti, egli resta inquadrato e sorvegliato dalla presenza prima dell’Onu. poi dell’Unione Europea.

Per quanto riguarda il Tibet, sarebbe interesse della Cina riprendere i negoziati con il dalai lama, sola autorità riconosciuta dai tibetani, le cui rivendicazioni si limitano all’autonomia in seno alla Cina e alla tutela della popolazione e della religione tibetana. Ma tutto porta a credere che Pechino sceglierà la via della repressione centralizzata e dell’assimilazione forzata, che comporterà altre rivolte e altre repressioni, fino a quando la religione e la cultura tibetane saranno sopraffatte e i tibetani stessi diventeranno una minoranza silenziosa all’interno del loro stesso Paese.

Cosa ha consentito ai kossovari di sfuggire a questa sorte? Innanzitutto, evidentemente, il ruolo della Nato, dell’Onu e dell’Unione Europea. Ma questo è stato possibile solo grazie a due considerazioni decisive, una sul piano della diagnostica e dei principi, l’altra sul piano del rapporto di forze. Il matrimonio fra serbi e albanesi è sempre stato un matrimonio forzato. Due serie di avvenimenti hanno reso inevitabile il divorzio: da un lato, la soppressione dell’autonomia da parte di Milosevic, i dieci anni di repressione e di esclusione che sono seguiti, infine l’espulsione della maggioranza della popolazione e i massacri che hanno accompagnato la guerra; e, dall’altro lato, la disintegrazione della Jugoslavia, con l’emancipazione di tutte le repubbliche non serbe, dalla Slovenia al Montenegro.

Era inconcepibile e immorale progettare che i kossovari, il popolo più disprezzato e il più perseguitato dai serbi, restassero soli in un testa a testa con questi ultimi e sotto la loro autorità. Ma era altrettanto inconcepibile e immorale permettere che questa separazione si effettuasse senza assicurare la protezione del Kossovo in rapporto alla Serbia e quella della minoranza serba del Kossovo in rapporto alla maggioranza albanese, e senza offrire agli uni e agli altri un quadro e una prospettiva di cooperazione organizzata. Da qui l’idea di questa indipendenza condizionale, sorvegliata e inquadrata dalla presenza prima dell’Onu e poi dell’unione Europea. Questa decisione, presa dopo anni di negoziato, finalizzata innanzitutto ad assicurare l’autonomia della minoranza serba e dei suoi legami con Belgrado, ma accolta con diffidenza e pregiudizi un po’ ovunque, per le più contraddittorie ragioni, era, malgrado tutti i suoi limiti e i suoi rischi, la sola realistica e onorevole.

Perché, allora, quello che vale per il Kossovo non vale per la Cecenia e per il Tibet? Prima di tutto, certo, perché il Kossovo e la Serbia sono in Europa e perché l’Unione Europea, coinvolta nel loro conflitto, può anche permettere loro di ritrovarsi un giorno nel quadro di una integrazione comune in un insieme più ampio. Ma soprattutto perché la Serbia, Paese indubbiamente centrale e cruciale dei Balcani che nessuno, in Europa, ha interesse ad isolare, non è affatto la Russia o la Cina.

Queste sono potenze in ascesa, almeno provvisoriamente, che giocano un ruolo centrale nel nuovo mondo multipolare. L’una e l’altra sono la dimostrazione di questo tratto paradossale ma fondamentale del mondo attuale: in rapporto all’Occidente, sono ad un tempo partner insostituibili, concorrenti temibili ed avversari inevitabili - in particolare per quel che riguarda i diritti umani. Anche un Occidente più fermo, più unito, più disposto a sacrificare i suoi interessi immediati non potrebbe imporre loro niente col ricatto o con la forza.

Resta tuttavia da giocare una carta per influenzare il loro comportamento. Forse più della Serbia, Russia e Cina sanno che perderebbero economicamente ad isolarsi o a rinchiudersi. Proclamano, a ragione, che noi abbiamo più bisogno di loro che loro di noi, ma sanno che hanno interesse a lasciare che le loro élite viaggino, che le loro imprese investano all’estero e che le aziende estere investano da loro. Desiderano partecipare alle organizzazioni multilaterali quali l’Omc, il Consiglio d’Europa o il G8, o ai diversi gruppi di contatto e a manifestazioni spettacolari e simboliche come i giochi olimpici, da cui sperano di trarre gloria e profitto.

L’Occidente non può né deve escluderli. ma ha il diritto e il dovere di ricordar loro direttamente e di far loro sentire indirettamente che questa apertura multilaterale non è possibile se non in ossequio a regole che al primo posto vedono trasparenza e reciprocità. Le opinioni pubbliche dei Paesi democratici e sicuri delle loro forze economiche e politiche sono troppo diffidenti verso le condotte e i prodotti dei russi e dei cinesi. La rivoluzione delle comunicazioni non permette più a nessuno di mantenere il segreto né sulle azioni contrarie ai diritti dell’uomo, né sulle reazioni che queste suscitano e sui danni che comportano in termini di fiducia e di prestigio, e anche, di conseguenza, in termini di progresso economico, tecnico e culturale.

Nel momento dei Giochi olimpici, è importante far loro misurare la portata del vecchio proverbio bretone: “Non ci si arrampica sull’albero della cuccagna quando non si è completamente vestiti”.

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L'estrema destra europea prepara una grande manifestazione contro l'Islam

Clarín (Argentina) del 11.08.08
di Julio Algañaraz


L'estrema destra europea, pregna di fascismo e di ideali nazisti, ha trovato il suo imprescindibile nemico nell'Islam e ieri è stato annunciato che organizza una grande concentrazione contro la costruzione di una moschea a Colonia, in Germania, per il mese di settembre, dopo le vacanze nell'emisfero nord. Uno dei personaggi protagonisti della manifestazione sarà il deputato Mario Borghezio, esponente della Lega Nord nel governo conservatore di Silvio Berlusconi, che è stato condannato dalla Chiesa italiana due giorni fa dopo il giuramento guerriero armato contro i musulmani in una chiesa genovese.

I trionfi nelle varie elezioni nazionali dei partiti di estrema destra e xenofobi rafforza le azioni contro gli immigrati clandestini e l'ostilità verso gli islamici perché si sentono protetti dalla ondata conservatrice che si vive in Europa.

La concentrazione di Colonia, una delle principali città tedesche, vuole essere l'atto di fondazione dei gruppi "neri", con il tentativo di dare vita ad una "dichiarazione di Colonia" contro "l'islamizzazione dell'Europa". Dal momento in cui la comunità islamica di Colonia ha deciso di costruire la più grande moschea tedesca con due minareti di 55 metri di altezza, il progetto si è trasformato in un detonatore del malcontento istigato dalla estrema destra.

La grande manifestazione del 19-20 settembre concentrerà nella città fondata dai Romani tutti gli utramontanismi del Vecchio Continente. In Germania il gruppo organizza il meeting si chiamata "Pro-Colonia" ed i suoi membri si proclamano "attivisti della giustizia di destra", contrapponendosi "ai difensori del multiculturalismo e del gran capitale".

Il suo principale punto di riferimento è il partito neonazista NPD, i cui deputati due anni fa si ritirarono dal Parlamento Europeo, quando venne rese omaggio alle vittime del campo di sterminio di Auschwitz.

Assicurano la loro presenza a Colonia il fondatore del "Fronte nazionale" francese, Jean-Marie Le Pen, il leader del partito dell'estrema destra fiamminghi del Vlaams Belang, Filip Dewinter; gli orfani del pensionato Jorg Haider, noto come "il Fuhrer d'Austria" e, naturalmente il deputato italiano.

Borghezio è il personaggio più colorito, amato e detestato del partito xenofobo, nell'intimo separatista, di milioni di sostenitori nel nord Italia, che sognano di allontanare dalla "Padania" (la regione settentrionale inventata come patria congetturale) gli islamici, i "terroni" del sud italiano e il maggior numero possibile di immigrati. Non del tutto, perché in realtà gli stranieri dei paesi più poveri sono essenziali.

Ma Borghezio, che era solito con alcuni amici spruzzare i treni per "disinfettarli" quando vedeva neri o arabi, organizza provocazioni quasi quotidianamente. Ha inoltre portato i suini ad urinare su terreni acquistati da musulmani che avevano ottenuto il permesso di costruire moschee nei comuni italiani.

Due giorni fa tuonò davanti l'altare della chiesa di San Giovanni a Genova, un sito storico del XIII secolo, che "noi cavalieri combattenti proteggeremo la cristianità ora e per sempre. Promettiamo di difendere con ogni mezzo necessario il cristianesimo dalla profanazione dell'Islam". La dichiarazione di guerra, completata da un scenario di bandiere della Lega Nord e spade medievali, ha provocato una dura reazione da parte l'arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale italiana, il Cardinale Angelo Bagnasco.

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Venerdì, 08 Agosto 2008 20:19

LA MAFIA NAPOLETANA E I ROM

LA MAFIA NAPOLETANA E I ROM

di Fabrice Rizzoli* - “Liberation”, 4 agosto 2008

(abstract)

Il 13 maggio (2008 – n.d.t.) un’ondata di violenza si è improvvisamente abbattuta sui rom che vivono nel quartiere Ponticelli di Napoli. I loro campi, i cui occupanti erano stati precedentemente allontanati dalla polizia, sono stati saccheggiati e incendiati dagli abitanti del quartiere. La popolazione di Ponticelli ha “giustificato” la rappresaglia con il tentato rapimento di una bimba di sei mesi compiuto due giorni prima da una sedicenne rumena fuggita da una casa di accoglienza per minorenni. Da rumeno a rom il passo è breve, ci sono solamente due sillabe.
In Italia, come dappertutto in Europa, i rom vivono in condizioni spaventose: i campi di fortuna installati in discariche abusive o sotto i ponti sono isole di miseria nel cortile dell’occidente. Qui come ovunque i rom vivono – o piuttosto sopravvivono - di accattonaggio e della vendita di metalli di recupero. I rom sono stanziali da ormai lungo tempo e tuttavia continuano a soffrire dei pregiudizi multisecolari che gravano sui popoli nomadi, i gitani, gli zigani, i manouche. Durante la seconda guerra mondiale i “ladri di polli e di bambini” si sono ritrovati accanto agli ebrei, sterminati nei campi nazisti.
Nel quartiere napoletano di Ponticelli oltre 1500 rom vivono all’interno di “microcampi” costituiti ciascuno da una dozzina di baracche installate su discariche illegali o sotto i ponti. Il quartiere non è immune dalle influenze della mafia. Esso è controllato dal clan Sarno. Ciro Sarno, il capo del clan, è in prigione, ma i suoi luogotenenti continuano a obbedirgli. La mafia ha autorizzato i rom a vivere sui suoi territori dietro pagamento del pizzo, un’imposta di 50 euro al mese. Il clan consente in questo modo ai rom di chiedere l’elemosina e di gestire le discariche illegali. Ogni giorno essi visitano i garage, le officine e le aziende della zona per fare incetta di batterie e di altri materiali inquinanti; le imprese pagano dai 5 ai 15 euro per sbarazzarsi di tali materiali. Il clan autorizza altresì i rom a rubare negli appartamenti. In compenso è stato loro interdetto il centro di Ponticelli, là dove gli uomini della camorra vendono droga. Cos’ha spinto gli abitanti di Ponticelli a prendersela con i rom? Dietro la popolazione c’è ancora una volta la mafia: fra le persone fermate dalla polizia in occasione delle manifestazioni e dei disordini comparivano le donne di mafiosi e alcuni complici della camorra dalla fedina penale pulita. È sufficiente che si presenti una buona occasione (il tentativo di rapimento, i cui contorni rimangono peraltro da chiarire) perché la mafia passi all’azione. Un’azione assai proficua sotto diversi punti di vista. Innanzitutto la mafia mette in ridicolo lo stato italiano, che si rivela incapace di proporre soluzioni concrete al problema dell’immigrazione rumena. Agli occhi della popolazione, inoltre, il clan – correndo in aiuto di una bimba rapita e liberando il quartiere dai “ladri di galline” – si pone come garante della giustizia. La mafia ha ulteriormente aumentato il proprio capitale di consenso sociale a Napoli. Ma queste espulsioni in chiave mafiosa potrebbero nascondere un’operazione di speculazione immobiliare. Le terre bruciate durante i disordini del 13 maggio fanno parte di un piano di urbanizzazione. Da meno di un mese sono state indette gare d’appalto per la costruzione di residenze, appartamenti, scuole e ospedali. Un finanziamento di 7 milioni di euro è già disponibile. Ma, se i lavori non dovessero iniziare prima di agosto, alcune persone perderebbero denaro. Chi?

* Fabrice Rizzoli è consulente di criminologia presso il “Centro francese di ricerche sull’informazione”.

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Una cortina di fumo per occultare problemi di fondo

da La Nación del 30.07.08

Roma (dalla nostra corrispondente) – I soldati pattugliano le strade delle principali città italiane. Lo stato di emergenza contro l'immigrazione clandestina. Quasi 160.000 nomadi nelle mira del censimento considerato discriminatorio.

Molti italiani ritengono che, con misure populiste, il governo di Berlusconi non solo cerca di nascondere una gravissima situazione economica, ma inoltre allontana l'Italia dai valori morali ed etici, i difesa dei quali è già intervenuta l'Unione Europea.

I sondaggi indicano che la maggior parte degli italiani sono soddisfatti della pesante mano di Berlusconi. Ma d'altra parte, il controverso magnate e premier italiano sembra cogliere questa psicosi diffusa di insicurezza e di immigrazione clandestina – fomentata anche dai suoi mezzi di comunicazione –, per far dimenticare che il Parlamento ha appena approvato una legge che garantisce la sua immunità.

Non sono pochi gli analisti che sottolineano che vi è una grande contraddizione tra la normativa recentemente approvata (che, in realtà, lo salverà in caso di condanna in primo grado in un processo per corruzione) e questo tentativo di dimostrare, con militari e stati di emergenza, un forte impegno a favore di "legge e ordine".

Parlando quasi esclusivamente di emergenza, di insicurezza, di barbara invasione di immigrati senza documenti distrae l'attenzione dall’altra grave emergenza: l’insofferenza delle tasche degli italiani, che già non riescono ad arrivare fine mese.

Un recente rapporto ha indicato che questa estate tra i 20 ed i 21 milioni di italiani andranno in vacanza con una media di 9 giorni, due in meno dell'anno scorso. Coloro che andranno in vacanza rappresentano circa il 40% dei 48 milioni di italiani nella maggiore età, 2 milioni in meno rispetto al 2007. Si tratta di una riduzione del 10% rispetto allo scorso anno, a causa della mancanza di denaro (i salari sono fermi da anni), il costo del carburante, alle stelle, ed i prezzi troppo elevati a causa di inflazione.

In questo contesto, il governo preme su l’ondata dei clandestini – vittime della fame e della guerra nei loro paesi – stando in agguato. E forse si dimentica di un altro possibile stato di emergenza se, da giorno all’altro, i 650.000 immigrati clandestini che lavorano in Italia venissero espulsi. Cosa faranno centinaia di famiglie italiane che si affidano a baby-sitter filippine, peruviane e boliviana, o le migliaia di anziani che sopravvivono grazie alle badanti che gli assistono? Perdita di valori.

Al di là di quella realtà, per molti italiani che conoscono la storia, o che hanno parenti che partirono per il Nuovo Mondo a "fare l’America" quando in Italia c’era gente che letteralmente moriva di fame, risulta umiliante l'attuazione di una politica di immigrazione come quella di Berlusconi, confinata nella discriminazione e nella xenofobia, come accusata dall'Unione Europea.

E’ anche molto umiliante per coloro che ricordano un'altra Italia, che manteneva alti i valori morali ed è stata membro fondatore della Comunità Economica Europea, e che oggi riceve continue tirate d’orecchie da parte delle istituzioni create a seguito di quel sogno europea. In questo senso, ci sono quelli che sottolineano che, così come in altri momenti di turbolenza è stato grazie all'intervento dell'Unione Europea che l'Italia è riuscita a rimanere ancorati a un blocco di economia di mercato, ora “l’azione pedagogica” dell'Europa si estende niente meno che all'etica.

“La ripetuta adozione di misure di emergenza per il controllo dell’immigrazione sembra indicare che i vari provvedimenti non sono in grado di gestire un fenomeno che non è nuovo e deve essere trattato con misure ordinarie”, afferma il rapporto su l’Italia del Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, divulgato ieri. “Inoltre, le frequenti modifiche delle disposizioni legislative in materia di immigrazione vanno a scapito della certezza del diritto”, aggiunge.

Pochi giorni fa, tra i disordini causati dalla dichiarazione dello stato di emergenza per il flusso di straordinario degli extracomunitari, anche il Vaticano ha esortato l'Italia a rispettare i diritti umani degli immigrati. Un simile appello era stato fatto in precedenza, quando si stabili la registrazione della popolazione nomade.

Andrea Bonanni, un giornalista de La Repubblica, riassume bene ieri, nel suo blog, la situazione: “Da sorvegliato speciale per la politica economica, l’Italia sta diventando un sorvegliato speciale per i valori fondamentali che costituiscono l’essenza stessa di una democrazia. E’ un segno del degrado del Paese su cui, a mio avviso, non riflettiamo abbastanza. Ma che dovrebbe comunque indurci a rallegrarci dell’esistenza di un ‘cane da pastore’ europeo, che si sforza di frenare la deriva di questo governo”.

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Mercoledì, 23 Luglio 2008 23:14

CAPRO ESPIATORIO ROM

CAPRO ESPIATORIO ROM

di Alex Zanotelli
Nigrizia giugno 2008

Mentre si aggrava la crisi dei rifiuti, è scoppiata a Napoli la caccia ai rom. Non è una novità. Non sono assolutamente sorpreso che sia accaduto un putiferio di questa portata. È necessario analizzare bene ciò che è successo, per capire e per trarne una lezione importante.

L’innesco ai fatti è stato dato da una donna di Ponticelli, una delle periferie degradate e povere di Napoli: ha accusato una ragazzina rom di essere entrata in casa, sabato 10 maggio, e di aver tentato di rapirle la figlioletta. Gli inquirenti ci diranno come si sono svolti i fatti. Intanto, però, la gente di Ponticelli ha reagito e ha cominciato ad attaccare i campi rom. Ce n’erano almeno 4 o 5 e sono stati dati alle fiamme. La polizia ha tentato di arginare questa guerra tra poveri, ma senza risultati. Le comunità rom sono fuggite o sono state scortate dalla polizia fuori da Ponticelli. Una crisi davvero brutta, che potrebbe propagarsi.

Lavoro da anni con il Comitato civico pro-rom, legato alla Rete Lilliput, che raggruppa numerose associazioni. Per questo, ho avuto la possibilità di conoscere da vicino la situazione e ho potuto visitare buona parte dei campi rom di Napoli. Ci troviamo di fronte a una realtà drammatica, con decine e decine di campi, dislocati nel comune e nella provincia, che ospitano circa 4.000 persone.

Devo ammettere che, per quel che ho avuto modo di vedere girando l’Italia in lungo e in largo, Napoli è una delle situazioni più difficili nel nostro paese sul versante rom. Quando, qualche anno fa, arrivai a Napoli, visitai il campo rom di Caloria e subito andai con la mente alla baraccopoli di Korogocho (periferia di Nairobi, Kenya), dove avevo vissuto a lungo. All’epoca, scrissi alle autorità napoletane, dicendo che avevo visto qualcosa di peggiore di Korogocho. E su questo ebbi uno scontro durissimo con il prefetto, al quale ribadii che trovavo scandaloso che i rom fossero buttati fuori dai campi, senza che avessero un posto dove andare.

In ogni caso, in questi anni, si sono fatte molte lotte a favore dei rom a Torre del Greco, a Torre Annunziata, a Ercolano e un po’ ovunque nel Napoletano. Abbiamo sempre cercato il dialogo con le istituzioni. Abbiamo messo in piedi tavoli istituzionali, dove si è dialogato e ci si è scontrati. E qui devo ribadire che le istituzioni hanno fatto pochissimo.

Una delle cose che abbiamo continuato a chiedere è che la provincia o il comune diano uno spazio dove portare le migliaia di container della Protezione civile che stanno letteralmente marcendo nel Casertano. In questo spazio fornito di acqua e elettricità, in questi container potrebbero trovare riparo tutti i rom del Napoletano. Ma non siamo riusciti a ottenere nulla.

C’è poi la questione rom-camorra, che non va dimenticata. Qui a Napoli nulla si muove che la camorra non voglia. Tanto che gli stessi rom di Ponticelli pagavano il pizzo alla camorra per poter abitare nelle loro baracche. Camorra che usa i rom per alcune sue attività criminali e che non si può escludere abbia progetti edilizi proprio nelle aree occupate dai campi nomadi.

Tornando ai fatti di Ponticelli, sono rimasto scioccato dalla reazione dei napoletani, persone estremamente tolleranti. Cos’è accaduto? È accaduto che l’onda lunga del razzismo e della xenofobia, nonché l’ossessione della sicurezza — esplose durante l’ultima campagna elettorale e incarnate non solo dal partito berlusconiano ma anche dal centrosinistra — si sono fatte sentire anche a Napoli. Questo dovrebbe indurci a comprendere che, se si va avanti con questo tipo di atteggiamento, si rinverdisce la logica dei pogrom. Non possiamo accettare una logica del genere.

I rom sono diventati il nuovo capro espiatorio per la pace sociale italiana. Dobbiamo avere il coraggio di gridare: “Guai a chi tocca i rom!”. Lo dico al governo Berlusconi e anche al Partito democratico: non creiamo un capro espiatorio, perché sarebbe ripetere lo sbaglio che gli esseri umani hanno più volte fatto nella loro storia.

Per queste ragioni, ritengo fondamentale che la chiesa debba esprimersi con forza e con durezza. Soprattutto il mondo missionario — il più vicino agli ultimi, ai poveri, a coloro che non contano — deve far sentire la propria voce e schierarsi dalla parte dei rom, pronto a pagare in prima persona.
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IL MIGRANTE CHE SI TRASFORMA, DIETRO DI SÉ LASCIA TANTI PROBLEMI

di Egidiu Condac
direttore Caritas Romania
Italia Caritas / Marzo 2008





L’economia del paese ancora non abbastanza sviluppata, la possibilità della libera circolazione delle persone nell’unione europea, la recente adesione all’Ue: sono questi i fattori che hanno generato l’alto livello di migrazione dalla Romania verso i paesi più sviluppati d’Europa. Il fenomeno è molto più ampio a partire dalle zone “povere”: attualmente, il nord-est del paese rappresenta la regione con il minore livello di sviluppo, soprattutto a causa del basso livello di urbanizzazione. Non a caso, è anche l’area da cui muovono le ondate migratorie più ingenti.

Una caratteristica dell’emigrante rumeno, molto più di qualunque altro emigrante, è quella di “rifarsi” la biografia: all’estero egli si “trasforma, perché si sente imbarazzato dalla sua origine, dal paese di provenienza, dal comportamenti dei concittadini; di conseguenza tende a “nascondersi”. Questo però ha come conseguenza che molti emigranti rumeni, prima persone rispettabili, serie, magari caratterizzate anche da una fede religiosa, finiscono per diventare prostitute, ladri, mendicanti, trafficanti di persone, in ogni caso delinquenti. Ma è nel paese d’origine che si scontano molti effetti sociali problematici. Anzitutto, l’età media delle comunità invecchia e la forza di lavoro viene decimata dall’emigrazione: il disavanzo è reale e si sente sempre di più. Gli emigranti, con l’andar del tempo, trovano posti di lavoro migliori e ricevono stipendi mediamente elevati per gli standard rumeni (anche oltre 1.500 euro nei paesi Ue), dunque fanno piani per stabilirsi per sempre nel paese di destinazione insieme alle famiglie: la tendenza allo spopolamento ne risulta accentuata.

Gli effetti negativi si osservano anche sul tessuto della famiglia, pure gratificata, in molti casi, dagli intuibili benefici economici: l’emigrazione determina la crescita del numero di divorzi, contribuisce a far abbassare il tasso di natalità, incoraggia rapporti di coppia meno stabili (si riduce il numero dei matrimoni e si innalza l’età media in cui ci si sposa). Inoltre, molto pesanti si rivelano le prolungate assenze di uno dei due genitori (più frequentemente il padre), anche se a recarsi all’estero sono talvolta entrambi: la qualità della comunicazione e del rapporto affettivo con il genitore assente ne può risentire, soprattutto quando ad allontanarsi è il padre e quando l’assenza si fa prolungata. Del resto, quando a partire è la madre, l’affidamento dei figli al padre o ai nonni suscita problemi nelle relazioni tra chi rimane. In ogni caso, la situazione generale può indurre nei ragazzi una forma di disinteresse per la scuola e per il lavoro in genere: ai problemi familiari si aggiunge infatti il falso mito circa il fatto che il lavoro all’estero, a cui pensano sin da bambini, sia una strada facile, che permette di guadagnare un sacco di soldi. Infine, non bisogna sottovalutare gli effetti spirituali: molti tra coloro che partono si allontanano dalla Chiesa, dai sacramenti, da Dio.

Rientri alcolici, partenze temporanee

Anche i ritorni spesso sono problematici: un grave problema è rappresentato dalle persone che, in seguito a un insuccesso sul piano sociale e professionale all’estero, tornate nel paese d’origine ricorrono all’alcol o sviluppano comportamenti devianti. Anche la differenza tra gli stipendi ricevuti nel paese d’origine e all’estero e lo statuto di “benestante”, avuto e poi perso, possono determinare un disagio psico-sociale foriero di gravi conflitti interni. Particolare attenzione va inoltre posta, quando si parla di ritorni, a certe categorie: studenti laureati in università straniere, popolazione rom, vittime del traffico di persone, minori senza famiglia, rimpatriati dalle autorità straniere.

Una tensione può insorgere anche sul piano dei valori e dei rapporti comunitari: l’affermazione, il successo, i soldi e la conseguente capacità di spesa possono non essere accettati dalla comunità d’origine, ciò che conduce a forme di disadattamento di chi ritorna. In molti casi, però, si registrano anche effetti positivi: un maggior benessere complessivo delle comunità d’origine per effetto delle rimesse dei migranti e l’avvio di imprese produttive e commerciali (piccoli negozi, specialmente in ambiente rurale, ma anche attività nei settori del trasporto, del commercio e dell’agricoltura) possono alimentare uno sviluppo comunitario.

La riflessione su dinamiche ed effetti del fenomeno deve tenere conto anche dei mutamenti (a partire dal 1991, dopo la caduta del regime comunista) dei meccanismi di migrazione dei romeni. Anzitutto, si sta consolidando il passaggio da un’emigrazione permanente a una prevalentemente temporanea. Inoltre, si sono sviluppate forme nuove di migrazione:

la Romania è diventata addirittura paese di transito per i migranti (spesso illegali) provenienti da paesi terzi, che ambiscono a raggiungere lo spazio Ue.

Sul versante legislativo, le norme adottate in Romania sono di carattere prevalentemente reattivo, per raggiungere la conformità alle richieste europee, più che tese a definire una politica migratoria con obiettivi ben definiti.

Un lavoro importante da compiere, infine, ha per destinatario l’opinione pubblica rumena: su questo versante, non si può affermare che i mass media abbiano portato un valido contributo a una presentazione e a una comprensione fedele del fenomeno nella sua complessità. Si presta un’attenzione speciale agli aspetti negativi e sensazionalistici, meno all’orientamento dei migranti, pur in presenza di uno scenario segnato da molteplici incertezze e componenti di rischio (clandestinità, corruzione nella gestione dei documenti, azione di soggetti criminali) - Anche in questo campo ci sono molti passi da fare, pur nella consapevolezza che l’attenuazione dei flussi in uscita e il cambiamento della loro natura (si prevede che le partenze saranno sempre più legali e controllabili) aiuterà a stemperare gli elementi più problematici e drammatici che hanno finora contraddistinto il panorama migratorio rumeno.
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