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Il termine "pasqua" ci fa pensare istintivamente alla festa di Pasqua, giorno nel quale la cultura cristiana celebra la "risurrezione" di Gesù, avvenuta la domenica successiva al venerdì santo. Non è questo però l'unico significato della "Pasqua".

Supponiamo di poter parlare con un bambino ancora nel grembo della madre. noi fuori e lui dentro. Noi gli diciamo: vuoi uscire da là? Secondo voi che risponderebbe?

Leggendo i vangeli, sembra che Gesù sia stato contrario al culto ebraico, nelle sue varie forme: non rispetta il sabato, non lo vediamo partecipare ai sacrifici,

Venerdì, 24 Febbraio 2012 11:57

1. Cosa è la liturgia (Ildebrando Scicolone)

La parola greca “liturgia” è, oggi per la maggior parte della gente, sinonimo di rito o cerimonia. Eppure, nel greco classico, il termine designava non qualcosa di rituale, ma un’opera, un’impresa che interessava il popolo: opera pubblica.

I Salmi nella Liturgiadi Sr. Germana Strola o.c.s.o.

La Regola di San Benedetto esige che "la mente concordi con la nostra voce" quando eleviamo la nostra preghiera. Ma per quale motivo ricorrere ai Salmi dell'Antico Testamento per la celebrazione della Liturgia cristiana? La tradizione secolare della Chiesa ha voluto rispondere a Dio con la parola stessa di Dio, e quindi con i salmi, che nella Bibbia, riflettono in modo più particolare la relazione con Lui.

Nella letteratura Biblica, il salterio costituisce una specie di sintesi orante, come uno spaccato trasversale che c'introduce nell'esperienza viva, vissuta, interiore della religiosità del popolo ebraico, o come un microcosmo in cui è possibile scoprire la presenza e il riflesso di tutte le tradizioni bibliche. Ciò che narrano le tradizioni storico-religiose, ciò che fissano i documenti più antichi, ciò che annunciano e rivelano gli oracoli profetici o medita la riflessione sapienziale, rivive nei salmi attraverso la voce della persona e della comunità, come dall'interno. Se la Bibbia non attesta con frequenza l'esperienza interiore nell'incontro con Dio (tranne in Geremia o in altri piccoli squarci sul mondo dei sentimenti della persona), il Salterio orchestra tutte le risonanze emotivo-spirituali suscitate dall'esperienza vissuta dell'alleanza.

Il fascino intramontabile di questa lirica religiosa, congiunge in un'unica espressione da un lato il mistero della rivelazione e dall'altro il mistero dell'uomo, da essa coinvolto in tutta la sua drammaticità e in tutta la sua forza di speranza. O, più precisamente, esprime unitariamente, dall'interno, cosa significa per l'uomo - come singolo e come popolo - essere raggiunto dalla Parola di Dio che si rivela nel dono dell'Alleanza. La cosa interessante da sottolineare è che nel salterio la parola dell'uomo, la sua esperienza più profondamente umana (desiderio, dolore, sofferenza, ecc.), viene proposta come parola di Dio.

Quindi, per cercare di capire perché i salmi siano stati assunti dalla liturgia cristiana, l'approccio potrebbe essere duplice: dal punto di vista della rivelazione biblica (i salmi, come sintesi della storia e della teologia biblica) ma anche un approccio antropologico (i salmi specchio del mistero dell'uomo, e quindi via all'incontro con Dio, attraverso la verità dell'esperienza umana). Oppure, in chiave unitaria, secondo le caratteristiche proprie e specifiche dell'esperienza monastica (ricerca di Dio nella realtà dell'esperienza umana) i salmi come specchio del cuore umano e riflesso di quello che avviene in lui nell'incontro con Dio, si compie nella figura di Cristo vero Dio e vero uomo, redentore crocifisso e risorto.

L'assunzione del salterio come struttura portante della liturgia cristiana è quindi indissociabile dalla sua lettura in riferimento al mistero di Cristo e al mistero dell'uomo. Non esiste a tutt'oggi una documentazione sicura al riguardo, ma è stato affermato che l'uso cristiano dei salmi è stato più ampio fin dagli inizi di quello ebraico: da un lato, per la tendenza alla lettura cristologica dei salmi (l’orante dei Salmi è il Cristo) e dall'altro per l'influenza che esercitò sulla comunità ecclesiale l'uso monastico della recita continua del salterio.

Gli studiosi di liturgia affermano infatti che agli inizi dell'era cristiana l'utilizzazione propriamente liturgica dei salmi, nel solco della tradizione ebraica, si limitava solo ad alcuni, più adatti ad alcune circostanze particolari (la celebrazione della Pasqua, dell'Eucaristia, le lodi del mattino o della sera, gli anniversari dei martiri); più ampia era invece la produzione innodica spontanea, cioè l'esecuzione di inni cristiani o d'imitazioni dei salmi veterotestamentari; sembra anzi che la produzione innografica degli eretici fosse particolarmente feconda e attraente, ma altrettanto pericolosa. Sarebbe stata per la progressiva affermazione del salterio come espressione per eccellenza della preghiera cristiana (vox Christi - vox ad Christum), che la sua utilizzazione andrà man mano estendendosi nella Chiesa, con la fissazione delle varie famiglie liturgiche. Alla diffusione dell'uso dei salmi non è certamente estranea l'influenza della Lettera a Marcellino di Atanasio, che, ispirata dall'esperienza monastica, vede nel salterio non solo la sintesi della spiritualità dell'Antico e del Nuovo Testamento, ma della preghiera di Cristo. Il salterio è offerto al cristiano come uno specchio, per la guarigione del suo spirito. Fu in seguito a tale evoluzione che il canone 59 del Concilio dì Laodicea (ca. 360) giunse a vietare l'uso liturgico dei cosiddetti "salmi privati" allo stesso modo dei libri "non canonici". L’utilizzazione sistematica del salterio diverrà effettiva con l'organizzazione dell'ufficiatura delle Ore come preghiera della Chiesa, in epoca per lo più contemporanea alla fissazione del canone delle Scritture.

L’Apostolicità della Chiesa
nella fede celebrata
di Ildebrando Scicolone

L’antico adagio "la legge del pregare stabilisce la legge del credere" vale anche per la fede nell’apostolicità della Chiesa. La Chiesa è apostolica: lo dice il "credo", perché l’afferma la Chiesa stessa nella sua preghiera liturgica.

Basta sfogliare il messale per notare quante volte sono nominati gli Apostoli. Essi sono dodici, ma il titolo viene esteso a Paolo e Barnaba; ad essi poi vengono associati i due evangelisti Marco e Luca. Inoltre abbiamo due feste per S. Pietro (29.6 e la cattedra il 22.2) e due per S. Paolo (29.6 e la coversione il 25.1). Sono ricordati ancora nella dedicazione delle Bailiche loro intitolate a Roma (18.11). Per cui ci sono nel mesale sedici feste degli Apostoli ed evangelisti. Troviamo inoltre un formulario di messa votiva per S. Pietro, uno per S. Paolo, uno per tutti gli Apostoli e uno per un Apostolo.

Ma c’è di più: la memoria degli Apostoli è sempre esplicita nella preghiera eucaristica:

…ricordiamo e veneriamo…i santi Apostoli e martiri…
…e con tutti quelli che custodiscono la fede cattolica trasmessa dagli Apostoli.
…di aver parte nella comunità dei tuoi santi Apostoli e martiri…
…con gli Apostoli e tutti i Santi…

…con i tuoi santi Apostoli, i gloriosi martiri e tutti i Santi…

…con gli Apostoli e i Santi…

Nella preghiera per la pace si ricorda: Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi Apostoli: Vi lascio la pace…

Da un esame rapido dei testi sparsi in tutto il messale risultano le seguenti idee-forza:

La Chiesa è fondata sugli Apostoli, non nel senso che essi l’hanno fondata, ma nel senso che Dio (o Gesù Cristo) l’ha voluto fondata su di loro. Lo canta il II prefazio per gli Apostoli: Tu hai stabilito la tua Chiesa sul fondamento degli Apostoli. La loro testimonianza è il fondamento della nostra fede (Bened. Solenne per gli Apostoli). Sono essi che ci hanno trasmesso il primo annunzio della fede (Ivi); da loro anzi abbiamo ricevuto il primo annunzio della fede (Ivi).

Ciò vale soprattutto per Pietro (e Paolo): nella predicazione dei santi Apostoli Pietro e Paolo hai dato alla Chiesa le primizie della fede cristiana (29.6 Colletta della vigilia); i cristiani sono coloro che hai illuminato con la dottrina degli Apostoli (29.6 sulle offerte). Il prefazio della dedicazione delle basiliche romane canta: Città santa è la tua Chiesa, fondata sugli Apostoli e unita in Cristo pietra angolare.

Ciò si manifesta non tanto per la successione apostolica dell’episcopato, che il messale non ricorda mai, quanto per la continua presenza nella Chiesa dell’insegnamento, della preghiera e dell’esempio degli Apostoli: non si turbi la tua Chiesa he hai fondato sulla roccia con la professione di fede dell’Apostolo Pietro (22.2 colletta); fa che riconosca nell’Apostolo Poetro il maestro che ne conserva integra la fede e il Pastore che la guida all’eredità eterna( Ivi, sulle offerte); la tua Chiesa segua sempre l’insegnamento degli Apostoli, dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede (29.6, colletta); la preghiera degli Apostoli accompagni l’offerta che presentiamo (Ivi, sulle offerte)…

Nella liturgia facciamo la stessa esperienza di Cristo che hanno fatto gli Apostoli: in unione con gli Apostoli Filippo e Giacomo possiamo contemplare te nel Cristo tuo Figlio e possedere il regno dei cieli (3.5, dopo la comunione); fa’ che insieme all’apostolo Tommaso riconosciamo nel Cristo il nostro Signore e il nostro Dio (3.7 dopo la comunione). Si noti che queste espressioni si trovano nelle perghiere dopo la comunione, perché nella partecipazione all’eucarestia noi facciamo nostra l’esperienza degli Apostoli.

Gli Apostoli sono quindi i Padri della nostra fede. Non abbiamo l’abitudine di chiamarli "Santi Padri", riservando questo termine ai maestri della fede che li hanno seguito. Ma S. Paolo ci teneva a dire: "potreste ifatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù…" (1 Cor 4,15). Gli Apostoli infatti, dopo averci dato la fede, continuano a "sorreggerci", a "proteggerci", a "custodirci", con la loro dottrina, e con i sacramenti. La liturgia sa bene che gli Apostoli non sono soltanto i "predicatori", ma anche i "sacerdoti" del nuovo popolo: (concedici) di perseverare nella frazione del pane e nella dottrina degli Apostoli (29.6, dopo la comunione).

Dal termine "apostolo" deriva l’aggettivo "apostolico". Se accompagna termini come "zelo", "carità", "coraggio", esso determina quella missione della Chiesa che chiamiamo "apostolato": gli apostoli diventano allora i padri di una interminabile schiera di apostoli, e non parlo solo dei "missionari", ma di tutta la Chiesa che è "mandata" a tutte le genti, in ogni luogo e in ogni tempo: O Dio…che hai chiamato molti popoli dell’Oriente alla luce del vangelo con la predicazione apostolica di S. Francesco Saverio…; O Dio che hai dilatato i confini della Chiesa con lo zelo ardente e la dedizione apostolica di s. N. (comune dei missionari).

Almeno una volta però, nella memoria di S. Gaetano (7.8), l’aggettivo "apostolico" accanto alla parola "vita", ci rivela un altro aspetto della testimonianza apostolica: il santo di Thiene volle, al suo tempo, restaurare apostolicam vivendi formam. Gli Apostoli sono visti nel loro essere in rapporto a Cristo, prima che nel loro agire a favore degli uomini di cui sono pescatori. Sono gli innamorati di Cristo, pronti a fare la loro esperienza della carità, della sofferenza, della pasqua del loro Signore. E’ ciò che esprime la colleta di s. Giacomo (25.7): tu hai voluto che san Giacomo, primo fra gli Apostoli, sacrificasse la vita per il Vangelo…; …nel ricordo di S. Giacomo che primo fra gli Apostoli partecipò al calice della passione del tuo Figlio (sulle offerte).

IL RUOLO
E L’ARTE DEL PRESIEDERE
di Dom Ildebrando Scicolone

In vista dell’ordinazione presbiterale, fino agli anni ’70, erano previsti degli esami presso la Curia vescovile. Questi vertevano su alcuni trattati teologici e sulla Praxis ordinandorum (= prassi degli ordinandi). Un capitolo di questa aveva come titolo: De munere praesidendi (= il compito del presiedere). Devo confessare che quando l’ho letto, non capivo di che cosa si trattasse. Perché, fino alla riforma dei libri liturgici del postconcilio, non si vedeva il ruolo del Presidente, perché non si aveva coscienza di una assemblea celebrante. Il vescovo o il prete non erano mai chiamati "presidente", ma celebrante, e i fedeli erano chiamati "popolo" o "tutti", o non erano chiamati affatto, perché il loro ruolo non erano previsto nei libri liturgici. Ne prendeva il posto il chierichetto, che rispondeva tutte le volte che nel libro era scritto: R/. (= risposta). Per fortuna, la situazione è cambiata. Il Concilio ha disposto che nei nuovi libri liturgici sia esplicitamente indicata la parte del popolo. Ora si comprende che celebra tutta la comunità riunita in assemblea, con un vescovo o presbitero che presiede (per alcuni sacramenti può presiedere anche un diacono, o alcuni sacramentali anche un laico).

Prendiamo in considerazione la celebrazione eucaristica. Essa è così descritta nel n. 7 di PNMR: "Nella messa o cena del Signore, il popolo di Dio è chiamato a radunarsi, sotto la presidenza del sacerdote, che agisce nella persona di Cristo, per celebrare il memoriale del Signore, ossia il sacrificio eucaristico". In una prima edizione il testo recitava addirittura così: "La Cena del Signore o Messa è la convocazione del popolo di Dio, sotto la presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore". Confrontando le due formulazioni risulta: a) il valore dell’assemblea: è la Chiesa concretamente radunata;

b) il ruolo del Presidente. Esso è chiamato "sacerdote", per includere sia il vescovo che il presbitero.

c) tale ruolo non è "democratico": il presidente non è eletto dall’assemblea, ma "agisce nella persona di Cristo", cioè, in forza dell’ordinazione, fa le veci di Cristo Capo. Alcune funzioni quindi sono propriamente sue.

Il Presidente si identifica normalmente con il "celebrante": ma può darsi il caso che un presbitero celebri alla presenza del vescovo. In questo caso il prete celebra, ma presiede il vescovo (lo stesso vale quando un cardinale celebra alla presenza del Papa). Il Vescovo infatti presiede la liturgia della Parola e dà la benedizione finale. Mentre il luogo della celebrazione è l’altare, il luogo della presidenza è la sede (si chiama "cattedra" la sede del vescovo, da cui "cattedrale").

Se il termine "presidente" è nuovo, il concetto è antico. Già S. Giustino, nella sua prima Apologia lo chiama "Colui che presiede". E’ lui che tiene l’omelia, a lui vengono portate le offerte, è lui che fa la preghiera eucaristica "secondo la sua capacità".

Compito del Presidente, nella celebrazione eucaristica, è quello di ripresentare Cristo Signore che siede a mensa con i suoi discepoli, e associa le membra del suo corpo al suo sacrificio. Nel "ministro" è presente Cristo, sia quando spezza il pane della Parola, sia quando fa ciò che Cristo ha fatto nell’ultima cena: riceve le offerte dei fedeli, pronuncia la preghiera eucaristica e spezza il pane e lo distribuisce ai fedeli.

Concretamente al Presidente sono riservate le preghiere: la grande preghiera eucaristica e le tre preghiere che concludono rispettivamente: i riti di ingresso (colletta), i riti di offertorio (sulle offerte), e i riti di comunione (dopo la comunione).

Non spetta a lui proclamare le letture, né intonare i canti. Egli comunque ha la responsabilità dell’intera celebrazione. Ciò significa che deve averne piena padronanza, avendola egli stesso preparata, avendo opportunamente scelto i testi (secondo le possibilità offerte dalle norme e dai giorni liturgici).

Dal ruolo di presidente deriva quindi la responsabilità, e quindi l’arte del presiedere. Non è più possibile che un prete pensi di celebrare la "sua" messa. Deve pensare di presiedere un’assemblea celebrante. Egli quindi è l’animatore di quella assemblea. Il suo sacerdozio si manifesta quindi come "mediazione", come "ponte" tra Dio, alla cui gloria è offerto il sacrificio, e il popolo per il quale è offerto.

Il Presidente è colui che sa, meglio di chiunque altro, che cosa si fa nell’assemblea: conosce i testi, conosce i gesti, conosce la finalità, e conosce le arti per raggiungerla. Di qui la sua sicurezza nel dirigere la celebrazione. Un celebrante incerto, impacciato, impreparato comunica all’assemblea incertezza e nervosismo; un presidente sicuro comunica sicurezza e partecipazione. Perché egli deve pur sapere quali sono i compiti di ognuno, perché tutti fanno riferimento a lui. Egli infatti, come benedice il diacono perché proclami il vangelo, così – anche se non è ritualizzato – distribuisce i vari compiti ad ognuno. Leggiamo nell’Ordo Romanus I, per riferire un esempio, che al Papa veniva comunicato chi era il lettore e chi il salmista, e dopo tale informazione e la sua approvazione, non era consentito cambiare. E’ vero che il diacono o un altro ministro suggerisce le intenzioni alla preghiera dei fedeli, ma è il Presidente che la introduce e la conclude. Altri ministri possono fare le monizioni, dove previsto, ma devono essere armonizzate con l’omelia che di solito spetta al Presidente. Gli stessi canti devono essere riconosciuti adatti al giorno e al momento celebrativo, per essere in sintonia con la Parola che vien proclamata.

Egli deve preoccuparsi non solo che tutto si svolga secondo le norme, ma soprattutto che l’assemblea venga coinvolta e interessata. A ciò gioveranno le tecniche della comunicazione: la dizione, l’uso ottimale degli strumenti audio-visivi, e quant’altro può aiutare; ma è necessaria soprattutto la sua personale capacità di comunicare la fede e "iniziare" al mistero. Il Presidente di un’assemblea liturgica è, per natura sua teologale, un "mistagogo", cioè uno che, "iniziato" egli stesso, è capace di introdurre i suoi fratelli nella comprensione e nella partecipazione al mistero di Cristo, reso presente nel rito.

Vale soprattutto per lui quello che scrive l’apostolo Giovanni all’inizio della sua prima lettera: "ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita…noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi". Il celebrante annunzia - non solo con l’omelia ma con tutto il suo essere e agire - quello che ha visto e udito, cioè ciò che crede. Il suo ministero passa necessariamente per la sua personale esperienza di fede. Egli non è un attore che recita (per quanto potremmo imparare molto da un bravo attore), ma è un testimone che proclama la sua fede ed incita gli altri a professarla. Egli diventa non soltanto colui che sta sopra il popolo, ma colui che va avanti, in testa al suo popolo, nel cammino verso il Regno. In questo senso egli rappresenta Cristo, che la lettera agli Ebrei (12, 2) chiama "autore e perfezionatore della fede" (il testo greco dice "condottiero").

Come è responsabile della preparazione e della conduzione di una celebrazione, così egli deve preoccuparsi anche del suo seguito, cioè della vita che segue ad essa. L’eucaristia ci fa diventare – sempre più- un solo corpo e un solo spirito; ora questo fatto si dovrà vedere anche nella vita quotidiana della comunità: dal mistero celebrato e partecipato scaturisce un nuovo modo di vivere in questo mondo, sempre in cammino verso "i cieli nuovi e la terra nuova". De aver chiaro perciò l’intimo nesso che c’è tra Parola, celebrazione e vita.

Teologia della Liturgia
per la vita spirituale
di P. Adrien Nocent O. S. B.

 

Stranamente, un gran numero di battezzati ignora ciò che è la liturgia. Ne fa una raccolta di gesti, di preghiere, di cerimonie, di devozioni, di rubriche. A 30 anni dalla promulgazione della Costituzione sulla Liturgia non è ancora stato riconosciuto ciò che vi è scritto sulla massima importanza della liturgia, attività suprema della Chiesa, che oltrepassa ogni altra attività.

Il primo rimedio sarebbe la lettura dei numeri 3-13 della Costituzione sulla Liturgia. In questi numeri viene sviluppata una presentazione essenziale della liturgia come vita, in alcuni articoli chiari e semplici (che evitano alla teologia liturgica di presentarsi senza sfumature, con il pericolo di suscitare entusiasmi fanatici; entusiasmi che non coincidono mai con la verità né con la volontà stessa del Signore). Questi articoli dovrebbero essere letti, spiegati e meditati in comunità, nelle loro concrete conseguenze. Infatti sono capaci di creare una mentalità, cosa che abitualmente ci manca.

Le righe che seguono cercano di sviluppare il punto centrale di ciò che costituisce la specificità della liturgia.

La celebrazione liturgica è attuazione dei gesti di salvezza nell’oggi a nostro favore affinché possiamo diventare noi stessi attori nella e della storia della salvezza che continua nel tempo della Chiesa. Questo significa che la liturgia è essenzialmente "ricordo", anamnesis, memoria, zikkaron.

La civiltà ellenistica ha conosciuto l’anamnesis. Il culto ricorda ai contemporanei un avvenimento o un eroe importanti per la vita del paese che l’epoca presente non ha conosciuto e che possono servire d’esempio. Per ricordare questi avvenimenti o eroi, si organizzano rappresentazioni teatrali, processioni, si scrivono libri e poemi, si erigono monumenti, statue (per esempio, a Parigi, nel museo del Louvre, è conservata la Vittoria di Samotracia). L’oggetto della celebrazione è quello di ricordare nell’epoca attuale avvenimenti o eroi del passato.

La civiltà latina ha conosciuto lo stesso fenomeno. Notiamo nella civiltà latina anche i pranzi accanto alle tombe, destinati a ricordare ai contemporanei i morti. Questi pranzi funebri si chiamano refrigerium, parola che entrerà nel Canone romano al Memento dei morti: refrigerium lucis et pacis. Lo scopo è sempre lo stesso: ricordare ai contemporanei avvenimenti o eroi passati degni di essere richiamati alla memoria.

La civiltà palestinese, quella di Cristo e dei suoi Apostoli, ha conosciuto lo Zikkaron. Ma qui lo scopo del ricordo è molto diverso: si ricorda, non tanto ai contemporanei, quanto AL SIGNORE, avvenimenti o eroi che egli ha suscitato oppure eroi che hanno obbedito al suo comando. Per ricordare al Signore, il passato viene attuato sotto i suoi occhi affinché vedendolo si ricordi.

Quando Cristo dice: "Fate questo in memoria di me", questo significa: fate questo pranzo rituale che attualizza davanti agli occhi del Padre mio ciò che ho fatto obbedendo alla sua volontà per la Nuova ed eterna Alleanza. Una delle nuove preghiere eucaristiche dice: "Guarda, Signore, la vittima che tu stesso hai preparato". Il Canone romano ripete varie volte con questa o quella parola il fatto della presenza, della vittima presente, del sacrificio attualizzato.

Si deve dunque capire a fondo ciò che è la memoria. Molti articoli o libri contro la riforma liturgica, quando affermano che in questo modo siamo diventati protestanti, che l’eucaristia è così diventata semplice ricordo, dimostrano la loro ignoranza in rapporto alla "memoria".

Ignoranza inaccettabile di ciò che è la memoria, perché essa suppone la realtà, è la realtà attualizzata nell’oggi. Quando si dice che la celebrazione eucaristica è memoria della Passione, questo esprime molto di più che se si dicesse: la celebrazione eucaristica ripete il calvario. Non lo ripete, ma è questo sacrificio stesso attuato; e poiché attuati, ne diventiamo attori, collaboratori. Questo costituisce lo scopo dell’istituzione eucaristica.

Ecco dunque l’essenziale di ciò che è la liturgia. E dobbiamo applicare quello che abbiamo detto della celebrazione eucaristica anche agli altri sacramenti, alla Preghiera delle Ore e all’Anno Liturgico.

Se la Costituzione sulla liturgia insiste sul fatto che la liturgia sia la massima attività della Chiesa, si capisce facilmente che in questa attività la Chiesa realizza l’incontro Dio-Uomo nella realtà della presenza del Signore. Non si potrebbe dare niente di più grande. Incontro dell’uomo con i misteri attuati della salvezza affinché l’uomo diventi attore della salvezza del mondo. La liturgia si rivela così necessariamente missionaria.

Possiamo applicare quanto finora detto alla celebrazione dell’Anno liturgico. Questo non è soltanto un ricordo, ma è un oggi. Siamo contemporanei dei misteri ricordati. Ciò suppone che la liturgia celebri non teologie o idee, ma avvenimenti e personaggi. La celebrazione dell’anno liturgico non è dunque unicamente devozione, ricordo edificante, ma essa attua ciò che celebra. La spiritualità della liturgia non è dunque opzionale, come sarebbe la spiritualità francescana o quella ignaziana, ma essa è LA SPIRITUALITA’ necessaria, vincolante, nella quale sui incontra oggettivamente e non soltanto soggettivamente o psicologicamente il Signore.

Il mistero centrale celebrato ed attuato è sempre la Pasqua. Ma questo avvenimento centrale viene celebrato secondo visuali diverse nelle differenti celebrazioni. Per esempio, a Natale si celebra Pasqua secondo la visuale del suo inizio; celebrando un santo si celebra la Pasqua come riuscita in tale uomo; celebrando la Vergine Maria si celebra la Pasqua che in Lei ha raggiunto al massimo la divinizzazione di una persona umana, e così via.

Le parabole di Galilea
ovvero il sovvertimento quotidiano
di François Brossier


 


Di norma si considerano i Vangeli, e soprattutto i sinottici (Marco, Luca e Matteo), come una buona testimonianza sulla vita quotidiana di Galilea. È esatto. Tuttavia, uno sguardo più attento al contenuto delle parabole consente di costatare che Gesù non si accontenta di prendere degli esempi nella vita quotidiana dei suoi compaesani. Egli li trasforma in funzione dell'annuncio del Regno di Dio.


Il radicamento della predicazione di Gesù nella sua terra di Galilea è evidente quando si leggono i Vangeli sinottici.


UNA PREDICAZIONE BEN ANCORATA ALLA TERRA DI GALILEA


Il viaggiatore che passa da Nazaret e sulle alture della regione di Cafarnao vede quanto questa terra è ingrata; la parabola del seminatore (Mc 4,1-9) non gli appare inverosimile in questa regione: un suolo sassoso, rovi, sentieri, dovevano essere il vero ambiente dei coltivatori della Galilea. Le scene di pesca sono ispirate alla vita dei pescatori del lago di Tiberiade (Mt 13,47). Il lavoro delle vigne è osservato minuziosamente, dalla piantagione (Mt 12,1), alla potatura (Gv 15,2), alla vendemmia, e la fatica dei pastori è descritta con finezza (Gv 10,11-16). La vita quotidiana delle donne è descritta sovente: la donna impasta il pane (Mt13,33) lavora alla mola (Mt 24,41), spazza la casa (Lc 15,5).


L’INVEROSIMILE NELLE PARABOLE DI GESÙ


Se Gesù trova una fonte di ispirazione nella vita rurale di Galilea, sarebbe tuttavia errato pensare che egli si limiti ad attingervi alcune immagini per farsi meglio comprendere. Le sue parabole appartengono più al genere dell'enigma da decifrare clic alla similitudine. E chiaro che egli trasforma i fatti quotidiani in storie sovente inverosimili.


· La parabola del Seminatore.


Si può immaginare un seminatore galilaico che spreca il suo grano prezioso gettandolo sulla strada, sul suolo sassoso o tra i rovi? La portata della parabola (Mc 4,1-9) non risiede proprio nello scarto tra quello che fa in genere un agricoltore e quello che invece fa il Seminatore della parabola? Il contadino galilaico sta attento a non sprecare nulla, il Seminatore semina con prodigalità: il seme darà comunque un rendimento che in Galilea non si è mai visto. In questo senso la parabola è immagine del Regno annunciato da Gesù. Egli semina la parola nel vento; il terreno non è sempre favorevole, ma il successo della semina sarà completo.


· La pecorella perduta.


Non è forse inverosimile che un pastore abbandoni novantanove pecore sulla montagna per andare a cercarne una sola che si è perduta? Tuttavia è ciò che Gesù fa per i peccatori, seguendo l'esempio del Padre (Mt 18,10-14).


· Gli operai dell'ultima ora.


Che un proprietario assuma dei lavoratori per la sua vigna in più riprese è un fatto del tutto naturale. Ma che paghi lo stesso salario a quelli che hanno faticato tutto il giorno e a quelli che hanno lavorato soltanto un'ora è impensabile. Tuttavia è così che Dio si comporta con tutti gli uomini nel suo Regno (Mt 20,1-16).


· I vignaioli omicidi.


È forse immaginabile che dei vignaioli si ribellino contro il proprietario al punto di maltrattare ed uccidere i messi del padrone e addirittura suo figlio? Non siamo più nella vita quotidiana: Gesù ci descrive la storia del suo popolo e la sua propria storia; dopo i profeti martiri, Gesù stesso sarà messo a morte dai responsabili della vigna-Israele (Mt 21,33-46)


· Il banchetto nuziale.


Un re organizza un banchetto per le nozze di suo figlio e manda a cercare gli invitati, ma costoro uccidono i messi! Il re muove guerra agli invitati indegni e invita degli sconosciuti al pranzo, le cui portate sono ancora calde e non sono bruciate! Un racconto inverosimile, ma che permette di comprendere la storia di Gesù e della sua missione (Mi 22,1-14).


· Le dieci vergini.


Si è mai visto un matrimonio in cui lo sposo tarda tanto a venire che le damigelle d’onore si addormentano? Ma se Gesù è appunto lo sposo che tarda a venire, la lezione per i cristiani di tutti i tempi è ovviamente: "Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora" (Mt 25,13).


· L’amministratore scaltro


Chi non è stato turbato dall’elogio che Gesù sembra rivolgere all’amministratore. disonesto? Ma ciò che Gesù loda è lo spirito di iniziativa di questo intendente; costui trova nel poco tempo che gli rimane la soluzione che garantisce il suo avvenire (Lc 16 1-8) Cosi deve essere per i cristiani: la vita è breve, ma è il periodo che ci è dato per farci un tesoro nei cieli


· Il servo vigilante


Ancora una storia abbastanza curiosa, quella del padrone che ritorna dalle nozze e notte inoltrata e, trovando i suoi servitori ancora svegli, si mette un grembiule e li serve (Lc 12,36-38). Tuttavia Gesù ci dice che è così che Dio tratterà i suoi servitori vigilanti.


UNA CHIAVE DI LETTURA: L'ANNUNCIO DEL REGNO


Fonte di ispirazione della predicazione di Gesù in Galilea, la vita quotidiana evocata nelle parabole non può tuttavia servire come chiave di lettura del suo insegnamento. Ciò che è primario e viene a sovvenire questa realtà è la predicazione del Regno e la persona stessa di Gesù. Questo è il motivo per cui le parabole non possono apparire come delle piatte similitudini destinate ad essere comprese facilmente da persone semplici. Esse sono piuttosto degli enigmi che devono essere decifrati per intravedere la via aperta da Gesù.


Quando parlava in parabole, non sembra che l'obiettivo di Gesù fosse quello di insegnare,. di giustificare i suoi atti o di discutere con i suoi avversari, ma piuttosto quello di far scoprire a coloro che lo ascoltavano il Regno di Dio. Questo Regno non è per lui una nozione astratta, ma una realtà che viene. Rendendo attivi gli ascoltatori, dal momento che li costringe a decifrare degli "enigmi", le parabole fanno avvenire questo Regno di Dio in loro. Ciò costituisce appunto la loro forza e conserva loro una profonda attualità: esse fanno vacillare le concezioni che gli ascoltatori hanno della realtà e svelano loro possibilità alternative insospettato. Ogni nuova generazione, cigni comunità è chiamata a decifrare le parabola per scoprire nel proprio presente l'annuncio dell'avvento del Regno. Poiché l'opera di decifrazione non è mai terminata le parabole sono ben lontane dall'aver esaurito tutto il loro significato.


(tratto da Il mondo della bibbia n. 21)


 

Galilea delle genti:
vocazione di un paese di frontiera
di Michel Berder



Il Vangelo di Matteo apre la presentazione della vita pubblica di Gesù con una notazione nella quale i termini geografici relativi alla Galilea sono particolarmente numerosi. Perché questa insistenza? E soprattutto perché l'evangelista si preoccupa di cercare nell’Antico Testamento un riferimento che illumini questo punto? Il fatto che il Messia scelga questo territorio per iniziare la sua predicazione ha dunque un significato particolare?


Gesù venuto per "adempiere le Scritture"


In Matteo 4,15-16 abbiamo una delle famose "citazioni dell’adempimento" di questo Vangelo. L’autore si sforza di cercare nella Scrittura degli elementi che possano aiutare a comprendere la portata e il significato degli atti e delle parole di Gesù. È l’unico degli evangelisti che offre una citazione scritturale a sostegno della presenza di Gesù in Galilea. Nei capitoli precedenti aveva già utilizzato questo procedimento. A proposito dell’annuncio a Giuseppe della nascita di Gesù, cita l’oracolo dell’Emmanuele che si trova in Isaia 7,14. vediamo poi i consiglieri di Erode tentare di determinare in base all’Antico testamento il luogo di nascita del Messia: Betlemme in Giudea (2,6).


Ma il testo che più si avvicina al nostro è senza dubbio il passo in cui l’evangelista ci mostra Giuseppe che si stabilisce in Galilea con Maria e Gesù: "Si ritirò nelle regioni della Galilea e, appena giunto, andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: Sarà chiamato il Nazareno" (2,22-23). Come in Matteo 4,15 troviamo l’indicazione di una relazione tra Gesù e la Galilea e questo fatto viene messo in rapporto con la letteratura profetica.


In Matteo 4,15-16, l’interpretazione del testo citato non pone gli stessi problemi. Si tratta di due versetti di Isaia: 8,23 e 9,1. questo oracolo annunciava, grazie all’avvento di un nuovo re, un’èra di luce e di gioia per un gruppo di religioni sprofondate nella miseria. Il profeta aveva in mente un situazione politica ben precisa. Si riferiva infatti alle religioni del nord del paese, segnate da una situazione di umiliazione. Molti storici ci invitano a riconoscere il questa lista i distretti colpiti dalle incursioni assire degli anni 734-732 a.C. (cf Re 15,29).



Un’interpretazione della Scrittura


Oracoli di questo genere, riportati da tutta la tradizione ebraica restano aperti ad altre interpretazioni, in funzione di situazioni nuove. È questa un’illustrazione di ciò che in ebraico è chiamato "midraš" una ricerca operata sulla scrittura per attualizzarla. Affermando che il testo di Isaia si adempie, Matteo si situa in una posizione analoga a quella del Cronista che presenta la deportazione del popolo di Gerusalemme a Babilonia dicendo: "attuandosi così la parola del Signore predetta per bocca di Geremia" (2 Cr 36,21). Ma l’originalità della rilettura proposta da Matteo sta nel fatto che tale rilettura è in funzione di ciò che Gesù rappresenta. È quello che alcuni autori chiamano un "midraš cristiano".


Una regione di frontiera per un Vangelo universale


Citando questo passo della Scrittura, l’evangelista fa notare che l’èra che si apre con la predicazione di Gesù concerne i pagani. Egli riconosce implicitamente l’aspetto paradossale della scelta di queste regioni come punto di partenza della missione di Cristo. Una presentazione tradizionale del Messia lo collocherebbe istintivamente nell’ambito di Gerusalemme e della Giudea (è ciò che presuppongono le reazioni riferite in Gv 7, 41-42 e 52). I territori menzionati in Matteo 4,15 sono noti come regioni di frontiera, in contatto con il paganesimo. La formula "Galilea delle genti" conserva qui tutta la sua forza evocativa. La parola ebraica galîl significa "contrada", "distretto", "circoscrizione" (vedi anche Gs 12,23). Ma il testo greco di Matteo utilizza il nome proprio "Galilea delle genti". La Settanta, in Isaia 8,23 parla di "Galilea degli stranieri" (come Gl 4,4 e 1 Mac 5,15) la menzione delle tenebre diventa, nel contesto del vangelo, un modo per caratterizzare la situazione spirituale di queste regioni che godono del privilegio della venuta di Gesù, il Cristo, l’Emmanuele.


Questa prospettiva universalistica è affermata con forza in tutto il Vangelo di Matteo. Pur avendo cura di far percepire le radici ebraiche di Gesù, Matteo rende manifesta la portata universale della Buona Notizia da lui annunciata nella genealogia del capitolo 1, egli sottolinea il posto occupato dalle donne straniere in Israele tra gli antenati di Gesù (come Rut). È ancora Matteo che racconta l’episodio dei Magi venuti dall’Oriente che simboleggiano la venerazione delle nazioni pagane. Queste caratteristiche potrebbero suggerire che uno degli obiettivi di Matteo sia quello di provocare un risveglio missionario nelle comunità alle quali si rivolge. Risveglio missionario basato sia su una riflessione intorno all’itinerario stesso di Gesù, sia su una rilettura della Scrittura.


Per tutte le genti la luce è sprta


Il riferimento al testo di Isaia si accompagna ad un’altra convinzione che attraversa tutto il Vangelo: un certo numero di caratteristiche di ciò che era atteso per la fine dei tempi si è già realizzato. Non è un caso che il nostro testo presenti molti punti in comune con la scena finale del Vangelo di Matteo. Gesù resuscitato raggiunge i discepoli in Galilea. Nella missione che affida loro parla delle genti ("fate miei discepoli da tutte le genti"). E colui che all’inizio del Vangelo era presentato come l’Emmanuele (= "Dio con noi"), annunciato da Isaia, promette solennemente: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi". Nel Vangelo di Matteo, la missione dei discepoli parte dunque dalla Galilea e va verso le nazioni; e questo in una dinamica contrassegnata da una presenza nuova del Risorto, fino alla fine della storia umana. Si tratta ancora di una rilettura originale di un tema ben noto della tradizione biblica: la riunione di tutte le genti nell’ultimo giorno. Quello che è radicalmente nuovo è che questa riunione si realizzerà grazie alla missione dei discepoli di Gesù risuscitato, per mezzo del battesimo "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19).


Così, partendo da una semplice annotazione geografica, Matteo riesce a metterci in contatto con una delle realtà più misteriose del messaggio cristiano: ciò che è stato messo in gioco in Gesù di Nazaret, il Galileo, concerne gli uomini di tutti i paesi e di tutti i tempi. È per loto che "una grande luce" si è levata (Mt 4,16).


(da Il mondo della Bibbia n. 21)

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