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Giovedì, 30 Dicembre 2004 21:01

C'era una volta Socrate - Francesco e Guido Ghia -

  C’era una volta Socrate…

Riflessioni su secolarizzazione e problemi del senso

Prima parte

- La domanda sul senso della vita viene spesso rimossa con fastidio; eppure, questa domanda, che è "religiosa", è tutt’altro che inattuale.

- L’esperienza dello smarrimento nella società secolarizzata, quale si è sviluppata con la genesi del del mondo moderno.

- La scissione tra ragione e sentimento e il nuovo ruolo della religione nel contesto delle difficoltà delle fedi storiche.

- La percezione del sacro e la fuga nell’irrazionale.

- L’arte dell’ascolto e del dialogo come strumento per affrontare l’odierna crisi di senso.

- Una domanda per concludere: causa della crisi delle chiese non sarà anche, in parte, che al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

C’era una volta un uomo di nome Socrate. Andava in giro per le strade della sua città, Atene, poneva domande ai passanti e volentieri si lasciava, a sua volta, interrogare. Nei suoi dialoghi parlava del bene e del male, dell’amore, del bello, in ultima istanza del senso della vita e di come aiutare gli uomini a scoprirlo. Era un uomo "scomodo"; fece, come si suol dire, una brutta fine.

Troverebbe oggi persone più tolleranti con lui? C’è di che dubitarne. In fondo, presi come siamo dalla convulsione dei giorni, pensiamo tutti di avere cose più serie e più importanti da fare che stare a dialogare sul senso della vita. Anzi forse lo stesso signor Socrate si cercherebbe oggi un’ occupazione più utile e produttiva e eviterebbe di "bighellonare" tutto il giorno, facendo "cricca" con gli amici e importunando i malcapitati passanti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Seconda parte

LA SECOLARIZZAZIONE COME DATO CULTURALE

La domanda sul senso della vita viene dunque, da molti nostri contemporanei, rimossa con malcelato fastidio. Eppure l’inquietudine e l’insoddisfazione che ciascuno di noi avverte presente negli ambienti in cui vive dimostrano che quella domanda è tutt’altro che inattuale. Sorge quindi il sospetto che tale domanda venga rimossa non perché non interessi, ma perché si prova angoscia di fronte all’incapacità di darvi risposta. Ci si sente infatti smarriti, si brancola letteralmente nel buio.

Si avverte il bisogno di un orientamento. Forse è meglio rettificare: in questo caso, un Socrate servirebbe!

A complicare ulteriormente le cose, c’è poi il fatto che, come ci dicono i sociologi, viviamo oggi in una società frammentata, iperspecializzata nelle suddivisioni delle competenze sociali e lavorative, in una parola individualistica. Una società che, insomma, ha perso i suoi punti di riferimento unificanti. Un tempo, questi punti di riferimento venivano, tra gli altri, assicurati dalla religione, la quale, con i suoi riti e le sue proposizioni di fede, forniva a tutti, indistintamente, dall’uomo più colto a quello più umile, un "ombrello" sufficiente per ripararsi dalle tempeste della vita.

In questo contesto, anche la domanda sul senso della vita, che è poi la domanda religiosa per eccellenza, anzi, come vedremo, la domanda stessa a partire dalla quale sorge il bisogno di una religione, trovava un rifugio sicuro.

L’uomo però che grazie all’Illuminismo, si è scoperto "maggiorenne" e quindi in grado di confidare nelle possibilità più o meno illimitate della propria ragione, non ha disdegnato di relegare spesso la religione nello spazio della superstizione, della magia e ha così potuto credere di riuscire meglio a rispondere a quella domanda con i mezzi positivi e tangibili della scienza e della tecnica che non con quelli astratti della religione. Il mondo si è così, per usare l’espressione di Max Weber, "disincantato", è uscito cioè dall’incanto della magia nella quale l’aveva fatto cadere la religione, e la società si è "secolarizzata", si è profilata cioè in un orizzonte non più trascendente, bensì totalmente intramondano.

Naturalmente, non si vuol dire, con questa diagnosi, che il processo di secolarizzazione sia, in sé e per sé, qualcosa di negativo. Non va dimenticato, infatti, che è anche grazie alla secolarizzazione che hanno potuto svilupparsi alcuni principi del mondo moderno che la nostra cultura ritiene oggi fondanti e irrinunciabili.

L’inalienabilità dei diritti umani, fondata sul riconoscimento della libertà e della dignità di ogni essere umano, indipendentemente da qualsiasi appartenenza di razza, casta, chiesa, ecc., la chiara distinzione dei compiti e delle sfere di influenza tra lo stato e la chiesa, e quindi la nascita dello stato moderno sulla base della aconfessionalità, del pluralismo e della tolleranza (quella multiculturalità che nel contesto odierno è diventata quasi una parola d’ordine) lo sviluppo di una cultura democratica e della partecipazione politica alla vita pubblica, il riconoscimento della reciproca autonomia tra la sfera etica e la sfera religiosa, sono tutti in qualche modo effetti tangibili e positivi di quel processo di secolarizzazione avviatosi con la genesi del mondo moderno.

Su questo punto conviene essere chiari: la nostalgia di un mondo pre-secolarizzato reca in sé il rischio del fondamentalismo, di una visione "teocratica" e medievale del mondo che al pluralismo dei valori sostituisce l’assolutezza di un’unica verità che deve essere imposta a tutti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Terza parte

L’AMBIVALENZA DELLA SOCIETÀ SECOLARIZZATA

Tuttavia, se anche si sottolineano gli aspetti innovativi, dal punto di vista culturale, del processo di secolarizzazione, non si può comunque tacere il risvolto della medaglia.

La grande opportunità offerta dalla "scoperta" del principio moderno di individualità si è infatti molto spesso tradotta in un imperante individualismo; la conquista della libertà e la progressiva emancipazione della scienza hanno portato non di rado a deliri di onnipotenza; il pluralismo dei valori si è talvolta tradotto in un sostanziale relativismo o indifferentismo, dando così ospitalità anche alla presenza inquietante del nichilismo, della negazione cioè della stessa realtà del valore in sé. Da questo ultimo versante, il novecento appena conclusosi non è stato certo avaro di tragici esempi!

Sono, questi, aspetti reali del processo di secolarizzazione che non vanno trascurati, e nei quali invero ci si imbatte, come sfida, ogniqualvolta si affronta la domanda del senso; sono anzi proprio tali aspetti a rendere così problematica una simile domanda nel contesto della società attuale.

Ora però, l’ambivalenza della società odierna esaminata sotto il profilo della secolarizzazione non fa in fondo che rispecchiare la diagnosi che già nel diciannovesimo secolo il filosofo Hegel formulava a proposito dell’Illuminismo: quest’epoca storica, egli diceva, è caratterizzata da una scissione, dalla divisione tra il sentimento, cioè il dominio dell’interiorità , e l’intelletto, cioè il dominio della ragione comprendente e calcolante.

L’unica realtà in grado di risanare e conciliare questa scissione è per Hegel la filosofia, che infatti contiene e supera entrambi gli ambiti, e cioè sia interiorità che ragione.

Per il nostro tema, però, ancora più interessante è la disamina di un contemporaneo di Hagel, Schleiermacher, il quale, assumendo per buona una diagnosi per molti versi analoga, perveniva a trovare una riconciliazione tra questi due ambiti non nella filosofia, ma in un nuovo concetto di religione.

Vale allora la pena provare brevemente ad attualizzare la sua analisi, perché ci pare che oggi possa essere ancora di qualche utilità.

Che cos’è infatti la religione? Schleiermacher dà al proposito una duplice risposta: da un lato, essa è l’intuizione immediata dell’Universo, cioè di una realtà immensa che sovrasta e trascende la finitezza dell’uomo: dall’altro, è il sentimento, che l’uomo avverte nella sua coscienza, di una dipendenza assoluta da questa realtà trascendente, per cui l’uomo, che con la sua sola ragione non riesce ad afferrare e comprendere quella Trascendenza, può però "sentirla", percepirla e intuirla come intimamente presente nell’intimo della propria coscienza.

In questo modo, per esemplificare il tutto con un’ immagine, l’invocazione e la domanda che salgono dall’interiorità dell’uomo verso questa Trascendenza, ritornano a lui, per così dire, sotto forma di ispirazione, quella ispirazione che non solo si rivela negli impulsi geniali delle grandi personalità artistiche o negli slanci mistici delle grandi personalità religiose, bensì anche nella determinazione quotidiana con la quale ciascuno di noi affronta e risolve le questioni della vita.

Grazie all’ispirazione, il senso religioso, vale a dire la capacità umana di percepire nella propria interiorità questa dinamica della Trascendenza, può dunque finalmente dischiudere anche la possibilità di articolare una risposta alla domanda sul senso della vita.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quarta parte

TRA SECOLARIZZAZIONE E CRISI DI SENSO

Le due diagnosi qui sommariamente presentate, applicate ai giorni nostri, ci rendono evidente un dato: che il processo di secolarizzazione della società, per quanto diffuso, non è però riuscito a trovare un sostituto adeguato della religione.

Tale processo ha infatti riguardato le strutture sociali e istituzionali della religione (è una realtà sotto gli occhi di tutti, per esempio, che le chiese progressivamente si svuotano e che, con l’emergere di una maggiore concorrenzialità nelle proposte di stili di vita diversi, diminuisce la pratica consapevole dei sacramenti), tuttavia l’elemento religioso, ossia la religione intesa come un modo e una struttura autonoma della coscienza (A.Caracciolo), non è scomparso, ma persiste proprio nella forma dell’invocazione e della domanda di senso ¡ pur se è innegabile che la crisi delle forme tradizionali e storiche di articolazione sociale della religione porta insieme con sé, come già abbiamo accennato, un maggiore smarrimento di fronte a questa domanda.

Nondimeno, è proprio una simile domanda a qualificare lo spazio della religione, o, per meglio dire, del religioso: è infatti esperienza comune che la domanda sul senso della vita può essere sì rimossa ¡ si può cioè, intenzionalmente, ignorarla, non volerne sapere -, tuttavia non può essere soppressa , e prima o poi, per esempio nell’esperienza dell’angoscia, del dubbio, delle notti insonni, essa torna prepotentemente ad esigere e riprendersi il suo spazio.

Ed è appunto questo spazio, che è universale, perché si dischiude strutturalmente e autonomamente in ogni uomo, indipendentemente dalla sua posizione intellettuale nei confronti del problema "fede", a poter e dover essere denominato come religioso. La religione è cioè lo spazio nel quale si articolano le domande e le inquietudini relative al senso ultimo da attribuire all’origine, alla finalità e alla destinazione dell’esistenza del singolo e del mondo.

Ora, l’idea ottimistica che la scienza, le nuove tecnologie, il processo di costante razionalizzazione del contesto sociale, potessero da soli dare risposta a tutti i bisogni dell’uomo e soddisfare così tutte le sue domande e i suoi interrogativi esistenziali, si è rivelata, come già abbiamo anticipato, una drammatica illusione.

La società della comunicazione avanzata si dimostra sempre più, infatti, come una società in cui dominano le solitudini e l’incomunicabilità, poiché alla possibilità di comunicazione, apparentemente sempre più vasta, non sembra far adeguatamente seguito un’autentica condivisione di esperienze esistenziali significative. D’altro canto, al dovere della felicità predicato senza posa dai messaggi pubblicitari sembra fare da contrappunto il diffondersi della depressione, che molti medici non esitano a definire il vero male del nostro tempo.

Da una parte quindi la società, anche grazie al processo di secolarizzazione, sembra fornire all’uomo d’oggi strumenti razionali e tecnici sempre più sofisticati che dovrebbero essere in grado di aiutarlo ad affrontare e dominare anche le situazioni più difficili dell’esistenza: dall’altra, però, ciò avviene in maniera insoddisfacente, giacchè il singolo avverte , nella propria coscienza, che c’è un ambito ¡ costituito per esempio proprio dalle sue domande ed inquietudini esistenziali ¡ che quegli strumenti razionali e tecnici non riescono a soddisfare pienamente o, anzi, trascurano del tutto.

Una conseguenza di questa odierna scissione tra le aspirazioni della società e i bisogni del singolo si mostra poi chiaramente in quel fenomeno della fuga nell’ irrazionalità che è indubbiamente un dato caratteristico del nostro tempo.

L’attenzione talvolta addirittura morbosa riservata agli oroscopi o alle previsioni del futuro, il proliferare di maghi, guaritori, visionari e sensitivi di ogni specie, il ricorso crescente alle cosiddette "medicine alternative" che, pur prive spesso di plausibilità scientifica, si impongono però in nome di una presunta armonia con l’ordine cosmico dell’universo, le pratiche salutiste e "neo-mistiche " dei movimenti religiosi facenti capo alla cosiddetta "new age" e il riporre speranze di benessere e di guadagno nelle lotterie o nei giochi di casualità, sono tutti ¡ ciascuno a suo modo ¡ segnali evidenti di un’irrazionalità che si afferma ormai come l’autentico volto di Giano della odierna civiltà tecnologica.

La secolarizzazione si fondava allora sul presupposto del disincanto, della liberazione dalla magia, il suo imporsi non è però riuscito a evitare che l’uomo, per trovare risposta alla propria insoddisfazione, faccia oggi ancora ricorso, in ultima istanza, a forme di irrazionalità talora ammantate di un alone magico-esoterico.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quinta parte

L’ESPERIENZA DEL SACRO E DELL’IRRAZIONALE

 D’altronde, a confermare la constatazione che l’elemento irrazionale gioca comunque un ruolo di primo piano nella determinazione del religioso, basterebbe ricordare le fortunate e classiche ricerche sulla fenomenologia del sacro del teologo tedesco Rudolf Otto, che infatti dava al suo libro del 1917 "Il sacro" il sottotitolo : "Sull’irrazionale nell’idea del divino e sul suo rapporto con il razionale".

Certo, per Otto, irrazionale significava in prima battuta non qualcosa di necessariamente antitetico alla ragione e alla logica, bensì l’eccedenza di questo elemento rispetto al razionale, e con ciò egli segnalava anche che, tra le esperienze umane, non tutto può essere ricondotto a un rigido schema di razionalità. I vari movimenti dell’esperienza del sacro rivelano infatti alla ragione dell’uomo un sentimento di creaturalità, cioè il fatto che la nostra vita, posta di fronte agli abissi del mistero e della trascendenza, che atterriscono e affascinano a un tempo, fa l’esperienza della propria incompiutezza e, conseguentemente, della incomparabile maestà e radicale diversità (inafferrabile con i mezzi limitati della ragione) di questa stessa trascendenza.

L’analisi di Rudolf Otto è ancora oggi di attualità nella misura in cui questa dimensione del sacro non viene identificata tout court con la religione, ma, a ben guardare, ne costituisce solo un primo elemento: la religione infatti non si accontenta soltanto del momento psicologico del terrore e del fascino di fronte al mistero e quindi del sentimento di piccolezza e timidezza dell’uomo avvertito al cospetto della trascendenza, bensì vuole già anche contenere in sé il momento attivo della assunzione di responsabilità nei confronti della trascendenza e del mondo.

La religione implica cioè anche e sempre la dimensione della fede, quale che sia la figura storica e concreta che a questa dimensione si vorrà attribuire (e ciò vale, si badi bene, anche per l’ateo, giacchè l’ateo che abbia seriamente affrontato nella sua cosienza il problema religioso, ha pur dovuto assumere alla fine una decisione rispetto a tale problema e risolversi così, magari, per una fede "politica" o "antropologica" o "filosofica", che, certamente diverse dalla fede "religiosa", restano comunque una figura della fede).

Con ciò, ci pare si possa cominciare a delineare un quadro più preciso per tentare di affrontare la fuga nell’irrazionalità e la crisi di senso della società odierna.

Ne va cioè della ricerca di una via per riconciliare il momento della razionalità con quello del sentimento, le due dimensioni che, come abbiamo visto fin qui, paiono essere le "colonne d’Ercole" della riflessione sul senso della vita.

Due termini, oggi molto in voga, assumono in questo contesto un significato pregnante: discorso e esperienza. Al di là della banalizzazione di cui essi sono spesso fatti oggetto nel linguaggio quotidiano (oggi tutto finisce per essere "discorso" ed "esperienza", anche ciò che, in verità, non è né oggetto di dialogo, né frutto di esperienza vissuta!), si tratta in realtà di due termini molto importanti che, concretamente, rimandano a una realtà fondamentale: in ogni discorso autentico viene cioè sempre presupposto l’incontro tra qualcuno che parla, e presenta così una sua esperienza di vita, e qualcuno che ascolta, e che, nell’ascolto, traduce nel proprio linguaggio l’esperienza di vita che gli viene comunicata. E tradurre nel proprio linguaggio significa: mettere a confronto quell’esperienza con la propria.

Ora è precisamente in questa dinamica del dialogo che può emergere lo spazio anche per una risposta individuale alla domanda sul senso.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Sesta parte

L’ARTE DI ASCOLTARE E DIALOGARE

A ben guardare, però, la dinamica del dialogo qui descritta non è nulla di diverso da ciò che già faceva il "nostro" Socrate, il quale, con la tecnica della cosiddetta "maieutica", aiutava l’interlocutore a trovare in se stesso le risposte ai quesiti che gli formulava.

Ora tutto ciò contiene anche per noi, oggi, un profondo insegnamento: se si vogliono davvero trovare gli strumenti per una risposta all’odierna crisi di senso, occorre recuperare la disponibilità al dialogo, all’ascolto e alla condivisione delle esperienze che sorgono nell’interiorità dell’uomo. E nessuno può negare ¡ crediamo ¡ che la religione resta in questo contesto una dimensione insostituibile. Infatti, la religione, in quanto sorge dal sentimento, ha a che fare, come suo luogo rivelativo, con l’interiorità del singolo e, al tempo stesso, traducendosi nelle forme sociali del rito e del culto, vuole comunicare e condividere, nell’assemblea e nella festa comunitaria, i contenuti esperiti e vissuti in questa stessa interiorità.

Ci sia però consentito, al termine di queste riflessioni, chiudere con un dubbio: non sarà che, a fronte della sopravvivenza del fenomeno religioso nel quadro di una società secolarizzata, le forme tradizionali di aggregazione ecclesiale vivono invece una profonda crisi, anche perché al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

Riflessioni su secolarizzazione e problemi del senso

Prima parte

- La domanda sul senso della vita viene spesso rimossa con fastidio; eppure, questa domanda, che è "religiosa", è tutt’altro che inattuale.

- L’esperienza dello smarrimento nella società secolarizzata, quale si è sviluppata con la genesi del del mondo moderno.

- La scissione tra ragione e sentimento e il nuovo ruolo della religione nel contesto delle difficoltà delle fedi storiche.

- La percezione del sacro e la fuga nell’irrazionale.

- L’arte dell’ascolto e del dialogo come strumento per affrontare l’odierna crisi di senso.

- Una domanda per concludere: causa della crisi delle chiese non sarà anche, in parte, che al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

C’era una volta un uomo di nome Socrate. Andava in giro per le strade della sua città, Atene, poneva domande ai passanti e volentieri si lasciava, a sua volta, interrogare. Nei suoi dialoghi parlava del bene e del male, dell’amore, del bello, in ultima istanza del senso della vita e di come aiutare gli uomini a scoprirlo. Era un uomo "scomodo"; fece, come si suol dire, una brutta fine.

Troverebbe oggi persone più tolleranti con lui? C’è di che dubitarne. In fondo, presi come siamo dalla convulsione dei giorni, pensiamo tutti di avere cose più serie e più importanti da fare che stare a dialogare sul senso della vita. Anzi forse lo stesso signor Socrate si cercherebbe oggi un’ occupazione più utile e produttiva e eviterebbe di "bighellonare" tutto il giorno, facendo "cricca" con gli amici e importunando i malcapitati passanti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Seconda parte

LA SECOLARIZZAZIONE COME DATO CULTURALE

La domanda sul senso della vita viene dunque, da molti nostri contemporanei, rimossa con malcelato fastidio. Eppure l’inquietudine e l’insoddisfazione che ciascuno di noi avverte presente negli ambienti in cui vive dimostrano che quella domanda è tutt’altro che inattuale. Sorge quindi il sospetto che tale domanda venga rimossa non perché non interessi, ma perché si prova angoscia di fronte all’incapacità di darvi risposta. Ci si sente infatti smarriti, si brancola letteralmente nel buio.

Si avverte il bisogno di un orientamento. Forse è meglio rettificare: in questo caso, un Socrate servirebbe!

A complicare ulteriormente le cose, c’è poi il fatto che, come ci dicono i sociologi, viviamo oggi in una società frammentata, iperspecializzata nelle suddivisioni delle competenze sociali e lavorative, in una parola individualistica. Una società che, insomma, ha perso i suoi punti di riferimento unificanti. Un tempo, questi punti di riferimento venivano, tra gli altri, assicurati dalla religione, la quale, con i suoi riti e le sue proposizioni di fede, forniva a tutti, indistintamente, dall’uomo più colto a quello più umile, un "ombrello" sufficiente per ripararsi dalle tempeste della vita.

In questo contesto, anche la domanda sul senso della vita, che è poi la domanda religiosa per eccellenza, anzi, come vedremo, la domanda stessa a partire dalla quale sorge il bisogno di una religione, trovava un rifugio sicuro.

L’uomo però che grazie all’Illuminismo, si è scoperto "maggiorenne" e quindi in grado di confidare nelle possibilità più o meno illimitate della propria ragione, non ha disdegnato di relegare spesso la religione nello spazio della superstizione, della magia e ha così potuto credere di riuscire meglio a rispondere a quella domanda con i mezzi positivi e tangibili della scienza e della tecnica che non con quelli astratti della religione. Il mondo si è così, per usare l’espressione di Max Weber, "disincantato", è uscito cioè dall’incanto della magia nella quale l’aveva fatto cadere la religione, e la società si è "secolarizzata", si è profilata cioè in un orizzonte non più trascendente, bensì totalmente intramondano.

Naturalmente, non si vuol dire, con questa diagnosi, che il processo di secolarizzazione sia, in sé e per sé, qualcosa di negativo. Non va dimenticato, infatti, che è anche grazie alla secolarizzazione che hanno potuto svilupparsi alcuni principi del mondo moderno che la nostra cultura ritiene oggi fondanti e irrinunciabili.

L’inalienabilità dei diritti umani, fondata sul riconoscimento della libertà e della dignità di ogni essere umano, indipendentemente da qualsiasi appartenenza di razza, casta, chiesa, ecc., la chiara distinzione dei compiti e delle sfere di influenza tra lo stato e la chiesa, e quindi la nascita dello stato moderno sulla base della aconfessionalità, del pluralismo e della tolleranza (quella multiculturalità che nel contesto odierno è diventata quasi una parola d’ordine) lo sviluppo di una cultura democratica e della partecipazione politica alla vita pubblica, il riconoscimento della reciproca autonomia tra la sfera etica e la sfera religiosa, sono tutti in qualche modo effetti tangibili e positivi di quel processo di secolarizzazione avviatosi con la genesi del mondo moderno.

Su questo punto conviene essere chiari: la nostalgia di un mondo pre-secolarizzato reca in sé il rischio del fondamentalismo, di una visione "teocratica" e medievale del mondo che al pluralismo dei valori sostituisce l’assolutezza di un’unica verità che deve essere imposta a tutti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Terza parte

L’AMBIVALENZA DELLA SOCIETÀ SECOLARIZZATA

Tuttavia, se anche si sottolineano gli aspetti innovativi, dal punto di vista culturale, del processo di secolarizzazione, non si può comunque tacere il risvolto della medaglia.

La grande opportunità offerta dalla "scoperta" del principio moderno di individualità si è infatti molto spesso tradotta in un imperante individualismo; la conquista della libertà e la progressiva emancipazione della scienza hanno portato non di rado a deliri di onnipotenza; il pluralismo dei valori si è talvolta tradotto in un sostanziale relativismo o indifferentismo, dando così ospitalità anche alla presenza inquietante del nichilismo, della negazione cioè della stessa realtà del valore in sé. Da questo ultimo versante, il novecento appena conclusosi non è stato certo avaro di tragici esempi!

Sono, questi, aspetti reali del processo di secolarizzazione che non vanno trascurati, e nei quali invero ci si imbatte, come sfida, ogniqualvolta si affronta la domanda del senso; sono anzi proprio tali aspetti a rendere così problematica una simile domanda nel contesto della società attuale.

Ora però, l’ambivalenza della società odierna esaminata sotto il profilo della secolarizzazione non fa in fondo che rispecchiare la diagnosi che già nel diciannovesimo secolo il filosofo Hegel formulava a proposito dell’Illuminismo: quest’epoca storica, egli diceva, è caratterizzata da una scissione, dalla divisione tra il sentimento, cioè il dominio dell’interiorità , e l’intelletto, cioè il dominio della ragione comprendente e calcolante.

L’unica realtà in grado di risanare e conciliare questa scissione è per Hegel la filosofia, che infatti contiene e supera entrambi gli ambiti, e cioè sia interiorità che ragione.

Per il nostro tema, però, ancora più interessante è la disamina di un contemporaneo di Hagel, Schleiermacher, il quale, assumendo per buona una diagnosi per molti versi analoga, perveniva a trovare una riconciliazione tra questi due ambiti non nella filosofia, ma in un nuovo concetto di religione.

Vale allora la pena provare brevemente ad attualizzare la sua analisi, perché ci pare che oggi possa essere ancora di qualche utilità.

Che cos’è infatti la religione? Schleiermacher dà al proposito una duplice risposta: da un lato, essa è l’intuizione immediata dell’Universo, cioè di una realtà immensa che sovrasta e trascende la finitezza dell’uomo: dall’altro, è il sentimento, che l’uomo avverte nella sua coscienza, di una dipendenza assoluta da questa realtà trascendente, per cui l’uomo, che con la sua sola ragione non riesce ad afferrare e comprendere quella Trascendenza, può però "sentirla", percepirla e intuirla come intimamente presente nell’intimo della propria coscienza.

In questo modo, per esemplificare il tutto con un’ immagine, l’invocazione e la domanda che salgono dall’interiorità dell’uomo verso questa Trascendenza, ritornano a lui, per così dire, sotto forma di ispirazione, quella ispirazione che non solo si rivela negli impulsi geniali delle grandi personalità artistiche o negli slanci mistici delle grandi personalità religiose, bensì anche nella determinazione quotidiana con la quale ciascuno di noi affronta e risolve le questioni della vita.

Grazie all’ispirazione, il senso religioso, vale a dire la capacità umana di percepire nella propria interiorità questa dinamica della Trascendenza, può dunque finalmente dischiudere anche la possibilità di articolare una risposta alla domanda sul senso della vita.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quarta parte

TRA SECOLARIZZAZIONE E CRISI DI SENSO

Le due diagnosi qui sommariamente presentate, applicate ai giorni nostri, ci rendono evidente un dato: che il processo di secolarizzazione della società, per quanto diffuso, non è però riuscito a trovare un sostituto adeguato della religione.

Tale processo ha infatti riguardato le strutture sociali e istituzionali della religione (è una realtà sotto gli occhi di tutti, per esempio, che le chiese progressivamente si svuotano e che, con l’emergere di una maggiore concorrenzialità nelle proposte di stili di vita diversi, diminuisce la pratica consapevole dei sacramenti), tuttavia l’elemento religioso, ossia la religione intesa come un modo e una struttura autonoma della coscienza (A.Caracciolo), non è scomparso, ma persiste proprio nella forma dell’invocazione e della domanda di senso ¡ pur se è innegabile che la crisi delle forme tradizionali e storiche di articolazione sociale della religione porta insieme con sé, come già abbiamo accennato, un maggiore smarrimento di fronte a questa domanda.

Nondimeno, è proprio una simile domanda a qualificare lo spazio della religione, o, per meglio dire, del religioso: è infatti esperienza comune che la domanda sul senso della vita può essere sì rimossa ¡ si può cioè, intenzionalmente, ignorarla, non volerne sapere -, tuttavia non può essere soppressa , e prima o poi, per esempio nell’esperienza dell’angoscia, del dubbio, delle notti insonni, essa torna prepotentemente ad esigere e riprendersi il suo spazio.

Ed è appunto questo spazio, che è universale, perché si dischiude strutturalmente e autonomamente in ogni uomo, indipendentemente dalla sua posizione intellettuale nei confronti del problema "fede", a poter e dover essere denominato come religioso. La religione è cioè lo spazio nel quale si articolano le domande e le inquietudini relative al senso ultimo da attribuire all’origine, alla finalità e alla destinazione dell’esistenza del singolo e del mondo.

Ora, l’idea ottimistica che la scienza, le nuove tecnologie, il processo di costante razionalizzazione del contesto sociale, potessero da soli dare risposta a tutti i bisogni dell’uomo e soddisfare così tutte le sue domande e i suoi interrogativi esistenziali, si è rivelata, come già abbiamo anticipato, una drammatica illusione.

La società della comunicazione avanzata si dimostra sempre più, infatti, come una società in cui dominano le solitudini e l’incomunicabilità, poiché alla possibilità di comunicazione, apparentemente sempre più vasta, non sembra far adeguatamente seguito un’autentica condivisione di esperienze esistenziali significative. D’altro canto, al dovere della felicità predicato senza posa dai messaggi pubblicitari sembra fare da contrappunto il diffondersi della depressione, che molti medici non esitano a definire il vero male del nostro tempo.

Da una parte quindi la società, anche grazie al processo di secolarizzazione, sembra fornire all’uomo d’oggi strumenti razionali e tecnici sempre più sofisticati che dovrebbero essere in grado di aiutarlo ad affrontare e dominare anche le situazioni più difficili dell’esistenza: dall’altra, però, ciò avviene in maniera insoddisfacente, giacchè il singolo avverte , nella propria coscienza, che c’è un ambito ¡ costituito per esempio proprio dalle sue domande ed inquietudini esistenziali ¡ che quegli strumenti razionali e tecnici non riescono a soddisfare pienamente o, anzi, trascurano del tutto.

Una conseguenza di questa odierna scissione tra le aspirazioni della società e i bisogni del singolo si mostra poi chiaramente in quel fenomeno della fuga nell’ irrazionalità che è indubbiamente un dato caratteristico del nostro tempo.

L’attenzione talvolta addirittura morbosa riservata agli oroscopi o alle previsioni del futuro, il proliferare di maghi, guaritori, visionari e sensitivi di ogni specie, il ricorso crescente alle cosiddette "medicine alternative" che, pur prive spesso di plausibilità scientifica, si impongono però in nome di una presunta armonia con l’ordine cosmico dell’universo, le pratiche salutiste e "neo-mistiche " dei movimenti religiosi facenti capo alla cosiddetta "new age" e il riporre speranze di benessere e di guadagno nelle lotterie o nei giochi di casualità, sono tutti ¡ ciascuno a suo modo ¡ segnali evidenti di un’irrazionalità che si afferma ormai come l’autentico volto di Giano della odierna civiltà tecnologica.

La secolarizzazione si fondava allora sul presupposto del disincanto, della liberazione dalla magia, il suo imporsi non è però riuscito a evitare che l’uomo, per trovare risposta alla propria insoddisfazione, faccia oggi ancora ricorso, in ultima istanza, a forme di irrazionalità talora ammantate di un alone magico-esoterico.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quinta parte

L’ESPERIENZA DEL SACRO E DELL’IRRAZIONALE

 D’altronde, a confermare la constatazione che l’elemento irrazionale gioca comunque un ruolo di primo piano nella determinazione del religioso, basterebbe ricordare le fortunate e classiche ricerche sulla fenomenologia del sacro del teologo tedesco Rudolf Otto, che infatti dava al suo libro del 1917 "Il sacro" il sottotitolo : "Sull’irrazionale nell’idea del divino e sul suo rapporto con il razionale".

Certo, per Otto, irrazionale significava in prima battuta non qualcosa di necessariamente antitetico alla ragione e alla logica, bensì l’eccedenza di questo elemento rispetto al razionale, e con ciò egli segnalava anche che, tra le esperienze umane, non tutto può essere ricondotto a un rigido schema di razionalità. I vari movimenti dell’esperienza del sacro rivelano infatti alla ragione dell’uomo un sentimento di creaturalità, cioè il fatto che la nostra vita, posta di fronte agli abissi del mistero e della trascendenza, che atterriscono e affascinano a un tempo, fa l’esperienza della propria incompiutezza e, conseguentemente, della incomparabile maestà e radicale diversità (inafferrabile con i mezzi limitati della ragione) di questa stessa trascendenza.

L’analisi di Rudolf Otto è ancora oggi di attualità nella misura in cui questa dimensione del sacro non viene identificata tout court con la religione, ma, a ben guardare, ne costituisce solo un primo elemento: la religione infatti non si accontenta soltanto del momento psicologico del terrore e del fascino di fronte al mistero e quindi del sentimento di piccolezza e timidezza dell’uomo avvertito al cospetto della trascendenza, bensì vuole già anche contenere in sé il momento attivo della assunzione di responsabilità nei confronti della trascendenza e del mondo.

La religione implica cioè anche e sempre la dimensione della fede, quale che sia la figura storica e concreta che a questa dimensione si vorrà attribuire (e ciò vale, si badi bene, anche per l’ateo, giacchè l’ateo che abbia seriamente affrontato nella sua cosienza il problema religioso, ha pur dovuto assumere alla fine una decisione rispetto a tale problema e risolversi così, magari, per una fede "politica" o "antropologica" o "filosofica", che, certamente diverse dalla fede "religiosa", restano comunque una figura della fede).

Con ciò, ci pare si possa cominciare a delineare un quadro più preciso per tentare di affrontare la fuga nell’irrazionalità e la crisi di senso della società odierna.

Ne va cioè della ricerca di una via per riconciliare il momento della razionalità con quello del sentimento, le due dimensioni che, come abbiamo visto fin qui, paiono essere le "colonne d’Ercole" della riflessione sul senso della vita.

Due termini, oggi molto in voga, assumono in questo contesto un significato pregnante: discorso e esperienza. Al di là della banalizzazione di cui essi sono spesso fatti oggetto nel linguaggio quotidiano (oggi tutto finisce per essere "discorso" ed "esperienza", anche ciò che, in verità, non è né oggetto di dialogo, né frutto di esperienza vissuta!), si tratta in realtà di due termini molto importanti che, concretamente, rimandano a una realtà fondamentale: in ogni discorso autentico viene cioè sempre presupposto l’incontro tra qualcuno che parla, e presenta così una sua esperienza di vita, e qualcuno che ascolta, e che, nell’ascolto, traduce nel proprio linguaggio l’esperienza di vita che gli viene comunicata. E tradurre nel proprio linguaggio significa: mettere a confronto quell’esperienza con la propria.

Ora è precisamente in questa dinamica del dialogo che può emergere lo spazio anche per una risposta individuale alla domanda sul senso.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Sesta parte

L’ARTE DI ASCOLTARE E DIALOGARE

A ben guardare, però, la dinamica del dialogo qui descritta non è nulla di diverso da ciò che già faceva il "nostro" Socrate, il quale, con la tecnica della cosiddetta "maieutica", aiutava l’interlocutore a trovare in se stesso le risposte ai quesiti che gli formulava.

Ora tutto ciò contiene anche per noi, oggi, un profondo insegnamento: se si vogliono davvero trovare gli strumenti per una risposta all’odierna crisi di senso, occorre recuperare la disponibilità al dialogo, all’ascolto e alla condivisione delle esperienze che sorgono nell’interiorità dell’uomo. E nessuno può negare ¡ crediamo ¡ che la religione resta in questo contesto una dimensione insostituibile. Infatti, la religione, in quanto sorge dal sentimento, ha a che fare, come suo luogo rivelativo, con l’interiorità del singolo e, al tempo stesso, traducendosi nelle forme sociali del rito e del culto, vuole comunicare e condividere, nell’assemblea e nella festa comunitaria, i contenuti esperiti e vissuti in questa stessa interiorità.

Ci sia però consentito, al termine di queste riflessioni, chiudere con un dubbio: non sarà che, a fronte della sopravvivenza del fenomeno religioso nel quadro di una società secolarizzata, le forme tradizionali di aggregazione ecclesiale vivono invece una profonda crisi, anche perché al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

Riflessioni su secolarizzazione e problemi del senso

Prima parte

- La domanda sul senso della vita viene spesso rimossa con fastidio; eppure, questa domanda, che è "religiosa", è tutt’altro che inattuale.

- L’esperienza dello smarrimento nella società secolarizzata, quale si è sviluppata con la genesi del del mondo moderno.

- La scissione tra ragione e sentimento e il nuovo ruolo della religione nel contesto delle difficoltà delle fedi storiche.

- La percezione del sacro e la fuga nell’irrazionale.

- L’arte dell’ascolto e del dialogo come strumento per affrontare l’odierna crisi di senso.

- Una domanda per concludere: causa della crisi delle chiese non sarà anche, in parte, che al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

C’era una volta un uomo di nome Socrate. Andava in giro per le strade della sua città, Atene, poneva domande ai passanti e volentieri si lasciava, a sua volta, interrogare. Nei suoi dialoghi parlava del bene e del male, dell’amore, del bello, in ultima istanza del senso della vita e di come aiutare gli uomini a scoprirlo. Era un uomo "scomodo"; fece, come si suol dire, una brutta fine.

Troverebbe oggi persone più tolleranti con lui? C’è di che dubitarne. In fondo, presi come siamo dalla convulsione dei giorni, pensiamo tutti di avere cose più serie e più importanti da fare che stare a dialogare sul senso della vita. Anzi forse lo stesso signor Socrate si cercherebbe oggi un’ occupazione più utile e produttiva e eviterebbe di "bighellonare" tutto il giorno, facendo "cricca" con gli amici e importunando i malcapitati passanti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Seconda parte

LA SECOLARIZZAZIONE COME DATO CULTURALE

La domanda sul senso della vita viene dunque, da molti nostri contemporanei, rimossa con malcelato fastidio. Eppure l’inquietudine e l’insoddisfazione che ciascuno di noi avverte presente negli ambienti in cui vive dimostrano che quella domanda è tutt’altro che inattuale. Sorge quindi il sospetto che tale domanda venga rimossa non perché non interessi, ma perché si prova angoscia di fronte all’incapacità di darvi risposta. Ci si sente infatti smarriti, si brancola letteralmente nel buio.

Si avverte il bisogno di un orientamento. Forse è meglio rettificare: in questo caso, un Socrate servirebbe!

A complicare ulteriormente le cose, c’è poi il fatto che, come ci dicono i sociologi, viviamo oggi in una società frammentata, iperspecializzata nelle suddivisioni delle competenze sociali e lavorative, in una parola individualistica. Una società che, insomma, ha perso i suoi punti di riferimento unificanti. Un tempo, questi punti di riferimento venivano, tra gli altri, assicurati dalla religione, la quale, con i suoi riti e le sue proposizioni di fede, forniva a tutti, indistintamente, dall’uomo più colto a quello più umile, un "ombrello" sufficiente per ripararsi dalle tempeste della vita.

In questo contesto, anche la domanda sul senso della vita, che è poi la domanda religiosa per eccellenza, anzi, come vedremo, la domanda stessa a partire dalla quale sorge il bisogno di una religione, trovava un rifugio sicuro.

L’uomo però che grazie all’Illuminismo, si è scoperto "maggiorenne" e quindi in grado di confidare nelle possibilità più o meno illimitate della propria ragione, non ha disdegnato di relegare spesso la religione nello spazio della superstizione, della magia e ha così potuto credere di riuscire meglio a rispondere a quella domanda con i mezzi positivi e tangibili della scienza e della tecnica che non con quelli astratti della religione. Il mondo si è così, per usare l’espressione di Max Weber, "disincantato", è uscito cioè dall’incanto della magia nella quale l’aveva fatto cadere la religione, e la società si è "secolarizzata", si è profilata cioè in un orizzonte non più trascendente, bensì totalmente intramondano.

Naturalmente, non si vuol dire, con questa diagnosi, che il processo di secolarizzazione sia, in sé e per sé, qualcosa di negativo. Non va dimenticato, infatti, che è anche grazie alla secolarizzazione che hanno potuto svilupparsi alcuni principi del mondo moderno che la nostra cultura ritiene oggi fondanti e irrinunciabili.

L’inalienabilità dei diritti umani, fondata sul riconoscimento della libertà e della dignità di ogni essere umano, indipendentemente da qualsiasi appartenenza di razza, casta, chiesa, ecc., la chiara distinzione dei compiti e delle sfere di influenza tra lo stato e la chiesa, e quindi la nascita dello stato moderno sulla base della aconfessionalità, del pluralismo e della tolleranza (quella multiculturalità che nel contesto odierno è diventata quasi una parola d’ordine) lo sviluppo di una cultura democratica e della partecipazione politica alla vita pubblica, il riconoscimento della reciproca autonomia tra la sfera etica e la sfera religiosa, sono tutti in qualche modo effetti tangibili e positivi di quel processo di secolarizzazione avviatosi con la genesi del mondo moderno.

Su questo punto conviene essere chiari: la nostalgia di un mondo pre-secolarizzato reca in sé il rischio del fondamentalismo, di una visione "teocratica" e medievale del mondo che al pluralismo dei valori sostituisce l’assolutezza di un’unica verità che deve essere imposta a tutti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Terza parte

L’AMBIVALENZA DELLA SOCIETÀ SECOLARIZZATA

Tuttavia, se anche si sottolineano gli aspetti innovativi, dal punto di vista culturale, del processo di secolarizzazione, non si può comunque tacere il risvolto della medaglia.

La grande opportunità offerta dalla "scoperta" del principio moderno di individualità si è infatti molto spesso tradotta in un imperante individualismo; la conquista della libertà e la progressiva emancipazione della scienza hanno portato non di rado a deliri di onnipotenza; il pluralismo dei valori si è talvolta tradotto in un sostanziale relativismo o indifferentismo, dando così ospitalità anche alla presenza inquietante del nichilismo, della negazione cioè della stessa realtà del valore in sé. Da questo ultimo versante, il novecento appena conclusosi non è stato certo avaro di tragici esempi!

Sono, questi, aspetti reali del processo di secolarizzazione che non vanno trascurati, e nei quali invero ci si imbatte, come sfida, ogniqualvolta si affronta la domanda del senso; sono anzi proprio tali aspetti a rendere così problematica una simile domanda nel contesto della società attuale.

Ora però, l’ambivalenza della società odierna esaminata sotto il profilo della secolarizzazione non fa in fondo che rispecchiare la diagnosi che già nel diciannovesimo secolo il filosofo Hegel formulava a proposito dell’Illuminismo: quest’epoca storica, egli diceva, è caratterizzata da una scissione, dalla divisione tra il sentimento, cioè il dominio dell’interiorità , e l’intelletto, cioè il dominio della ragione comprendente e calcolante.

L’unica realtà in grado di risanare e conciliare questa scissione è per Hegel la filosofia, che infatti contiene e supera entrambi gli ambiti, e cioè sia interiorità che ragione.

Per il nostro tema, però, ancora più interessante è la disamina di un contemporaneo di Hagel, Schleiermacher, il quale, assumendo per buona una diagnosi per molti versi analoga, perveniva a trovare una riconciliazione tra questi due ambiti non nella filosofia, ma in un nuovo concetto di religione.

Vale allora la pena provare brevemente ad attualizzare la sua analisi, perché ci pare che oggi possa essere ancora di qualche utilità.

Che cos’è infatti la religione? Schleiermacher dà al proposito una duplice risposta: da un lato, essa è l’intuizione immediata dell’Universo, cioè di una realtà immensa che sovrasta e trascende la finitezza dell’uomo: dall’altro, è il sentimento, che l’uomo avverte nella sua coscienza, di una dipendenza assoluta da questa realtà trascendente, per cui l’uomo, che con la sua sola ragione non riesce ad afferrare e comprendere quella Trascendenza, può però "sentirla", percepirla e intuirla come intimamente presente nell’intimo della propria coscienza.

In questo modo, per esemplificare il tu

Giovedì, 30 Dicembre 2004 20:54

MEDIA: "Contro la guerra senza se e senza ma"

 MEDIA

"Contro la guerra senza se e senza ma"

"Contro la guerra senza se e senza ma"

(Articolo di Cristina Beffa su "Famiglia Oggi" 3/2003 pp.68-72)

report a cura di SIMONA CUDINI - Psicologa

La decisione della RAI di non mandare in oda la diretta della manifestazione pacifista organizzata a Roma dal Social Forum il 15 febbraio "contro la guerra senza se e senza ma", è uno degli episodi recenti che , da un lato dimostra quanto la televisione abbia il potere rifiltrare e censurare la realtà (semplicemente non facendola apparire o dandole un’attenzione maggiore o minore, in questo caso a secondo delle richieste del governo), dall’altra testimonia la qualità del servizio pubblico televisivo, sempre più asservito a interessi di parte.

Contemporaneamente il CENSIS (centro studi investimenti sociali) nel suo ultimo rapporto, sottolinea l’importanza dei media nella vita culturale e politica del nostro Paese, e invita a non sottovalutare gli effetti, soprattutto della televisione, unica fonte di informazione e crescita culturale per un largo strato della popolazione, composto prevalentemente da persone a bassa scolarità. Snobbare e demonizzare la televisione non aiuta quindi ad arginare un fenomeno che, se pur criticabile per la bassa a qualità del prodotto offerto, ha però una penetrazione praticamente totale nella nostra società, e quindi non può essere ignorata: il suo potere va però contrastato affiancandole altri media capaci di integrare sia l’aspetto informativo che quello culturale. La televisione, ormai, ha perso la possibilità di istruire, creare opinioni attraverso il confronto e il dibattito: con l’avvento delle televisioni commerciali l’obiettivo, anche della tv pubblica, si è spostato sul piano della vendita degli spazi pubblicitari, che implica la necessità di catturare l’attenzione di un pubblico più vasto possibile con programmi di intrattenimento in una competizione dove qualità dei programmi e quantità di ascolti sembrano essere irrimediabilmente antitetici. Il compito di accrescere e vagliare le informazione, e da queste crearsi delle opinioni, diventa quindi responsabilità di altri media, e in primo luogo della stampa quotidiana e dei libri. Se infatti internet e i canali informativi ad essa collegati permettono di acquisire in tempi brevissimi un’enorme mole di informazioni, solo la lettura, come sostiene Umberto Eco, dà la "possibilità di filtrare l’infinità di informazioni che oggi ci arrivano…soltanto grazie ai libri ognuno di noi avrà strumenti per scegliere e crearsi una propria identità culturale" (Corriere della Sera, 31 gennaio 2003). La lettura però, ancora oggi, appare appannaggio delle classi sociali a più alto livello di istruzione, sia fra gli adulti che fra i giovani: necessitano quindi delle azioni che avvicinino maggiormente tutti gli strati sociali a queste fonti di sapere, alternative all’omologazione di pensiero che la televisione, nel nostro Paese più che in altri, persegue come strumento di consenso e di controllo sociale.

Simona Cudini

Giovedì, 30 Dicembre 2004 20:51

La violenza dell'ingiustizia - Ettore Masina -

 La violenza dell’ingiustizia

· È possibile definire "civiltà" un mondo in cui i diritti umani vengono sempre più scandalosamente calpestati e negati? · Scelte planetarie sbagliate e fonte di infelicità per tutti · Un orizzonte che si fa sempre più oscuro anche per la società del benessere · È necessario cambiare… ma serve coraggio!

Prima Parte

Un miliardo e 200 milioni di persone nostre contemporanee non dispongono di un dollaro al giorno: cioè non possono nutrirsi a sufficienza, non possono curarsi adeguatamente, sono analfabete. Nel cinquantesimo anniversario della solenne Dichiarazione dei diritti umani proclamata dalle Nazioni Unite, queste creature, se anche vivessero in nazioni perfettamente democratiche, sarebbero pur sempre inchiodate alla schiavitù di chi non ha forza nè parole per rivendicare il primo e più basilare diritto: quello alla sopravvivenza. È molto bello e assolutamente necessario che vi siano su tutta la terra grandi movimenti popolari contro la pena di morte o attenti alla mancanza di libertà di stampa, di religione, di organizzazione politica e via dicendo in paesi anche geograficamente vicini o che ci sono accanto nella NATO: e anzi questi movimenti andrebbero assai più sostenuti di quanto oggi avvenga; e però, mentre le condanne a morte assommano alla spaventosa cifra di 30 mila casi all'anno, ogni giorno muore un numero anche maggiore di bambini, condannati a morte da denutrizione, polmonite o dissenteria anche se vaccinare un piccino contro le sei principali malattie killer della miseria costa 14 mila lire. È ben giusto - e anzi: doveroso - esprimere solidarietà ai "dissidenti" perseguitati da governi illiberali: ma quale dignità riconosciamo a creature (ne ho viste a migliaia a Bombay, a Hong Kong, a Montevideo e in Brasile) costrette a vivere (cioè ad abitare, a cercare cibo e vestiti) nei grandi mondezzai che contornano le metropoli del cosiddetto Terzo Mondo? Noi che - dice una statistica che riguarda i paesi dell'OCSE. dunque l'arca geografica ed economica della quale facciamo parte - produciamo 500 chili a testa di rifiuti ogni anno: il 20% e più ancora commestibili?

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Seconda Parte

Lo scandalo di una "civiltà"

Ci si vergogna persino a citare queste cifre, tanto sono risapute; e però esse rappresentano lo scandalo di una civiltà nella quale siamo, tutto sommato, bene inseriti, noi, gente del Nord; e questo scandalo che dovrebbe orientare la nostra vita (soprattutto quella di chi crede in un Cristo che ha voluto identificarsi nei poveri e ha annunziato che è sull'amore portato ai poveri che pronuncerà il giudizio dell'Ultimo Giorno) viene invece sospinto ai margini delle riflessioni e dei comportamenti della nostra vita quotidiana: e difatti accettiamo senza obiezione di coscienza (e senza opposizione politica) che economisti di grande nome sostengano che una quota di disoccupazione, di aree sottosviluppate, di "cantoni neri", di immensi gruppi umani considerati "esuberi" sono disgraziatamente "fisiologici", cioè inevitabili (dunque voluti dal Creatore?). Il progresso, l'espansione dei mercati - si spinge a dire più caritatevolmente il Fondo Monetario Internazionale, "potere forte" della politica mondiale sistemerà le cose: in tempi luoghi naturalmente; il che vuol dire che intanto, per generazioni, i poveri continueranno a fiorire. "Avevo fame e tu non mi hai nutrito".

Come sempre? Può darsi; ma è vicenda planetaria che oggi si riveste di responsabilità nuove..

Primo: abbiamo elaborato negli ultimi due secoli consapevolezze sulla dignità dell'uomo, ma le applichiamo, in pratica, soltanto a noi e ai nostri condomini di un'area di privilegi.

Secondo: abbiamo accumulato cognizioni scientifiche che ci consentirebbero di trasformare la Terra in un pianeta sul quale un'umanità solidale potrebbe vivere in serenità; ma preferiamo investire su un progresso che aumenti la nostra ricchezza: non ci sembra ferocemente assurdo che mentre una sonda spaziale corre verso i confini dell'universo e i ricercatori indagano l'infinitamente piccolo vi siano popoli a cui è negato il diritto all'esistenza. Né possiamo dire, come invece si dice, che mancano i mezzi finanziari: con quanto gli Stati Uniti e i loro alleati (italiani compresi) hanno speso nella prima guerra del Golfo (per non parlare della seconda, ormai cronica) si sarebbe potuto redimere la condizione economica di un continente come l'Africa...

Terzo: mai la porzione ricca dell'umanità è stata tanto ricca e le differenze economiche fra popolo e popolo sono state così grandi. Credo che a tutti noi capiti di pensare almeno qualche volta, che accanto alla fame del Sud ci sia, altrettanto triste, una obesità di cose che stravolge ml Nord. Due auto, due o tre televisori per famiglia, elettrodomestici che invece di liberare la donna dai lavori casalinghi le propongono sempre nuovi obiettivi consumistici, "tenute" per il tempo libero che costano milioni e, a guardarle bene, sono del tutto superflue, sussiegosi status-symbols.

E fossimo almeno felici! Ma come esserlo se, volenti o nolenti, ci raggiunge inevitabilmente il pensiero che, mentre in tutta buona fede giuriamo di amare i nostri bambini, permettiamo che essi siano rapinati delle risorse che la natura ha preparato per loro? Quale vita dovranno affrontare nel 2025? Quali condizioni ambientali del globo? Quale acqua, quale ossigeno, quale pace? Nei paesi del Sud è già visibile quale può essere il futuro dei nostri figli. Mi limito alle mie esperienze personali: voli sull'Amazzonia e vedi i pennacchi di fumo di cinquanta, cento incendi che bruciano il polmone verde della Terra per creare nuovi pascoli per le bestie da fast-food; aree che in pochi anni saranno del tutto sterili, e per sempre, voli sull’Africa e per ore non vedi un albero là dove milioni di profughi hanno cercato scampo da guerre sostenute dai nostri mercanti d'armi o dove immensi foreste sono state disboscate da nostri mercanti del legno; in luoghi di addensamenti umani e miserabili, in tutto il cosiddetto Terzo Mondo, vedi i misfatti di un'industria ad altissimi rischi ambientali, i cui stabilimenti, cacciati dalla protesta "verde" europea o nordamericana, sono stati portati là dove è facile corrompere i governanti e schiacciare i sindacati; vi nascono bambini deformi e anche mostruosi o tarati per sempre. E i salari che vi vengono pagati ai lavoratori costituiscono una minaccia non soltanto per la salute loro e delle loro famiglie costrette a vivere in miserabili favelas ma anche per l'occupazione dei lavoratori del Nord: per capirlo basta paragonare il reddito di un metalmeccanico della FIAT italiana con quello di un metalmeccanico della Fiat Betim, a Belo Horizonte, Brasile: dieci volte minore. E ancora: ho visto curare nell'Ogaden, da meravigliosi medici italiani bambini saltati su mine di fabbricazione italiana, imparziabilmente vendute alla Somalia e all'Etiopia quando le due nazioni erano in guerra... Ho letto le statistiche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’uso di pesticidi cancerogeni o castranti nelle grandi piantagioni delle multinazionali; ho visto al lavoro piccoli schiavi che fabbricavano generi di abbigliamento per famose "griffe" italiane.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Terza Parte

Terza Parte

Terza Parte

Un panorama di alienazioni o di sconfitte

Tale è il panorama del Sud della terra, all'inizio del Terzo Millennio cristiano, con l'aggiunta che il sistemi in ciu viviamo genera inevitabilmente sacche di miseria anche nel Nord. Per esempio: in nome di una razionalità che è soltanto astrattamente tale e calunniosa delle reali radici e dimensioni della povertà, si demolisce ovunque io stato sociale; i risultati cominciano a essere inequivocabili. Il panorama che ne consegue - cito da un recente rapporto dell'OECD (Organization for Economie Cooperation and Development) cioè dell'organizzazione che riunisce i 29 paesi più industrializzati del nostro pianeta -. è impressionante. Gli Stati Uniti guidano la triste classifica della miseria con il 17,1% di cittadini nella condizione di "più che poveri"; al secondo posto c'è l'Italia con il 14,2. Queste percentuali riguardano l'anno 1993 e segnano, per l'Italia, un impressionante aumento del 3,9% nei confronti del decennio precedente. Il trend non è mutato negli anni seguenti secondo i rapporti della Commissione della presidenza del Consiglio dei ministri per la lotta alla miseria.

Ma se si vuole tenere aperti gli occhi davanti alle storture del mondo che il neoliberismo va costruendo per noi e per i nostri figli bisogna contemplare anche fenomeni meno evidenti. Per esempio; Marx denunziò più di cento anni fa le alienazioni prodotte da un lavoro servile cui l'operaio veniva sottoposto senza possibilità di esercitare creatività e di maturare libertà. Oggi le caratteristiche del lavoro sono, dal punto dì vista psichico, psicologico e culturale peggiorate non soltanto perché gli strumenti di difesa dei lavoratori (i sindacati…) sono in crisi di fronte a un progresso tecnologico che taglia drasticamente l'occupazione, non soltanto perché l'organizzazione transnazionale delle maggiori imprese sposta dall'uno all’altro paese, secondo rigidi criteri di guadagno, finanziamenti e occasioni di lavoro. Il fatto è che oggi un prodotto è molto spesso un assemblaggio di parti anche minuscole fabbricate in stabilimenti diversi fra loro: l'operaio (e spesso anche il tecnico) non è in grado di conoscere, tanto meno di comprendere, il progetto per il quale lavora. E la "flessibilità" non accompagnata da un' adeguata cultura finisce per rendere anche più nebulose e minimali le competenze del lavoratore, la sua stessa identità.

Infine (ma soltanto perché lo spazio per questo intervento è quasi esaurito) non si può tacere la questione dell'uomo-oggetto a tutti i livelli, l'uomo-esubero, il cinquantenne prepensionato o posto in cassa integrazione. Il miglioramento delle tecniche mediche gli allunga la vita, il sistema produttivistico e la riduzione del welfare gliel'avvelena.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Quarta parte

Quarta parte

Quarta parte

Dove sono finite le speranze?

I giovani guardano e sono spaventati. O, anche, la paura impedisce loro di guardare. È stato pubblicato l'anno scorso il IV Rapporto ASPER, Istituto di formazione e ricerca, e da esso risulta che oltre il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà una società più egoista, più razzista e più violenta di quella di oggi. Quasi il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà meno democratica, meno solidaristica, meno allegra di quella d'oggi. A pensare che la società futura possa essere meno razzista, meno egoista, meno illegale, meno violenta di quella di oggi sono soltanto 20 giovani su 100 o anche meno. Lo psicologo Massimo Ammaniti, il quale stilla crisi giovanile ha scritto pagine penetranti, si chiede: "Dove sono finiti i giovani che rifiutano le prospettive del mondo adulto, che contestano una società che non investe sulle nuove generazioni, che sognano mondi e frontiere diverse? È più facile vedere quelli che si tormentano nell'opaca insoddisfazione quotidiana, tempestando il proprio corpo di tatuaggi e orecchini". Che equivale a chiedere: dove sono finite le speranze dei giovani?

Che fare? È possibile cambiare? Io credo di si. Ma il discorso, allora, deve continuare coraggiosamente. Ci ricordiamo ancora che lo sviluppo della Creazione ci è stato affidato?

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

Seconda Parte

Lo scandalo di una "civiltà"

Ci si vergogna persino a citare queste cifre, tanto sono risapute; e però esse rappresentano lo scandalo di una civiltà nella quale siamo, tutto sommato, bene inseriti, noi, gente del Nord; e questo scandalo che dovrebbe orientare la nostra vita (soprattutto quella di chi crede in un Cristo che ha voluto identificarsi nei poveri e ha annunziato che è sull'amore portato ai poveri che pronuncerà il giudizio dell'Ultimo Giorno) viene invece sospinto ai margini delle riflessioni e dei comportamenti della nostra vita quotidiana: e difatti accettiamo senza obiezione di coscienza (e senza opposizione politica) che economisti di grande nome sostengano che una quota di disoccupazione, di aree sottosviluppate, di "cantoni neri", di immensi gruppi umani considerati "esuberi" sono disgraziatamente "fisiologici", cioè inevitabili (dunque voluti dal Creatore?). Il progresso, l'espansione dei mercati - si spinge a dire più caritatevolmente il Fondo Monetario Internazionale, "potere forte" della politica mondiale sistemerà le cose: in tempi luoghi naturalmente; il che vuol dire che intanto, per generazioni, i poveri continueranno a fiorire. "Avevo fame e tu non mi hai nutrito".

Come sempre? Può darsi; ma è vicenda planetaria che oggi si riveste di responsabilità nuove..

Primo: abbiamo elaborato negli ultimi due secoli consapevolezze sulla dignità dell'uomo, ma le applichiamo, in pratica, soltanto a noi e ai nostri condomini di un'area di privilegi.

Secondo: abbiamo accumulato cognizioni scientifiche che ci consentirebbero di trasformare la Terra in un pianeta sul quale un'umanità solidale potrebbe vivere in serenità; ma preferiamo investire su un progresso che aumenti la nostra ricchezza: non ci sembra ferocemente assurdo che mentre una sonda spaziale corre verso i confini dell'universo e i ricercatori indagano l'infinitamente piccolo vi siano popoli a cui è negato il diritto all'esistenza. Né possiamo dire, come invece si dice, che mancano i mezzi finanziari: con quanto gli Stati Uniti e i loro alleati (italiani compresi) hanno speso nella prima guerra del Golfo (per non parlare della seconda, ormai cronica) si sarebbe potuto redimere la condizione economica di un continente come l'Africa...

Terzo: mai la porzione ricca dell'umanità è stata tanto ricca e le differenze economiche fra popolo e popolo sono state così grandi. Credo che a tutti noi capiti di pensare almeno qualche volta, che accanto alla fame del Sud ci sia, altrettanto triste, una obesità di cose che stravolge ml Nord. Due auto, due o tre televisori per famiglia, elettrodomestici che invece di liberare la donna dai lavori casalinghi le propongono sempre nuovi obiettivi consumistici, "tenute" per il tempo libero che costano milioni e, a guardarle bene, sono del tutto superflue, sussiegosi status-symbols.

E fossimo almeno felici! Ma come esserlo se, volenti o nolenti, ci raggiunge inevitabilmente il pensiero che, mentre in tutta buona fede giuriamo di amare i nostri bambini, permettiamo che essi siano rapinati delle risorse che la natura ha preparato per loro? Quale vita dovranno affrontare nel 2025? Quali condizioni ambientali del globo? Quale acqua, quale ossigeno, quale pace? Nei paesi del Sud è già visibile quale può essere il futuro dei nostri figli. Mi limito alle mie esperienze personali: voli sull'Amazzonia e vedi i pennacchi di fumo di cinquanta, cento incendi che bruciano il polmone verde della Terra per creare nuovi pascoli per le bestie da fast-food; aree che in pochi anni saranno del tutto sterili, e per sempre, voli sull’Africa e per ore non vedi un albero là dove milioni di profughi hanno cercato scampo da guerre sostenute dai nostri mercanti d'armi o dove immensi foreste sono state disboscate da nostri mercanti del legno; in luoghi di addensamenti umani e miserabili, in tutto il cosiddetto Terzo Mondo, vedi i misfatti di un'industria ad altissimi rischi ambientali, i cui stabilimenti, cacciati dalla protesta "verde" europea o nordamericana, sono stati portati là dove è facile corrompere i governanti e schiacciare i sindacati; vi nascono bambini deformi e anche mostruosi o tarati per sempre. E i salari che vi vengono pagati ai lavoratori costituiscono una minaccia non soltanto per la salute loro e delle loro famiglie costrette a vivere in miserabili favelas ma anche per l'occupazione dei lavoratori del Nord: per capirlo basta paragonare il reddito di un metalmeccanico della FIAT italiana con quello di un metalmeccanico della Fiat Betim, a Belo Horizonte, Brasile: dieci volte minore. E ancora: ho visto curare nell'Ogaden, da meravigliosi medici italiani bambini saltati su mine di fabbricazione italiana, imparziabilmente vendute alla Somalia e all'Etiopia quando le due nazioni erano in guerra... Ho letto le statistiche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’uso di pesticidi cancerogeni o castranti nelle grandi piantagioni delle multinazionali; ho visto al lavoro piccoli schiavi che fabbricavano generi di abbigliamento per famose "griffe" italiane.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Terza Parte

Terza Parte

Terza Parte

Un panorama di alienazioni o di sconfitte

Tale è il panorama del Sud della terra, all'inizio del Terzo Millennio cristiano, con l'aggiunta che il sistemi in ciu viviamo genera inevitabilmente sacche di miseria anche nel Nord. Per esempio: in nome di una razionalità che è soltanto astrattamente tale e calunniosa delle reali radici e dimensioni della povertà, si demolisce ovunque io stato sociale; i risultati cominciano a essere inequivocabili. Il panorama che ne consegue - cito da un recente rapporto dell'OECD (Organization for Economie Cooperation and Development) cioè dell'organizzazione che riunisce i 29 paesi più industrializzati del nostro pianeta -. è impressionante. Gli Stati Uniti guidano la triste classifica della miseria con il 17,1% di cittadini nella condizione di "più che poveri"; al secondo posto c'è l'Italia con il 14,2. Queste percentuali riguardano l'anno 1993 e segnano, per l'Italia, un impressionante aumento del 3,9% nei confronti del decennio precedente. Il trend non è mutato negli anni seguenti secondo i rapporti della Commissione della presidenza del Consiglio dei ministri per la lotta alla miseria.

Ma se si vuole tenere aperti gli occhi davanti alle storture del mondo che il neoliberismo va costruendo per noi e per i nostri figli bisogna contemplare anche fenomeni meno evidenti. Per esempio; Marx denunziò più di cento anni fa le alienazioni prodotte da un lavoro servile cui l'operaio veniva sottoposto senza possibilità di esercitare creatività e di maturare libertà. Oggi le caratteristiche del lavoro sono, dal punto dì vista psichico, psicologico e culturale peggiorate non soltanto perché gli strumenti di difesa dei lavoratori (i sindacati…) sono in crisi di fronte a un progresso tecnologico che taglia drasticamente l'occupazione, non soltanto perché l'organizzazione transnazionale delle maggiori imprese sposta dall'uno all’altro paese, secondo rigidi criteri di guadagno, finanziamenti e occasioni di lavoro. Il fatto è che oggi un prodotto è molto spesso un assemblaggio di parti anche minuscole fabbricate in stabilimenti diversi fra loro: l'operaio (e spesso anche il tecnico) non è in grado di conoscere, tanto meno di comprendere, il progetto per il quale lavora. E la "flessibilità" non accompagnata da un' adeguata cultura finisce per rendere anche più nebulose e minimali le competenze del lavoratore, la sua stessa identità.

Infine (ma soltanto perché lo spazio per questo intervento è quasi esaurito) non si può tacere la questione dell'uomo-oggetto a tutti i livelli, l'uomo-esubero, il cinquantenne prepensionato o posto in cassa integrazione. Il miglioramento delle tecniche mediche gli allunga la vita, il sistema produttivistico e la riduzione del welfare gliel'avvelena.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Quarta parte

Quarta parte

Quarta parte

Dove sono finite le speranze?

I giovani guardano e sono spaventati. O, anche, la paura impedisce loro di guardare. È stato pubblicato l'anno scorso il IV Rapporto ASPER, Istituto di formazione e ricerca, e da esso risulta che oltre il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà una società più egoista, più razzista e più violenta di quella di oggi. Quasi il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà meno democratica, meno solidaristica, meno allegra di quella d'oggi. A pensare che la società futura possa essere meno razzista, meno egoista, meno illegale, meno violenta di quella di oggi sono soltanto 20 giovani su 100 o anche meno. Lo psicologo Massimo Ammaniti, il quale stilla crisi giovanile ha scritto pagine penetranti, si chiede: "Dove sono finiti i giovani che rifiutano le prospettive del mondo adulto, che contestano una società che non investe sulle nuove generazioni, che sognano mondi e frontiere diverse? È più facile vedere quelli che si tormentano nell'opaca insoddisfazione quotidiana, tempestando il proprio corpo di tatuaggi e orecchini". Che equivale a chiedere: dove sono finite le speranze dei giovani?

Che fare? È possibile cambiare? Io credo di si. Ma il discorso, allora, deve continuare coraggiosamente. Ci ricordiamo ancora che lo sviluppo della Creazione ci è stato affidato?

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

Seconda Parte

Lo scandalo di una "civiltà"

Ci si vergogna persino a citare queste cifre, tanto sono risapute; e però esse rappresentano lo scandalo di una civiltà nella quale siamo, tutto sommato, bene inseriti, noi, gente del Nord; e questo scandalo che dovrebbe orientare la nostra vita (soprattutto quella di chi crede in un Cristo che ha voluto identificarsi nei poveri e ha annunziato che è sull'amore portato ai poveri che pronuncerà il giudizio dell'Ultimo Giorno) viene invece sospinto ai margini delle riflessioni e dei comportamenti della nostra vita quotidiana: e difatti accettiamo senza obiezione di coscienza (e senza opposizione politica) che economisti di grande nome sostengano che una quota di disoccupazione, di aree sottosviluppate, di "cantoni neri", di immensi gruppi umani considerati "esuberi" sono disgraziatamente "fisiologici", cioè inevitabili (dunque voluti dal Creatore?). Il progresso, l'espansione dei mercati - si spinge a dire più caritatevolmente il Fondo Monetario Internazionale, "potere forte" della politica mondiale sistemerà le cose: in tempi luoghi naturalmente; il che vuol dire che intanto, per generazioni, i poveri continueranno a fiorire. "Avevo fame e tu non mi hai nutrito".

Come sempre? Può darsi; ma è vicenda planetaria che oggi si riveste di responsabilità nuove..

Primo: abbiamo elaborato negli ultimi due secoli consapevolezze sulla dignità dell'uomo, ma le applichiamo, in pratica, soltanto a noi e ai nostri condomini di un'area di privilegi.

Secondo: abbiamo accumulato cognizioni scientifiche che ci consentirebbero di trasformare la Terra in un pianeta sul quale un'umanità solidale potrebbe vivere in serenità; ma preferiamo investire su un progresso che aumenti la nostra ricchezza: non ci sembra ferocemente assurdo che mentre una sonda spaziale corre verso i confini dell'universo e i ricercatori indagano l'infinitamente piccolo vi siano popoli a cui è negato il diritto all'esistenza. Né possiamo dire, come invece si dice, che mancano i mezzi finanziari: con quanto gli Stati Uniti e i loro alleati (italiani compresi) hanno speso nella prima guerra del Golfo (per non parlare della seconda, ormai cronica) si sarebbe potuto redimere la condizione economica di un continente come l'Africa...

Terzo: mai la porzione ricca dell'umanità è stata tanto ricca e le differenze economiche fra popolo e popolo sono state così grandi. Credo che a tutti noi capiti di pensare almeno qualche volta, che accanto alla fame del Sud ci sia, altrettanto triste, una obesità di cose che stravolge ml Nord. Due auto, due o tre televisori per famiglia, elettrodomestici che invece di liberare la donna dai lavori casalinghi le propongono sempre nuovi obiettivi consumistici, "tenute" per il tempo libero che costano milioni e, a guardarle bene, sono del tutto superflue, sussiegosi status-symbols.

E fossimo almeno felici! Ma come esserlo se, volenti o nolenti, ci raggiunge inevitabilmente il pensiero che, mentre in tutta buona fede giuriamo di amare i nostri bambini, permettiamo che essi siano rapinati delle risorse che la natura ha preparato per loro? Quale vita dovranno affrontare nel 2025? Quali condizioni ambientali del globo? Quale acqua, quale ossigeno, quale pace? Nei paesi del Sud è già visibile quale può essere il futuro dei nostri figli. Mi limito alle mie esperienze personali: voli sull'Amazzonia e vedi i pennacchi di fumo di cinquanta, cento incendi che bruciano il polmone verde della Terra per creare nuovi pascoli per le bestie da fast-food; aree che in pochi anni saranno del tutto sterili, e per sempre, voli sull’Africa e per ore non vedi un albero là dove milioni di profughi hanno cercato scampo da guerre sostenute dai nostri mercanti d'armi o dove immensi foreste sono state disboscate da nostri mercanti del legno; in luoghi di addensamenti umani e miserabili, in tutto il cosiddetto Terzo Mondo, vedi i misfatti di un'industria ad altissimi rischi ambientali, i cui stabilimenti, cacciati dalla protesta "verde" europea o nordamericana, sono stati portati là dove è facile corrompere i governanti e schiacciare i sindacati; vi nascono bambini deformi e anche mostruosi o tarati per sempre. E i salari che vi vengono pagati ai lavoratori costituiscono una minaccia non soltanto per la salute loro e delle loro famiglie costrette a vivere in miserabili favelas ma anche per l'occupazione dei lavoratori del Nord: per capirlo basta paragonare il reddito di un metalmeccanico della FIAT italiana con quello di un metalmeccanico della Fiat Betim, a Belo Horizonte, Brasile: dieci volte minore. E ancora: ho visto curare nell'Ogaden, da meravigliosi medici italiani bambini saltati su mine di fabbricazione italiana, imparziabilmente vendute alla Somalia e all'Etiopia quando le due nazioni erano in guerra... Ho letto le statistiche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’uso di pesticidi cancerogeni o castranti nelle grandi piantagioni delle multinazionali; ho visto al lavoro piccoli schiavi che fabbricavano generi di abbigliamento per famose "griffe" italiane.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Terza Parte

Terza Parte

Terza Parte

Un panorama di alienazioni o di sconfitte

Tale è il panorama del Sud della terra, all'inizio del Terzo Millennio cristiano, con l'aggiunta che il sistemi in ciu viviamo genera inevitabilmente sacche di miseria anche nel Nord. Per esempio: in nome di una razionalità che è soltanto astrattamente tale e calunniosa delle reali radici e dimensioni della povertà, si demolisce ovunque io stato sociale; i risultati cominciano a essere inequivocabili. Il panorama che ne consegue - cito da un recente rapporto dell'OECD (Organization for Economie Cooperation and Development) cioè dell'organizzazione che riunisce i 29 paesi più industrializzati del nostro pianeta -. è impressionante. Gli Stati Uniti guidano la triste classifica della miseria con il 17,1% di cittadini nella condizione di "più che poveri"; al secondo posto c'è l'Italia con il 14,2. Queste percentuali riguardano l'anno 1993 e segnano, per l'Italia, un impressionante aumento del 3,9% nei confronti del decennio precedente. Il trend non è mutato negli anni seguenti secondo i rapporti della Commissione della presidenza del Consiglio dei ministri per la lotta alla miseria.

Ma se si vuole tenere aperti gli occhi davanti alle storture del mondo che il neoliberismo va costruendo per noi e per i nostri figli bisogna contemplare anche fenomeni meno evidenti. Per esempio; Marx denunziò più di cento anni fa le alienazioni prodotte da un lavoro servile cui l'operaio veniva sottoposto senza possibilità di esercitare creatività e di maturare libertà. Oggi le caratteristiche del lavoro sono, dal punto dì vista psichico, psicologico e culturale peggiorate non soltanto perché gli strumenti di difesa dei lavoratori (i sindacati…) sono in crisi di fronte a un progresso tecnologico che taglia drasticamente l'occupazione, non soltanto perché l'organizzazione transnazionale delle maggiori imprese sposta dall'uno all’altro paese, secondo rigidi criteri di guadagno, finanziamenti e occasioni di lavoro. Il fatto è che oggi un prodotto è molto spesso un assemblaggio di parti anche minuscole fabbricate in stabilimenti diversi fra loro: l'operaio (e spesso anche il tecnico) non è in grado di conoscere, tanto meno di comprendere, il progetto per il quale lavora. E la "flessibilità" non accompagnata da un' adeguata cultura finisce per rendere anche più nebulose e minimali le competenze del lavoratore, la sua stessa identità.

Infine (ma soltanto perché lo spazio per questo intervento è quasi esaurito) non si può tacere la questione dell'uomo-oggetto a tutti i livelli, l'uomo-esubero, il cinquantenne prepensionato o posto in cassa integrazione. Il miglioramento delle tecniche mediche gli allunga la vita, il sistema produttivistico e la riduzione del welfare gliel'avvelena.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Quarta parte

Quarta parte

Quarta parte

Dove sono finite le speranze?

I giovani guardano e sono spaventati. O, anche, la paura impedisce loro di guardare. È stato pubblicato l'anno scorso il IV Rapporto ASPER, Istituto di formazione e ricerca, e da esso risulta che oltre il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà una società più egoista, più razzista e più violenta di quella di oggi. Quasi il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà meno democratica, meno solidaristica, meno allegra di quella d'oggi. A pensare che la società futura possa essere meno razzista, meno egoista, meno illegale, meno violenta di quella di oggi sono soltanto 20 giovani su 100 o anche meno. Lo psicologo Massimo Ammaniti, il quale stilla crisi giovanile ha scritto pagine penetranti, si chiede: "Dove sono finiti i giovani che rifiutano le prospettive del mondo adulto, che contestano una società che non investe sulle nuove generazioni, che sognano mondi e frontiere diverse? È più facile vedere quelli che si tormentano nell'opaca insoddisfazione quotidiana, tempestando il proprio corpo di tatuaggi e orecchini". Che equivale a chiedere: dove sono finite le speranze dei giovani?

Che fare? È possibile cambiare? Io credo di si. Ma il discorso, allora, deve continuare coraggiosamente. Ci ricordiamo ancora che lo sviluppo della Creazione ci è stato affidato?

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 NUOVI PERCORSI E POSSIBILITÀ DIDATTICHE

GIOVANI CONSAPEVOLI

GIOVANI CONSAPEVOLI

Riuniti a Napoli gli alunni di alcune scuole campane hanno ascoltato gli esperti e presentato i loro lavori relativi alla bioetica. Ne è emersa l’importanza di questo tema nella vita di ciascuno e la necessità di farne materia di studio.

"Bioetica e intercultura": con questo tema l'istituto italiano dì Bioetica Campania - costituito a Napoli nel 1994 come sezione dell'istituto italiano di Bioetica fondato a Genova e di cui è direttore scientifico Luisella Battaglia - ha inaugurato il primo "Convegno regionale di bioetica per la scuola" che si è tenuto il 6 novembre scorso nell'aula Romolo Cerra dell'istituto nazionale tumori di Napoli.

Centottanta i partecipanti tra alunni e docenti provenienti dal liceo classico "Umberto I" di Napoli. dall'Iti "Giordani" di Napoli, dal Liceo psico-socio-pedagogico "Lorenzo Valla" di Castellammare di Stabia (Napoli), dal Liceo scientifico di san Giorgio a Cremano (Napoli), dal Liceo scientifico "Amaldi" di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), dal Liceo "Medi" di san Bartolomeo in Galdo (Benevento). Si tratta di istituti che, prevalentemente, hanno già avuto scambi e collaborazioni con l'istituto di Bioetica Campania, che hanno lavorato, e tuttora lavorano, a progetti educativi sui temi della bioetica e che, in questa occasione, hanno presentato le risultanze di particolari itinerari tracciati all'interno dei curricula scolastici: prodotti culturali, che i ragazzi hanno illustrato servendosi degli strumenti offerti dalle tecnologie multimediali anche con l'intento di entrare in rete con altre scuole, creare momenti di dibattito critico e di approfondimento e allargare, così, il confronto su tali problematiche. Va, in questo senso, segnalata l'iniziativa degli studenti del Liceo scientifico di S. Giorgio a Cremano, che hanno realizzato un cd-rom dal titolo "Bioetica... verso nuovi orizzonti": quella, cioè, di costituire un gruppo di studio stabile, una sorta di osservatorio, che segua gli sviluppi, le evoluzioni delle questioni bioetiche, ma che poi, attraverso i percorsi rivolti immediatamente alla conoscenza dei progressi scientifici e sui più o meno comprensibili e accettabili avanzamenti della scienza e della medicina, abbia come obiettivo la crescita personale, l'arricchimento di sé come persona, la visione di sé stessi come individui in cammino e in evoluzione, come esseri umani globali consapevoli dei propri diritti, della propria dignità e libertà di determinazione.

Quattro temi a confronto

Nella prima parte della giornata, i ragazzi sono stati coinvolti a partecipare, sulla spinta del lavoro fatto a scuola e/o sulla base dei propri interessi, a quattro tavoli di dibattito e confronto: bioetica e intercultura; bioetica di inizio vita e fecondazione assistita; bioetica di fine vita e rapporto medico-paziente; bioetica, ambiente, biotecnologie. Nella seconda parte, invece, hanno avuto spazio le sintesi degli studenti sulle conclusioni della discussione orientata nell'ambito dei forum e sulle attività svolte nelle scuole, che hanno trovato nel convegno uno spazio più ampio per essere comunicate al le altre collettività scolastiche intervenute. Il primo dato emerso in tutta evidenza è l'interesse vivo dei giovani partecipanti al convegno per i temi bioetici, dibattuti con sincero coinvolgimento e coscienza della loro stessa problematicità dai ragazzi portatori di un proprio personale quadro di valori di riferimento e di un forte senso della vita. Nella consapevolezza di trovarsi su un terreno complesso, spinoso, spesso drammatico, gli studenti hanno parlato con disinvoltura di temi come la fecondazione assistita, l'eutanasia, il malato terminale e la terapia del dolore, il consenso informato, l'accanimento terapeutico e il testamento biologico, la clonazione, l'embrione e le cellule staminali, gli organismi geneticamente modificati.

Dietro i temi portati ormai quotidianamente dai media nelle case e nelle famiglie, sono anche emerse le grandi questioni che sottendono ai casi pratici della bioetica, le grandi domande, i grandi enigmi. Stiamo parlando di cultura e rappresentazione della vita e cultura della morte; nascita e fine dell'esistenza terrena; rapporto tra individuo e società, tra norma etica e norma giuridica; diritti dell’uomo, solidarietà e cura a fronte di economia, finanza, mercato; qualità della vita e mera sopravvivenza, diritto alla diversità e all'identità biologica, globalizzazione ed eugenetica.

La giornata si è conclusa con una relazione sul tema "La bioetica nelle scuole: percorsi e possibilità didattiche" tenuta da Antonio Ianniello, (docente di Filosofia delle religioni dell'istituto universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli) e Carmine Matarazzo (docente di Filosofia delta Facoltà teologica dell'Italia meridionale "Sezione san Tommaso d'Aquino" di Napoli), che hanno organizzato i loro interventi su una griglia di problematiche.

Un percorso produttivo

Ianniello e Matarazzo hanno toccato questioni generali, come la bioetica a scuola, l'organizzazione scolastica e la formazione degli insegnanti, i percorsi didattici e questioni particolari, sui "nuclei fondanti" della bioetica tra curricoli e discipline, offrendo spunti di riflessione per una didattica della bioetica e per la costruzione di percorsi formativi che ricostruiscano la storia stessa della bioetica, che documentino le varie posizioni e impostazioni di pensiero, che, tenendo conto dei contesti problematici e dei nuclei fondanti, superino il riferimento, troppo spesso, generico al tema.

"A scuola bisogna parlare di bioetica come unità tematica, prescindendo dalla programmazione lineare - ha sostenuto in particolare Antonio Ianniello-. Nel gruppo di docenti c'è, in fatti, bisogno dell'idea di una programmazione reticolare, ossia di un progetto, dell'individuazione, all'interno del gruppo che programma, di un modulo di ricerca che attraversi ogni disciplina, al di là di quella che può essere la scelta del singolo docente a focalizzare dei nodi concettuali per poi svilupparli nell'ambito della propria materia".

Di bioetica a scuola si deve, dunque, parlare in un contesto multidisciplinare puntando alla "praticabilità di un percorso di studio produttivo", non meramente teorico e organizzato esclusivamente sulla relazione frontale, ma creativo e partecipativo, nell'impostazione e nei contenuti.

È necessario un percorso che evidenzi opportunamente le convergenze delle singole materie sull'argomento (programmazione reticolare) e offra "un panorama di informazioni e di collegamenti ed una pluralità di prospettive di studio".

Clotilde Punzo

Da "Famiglia oggi" 3/2003

Giovedì, 30 Dicembre 2004 20:34

LA CONDIZIONE GIOVANILE IN EUROPA

LA CONDIZIONE GIOVANILE IN EUROPA

Istruzioni, lavoro, benessere, salute, valori, partecipazione politica sono alcuni dei temi presentati l’11 dicembre 2002 a Milano in un convegno organizzato da Assolombarda e dallo Iard dal titolo: "I giovani in Europa: dal Libro bianco alle politiche locali".

La pubblicazione del Libro bianco sui giovani dell'Unione europea, ha preso le mosse dalla precedente ricerca transnazionale dell'Istituto di ricerca Iard sulla condizione giovanile e sulle politiche che alcuni Paesi europei hanno elaborato nei loro confronti. Questo studio ha visto coinvolti 18 Paesi europei e ha fornito importanti linee guida per definire e attuare nuove politiche sociali a favore dei giovani.

La permanenza dei giovani nei canali educativi è sempre più lunga e sempre minore è la percentuale di coloro che lasciano precocemente la scuola. L'interconnessione tra l'età giovanile e lo status di studente è talmente forte che quando le due condizioni non convergono, questo viene ritenuto problematico. Anche se la maggior parte dei Paesi ha attuato riforme per aumentare la frequenza scolastica, vi sono notevoli differenze nei modelli formativi, nella partecipazione, nelle opportunità e nei risultati educativi (la scuola dell'obbligò ha un'età variabile dai 14 ai 18 anni e variabili sono anche il tasso per l'istruzione secondaria superiore: 70%-100%). Questo innalzamento dell'età di istruzione ha prodotto una riduzione del numero dei giovani nella coorte dei lavoratori, provocando la necessità di integrare il percorso formativo sempre più qualificato con l'esigenza di anticipare l'ingresso nel mondo del lavoro.

Gli "imperativi" individuati per l'attuazione di una politica educativa che possa ridurre le disuguaglianze sociali, sono diversi. Il primo consiste nel limitare l'uscita precoce dalla scuola e i comportamenti dei giovani che impediscono il conseguimento di qualifiche formative di base; infatti, mai come oggi, i giovani con bassa istruzione sono ad alto rischio di disoccupazione. Il secondo è incoraggiare nei giovani l'acquisizione di competenze avanzate; il terzo è migliorare la relazione tra credenziali educative e opportunità del mercato del lavoro, mediante un forte legame tra istruzione e lavoro, ripensando la scuola e i percorsi formativi.

Avere buone opportunità di occupazione, è un aspetto indispensabile per la transizione all'età adulta ma, negli ultimi vent'anni, la condizione lavorativa ha subito un peggioramento: i tassi di occupazione dei giovani di 15-24 anni sono mollo più bassi mentre aumentano quelli della disoccupazione dei giovani tra 15-24, rispetto ai 25-64 anni; se, infatti, nel 2000 il tasso di disoccupazione nei Paesi europei era dell'8,4%, quello dei giovani al di sotto dei 25 anni era del 16,1%. Nei Paesi mediterranei, e soprattutto in Italia, le credenziali educative hanno una minore rilevanza nel determinare la rapidità nel trovare la prima occupazione; avere delle buone qualifiche non garantisce infatti un'occupazione. È aumentata tra i giovani la percentuale di quelli che lavorano con contratti atipici (contratti formazione lavoro, lavoro interinale), e i loro guadagni all'inizio di carriera stanno sempre più diminuendo, rispetto agli adulti.

Le disuguaglianze intergenerazionali, sempre più manifeste, rendono più fragile la solidarietà facendo diventare i giovani sempre meno disponibili a favorire l'integrazione sociale e il benessere delle generazioni precedenti.

Tra le misure attuate per aumentare i tassi di occupazione giovanile c'è la riduzione del costo del lavoro, il sostegno all'auto-imprenditorialità promuovendo corsi per sviluppare le capacità imprenditoriali e fornendo prestiti agevolati per iniziare le attività di produzione. Rendere più agevole la transizione scuola-lavoro è un altro obiettivo non trascurabile.

È utile rilevare che la fonte principale di reddito per i giovani è diversa nei differenti Paesi europei. In Austria, Germania, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Svezia, Paesi Bassi, Danimarca e Regno Unito, il mercato del lavoro rappresenta la fonte più importante di reddito per i giovani, mentre in Belgio, Spagna, Grecia e Italia, è la famiglia la fonte economica principale. Questa spaccatura può essere ricondotta ai diversi modelli di formazione delle nuove famiglie. Infatti in Spagna, Italia e Grecia è più probabile che i giovani vivano all'interno della fa miglia d'origine, visto che è il matrimonio l'occasione per costruire una nuova famiglia. Nei Paesi protestanti del Nord Europa, invece, lasciare la famiglia d’origine è considerato un aspetto fisiologico della transizione all'età adulta.

Quello che accomuna tutti i Paesi europei è la diminuzione del tasso di fertilità che vede nella Spagna e nell'Italia i Paesi dove questo decremento è particolarmente accentuato. Per quanto riguarda i valori, si delinea la tendenza dei giovani a essere più interessati a valori che riguardano la qualità della vita piuttosto che quelli legati al benessere economico. La famiglia è considerata importante dalla maggior parte dei giovani; il lavoro è più importante in Norvegia, Regno Unito, Irlanda e Italia e meno importante in Finlandia e Germania; gli amici, infine, sono importanti nei Paesi dove i giovani godono maggiore indipendenza dalla famiglia (Svezia, Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi).

Per affrontare il problema del calo della natalità risulta decisivo fornire un sostegno ai nuovi nuclei familiari, incentivando le nascite e tutelando le giovani madri.

Emanuela di Gesù

Da "Famiglia oggi" 2/2003

Giovedì, 30 Dicembre 2004 20:33

L’Europa e le discriminazioni sugli stipendi

 L’Europa e le discriminazioni sugli stipendi

INGIUSTA DISCRIMINAZIONE SALARIALE

A cura della Commissione europea

Da "Famiglia oggi" 2/2003

1 - Prima parte

Ancora oggi nei Paesi della comunità europea sussistono incomprensibili differenze retributive tra uomini e donne. Questa problematica è al centro di studi e programmi finalizzati a dare alle lavoratrici ruoli e compensi degli delle loro effettive capacità.

Le differenze retributive che ancora permangono tra uomini e donne è una delle cause che concorrono a rendere difficoltosa la conciliazione tra lavoro e famiglia, soprattutto per le madri. Dalla Relazione annuale pubblicata dalla "Direzione occupazione & affari sociali" della commissione europea, diretta da Anna Diamantopoulou, riprendiamo il paragrafo dedicato totalmente all'impegno dell'Europa su questo tema (Pietro Boffi).

Quello della parità retributiva tra le donne e gli uomini per un lavoro di pari valore è un principio fondamentale del trattato C. In effetti la direttiva del 1975 sulla parità di retribuzione è stata la prima direttiva comunitaria adottata nel campo della parità di trattamento tra le donne e gli uomini. Tuttavia, nonostante l'esistenza di queste disposizioni legali, le donne guadagnano ancora circa il 14% in meno degli uomini (nel 1997 il differenziale era più pronunciato nel settore privato che in quello pubblico, con rispettivamente 19% e 10%).

Nel contesto della strategia quadro comunitaria in materia di parità tra donne e uomini e del programma di finanziamenti relativo a tale strategia, quella della parità retributiva era la tematica privilegiata per il 2001. La parità retributiva è stata scelta quale prima tematica perché si tratta della disuguaglianza più visibile sul posto di lavoro in Europa. Se opportuni interventi non affronteranno questa disuguaglianza, gli obiettivi del Consiglio europeo di Lisbona consistenti nell'aumentare il tasso dell'occupazione femminile portandolo ad almeno il 60% entro il 2010 e nel migliorare la qualità del lavoro non risulteranno raggiungibili.

Durante la presidenza svedese, nel gennaio 2001, i ministri responsabili della sicurezza sociale e della parità tra i sessi hanno discusso le questioni correlate dei differenziali retributivi di genere e della previdenza sociale quali strumenti per la crescita economica. L'elevato profilo conferito alla questione della parità retributiva i rispecchiava nelle conclusioni del Consiglio europeo di Stoccolma (marzo 2001) che invitavano il Consiglio e la Commissione a sviluppare indicatori. Ciò ha preparato il terreno alla presidenza belga, che ha sviluppato un insieme d'indicatori sui differenziali retributivi di genere. Il Consiglio "Occupazione e affari sociali" (3 dicembre 2001) ha adottato un insieme di nove indicatori e ha invitato la Commissione e gli Stati membri a migliorare le statistiche esistenti e la ricerca su tale tematica.
 

2 - Integrare le ricerche

Il Parlamento europeo ha adottato, nel settembre 2001, una relazione sulla parità retributiva in cui sosteneva anche la proposta della Commissione di fissare obiettivi nazionali. La relazione confermava che tutti gli attori devono adottare un approccio plurimo in questo ambito e a tutti i diversi livelli - la Commissione europea, gli Stati membri e le parti sociali - se si vogliono raggiungere risultati effettivi e durevoli.

Quella della parità retributiva è stata anche una tematica fondamentale per il Comitato economico e sociale. La relazione Florio sulla discriminazione salariale tra le donne e gli uomini (marzo 2001) sollecitava che si integrassero le ricerche e i dati esistenti e ha invitato gli Stati membri e le parti sociali ad accrescere i loro sforzi.

Un indicatore della disparità retributiva fra i sessi è stato aggiunto all'elenco degli indicatori strutturali definiti dalla Commissione europea nel 2001 per monitorare i progressi conseguiti verso gli obiettivi strategici di tipo economico e sociale concordati dal vertice di Lisbona. I progressi in direzione della parità retributiva in Europa saranno all'ordine del giorno dei prossimi Consigli europei di primavera che, di anno in anno, valuteranno tali progressi e gli eventuali fallimenti nell'applicazione degli "obiettivi di Lisbona".

La strategia europea per l'occupazione dà grande rilievo all'obiettivo della parità retributiva. In seguito alla valutazione dei piani d'azione nazionali del 2001 alcuni Stati membri hanno riconosciuto il sussistere di differenziali retributivi dì genere e hanno annunciato iniziative per ridurli. Tuttavia, tali iniziative tendono a essere piuttosto vaghe e si nota la mancanza di azioni concrete. Anche se le parti sociali sono chiamate a svolgere un ruolo fondamentale in questo ambito, il loro impegno è limitato.

A seguito ditale constatazione la Commissione ha proposto un orientamento rafforzato per l'occupazione relativo al differenziale retributivo di genere in linea con il parere del comitato consultivo sulle pari opportunità, comprendente obiettivi nazionali per la riduzione del differenziale.
 

3 - Un nuovo programma

Il programma è uno degli strumenti necessari per l'attuazione della strategia quadro della Comunità sulla parità tra uomo e donna. Esso coordina, sostiene finanzia attività orizzontali negli ambiti d'intervento della strategia comunitaria che non possono essere finanziate dagli altri strumenti di finanziamento dell'UE, come ad esempio i fondi strutturali e iniziative quali Equal.

La parità retributiva era anche la tematica prioritaria nella prima tornata di progetti transnazionali finanziati nell'ambito del programma per la parità tra i sessi 2001-2005. Il programma è stato avviato nell'ambito della presidenza belga in occasione di una conferenza sulla parità retributiva tenutasi a Bruxelles il 13 settembre 2001, conferenza co-finanziata dai programmi.

I progetti finanziati nell'ambito del programma d’azione comunitaria sulla parità delle Opportunità per le donne e gli uomini (2001-2005) presentano diversi aspetti innovativi rispetto ai programmi precedenti: annualmente una tematica prioritaria viene selezionata al fine di finanziare attività nel suo ambito.

Tale tematica viene inserita anche nelle azioni politiche della Commissione, in collaborazione con altre istituzioni; concentrando gli sforzi su una tematica prioritaria è possibile massimizzare l'impatto: le attività condotte in tutti gli Stati membri vengono espletate nello stesso periodo, con una serie coordinata di sottotematiche rispetto alla tematica prioritaria e con la partecipazione di tutti gli attori interessati; i progetti hanno grande scala, tra 250.000 e 500.000 euro ciascuno. Quest'ordine di grandezza è stato scelto per assicurare un finanziamento sufficiente delle attività e per far sì che ciascun progetto inizi con dimensioni tali da consentire una copertura e una gestione transnazionali, oltre ad assicurare la coerenza dei risultati.

L’obbiettivo di questi progetti condotti dagli Stati membri, dagli organismi nazionali per la parità, dalle Ong, dalle parti sociali, dalle autorità regionali e/o locali è di acquisire una migliore comprensione del fenomeno del differenziale retributivo di genere e di sviluppare e diffondere strategie atte a ovviarvi. Questa cooperazione di impostazione strategica accresce l'efficacia della promozione della parità retributiva e riduce i differenziali di reddito tra le donne e gli uomini.

Le attività transnazionali relative alla tematica prioritaria della parità retributiva erano imperniate su: scambio dei risultati delle analisi esistenti e ricerca e scambio di buone pratiche; riesame della classifica delle mansioni e dei sistemi di retribuzione per accertare se siano all'origine di disparità retributive tra i sessi; assicurare i diritti (legislazione e meccanismi atti ad assicurare una tutela migliore e più efficace); parità retributiva nel processo di contrattazione collettiva e ruolo delle parti sociali; il ruolo dell’istruzione, dell'informazione, della formazione e dei mass media.

Sui ventisette progetti selezionati nel 2001 la maggior parte riguardava le questioni della parità retributiva. Il finanziamento complessivo a essi destinato è di circa otto milioni di euro (maggiori informazioni su tali progetti sono reperibili sul sito web consacrato alle pari opportunità http://europea.eu.int/comm/employement_social/equ_opp/index_en.htm). Per coprire tutti gli aspetti della strategia quadro per la parità tra donne e uomini (2001-2005) cui il programma conferisce un sostegno finanziario, il Comitato del programma e la Commissione hanno inoltre definito le seguenti priorità: per il 2003-2004: "Le donne nel processo decisionale"; per il 2004-2005: "Stereotipi legati al genere".

2 - Integrare le ricerche

Il Parlamento europeo ha adottato, nel settembre 2001, una relazione sulla parità retributiva in cui sosteneva anche la proposta della Commissione di fissare obiettivi nazionali. La relazione confermava che tutti gli attori devono adottare un approccio plurimo in questo ambito e a tutti i diversi livelli - la Commissione europea, gli Stati membri e le parti sociali - se si vogliono raggiungere risultati effettivi e durevoli.

Quella della parità retributiva è stata anche una tematica fondamentale per il Comitato economico e sociale. La relazione Florio sulla discriminazione salariale tra le donne e gli uomini (marzo 2001) sollecitava che si integrassero le ricerche e i dati esistenti e ha invitato gli Stati membri e le parti sociali ad accrescere i loro sforzi.

Un indicatore della disparità retributiva fra i sessi è stato aggiunto all'elenco degli indicatori strutturali definiti dalla Commissione europea nel 2001 per monitorare i progressi conseguiti verso gli obiettivi strategici di tipo economico e sociale concordati dal vertice di Lisbona. I progressi in direzione della parità retributiva in Europa saranno all'ordine del giorno dei prossimi Consigli europei di primavera che, di anno in anno, valuteranno tali progressi e gli eventuali fallimenti nell'applicazione degli "obiettivi di Lisbona".

La strategia europea per l'occupazione dà grande rilievo all'obiettivo della parità retributiva. In seguito alla valutazione dei piani d'azione nazionali del 2001 alcuni Stati membri hanno riconosciuto il sussistere di differenziali retributivi dì genere e hanno annunciato iniziative per ridurli. Tuttavia, tali iniziative tendono a essere piuttosto vaghe e si nota la mancanza di azioni concrete. Anche se le parti sociali sono chiamate a svolgere un ruolo fondamentale in questo ambito, il loro impegno è limitato.

A seguito ditale constatazione la Commissione ha proposto un orientamento rafforzato per l'occupazione relativo al differenziale retributivo di genere in linea con il parere del comitato consultivo sulle pari opportunità, comprendente obiettivi nazionali per la riduzione del differenziale.
 

3 - Un nuovo programma

Il programma è uno degli strumenti necessari per l'attuazione della strategia quadro della Comunità sulla parità tra uomo e donna. Esso coordina, sostiene finanzia attività orizzontali negli ambiti d'intervento della strategia comunitaria che non possono essere finanziate dagli altri strumenti di finanziamento dell'UE, come ad esempio i fondi strutturali e iniziative quali Equal.

La parità retributiva era anche la tematica prioritaria nella prima tornata di progetti transnazionali finanziati nell'ambito del programma per la parità tra i sessi 2001-2005. Il programma è stato avviato nell'ambito della presidenza belga in occasione di una conferenza sulla parità retributiva tenutasi a Bruxelles il 13 settembre 2001, conferenza co-finanziata dai programmi.

I progetti finanziati nell'ambito del programma d’azione comunitaria sulla parità delle Opportunità per le donne e gli uomini (2001-2005) presentano diversi aspetti innovativi rispetto ai programmi precedenti: annualmente una tematica prioritaria viene selezionata al fine di finanziare attività nel suo ambito.

Tale tematica viene inserita anche nelle azioni politiche della Commissione, in collaborazione con altre istituzioni; concentrando gli sforzi su una tematica prioritaria è possibile massimizzare l'impatto: le attività condotte in tutti gli Stati membri vengono espletate nello stesso periodo, con una serie coordinata di sottotematiche rispetto alla tematica prioritaria e con la partecipazione di tutti gli attori interessati; i progetti hanno grande scala, tra 250.000 e 500.000 euro ciascuno. Quest'ordine di grandezza è stato scelto per assicurare un finanziamento sufficiente delle attività e per far sì che ciascun progetto inizi con dimensioni tali da consentire una copertura e una gestione transnazionali, oltre ad assicurare la coerenza dei risultati.

L’obbiettivo di questi progetti condotti dagli Stati membri, dagli organismi nazionali per la parità, dalle Ong, dalle parti sociali, dalle autorità regionali e/o locali è di acquisire una migliore comprensione del fenomeno del differenziale retributivo di genere e di sviluppare e diffondere strategie atte a ovviarvi. Questa cooperazione di impostazione strategica accresce l'efficacia della promozione della parità retributiva e riduce i differenziali di reddito tra le donne e gli uomini.

Le attività transnazionali relative alla tematica prioritaria della parità retributiva erano imperniate su: scambio dei risultati delle analisi esistenti e ricerca e scambio di buone pratiche; riesame della classifica delle mansioni e dei sistemi di retribuzione per accertare se siano all'origine di disparità retributive tra i sessi; assicurare i diritti (legislazione e meccanismi atti ad assicurare una tutela migliore e più efficace); parità retributiva nel processo di contrattazione collettiva e ruolo delle parti sociali; il ruolo dell’istruzione, dell'informazione, della formazione e dei mass media.

Sui ventisette progetti selezionati nel 2001 la maggior parte riguardava le questioni della parità retributiva. Il finanziamento complessivo a essi destinato è di circa otto milioni di euro (maggiori informazioni su tali progetti sono reperibili sul sito web consacrato alle pari opportunità http://europea.eu.int/comm/employement_social/equ_opp/index_en.htm). Per coprire tutti gli aspetti della strategia quadro per la parità tra donne e uomini (2001-2005) cui il programma conferisce un sostegno finanziario, il Comitato del programma e la Commissione hanno inoltre definito le seguenti priorità: per il 2003-2004: "Le donne nel processo decisionale"; per il 2004-2005: "Stereotipi legati al genere".

Giovedì, 30 Dicembre 2004 20:30

Scheda riassuntiva

 

Scheda riassuntiva

Sono state enormi le trasformazioni sociali e culturali che negli ultimi decenni hanno prodotto consistenti mutamenti sia tra le esperienze delle diverse generazioni, sia all'interno dell'esperienza dei singoli nel corso della loro vita, cambiando il clima familiare, l'organizzazione della vita quotidiana e la relazione genitori-figli. Questa grande metamorfosi demografica e sociale ha così portato al passaggio da un unico modello di famiglia (la famiglia nucleare coniugale) a una pluralità di forme familiari. Separazione e divorzio sono i fenomeni che maggiormente contribuiscono ad alterare il quadro delle forme familiari nel nostro Paese.

Abbiamo presentato una breve rassegna delle nuove forme di famiglia soffermandoci sugli effetti e sui mutamenti prodotti sul ciclo di vita familiare: le famiglie ricostituite, le famiglie di fatto, le famiglie unipersonali, le famiglie adottive, i matrimoni"misti, le famiglie immigrate, le coppie omosessuali; complesse storie individuali e familiari che si intersecano per designare il ciclo di vita, a diversi livelli generazionali.

La ricerca di un modo di vivere più autentico sembra essere la motivazione profonda che sta alla radice di questa rivoluzione dei comportamenti.

Prof. Maurizio Andolfi 

Giovedì, 30 Dicembre 2004 20:29

Effetti di alcuni trend sul ciclo di vita familiare

 Effetti di alcuni trend sul ciclo di vita familiare

Le forme familiari analizzate sono una rappresentazione statica della realtà familiare misurata in un preciso momento; in effetti, ogni famiglia passa durante il suo ciclo di vita attraverso più di una forma familiare. Insieme alle trasformazioni descritte, cambia quindi il ciclo di vita della famiglia, si modificano i ritmi e le cadenze, si ampliano e si restringono alcune sue fasi e il corso della vita individuale corrisponde sempre meno ad esso.

Un singolo individuo può fare l'esperienza di vivere una sequenza di forme familiari: può iniziare la sua vita in una famiglia tradizionale; poi, in seguito al divorzio dei genitori, può entrare a far parte di una famiglia con un solo genitore (per lo più la madre), quindi di una famiglia ricostituita, se la madre si risposa, acquisendo eventualmente nuovi fratelli e sorelle e una specie di padre "sociale", che si aggiunge, senza sostituirsi, al padre biologico e legale. Raggiunta l'età adulta può vivere temporaneamente da solo, dando vita a una famiglia unipersonale; mettere poi in piedi una convivenza e successivamente sposarsi; non si può escludere che poi divorzi e dia vita a una famiglia ricostituita, forse sperimentando di nuovo, prima o dopo, un periodo di solitudine o di convivenza (Zanatta, 1997). La ricerca della felicità sembra essere la motivazione profonda che sta alla radice di questa rivoluzione dei comportamenti individuali e familiari.

Tornando al ciclo di vita familiare possiamo analizzare quelli che sono gli effetti prodotti su di esso dai cambiamenti demografici degli ultimi anni:

a) fase iniziale breve, dalla costituzione della coppia alla nascita dei figli. Si assiste innanzitutto ad un incremento, anche se non rilevante, dell'età media al matrimonio. La coppia rimane senza figli per un tempo breve e tende a concentrare la nascita dei figli nei primi anni del matrimonio. Rispetto al passato, dunque, la fase di allevamento dei bambini tende a concludere nell’arco di pochi anni dopo il matrimonio (Scabini, 1995);

b) fase centrale prolungata con gli stessi figli; si assiste cioè a un estensione della fase educativa centrale con figli dall' età scolare in poi e senza nuovi nati. Tale fase impegna i genitori per un tempo lungo ed è caratterizzata nel suo periodo finale dalla compresenza di due generazioni adulte: figli ultradiciottenni e genitori;

c) fase di coppia anziana molto allungata dopo l'uscita di casa dell'ultimo figlio. Infatti l'allungamento dell' età media, rende possibile una nuova lunga stagione di coppia;

d) fase finale in solitudine soprattutto per le donne.

Si delinea, perciò, un modello di vita familiare dove la coppia all' inizio del ciclo, è impegnata nelle attività di procreazione, allevamento, educazione dei figli che tendono a coprire uno spazio breve della vita di una madre, a non esigere più la dimensione materna come unica o prevalente dimensione per tutta la vita adulta.

Anche la paternità si trova coinvolta in questo processo di trasformazione dei rapporti generazionali, anche se mancano ricerche approfondite su tale argomento. Comunque, sembrerebbe che all'interno di una divisione del lavoro familiare ancora fortemente squilibrata, proprio le attività di cura e di rapporto con i figli, in particolare con i più piccoli, sembrano non solo accettate, ma in parte rivendicate come proprie dai padri più giovani (Zanatta, 1997).

Parallelamente, si amplia sia la fase di permanenza dei giovani nella famiglia di origine sia quella detta del "nido vuoto". In questa situazione, le relazioni tra adulti diventano cruciali, proprio perché il ciclo di vita della famiglia si dilata nell' età adulta ed in quella della vecchiaia. Mentre la vita della famiglia era segnata in passato dalla preoccupazione dell'allevamento e della crescita dei piccoli, ora l'asse dello scambio viene spostato tra e all'interno delle generazioni adulte, con processi di nuove differenziazioni in questo tipo di relazioni (Scabini, 1995).

Il fatto poi che le famiglie contemporanee abbiano solo un figlio o al massimo due figli ha effetto sulla concreta, quotidiana esperienza di crescere e vivere come figli, oltre che sul posto dei figli stessi nella economia simbolica dei genitori. Un figlio sperimenta l'unicità della propria età e posizione nella famiglia, senza possibilità di misurarsi, confrontarsi con chi è un po' più grande o un po' più piccolo, analogamente ai genitori che difficilmente accumulano esperienza per fronteggiare le fasi di crescita dei propri figli. A differenza delle famiglie più numerose in cui una famiglia può avere contemporaneamente figli piccoli e adolescenti o giovani, oggi le famiglie sembrano attraversare le stesse fasi dei figli: ci sono famiglie con figli piccoli, poi con figli adolescenti, poi con figli giovani, poi senza figli.

Comunque entro la parentela è oggi possibile sperimentare ed entrare in rapporto con un raggio di età più ampio, e con posizioni generazionali diversificate: nonni e anche bisnonni non sono più una rarità ben oltre l'infanzia. E mentre un adolescente impara ad essere il nipote non più piccolo di un nonno sempre più anziano, impara anche che l'essere figlio si prolunga ben oltre la minore età, vedendo i propri genitori diventare nonni, ma anche continuare a rimanere figli (Hagestad, 1982).

Sono state le grosse trasformazioni sociali e culturali degli ultimi decenni a produrre, appunto, i mutamenti sia tra le esperienze delle diverse generazioni, sia all'interno dell'esperienza dei singoli nel corso della loro vita, cambiando il clima familiare, l'organizzazione della vita quotidiana e la relazione genitori-figli. Ci si rende sempre più conto che le stesse scansioni familiari sono intrecciate con i cicli di vita individuali dei vari componenti della famiglia e in generale con i diversi eventi e vicende che avvengono nell'insieme di attività di cui è fatta una vita. E', infatti, sempre meno possibile definire la stessa vicenda, o ciclo di vita, come legata ad un'unica o principale dimensione: vicende lavorative, di rapporti affettivi, di coppia, generazionali, altre vicende che entrano in modo significativo nella vita di una persona e di una famiglia, si intersecano per disegnare sia il ciclo di vita individuale che il ciclo di vita familiare (Saraceno, 1996).

Ad esempio, il fenomeno della disoccupazione giovanile ha prodotto modifiche sia nel ciclo di vita individuale che in quello familiare, poiché è una delle cause della tendenza dei figli a rimanere più a lungo a "carico" dei genitori. Anche la riduzione della fecondità ha modificato profondamente il ciclo di vita familiare e quello individuale e sta modificando altrettanto profondamente l'assetto sociale.

In sintesi, l'intera vicenda familiare, così come quella dei vari individui che insieme la costruiscono e vengono da essa costruiti, può e chiede di venir letta nella chiave multidimensionale del tempo: rispetto al tempo storico, rispetto alla collocazione nei vari tempi sociali, rispetto al tempo della vita di ciascuno e a quello dei rapporti tra le generazioni, così come rispetto al tempo della memoria e della tradizione, tramite il quale una famiglia non solo si distingue nettamente da tutte le altre, ma diviene parte inestricabile di coloro che la fanno e la vivono (Saraceno, 1996).

Prof. Maurizio Andolfi

Giovedì, 30 Dicembre 2004 20:28

Coppie omosessuali

 Coppie omosessuali

Nel tempo sono cambiati i modelli di analisi e i linguaggi, è mutato il modo in cui si guarda la famiglia strutturalmente diversa da quella nucleare. Sfidando ciò che per lungo tempo è stato dato per acquisito, attraverso lo studio delle relazioni e dei processi evolutivi della famiglia "normale", è stato possibile riconoscere la specificità che caratterizza i diversi modi attraverso cui le persone organizzano i propri rapporti. In particolar modo per le forme di famiglia con genitori divorziati, per quelle ricomposte e per le coppie omosessuali (che in alcuni contesti diventano vere e proprie famiglie per la presenza di figli) l'enfasi è stata posta esclusivamente sulle debolezze, sono state infatti considerate deficitarie se non devianti rispetto alla famiglia tradizionale. Oggi queste nuove forme di famiglia assumono un significato più articolato e complesso ed escono definitivamente dall'area del pregiudizio, dove per diverso tempo sono state collocate. In particolar modo è la coppia omosessuale a porsi attualmente come una sfida al tradizionale modo di concepire la relazione intima duale, le persone omosessuali costituiscono una categoria ampia e sfaccettata, l'esperienza umana in genere, e non solo quella di un gay è sempre caratterizzata da un'evoluzione particolare, unica, da percorsi di incontro e scontro con l'ambiente irripetibili. Oggi l'omosessualità non è più socialmente percepita solo come una pratica sessuale alternativa, bensì come una condizione esistenziale con contenuti di affettività, progettualità e di relazione.

Sul piano scientifico è stata posta fine alla criminalizzazione, colpevolizzazione e medicalizzazione di questo orientamento sessuale e ciò ha senz'altro favorito il cambiamento del clima culturale nei riguardi dell' omosessualità. Infatti, nel 1974 l'APA (American Psychological Association) ha cancellato dal DSM l'omosessualità egosintonica come patologia. Le forti pressioni sociali del passato e i radicati stereotipi sessuali hanno spesso costretto molti omosessuali a vivere nell'anonimato; queste dinamiche negative sono state predominanti nella maggior parte degli ambienti e più sfumate in alcuni ambiti come la moda o il cinema (Oliverio Ferraris, 1996). Superata la condanna all'invisibilità sociale, oggi gay e lesbiche si riuniscono in associazioni, tentano di sensibilizzare l'opinione pubblica, partecipano a trasmissioni televisive per creare informazione, "fare notizia" e non solo subirla, esercitano forti pressioni, a volte anche in modo trasgressivo, ad esempio sfilando e manifestando nelle grandi città..

Tuttavia permane da parte della maggioranza eterosessuale un atteggiamento discriminatorio, pregiudizievole e di rifiuto che a volte costringe la persona omosessuale a condurre la propria vita affettiva in contesti di marginalità sociale. Vale la pena ricordare le innumerevoli resistenze nei confronti dell'omosessualità innescatesi in seguito al devastante diffondersi del virus dell' AIDS, che inizialmente è stato considerato come una conseguenza del comportamento sessuale "deviante"; questo costituisce solo uno dei tanti esempi di rigidità del sistema sociale con cui l'omosessuale viene a confrontarsi, anche nella vita quotidiana, con le amicizie, con il contesto scolastico e di lavoro, e non in ultimo con la famiglia. Quest 'ultima è stata, infatti, resa vittima di discriminazioni, in parte derivanti da una lettura patologica dell' omosessualità: vi è stato un periodo di accuse per madri e padri, le prime viste come troppo simbiotiche, i secondi come troppo distanti. Relazioni familiari disfunzionali venivano indicate come cause della "malattia omosessuale" (La Sala, 1999).

Il rapporto tra la coppia eterosessuale e la famiglia di origine quale fonte di sostegno e di influenza e l'importanza dei legami intergenerazionali per una relazione priva di problemi, sono temi ampiamente trattati sia dai ricercatori che dagli psicologi della famiglia. Inadeguata e scarsa è invece la letteratura relativa a uomini e donne omosessuali e le relazioni di questi con le rispettive famiglie d'origine. Lo scarso riconoscimento e il pregiudizio sociale contribuiscono a consolidare in molti genitori convinzioni negative, a rinforzare visioni che vedono i propri figli "sbagliati", ragione per la quale maggiori approfondimenti e nuove ricerche sull' omosessualità porterebbero senz'altro ai genitori e ai figli omosessuali un cospicuo beneficio.

È considerato psicologicamente benefico per gli omosessuali rivelare il proprio orientamento sessuale e vivere alla luce del sole. I genitori, però, tendono a reagire con emozioni violente, delusione e vergogna quando vengono a sapere dell' omosessualità di un figlio o di una figlia. Questo "venir fuori", letteralmente definito "coming out", spesso provoca una dolorosa crisi familiare, che può portare all'allontanamento dei membri della famiglia (La Sala, 2001).

Alla pari di quanto può avvenire per le coppie interculturali e interrazziali, bersaglio anch'esse di ostilità da parte delle famiglie allargate, per la coppia omosessuale la "confessione" ai genitori è spesso l'esperienza più dura da affrontare; un figlio o una figlia che dichiarano la propria omosessualità scuotono violentemente il sistema familiare, sia a livello individuale che interpersonale. Madri e padri crescono i propri figli dando per scontata la loro eterosessualità, con un figlio omosessuale vedono sfumare i sogni e i progetti sul matrimonio dei figli e i progetti sulla continuità delle generazioni attraverso l'arrivo dei nipoti.

Nonostante la forte probabilità di disapprovazione, una percentuale altissima di gay e lesbiche decidono di dichiararsi ai genitori, in parte perché sperano di accrescere l'intimità e l'onestà del rapporto con essi e in parte perché il rivelarsi diviene un modo per dimostrare al proprio compagno/a l'impegno e la salvaguardia della loro unione. Nonostante le difficoltà per uscire allo scoperto, gli omosessuali scelgono la vita di coppia come modo per vivere a pieno la propria identità. Molte coppie hanno dato vita ad unioni stabili che durano per lunghi anni, sfatando il mito-stereotipo dell'omosessuale promiscuo, sempre in cerca di nuove avventure.

La Sala (2001) ha studiato l'influenza della disapprovazione intergenerazionale sul rapporto della coppia omosessuale, constatando come gli sforzi di rivelare la propria omosessualità sembrino essere correlati con il processo di differenziazione, di fondamentale importanza per stabilire rapporti differenziati ed emotivamente significativi. Così come avviene per le coppie eterosessuali, un allontanamento brusco di uno dei due partner dalla propria famiglia d'origine potrebbe avere ripercussioni negative sul rapporto di coppia, come il rimanere nell' ombra, il non rivelarsi, non permette di raggiungere una reale indipendenza. Anche la negazione della propria omosessualità può essere considerata espressione di uno stallo evolutivo nel processo di separazione-individuazione.

In realtà, attribuire esclusivamente alla società o ai genitori la responsabilità di una reazione negativa sarebbe un errore. I genitori debbono imparare a conoscere la vita omosessuale mentre nel contempo gli omosessuali hanno bisogno di accettazione e di conferme; diviene quindi essenziale che i membri della famiglia vengano aiutati a mantenere il reciproco legame per tutta la durata della crisi.

In ultima analisi, un tema recentissimo che non può essere trascurato è quello della paternità e della maternità della coppia omosessuale. Soltanto in America circa un terzo delle lesbiche sono madri, molti sono anche i gay che vivono con figli avuti da precedenti matrimoni. La paternità e la maternità sono dimensioni dell'identità che gli omosessuali sentono come importante e che chiedono di poter realizzare. Il dibattito sul tema è piuttosto acceso e le posizioni assunte finora sono diverse, resta comunque tanto ancora da scoprire e da dire su un fenomeno ancora in fase di emersione. Il poter scegliere il proprio compagno/a secondo un sentimento libero d'amore e lo sviluppo di un'identità di coppia caratterizzata da affettività, progettualità, aiuto e comprensione vicendevole sono ritenute oggi libertà fondamentali dell' individuo, la base per qualsiasi rapporto di coppia, andando oltre le scelte sessuali, la religione, il colore della pelle, l'origine etnica e nazionale.

Prof. Maurizio Andolfi

Giovedì, 30 Dicembre 2004 20:26

Famiglie immigrate

 Famiglie immigrate

 "La migrazione e' un rischio. È angosciante.

Tra uno sradicamento doloroso e un riancoraggio conflittuale

si adagia il tempo di una crisi.

Quella di una esperienza segnata dalla paura

di perdere definitivamente gli oggetti abbandonati

e di affrontare l'inquietante stranezza".

(A. Begag, A. Chaouire)

 Probabilmente la condizione degli immigrati si può riassumere con questa breve ma intensa descrizione, poiché accanto alle nuove possibilità che si schiudono di fronte al: trasferimento in un nuovo ambiente, vi è anche il rischio e la crisi che tale passaggio può determinare. Il fenomeno migratorio in atto in questi ultimi anni, rappresenta un evento societario in grado di incidere radicalmente sulla struttura culturale e sociale del mondo occidentale. Come ha scritto Thomas Sewell nel suo capolavoro "Migrations and cultures" (1996): "la storia dell' emigrazione, non è solo la storia delle persone che emigrano, ma è anche la storia dei territori in cui si recano e dell'impatto che hanno sui territori stessi.(...) Per capire l'impatto degli immigrati è innanzitutto necessario capire le culture che portano con sé dai propri paesi d'origine".

Ricerche ed analisi compiute negli ultimi anni, in effetti, si sono occupate di questo fenomeno, ma, in generale, hanno studiato gli immigrati come individui o come gruppi di individui trascurandone la dimensione familiare. Affrontare il tema dell' immigrazione dal punto di vista familiare è in un certo senso una sfida perché, come sottolinea Bènsalah (1993), "parlare della famiglia nello spazio-tempo della migrazione significa verbalizzare l'assenza, il mancamento, le trasgressioni alle norme su cui si basa. Quando parliamo di famiglia immigrata, definiamo dei campi spaziotemporali significativi: da un lato quello dell'immigrazione che è per definizione quello delle fratture e dell'allontanamento e, dall'altro, quello della famiglia, per definizione quello della continuità e dei legami".

La famiglia migrante occupa, in effetti, una posizione particolare: si situa tra la società di origine e la società di accoglienza. Ed è proprio a questo tra che bisogna porre attenzione poiché incide determinando dei cambiamenti sul normale susseguirsi delle fasi del ciclo di vita familiare.

Questa famiglia e gli individui che la compongono sono sottomessi alle esigenze della società di accoglienza e della società d'origine. Stanno tra le aspettative della società d'origine (la perpetuazione della cultura, della lingua, della religione, ecc.) e le aspettative della società d'accoglienza. Per raggiungere una buona integrazione, essa dovrà costruire una "unità combinatoria" facendo dei tentativi e tenendo conto delle due sociétà.

D'altronde, il presente vissuto da queste persone viene costantemente accompagnato dalle emozioni legate al passato, dal dubbio e dall'incertezza rispetto al futuro. La storia del tempo passato, vissuto altrove, con altre persone e in condizioni diverse condiziona il modo in cui i membri della famiglia migrante vivranno il presente e immagineranno l'avvenire (Ciola, 1997).

Bonvicini M.L. (1992) ha descritto sapientemente la cornice in cui si trova il migrante: "Nulla è uguale, diceva Fatima. Né i suoni, né i colori, né le voci, né gli odori, né le strade, né le case, né la cucina, né l'educazione... Come ritrovarcisi? Come ritrovare la vita spigliata che si aveva in Paese? Persino le settimane, le feste, i mesi sono diversi!". Il migrante, perciò, è sempre in viaggio, in un perpetuo andirivieni tra il quivi e l’altrove, il presente e il passato, i figli e i nonni. Sta da qualche parte fra le due fasi di una realtà che cerca di addomesticare. Egli ha naturalmente il diritto di star bene nella sua nuova situazione, ma ha il dovere di non dimenticare la famiglia e il paese d'origine. La sintesi creativa che la famiglia immigrata dovrà cercare di raggiungere risulta essere spesso una conquista dolorosa, fatta di ostacoli e di momenti critici.

Il confronto con i modelli familiari occidentali può portare gli immigrati a sottolineare con orgoglio la forte base etica e solidaristica che, di fatto, coinvolge non solo il nucleo familiare in senso stretto, ma anche la parentela allargata e, di frequente, i vicini di casa. Non di rado tale orgoglio porta all'idealizzazione dell'unità familiare, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con gli anziani e con la storia familiare che essi impersonificano, quasi a volere difensivamente rimarcare la propria superiorità culturale nei confronti dei paesi ospitanti. Un radicamento familiare così forte fa sì che il significato dell'emigrazione non sia mai vissuto esclusivamente a livello individuale, ma come una soluzione in grado di garantire, ad esempio, un vantaggio economico per la famiglia d'origine. In questa prospettiva, il soggetto che parte è depositario di un mandato familiare, quindi svolge un compito per l'intero nucleo (Scabini, Regalia, 1993).

Un secondo nodo cruciale è che l'esperienza familiare degli emigranti e la prassi solidaristica sperimentata all'interno della cultura d'origine sembra incidere in maniera determinante sulle modalità di relazionarsi con l'ambiente. In particolare si possono evidenziare diversi modelli adattivi che guidano lo stile di gestione delle relazioni con la cultura circostante: un primo modello, inclusivo, che si caratterizza per il tentativo di instaurare rapporti molto stretti e quasi esclusivi con altri immigrati del proprio paese d'origine, familiari e non, allo scopo di formare una rete relazionale con una forte funzione protettiva a livello individuale e sociale, che cerca di riprodurre l'ethos familiare vissuto nei paesi di provenienza e rimarca le diversità con la cultura del paese ospitante; all'opposto di questo modello vi è quello di tipo espansivo, nel quale la solidarietà inter-comunitaria non esclude ma anzi favorisce l'apertura nei confronti dell'ambiente circostante

In ogni modo, ciò che in realtà è in gioco nella regolazione delle distanze con l'ambiente, è il problema della rinegoziazione delle distanze familiari a livello intergenerazionale. Sono chiamate direttamente in causa, sebbene in tempi diversi, le diverse generazioni di immigrati. La prima generazione si trova impegnata a mediare sia l'impatto con l'esterno (l'ambiente sociale del nuovo paese), sia la gestione della relazione con i figli, socializzati ad una cultura diversa, sia la ridefinizione dei rapporti con la famiglia d'origine. Il problema dell'educazione dei figli può essere considerato l'aspetto cruciale che può favorire ed accelerare il processo di integrazione o, al contrario, rafforzare i movimenti di separazione sia nei confronti dell'ambiente sia all'interno della famiglia. L'entrare in contatto dei figli con la cultura ospitante può rappresentare agli occhi dei genitori il pericolo di una rottura nella trasmissione intergenerazionale e un venire meno dei significati più profondi che danno continuità alla cultura familiare. La chiusura nei confronti della cultura ospitante può così determinare una sfasatura, in alcuni casi anche drammatica, tra adattamento sociale e riequilibrio delle relazioni lungo l'asse intergenerazionale. È a questo livello che sembra essere a rischio la posizione dei figli della seconda generazione, che se, da un lato, riescono ad adattarsi meglio e più velocemente dal punto di vista sociale nella cultura ospitante rispetto alla prima generazione, dall'altro pagano in termini di estraneamento progressivo dalla famiglia e dai loro valori questo successo adattivo. In questi casi l'integrazione sociale può essere vista come un tradimento della lealtà dovuta alla famiglia e l'esito soggettivo è la difficoltà a riconoscersi pienamente appartenenti alla cultura d'origine o a quella ospitante (Scabini, Regalia, 1993).

Va dunque rimarcato che i tempi sociali e i tempi familiari di elaborazione degli eventi critici legati all' immigrazione procedono in maniera asincrona. Un conto è l'obiettivo di un adattamento sociale, che può anche essere raggiunto in breve tempo, altro è invece il difficile e lento processo di assimilazione ed elaborazione psichica, che deve riuscire a mettere insieme in una accettabile sintesi percorsi familiari e sociali così diversi. Come sottolinea McGoldrick (1993) sarà compito della terza generazione di immigrati quello di connettere passato e futuro, esigenze della cultura familiare di appartenenza ed esigenze del nuovo ambiente sociale. Tale generazione si sentirà più libera di reclamare aspetti della propria identità etnica che nelle generazioni precedenti erano stati sacrificati in vista della necessità di assimilazione alla cultura d'elezione. D'altronde, si può vivere e affrontare il presente solo nel momento in cui ci si sente garantiti nei valori familiari e culturali con cui si è cresciuti.

In teoria, la posizione tra dell' emigrato o di chi appartiene a una minoranza culturale, potrebbe essere considerata una risorsa in più, poiché in grado di offrire più di una scelta, favorire una maggiore mobilità tra due alternative, permettere di muoversi da uno spazio all'altro, da una lingua, quella di provenienza, ad una seconda, utile per la costruzione dei rapporti sociali nel nuovo mondo. In realtà, questa posizione di vantaggio esiste soltanto quando ci si possa facilmente "spostare da una sedia all'altra", senza avvertire il pericolo del non ritorno nella posizione originaria, quando, cioè, si prende il meglio delle due culture raggiungendo una buona integrazione.

Al contrario, difficoltà possono emergere, come abbiamo visto, quando l'immigrato assume un atteggiamento di "assimilazione" nei confronti della cultura della società di accoglienza, adeguandosi acriticamente ad essa e attuando un taglio con la propria cultura d'origine; oppure, ancora, quando assume un atteggiamento di "negazione" non affrontando la questione dello stare "tra", o di "esclusione", rimanendo ancorati fortemente alle proprie radici con un atteggiamento di rifiuto e di chiusura, quasi protettiva, nei confronti della nuova cultura. La paura di perdere le proprie radici, le lealtà invisibili che si annidano in ogni storia di sradicamento e di taglio emotivo, l'illusione di fermare il tempo, la diversità percepita come minaccia alla propria esistenza, la difesa, talora esasperata, delle proprie tradizioni, sono situazioni affettive che rendono lo stare tra due realtà culturali un malessere esistenziale tra i più gravi.

Invece, la possibilità e la capacità di legare gli aspetti della cultura di origine con quelli della nuova cultura, miscelandone e combinandone gli elementi, le caratteristiche, costituisce un'importante risorsa per un positivo processo di integrazione. Il migrante, come afferma Gola (1997), può star bene tra due culture, o per così dire "tra due sedie" e decidere in che momento ci si siede sull'una o sull'altra, e creare un modo originale di occuparle entrambe, facendo esperienze nello spazio tra di esse ed essere felice di non trovarsi condannato a star seduto in un modo solo, magari comodo, ma povero.

Prof. Maurizio Andolfi