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Giovedì, 25 Agosto 2005 02:18

Siamo chiamati ad elaborare una nuova cultura di pace (Massimo Toschi)

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Siamo chiamati ad elaborare
una nuova cultura di pace
di Massimo Toschi




Noi sappiamo che nel secolo XX la guerra è radicalmente cambiata. Dalla guerra di Spagna non c'è più lo scontro tra eserciti, ma il vero e sempre più crescente obiettivo diventa l'uccisione deliberata dei civili. Nelle guerre combattute dal 1945 ad oggi sono stati uccisi 25 milioni di civili. Negli ultimi dieci anni, su 100 morti nelle decine di guerre in atto, 7 sono militari e 93 civili, di cui 34 bambini. Sempre più le guerre non finiscono con la firma di un trattato, perché le mine anti-uomo continuano a ferire e a uccidere ben oltre gli armistizi, e l'inquinamento ambientale prodotto dalle bombe ha effetti devastanti sulla vita della popolazione civile sopravvissuta, com'è avvenuto nel caso dell'Iraq, nel caso Kosovo e probabilmente nella stessa vicenda dell'Afghanistan ancora in atto.

Il magistero di Giovanni XXIII

È questo orizzonte che spinge Giovanni XXIII nel 1963, con la Pacem in terris, non solo a porre fine alla teologia della guerra giusta, ma anche a rifiutare in radice ogni futura possibilità di guerra. Dice Roncalli, in quello che appare il suo testamento, che, scritto due mesi prima di morire, è la pienezza della sua parola per la chiesa e per il mondo: "Riesce impossibile pensare (alienum est a ratione) che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia". Egli comprende con assoluta chiarezza che l'era atomica cambia totalmente la qualità della guerra, non solamente nel senso che viene aumentata in senso geometrico la sua potenzialità distruttiva, ma che a causa di questo i civili e la loro uccisione diventano l'obiettivo primario dell'azione militare. Questo è stato vero a Hiroshima, ma anche in tutte le guerre successive, dove pure non è stata usata direttamente la bomba atomica. Questa intuizione porta papa Giovanni a spezzare definitivamente il legame tra guerra e giustizia: la guerra senza aggettivi, dunque ogni guerra.

Egli non contrappone dottrina a dottrina, ma, leggendo in profondità la storia, assume e fa proprio il grido muto delle vittime innocenti che la guerra sempre produce. È da qui che viene la sua consapevolezza della pace come parola assoluta e indivisibile, che contiene in sé l'unità e la radicalità di tutto il Vangelo. Questo grido diventa come il segno dei tempi che domanda alle chiese di convertirsi, di chiedere perdono per aver giustificato la guerra, di comprendere meglio il Vangelo della pace.

Oltre la dottrina sociale

Il Concilio è stato l'evento per mezzo del quale Giovanni XXIII ha rimesso il Vangelo al cuore della storia e ha chiesto alla Chiesa di vivere il servizio all'Evangelo, condividendo la sorte e il patire dei popoli, in particolare di quelli più piccoli e più poveri. Perciò la pace ha abbandonato per sempre i capitoli della teologia morale e della logora dottrina sociale, per tornare ad essere luogo decisivo della confessione della fede.

La Parola di Dio deve essere assunta come sostanza viva e vitale di tutto quello che la chiesa e i cristiani sono chiamati a dire sulla pace. Questo avviene quando le vittime hanno autorità sulla chiesa che legge la Scrittura.

Così si comprende con assoluta chiarezza che la pace è al cuore della cristologia, la pace è una persona, è Gesù nella totalità del suo mistero. Dunque la pace evangelica è coestensiva alla presenza del Messia povero e pacifico in tutta la storia degli uomini. In questo senso la centralità assoluta della pace diventa coestensiva alla centralità assoluta dell'Eucarestia. E la pace e l'Eucarestia diventano coestensive nel mistero della Vittima, che nella storia si rivela nel volto concreto delle vittime della violenza. E la loro voce che la chiesa deve assumere, è a partire dal loro grido che essa è chiamata a comprendere meglio il Vangelo della pace e a testimoniarlo in debolezza, senza appoggi e sostegni umani.

Nasce da qui il drammatico senso di responsabilità e di coerenza spirituale che non fa indietreggiare la chiesa e il credente di fronte alle conseguenze della fedeltà all'Evangelo, riletto dentro i conflitti della storia.

Se la guerra, ogni guerra è l’antivangelo, nessuna guerra può essere più giustificata dal punto di vista della fede, né quelle compiute contro il diritto internazionale, né quelle avvallate dalle organizzazioni internazionali, neanche quelle costruite con l'avvallo di una mozione dell'Onu. Questo significa percorrere altre vie per risolvere i conflitti internazionali, per piegare dittature e regimi violenti, per combattere il terrorismo. Arrendersi alla cultura della guerra come extrema ratio, significa fare della guerra la ratio di ogni politica. A maggior ragione con la guerra preventiva, quando essa diventa la prima ratio di ogni politica, e dunque il fallimento e la sconfitta della politica.

A tutto questo la chiesa e i cristiani partecipano, testimoniando l’alterità del Vangelo ad ogni guerra e ad ogni sua giustificazione. [……]

Uuna nuova cultura della pace

Elaborare una nuova cultura di pace è compito di molti. Ciascuno è chiamato a portare l'originalità del suo pensiero, la ricchezza della sua tradizione culturale e spirituale. Anche le chiese e i cristiani non possono sottrarsi a questa fatica. Ecco alcuni punti essenziali da cui partire:

1) il non uccidere

La parola biblica deve di nuovo assumere tutta la sua forza profetica. Si spezza davvero il circolo della violenza quando si decide di dare la vita per i nemici. Dunque il non uccidere i nemici ha il suo punto d'arrivo nel dare la vita per essi. Solo così la violenza non diventa più padrona della nostra vita. Quando si uccide, anche se questo avvenisse per un motivo giusto e nobile, si moltiplica l'odio e l'inimicizia nel mondo e dunque si rilancia la causa della violenza, di quella violenza che vorremmo colpire e reprimere.

2) il fare la pace con mezzi pacifici

Sta qui la grande questione della nonviolenza attiva. La pace non può essere costruita con qualunque mezzo: dev'essere costruita con mezzi coerenti con il suo fine. Tutto questo porta a rifiutare i mezzi violenti, le armi, a maggior ragione le armi con devastante potere distruttivo. Oggi, rispetto a cinquant’anni fa, si può dire che il regime sovietico, come diversi regimi autoritari in Asia e America latina sono caduti, senza uso delle armi o della guerra. Lo stesso muro di Berlino, che è stato il simbolo dell'inimicizia e del mondo diviso in due, è caduto a partire dalle manifestazioni nonviolente dei giovani evangelici della Germania Est. Il regime dell'apartheid in Sud Africa si è frantumato quando Mandela ha scelto la nonviolenza.

Tutto questo ci dice che sono possibili altre vie rispetto all’azione militare, alla violenza e alle armi. I regimi autoritari spesso sono rafforzati dalla guerra, mentre sono sempre destabilizzati dal dialogo della nonviolenza, che punta non a distruggere, ma a cambiare le coscienze. Se pensiamo per un attimo alla Palestina, è sempre più chiaro oggi che l'affermazione dei diritti dei palestinesi non passa attraverso il terrorismo o l'insurrezione militare. Il terreno delle armi e delle azioni militari sta sfigurando l'anima e il cuore d'Israele, ma la lotta violenta, promossa da molte organizzazioni politiche dei palestinesi, ha ottenuto l'unico risultato di distruggere la vita e la speranza di un popolo. …

3) stare nella storia dalla parte delle vittime

Quando si legge e interpreta la guerra dalla parte di un computer o di una sala ovale o dalla stanza dei bottoni o di una facoltà di teologia o di un palazzo di curia, è facile dimenticare che oggi la guerra significa, prima di tutto e innanzitutto, uccidere delle vittime innocenti, che sono l'obiettivo deliberato di ogni azione militare.

La guerra diventa impossibile se siamo capaci di guardare il volto dei bambini delle donne, degli anziani iracheni o afgani o di qualunque altra parte del mondo. Il loro volto e la loro sofferenza invocano pace non guerra. Il loro patire diventa il discernimento più grande sulla guerra e sulle sue apparenti e sofisticate ragioni.

4) il perdono e la riconciliazione

Solo una cultura del perdono e della riconciliazione può sanare le ferite dell'inimicizia e dell'odio. L'esperienza del Sudafrica con la “Commissione sulla verità e la riconciliazione” ha indicato una strada decisiva per fare la pace. Non la via della vendetta, che mai costruisce, ma quella del riconoscimento del dolore dell'altro, il confessare la propria colpa rispetto ad esso. Allora ci si accorge che la divisione non passa più tra bianchi e neri, ma all’interno del cuore di chiunque abbia condiviso la violenza contro il fratello. Questo apre un processo profondo dì ricomposizione del tessuto della vita comune, senza il quale l'odio non è sconfitto.

Una strada analoga dovrebbe essere con coraggio intrapresa nei Balcani, per spezzare il muro di separazione delle coscienze, ancora oggi molto evidente. Lo stesso accadrà tra israeliani e palestinesi, se davvero avranno il coraggio di scommettere sulla pace, che nasce dalla fiducia e non dal potere delle armi.

Sono quattro punti. Indicano la ”via stretta della pace” senza la quale non c'è futuro. Si legge nell'introduzione della Leggenda Maggiore, a proposito di Francesco d'Assisi: "Angelo della vera pace, anch'egli a imitazione del Precursore, fu predestinato da Dio a preparargli la strada nel deserto dell'altissima povertà e a predicare la penitenza con l'esempio e la parola".

Le chiese oggi sono chiamate ad essere angeli della vera pace, facendosi povere, ponendo la parola della conversione e imparando dalle vittime. Ci sono già cristiani che indicano, con la loro vita e con la loro morte martiriale, questa strada.

(in L’Angelo della Pace, Il Vangelo nel tempo della guerra, Brescia, Quaderni di Missione Oggi, Ottobre 2002, pp. 2-7)


Letto 1690 volte Ultima modifica il Sabato, 07 Gennaio 2006 22:06
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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