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Venerdì, 17 Maggio 2019 10:23

Sulla pace (Fulvio Papi)

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Chi sostiene la pace come scelta assoluta desidera che esista un valore incondizionato nel quale vede la propria identificazione. Ma un valore incondizionato tende inevitabilmente a superare quella che è la linea comune della identificazione di sé.

Sul tema delle pace abbondano più le discordie che le concordie. È abbastanza ovvio poiché è un tema fortemente emotivo. Con questo non voglio dire che da una parte stanno le emozioni dall'altra i puri ragionamenti. La distinzione vale a livello dei linguaggi fortemente formalizzati, i quali non hanno per lo più una ripercussione diretta sui temi, in senso lato, dell'esistenza comune. In ogni altro caso non c'è emozione che, dicendosi, non cerchi una propria razionalizzazione (per esempio nel significato sociale prevalente delle parole che adopera) e non c'è ragionamento razionale che non abbia una sua radice e un suo fine emotivo (il perché si tenta quel ragionamento e quale risultato auspicabile si cerca di raggiungere). Per conto mio, il fine è la chiarezza; il risultato auspicabile che la chiarezza possa contribuire ad abbassare il livello dell'aggressività.

Chi sostiene la pace come scelta assoluta desidera che esista un valore incondizionato nel quale vede la propria identificazione. Ma un valore incondizionato tende inevitabilmente a superare quella che è la linea comune della identificazione di sé. Conduce alla testimonianza radicale di quel valore che non è una rappresentazione occasionale di sé, ma è un forma di vita, una vita santa. Se non si va in questa direzione, avviene inevitabilmente che il proprio desiderio universale, nel quale ci si identifica, diventi l'oggettività di una norma universale. Una norma ha necessariamente una sua dose di aggressività, poiché distingue: il solo caso in cui la norma non provochi naturalmente aggressività è che sia già universalmente condivisa, e in questo caso, non è più una norma. Se non c'è questa universalità, questa assoluta reciprocità rimane il desiderio identificante che si è cristallizzato in una norma universale. La conseguenza più diretta è che può esservi un aggressore che non pensa minimamente a questa norma, che ha altri fini, e rispetto a questo aggressore la coscienza che proclama la norma deve invece restarvi fedele. Erasmo parlava di pace iniqua migliore della guerra. Ma l'iniquità è solo un livello di ingiustizia o è anche oppressione, schiavitù, degrado della propria vita, distruzione e morte? Rispondere a queste domande se non ci si ferma all'affermazione dell'assolutezza del valore è già un problema che pone limiti e distinzioni. Credo che il preferire sempre la pace, considerarla un bene produttivo a sua volta di altri possibili beni, non sia incompatibile con il porsi queste domande che introducono alle relazioni concrete che accadono nel mondo. Questo significa abbandonare il rapporto tra valore assoluto e identità personale, misurare, nel caso, la propria possibilità verso una vita santa e porre il problema della pace in quella rete di relazioni positive che costituiscono il mondo. Tentare un pensiero "politico", nel senso di una contingente idea di bene.

Se questa strada è corretta ci conduce nel luogo più difficile del mondo: analizzare minutamente la realtà, interpretarla secondo un desiderio di verità che è necessariamente controllo di se stessi, stabilire, quando si decide una congruità dei fini e dei mezzi, ragionare sull'efficacia dei- mezzi, sulle controfinalità possibili. Ipotizzare, dare giudizi nella contingenza degli eventi. È la fatica e la responsabilità della ragione, non altro, l'identità meno euforica e più difficile.

Fulvio Papi

(tratto da Oltrecorrente)

 

Letto 1396 volte Ultima modifica il Venerdì, 17 Maggio 2019 10:30
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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