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Nel gennaio 1978, Ivan Illich durante il suo soggiorno a Sevagramdove fu invitato per inaugurare una conferenza e passò la maggior parte del suo tempo nella capanna di Gandhi. Il presente testo è il risultato della sua meditazione nella capanna del Mahatma.

Pubblicato in Dossier Pace
Sabato, 23 Agosto 2008 01:34

Comunicare in pace (Claudia Padovani)

Comunicare in pace

di Claudia Padovani *

Alcune connessioni per ampliare la riflessione sulla cultura della pace e sul rapporto tra pace e comunicazione.

Mentre si va ampliando il senso dell’insicurezza globale ed è davanti a tutti la difficoltà di costruire alternative in un mondo segnato dalla conflittualità, mi chiedo di che cosa sia fatta quella “cultura della pace” che sentiamo così necessaria e che fatichiamo a portare nelle situazioni educative, comprese le aule universitarie. Come ricercatrice ed educatrice, ragiono sul ruolo e le responsabilità dell’informazione, e mi aiuta l’ultimo numero di Media Development, bella rivista dell’Associazione mondiale per la comunicazione cristiano (Wacc), incentrato su “Comunicare la pace”. Parto da qui per condividere alcuni tasselli del mosaico di riflessioni e azioni) che silenziosamente, ma caparbiamente, propongono un nexus fra pace e comunicazione.

Pubblicato in Dossier Pace
Dalla civiltà della paura alla civiltà della pace
Un guizzo di utopia

di Ernesto Balducci

Vorrei impegnarmi a una riflessione forse presuntuosa, comunque un po' complessa, articolata, capace di assumere il tema della pace come tema totalizzante, che riconduce in sé gli aspetti diversi dei processi innovativi del nostro tempo, e capace quindi di suggerire una strategia globale, dove le varie battaglie per il rinnovamento possono ritrovare unità e coordinamento reciproco.

Vorrei sostenere la tesi che il nostro impegno per la pace non può più essere inteso come volto semplicemente a deprecare la guerra e a invocare il disarmo. Se vuole rispondere alle provocazioni oggettive della situazione pericolosa in cui siamo, non può essere che una «mutazione culturale».

Io sono convinto, con molti grandi testimoni, artefici del nostro tempo - penso qui ad Einstein, per citare il più importante - che noi stiamo vivendo all'interno di una mutazione storica che coinvolge non soltanto gli assetti dei rapporti tra i popoli, ma il modo stesso di pensare, la forma mentis dell'uomo, la cultura dell'uomo. Il famoso scienziato aggiungeva che dopo Hiroshima «o l'umanità cambia modo di pensare, o il suo destino è la catastrofe». Questo è il dilemma posto da uno scienziato che per vari versi potrebbe essere chiamato padre o nemico della bomba atomica, visto che le ricerche atomiche devono qualcosa alle sue grandi teorie della relatività ed ancora che egli stesso, nell'estremo cimento della guerra, non fu alieno dal pensare che la bomba poteva essere usata per porre fine alla guerra, soprattutto alla minaccia nazista. Ma con prontezza di coscienza, subito dopo Hiroshima, Einstein e dopo di lui B. Russell e altri grandi scienziati dichiararono, con il prestigio che avevano, che occorreva modificare radicalmente il modo di pensare, il modo di far politica, se si voleva evitare la catastrofe.

Dobbiamo riconoscere dopo trent'anni che il modo di pensare, almeno a certi livelli, là dove la storia agisce con i suoi strumenti ufficiali, non si è modificato. Il modo di pensare è ancora quello anteriore alla soglia atomica. E sta di fatto che dinanzi a noi è aperto il baratro della catastrofe.

Ma negli ultimi anni si sono succedute in Italia e in Europa manifestazioni pacifiste di tale entità da dare subito l'impressione che qualcosa di nuovo pulsasse nella coscienza collettiva, che questa mutazione che negli strati di superficie non si avverte, nel fondo della coscienza dei popoli, fosse invece avanzata, confortando quella che poteva sembrare un'utopia da conservare nel cuore, stando in agguato nella storia se per caso venisse il momento giusto. Il momento giusto probabilmente è venuto, perché la situazione dell'umanità, dopo l'escalation atomica, che non ha mai cessato di avanzare, è tale da determinare ormai una larga presa di coscienza, una reazione collettiva della base, dei corpi sociali, o la catastrofe è inevitabile.

E con questo sentimento che i popoli stanno riprendendo in mano il proprio destino. Il genere umano è all'interno di una mutazione storica, quella che Teilhard de Chardin con il suo linguaggio chiama soglia evolutiva, la soglia dove è necessario un salto di qualità, una nuova concentrazione della coscienza umana, cioè un punto di riferimento delle coscienze a partire dal quale sia possibile prendere possesso dei dinamismi della società.

La paura e l'inventiva

Ogni qualvolta - la storia dell'evoluzione ce lo dimostra - si tocca la soglia dove è necessario un salto di qualità, dove cioè non è più saggezza la continuità col passato, dove è saggezza la rottura col passato, ogni qualvolta si entra nella soglia, abbiamo una duplice reazione: quella della paura ad attraversare la soglia - perché la paura è la percezione che si deve morire al nostro passato, all'insieme dei principi culturali su cui si è basata la nostra coscienza - e quella dell'utopia. La paura, perché le istituzioni, che sono nate per realizzare gli obiettivi che ci eravamo proposti, la nostra stessa identità civica e culturale, tutto è messo in discussione. E come una morte storica; per scomodare il linguaggio biblico, dobbiamo morire a noi stessi per nascere. L'altra reazione è quella della inventività, della improvvisa presa di contatto con ciò che ieri sembrava utopia. Oggi ciò che è utopistico diventa realistico e ciò che ieri era realistico diventa utopistico in senso catastrofico. Per esempio, quello che è stato detto dalle massime autorità americane, (che sarebbe anche possibile fare una guerra atomica controllata) dimostra come il realismo ha toccato la follia. Sembra davvero poco attendibile l'idea che una eventuale contesa sia da una parte controllata senza che l'altra parte non subisca la tentazione di rispondere in maniera smisuratamente più grande, senza che si entri nel rigurgito dell'escalation delle armi atomiche. Ne consegue che il momento in cui siamo è quello in cui l'utopia può pretendere di presentarsi con tutti i titoli di realismo storico. Questo è il punto essenziale per capire gli obiettori di coscienza che noi difendemmo nel '63. Oggi siamo in grado di dire che ciò che ci nascondono gli obiettori di coscienza è in nuce, come in un germe, una alternativa di scelta. La tesi che sto svolgendo è che quello della pace è un tema capace di riannodare le fila sparse di un ideale tessuto di società diversa.

La mutazione culturale

Noi sappiamo come procedono dal punto di vista culturale le società. C'è una cultura dominante, che è quella che fa tutto, che ha i giornali, le televisioni, le Case editrici, quella che dà l'immagine della società globale, senza che questa immagine vi risponda effettivamente. Noi potevamo dire vedendo i libri di testo, gli articoli di giornalisti di grido, che tutto procedeva come prima (e del resto le carte di identità dei partiti politici risalgono, nonostante la gloriosa frattura della resistenza, ad epoche anteriori alla soglia atomica). Dalle stesse ideologie - che sono anteriori alla soglia atomica - l'idea dell'uomo come violento è accettata come un dogma, non mutabile.

Noi oggi ci troviamo in una condizione in cui deve prendere voce quella cultura (la chiamo così in senso antropologico) che non ha avuto voce, che è sempre stata emarginata o connotata in qualche modo nel tratto del ridicolo, dell'estroso. Come del resto, ora che ci ripensiamo dall'altezza drammatica della storia attuale, capitò a Francesco d'Assisi, che disse di se stesso «Io penso che Dio volesse che io fossi nel mondo un novello matto». Uno strano matto: credo che tutti gli uomini della cultura dominante pensassero così, dal papa al cardinale Ugolino; gente furba, però, che sapeva usare anche i pazzi, li sapeva inserire nelle strategie di potere. Erano uomini di grande cultura, tanto che avevano strutture così elastiche da accogliere anche il nuovo, diversamente dai nostri tempi. Oppure possiamo pensare, per andare a esempi più grandi, a Gesù Cristo, che fu rivestito come un pazzo da Erode, simbolo del potere. Ogni volta che un'idea nuova, fresca, verginale viene alla luce del sole, la cultura dominante ha subito gli schemi di lettura per bloccarla, qualificandola come pazzia. Ma ora noi siamo in una condizione storica in cui i pazzi forse avevano ragione; la voce della coscienza disarmata, che si fa forte soltanto del consenso delle coscienze, è più potente di un esercito.

Il destino dell'umanità è unico

Sono maturate le grandi verità di Hiroshima, così vorrei chiamarle, che sono tre a mio giudizio, e fondamentali. Su queste verità, via via, attraverso quel lento spostamento sismico che è avvenuto alle fondamenta del corpo sociale, si sono preparati i cambiamenti.

Ila prima verità di Hiroshima è che il destino dell'umanità è unico e indivisibile, cioè per la prima volta la storia ha capito che il suo destino di morte è un destino indivisibile, poiché è possibile la morte simultanea. È un'idea che non era potuta mai balenare nella mente umana prima, salvo che in Caligola, il quale, come si racconta nella scuola, nei suoi sogni sadici, desiderava che il genere umano avesse una testa sola per tagliarla in un sol colpo. Ma i sogni di Caligola sono diventati possibilità oggettiva. Noi sappiamo che gli armamenti atomici sono tali da poter distruggere più volte il genere umano nella sua interezza. Anzi essi possono per sempre abolire dal pianeta Terra, unico nell'universo ad avere la biosfera, la stessa pellicola di biosfera che l'avvolge.

carattere ormai planetario. O il bene comune è planetario o non è bene comune. E ogni coscienza politica che assuma il bene comune del proprio paese, come sufficiente a fondare le virtù politiche, è una menzogna. L'unico bene comune, concreto, che si risolve nel bene comune anche del singolo paese, èil bene comune del genere umano. Questa intuizione ha acquistato una esplicazione di carattere scientifico, attraverso le analisi condotte da grandi competenti, uno dei quali è Brandt (o l'équipe che fa capo a lui) che ha steso un suo rapporto in cui si dimostra che le interdipendenze nel genere umano sonocosì strette che non è possibile ormai nessuna pianificazione economica, nessun risanamento del bilancio che non tenga conto di questa interdipendenza. Non si dovrebbe parlare di dipendenza del povero Sud dal Nord, ma del contrario, perché la grandezza del Nord, i suoi sperperi consumistici, la sua stessa posizione di privilegio del potere a livello degli armamenti, sono legate al fatto che sopravvive l'economia di rapina nei confronti del Sud. Ma il Sud, in questi ultimi anni, a partire dal 1955 ad oggi, ha compiuto una rivoluzione, simile a quella del rapporto servo-padrone. Il Sud, servo, ha preso coscienza che il padrone senza il servo non conta niente. E questa idea, come spiega Hegel, quando balenò nell'uomo, mutò la storia.

Noi siamo in un momento in cui il Sud del pianeta, il così detto Terzo mondo, ha preso coscienza che il mondo sviluppato senza di lui non è più niente. La storia muta. Probabilmente per questo gli armamenti sono un argomento estremamente provocatorio, poiché se io vi dico che nell'ultima guerra abbiamo avuto 50 milioni di morti, giustamente provoco sgomento. Ma forse pochissimi di voi sanno che due anni fa, nel '79, 50 milioni di morti li ha provocati la fame, e questa non è nata dalla malvagità della natura, ma dall'assetto economico del pianeta, perché nello stesso anno furono spesi 45 miliardi di dollari in armamenti, la decima parte dei quali bastava a eliminare i morti di fame. Il genere umano ha preso coscienza di questo e ormai nessuno si salva da un'inquietudine morale. Ogni tanto si sentono uomini politici che appartengono al vecchio ceppo, che parlano con molta sicurezza, con un linguaggio illuministico, con delle riflessioni paternalistiche nei confronti del terzo mondo; ma noi sentiamo che quella è una cultura morta. Quelli sono gli uomini politici pericolosi, perché non sono passati attraverso questa cruna d'ago, prima della quale c'è la stoltezza e oltre la quale c'è la consapevolezza che la salvezza del genere umano è unica e indissolubile, anche a livello delle pianificazioni economiche. Mentre parlo sento che questo tema dovrebbe diventare centrale nelle scuole, nei pulpiti, dovunque. Questa è l'educazione delle nuove generazioni, e non il ritorno a Garibaldi e la sua celebrazione.

L'istinto coincide con la morale di pace

In secondo luogo sentiamo che è maturata, non molto a livello della consapevolezza diffusa ma moltissimo in quello delle consapevolezze anticipatrici, la certezza di un'altra verità che i nostri padri non potevano percepire adeguatamente. Noi in passato abbiamo distinto la sfera della morale dalla sfera dell'istinto: due sfere tra loro inconciliabili, destinate al conflitto. L'istinto non è solo sede del male, ma anche principio di propulsione creativa, di arricchimento della vita morale dell'uomo, però la sua condizione normale è il conflitto con la ragione morale. La pace, per esempio, è un imperativo della morale. L'istinto nell'uomo, così ci è stato sempre insegnato, è aggressivo, e quindi la morale può contenere, regolare questa aggressività, ma sempre col presupposto che tra un principio e l'altro pace non ci può essere. E invece oggi noi siamo a un punto storico nuovo in cui quell'istinto di fondo della specie umana, della specie come tale, ci porta ad aver paura di morire. La volontà di sopravvivere arriva a coincidere con l'imperativo della coscienza morale, cioè tra biologia e coscienza c'è un punto d'incontro oggi, e questo poi si apre ad altre prospettive complesse anche su tutti gli altri settori.

Non è vero che si debba fare la morale dell'uomo a prescindere da quello che è il suo contenuto istintivo. L'istinto profondo dell'uomo, la vastità, la globalità della voce della specie arriva a coincidere con la legge morale; ora fare pace non è più un dovere a cui ci chiama la coscienza, è una necessità a cui ci chiama l'istinto di sopravvivenza. Questa è una soglia antropologica nuova, quella che le ricerche di morale di vario tipo dovranno approfondire e sviluppare. Conseguentemente non si può vivere sulla paura della guerra. Ricordo un episodio capitato ad Amburgo il giugno scorso, quando i vescovi luterani vollero celebrare il «giorno della chiesa» e diedero come motto a questo giorno una parola del Vangelo intesa spiritualisticamente, «non abbiate paura, io ho vinto il mondo». Parole di Gesù Cristo; ma i giovani, che arrivarono più numerosi del previsto, inalberavano cartelli in cui dicevano «noi abbiamo paura». Paura della bomba atomica, paura del disastro ecologico, ed elencarono le ragioni della loro paura. E in questo capovolgimento dall'idealismo evangelico astratto al realismo si è visto un sintomo di ciò che maturava nelle coscienze.

Nelle coscienze matura una richiesta profonda, che se avesse a disposizione le mediazioni politico-culturali, determinerebbe il cambiamento storico del genere umano. Questa paura è degna dell'uomo. Non è una paura egoistica, gretta, di chi si rifiuta di sacrificarsi per un ideale superiore a lui, è una paura che ha la sanità della specie, è quindi una paura che porta i segni, la trasparenza della coscienza morale. Questo è un fatto nuovo ed importantissimo.

La guerra è uscita dalla sfera della ragione

La terza verità è che la guerra è uscita definitivamente dalla sfera della ragione. Non c’è mai stata, dirà qualcuno. Si, è vero. Ricordo quando imparavo il latino a scuola, in prima ginnasio, e studiavo Tibullo: «Chi fu il primo a produrre le spade?», con senso di deprecazione. Ma questa lagna, di deprecare le spade e di fabbricarle, è antica quanto l'uomo. La guerra è stata sempre considerata come un evento nefasto, ma necessario. Poi questa fatalità poteva essere connotata di provvidenzialità, di punizione di Dio per i peccati dell'uomo; ognuno aveva le sue categorie per renderla accettabile. Nelle litanie medievali si diceva «dai fulmini, dalla tempesta, dalla fame, dalla guerra liberaci o Signore», come se la guerra appartenesse alle calamità di natura. Il concetto della fatalità della guerra è stato sempre presente nel genere umano prima della soglia atomica. E la ragione si è limitata a disciplinare la guerra, a contenerla in certi limiti, quelli per esempio stabiliti dalla dottrina stoico-romana, ma diventata cattolica con S. Agostino, la dottrina della guerra giusta. Per non parlare poi di altre giustificazioni più nefaste, come quella hegeliana, in cui la guerra appariva uno strumento della ragione, dello Spirito assoluto, per celebrare nella storia le alterne investiture degli spiriti eletti.

Noi queste cose le abbiamo bevute nella nostra infanzia di bambini vestiti con la camicia nera di balilla. Il fascismo poi ci educava al senso di grandiosità della guerra, e senza contestazioni di fondo, perché non faceva altro che portare agli estremi una ideologia giacente alla base della civiltà occidentale. La guerra è sempre nefasta, ma inevitabile e anzi provvidenziale, come spiegava un mio maestro di università, Benedetto Croce, «la guerra come accadimento è nefasto, ma come avvenimento è fausto» (accadimento è il fatto singolo, l'avvenimento sono i risultati complessivi; è questa la strana eterogenesi dei fini: un accadimento nefasto produceva però avvenimenti grandiosi).

Questa teologia della guerra, anche laica (perché ognuno ha la sua teologia) si è inserita nella storia. Ma questa cultura è finita: la guerra è uscita per sempre da ogni possibile disciplina razionale. Questo è un fatto nuovo, che già papa Giovanni nella «Pacem in Terris» sottolineava. Ma direi che in qualche modo non faceva che notificare un'evidenza. Le evidenze è difficile che poi riescano a fermentare in tutte le implicazioni che contengono, o almeno, ancora non lo hanno fatto; però sono sempre più luminose agli occhi della coscienza comune, mentre sono un segno di frattura fra il passato e il nostro presente.

Sono obbligato a dire qual è la presente situazione a cui ho fatto allusione. Noi siamo vissuti in questi anni che ci separano dalla invenzione della bomba atomica, la storia di questa terribile bomba la conosciamo. Prima era nelle mani degli Stati Uniti d'America soltanto, che in qualche modo erano garanti della pace sul pianeta. Quando l'Unione Sovietica ha avuto la bomba atomica, si è creata una competizione tra le due massime potenze, si sono formati i blocchi e abbiamo avuto l'equilibrio del terrore. Perfino il Concilio brucia qualche grano d'incenso all'equilibrio del terrore. La parola equilibrio introduceva nella parola terrore, che fa paura alla ragione, uno spezzone di razionalità. La parità tra le due forze sembrava un trionfo della ragione.

resta che il disarmo perché la parità degli armamenti non è più una garanzia. Siamo in questa necessità contro la quale urtano molti altri condizionamenti.

La generalizzazione del terrore

Qui le cose si fanno delicate e sono quelle più direttamente sotto la nostra osservazione quotidiana, soprattutto di chi come me non ha responsabilità politiche o di altra natura, ma vive tutti i giorni sulla frontiera delle coscienze, dove avvengono cose che probabilmente osservatori distratti da altro non riescono a percepire e a catalogare. La guerra, come abbiamo visto, veniva in qualche modo inglobata in una visione razionale dello Stato, della società, del progetto politico collettivo. Lo Stato, questa grossa creazione dell'uomo, in fondo vive all'interno di una cornice, come è una Costituzione, espressa dalla volontà popolare.

Ora la cornice della nostra vita non è più la razionalità, ma l'irrazionalità, ed il terrore è la parola che meglio la definisce. Esso non ha più la possibilità di essere integrato in una visione razionale del futuro, il terrore è negazione delle ragioni razionali della vita, vi si oppone nettamente. Il fatto che il terrore presieda alla convivenza tra i popoli, ha sollecitato, per così dire, il terrore in tutto il corpo sociale. Quella fiducia nella democrazia, nella Costituzione, dell'uomo nell'uomo, senza di che la democrazia non vive, scompare sempre di più. Il terrorismo dal basso non è altro che l'immagine speculare del terrorismo dall'alto. L'assenza di ragione ai vertici dei rapporti tra i popoli trova una sua simmetria drammatica nell'assenza di ragione di chi ritiene che con il crimine si possa veramente cambiare la società. La mancanza di razionalità ai vertici della convivenza nazionale e internazionale, è anche alla base della nostra convivenza, contamina il corpo sociale.

Come i rapporti tra individuo e individuo sono segnati sempre più dalla sfiducia e dalla competizione, così la violenza è un tratto comune della nostra società. Quindi la riforma morale richiesta, alludendo a questo o quello scandalo (deprecabili certo) che si vuoI compiere, è senza esiti. L'irrazionalità ci attraversa. Le nostre difese culturali sono velleitarie, e il senso di impotenza, che avverto spesso negli insegnanti, nei genitori... mi conferma nell'idea che il nostro male è collettivo, che ci tocca come genere umano.

Inesorabile decadimento della democrazia

D'altronde la democrazia non sta decadendo solo per ragioni etiche, ma perché è colpita nel suo cuore anche dal punto di vista formale, istituzionale. E sempre stato riconosciuto da tutti che i diritti del soggetto sovrano nella democrazia del popolo trovano il loro momento culmine nella decisione se fare qualcosa è bene o male. Questo è il diritto supremo di un popolo. Però ora i popoli non hanno più questo diritto. All'interno dei patti militari è previsto che un singolo popolo non possa decidere niente. Anzi questo svuota-mento della sovranità è stato anche formalizzato per quanto riguarda la Nato. Nel '62, ad Atene, i vari paesi hanno riconosciuto al presidente degli Usa il diritto di toccare il bottone a suo arbitrio, perché, evidentemente per ragioni tecniche, una guerra atomica non può avere l'ultimatum. Solo chi anticipa l'avversario può vincere. Quindi il nostro destino è in mani lontane, uno stato non ha più capacità di decidere. Nel caso della guerra atomica le mosse non sono più partecipate democraticamente, perché l'elemento decisivo della vittoria è il segreto, e quindi la sorpresa. Se l'asse essenziale dei diritti democratici è colpito, non ci restano che spazi piuttosto ludici. E nella logica del sistema che la decisione ultima non sia nelle mani della base, ma in mani irraggiungibili. La democrazia deperisce perché i suoi elementi formali diventano sempre meno credibili.

Noi, per poter vivere la nostra vita secondo ragione, dovremmo prendere le decisioni sulla base della conoscenza delle cose. L'informazione è diventato un elemento decisivo come mai lo era stato. Attualmente siamo informati coattivamente da centrali di informazione che sfuggono al nostro controllo. E allora il male peggiore, a mio giudizio, contro cui siamo chiamati a combattere è l'occultamento ideologico della verità delle cose. Viviamo all'interno di un gioco di occultamento, non solo istituzionalizzato per quanto riguarda la dichiarazione della guerra e i segreti atomici, ma concernente l'occultamento sullo stato delle cose. E questo è ciò che suscita in me più indignazione. Se provate a fare il bilancio delle informazioni televisive, noterete disparità incredibili. Pensate a quante ore sono state dedicate dalla nostra televisione al caso polacco, e poi confrontatele con quelle dedicate al caso Nicaragua, Salvador ecc.; vedete subito la disparità. Ma questo è nulla. In realtà noi siamo tenuti all'oscuro della condizione di pericolo in cui versiamo. Perciò dobbiamo veramente mobilitarci per smascherare questo meccanismo che è così potente ora con i mass media - dove le informazioni private, o controinformazioni sono cose visibili - che veramente si è portati a disperare. Il potere che decide le guerre è anche il potere che decide come informarci.

Esiste un'alternativa?

Potrei continuare nella mia analisi, ma questi tre aspetti mi sembrano sufficienti per farvi comprendere che non è più possibile continuare. Qual è l'alternativa? Noi dobbiamo passare a una cultura della pace.

Nel dire queste parole sento che rischio di divenire utopista. In fondo, chi come me è vissuto sempre predicando il Vangelo, contrae a livello umano un vizio inguaribile, quello di prendere per veri gli ideali; questo è il lato savonaroliano della mia anima e non me ne vergogno. Con i tempi che corrono, fra l'altro, avere questi spazi di respiro sul piano personale è una garanzia di salute. Ma non sono così ingenuo da credere che il discorso evangelico sia destinato a restare un discorso sulle ultime cose. Sono convinto che sia venuto il tempo, il Kairòs, il tempo opportuno, per scoprire un'antropologia profetica del Vangelo. E una risposta straordinaria alla congiuntura in cui siamo; ma il Vangelo lo pongo al termine della mia riflessione per rimanere in uno sviluppo laico dell'argomento, cioè affidato alla ragione. Parlo della ragione critica, che tende verso le ultime cose, che cerca le radici dell'esistenza, il suo significato ultimo, già di per sé profondamente evangelico. Siamo giunti al tempo in cui è possibile riscoprire questa simmetria tra l'uomo inerme e l'unico uomo possibile nel futuro.

Intanto per questa cultura della pace dobbiamo vincere uno dei dogmi che ci siamo portati dietro e che ritorna continuamente nella cultura che si amministra nei giornali, nelle scuole ecc., e cioè l'idea che l'uomo sia per sua natura aggressivo, un lupo per l'uomo. Questa idea ha fatto sempre il gioco dei fautori della guerra, che l'hanno definita inevitabile. Oggi non si può più parlare dell'uomo e della sua natura secondo una visione medioevale, che lo vedeva astrattamente, l'uomo è dentro la cultura in cui vive.

Ogni dogma sulla immutabilità dell'uomo va eliminato come residuo della cultura preistorica che ancora ci opprime. Ci sono virtualità che la storia vissuta fino ad oggi non ha espresso: la stessa concezione dello stato come un monopolio pubblico della violenza privata (quando si sostiene che lo stato può essere legittimamente violento quando vuole). Questa concezione è finita storicamente; noi entriamo in una età in cui dobbiamo sviluppare l'altro aspetto dell'uomo, profondamente radicato nella sua virtualità, cioè quello dell'uomo amico dell'uomo. Non è vero che san Francesco fosse una eccezione meravigliosa. Francesco d'Assisi viveva con la convinzione di essere una alternativa praticabile, e infatti lo era. Il Francesco che è in noi è l'altra faccia dell'uomo, è l'altra possibilità in cui siamo invitati a credere. Noi invece, finora, di gente seria in gente seria, siamo arrivati a estinguere in noi ciò che attendeva il sole della fiducia per fiorire. Noi vogliamo questa dignità evangelica e umana dell'uomo, che non fa suo vanto la «serietà» che comporta la sfiducia nel prossimo, ma fa suo principio la fiducia nell'uomo; questo è fondamentale. Io qui ricordo due maestri, Teilhard de Chardin e Jaspers, un credente e un laico, e ambedue han detto: non c'è possibilità per il futuro se non nasce una grande fiducia nell'uomo, la fiducia sia come individuo, sia come collettività o umanità in genere. L'umanità ha risorse straordinarie, è in grado di dare risposte impensate a congiunture impreviste. La storia del passato ce lo dimostra anche.

La fiducia di partenza

Noi sappiamo che nell'umanità esistono risorse, inventive eccezionali che possono far fronte alla nuova congiuntura. Questa è la fiducia di partenza. Naturalmente essa non può essere documentata. Nella fiducia c'è sempre un di più, che sovrasta i quozienti dei dati accettati e fa credito alla inventività interna dell'uomo non ancora manifestatasi. C'è un elemento in questa fiducia che è provocatore di valori.

Lo so che il discorso non piacerebbe alla Nato o al Patto di Varsavia, dove hanno la sicurezza assoluta di sapere cosa è l'uomo e se si guardano allo specchio ritrovano la riprova, ché in realtà questa sfiducia, questa paura della democrazia, si ritrova in tutti e due i settori, la democrazia non esiste né nell'Est né nell'Ovest, se noi guardiamo il mondo con l'occhio dei generali. Ma noi dobbiamo veramente mutare il cuore nostro e del prossimo attraverso questo contare sulla fiducia nell'uomo.

I luoghi della mutazione

Alcune indicazioni.

La mutazione non va pensata soltanto in rapporto al tema specifico della guerra che ci minaccia, va pensata - se è vera la mia analisi - in rapporto a tutti i luoghi della società dove si rompe il vecchio schema di violenza; la pace è uno stile di vita, è una cultura. Si dice cultura della pace come si dice cultura neolitica, cultura dell'età del ferro. Si allude cioè a un insieme di valori che si unificano e si esprimono nel rifiuto della violenza come strumento adatto a regolare i rapporti tra gli uomini.

Quali sono i luoghi di rottura della vecchia cultura della violenza? Non mi dispiace ripetere un principio già detto all'inizio: il fatto della crescita della dimensione planetaria. I giovani pensano sempre di più a dimensioni planetarie. L'internazionalismo, che nella storia della classe operaia è stata una grande pagina, ma che oggi la classe operaia non riesce più a portare avanti perché anch'essa erede della cultura borghese, è assunta dalle nuove generazioni in maniera più spontanea, e con l'idea che l'umanità sia un individuo solo, al quale manchi, per esserlo sul serio, soltanto una specie di unificazione della sua coscienza. Perché la coscienza del genere umano tende ormai alla unificazione, ma è come una coscienza ancora viziata da schizofrenia, da frantumazioni interne.

Noi dobbiamo abbandonare l'Eurocentrismo, la più grossa minaccia a questa unificazione del genere umano (noi siamo parte e vogliamo esser tutto). Noi abbiamo inibito le altre culture, le quali oggi si ribellano; noi siamo in una fase di colluttazione di universi culturali, i quali alludono alla loro unificazione, che rispetti la diversità, ma che allo stesso tempo gestisca in maniera concorde il destino non più divisibile. Questo è un processo importante a tutti i livelli.

La scuola, la guerra e la cultura della pace

Noi notiamo come la nostra scuola, così come è (senza far torto ai fermenti di novità, anzi è proprio a quelli che alludo come alternativa), è una cultura che ha trasmesso la mentalità di guerra.

La memoria storica che si è data alla nostra generazione è una memoria in cui la storia dell'umanità è fatta di paci e di guerre, dove però le paci erano soltanto intermezzi labili tra paci combattute. Dove l'immagine che l'uomo ha di se stesso è rimasta per sempre quella dell'uomo con la dava, le frecce, poi coi cannone, poi con la bomba atomica. Dove la storia del passato è quella che i vincitori hanno raccontato, schiacciando i vinti, dove la nostra memoria è già contaminata dalla ideologia della potenza. La scuola ha immesso questa cultura. Non solo, ma ha trasmesso una cultura che è stata sempre quella delle classi dominanti, con il disprezzo dei dialetti dell'uomo, (uso la parola dialetto come simbolo) dell'uomo che vive nella sua immediatezza, che crea la sua coscienza dall'universo della sua esperienza immediata. Questa cultura l'abbiamo schiacciata, per creare classi dirigenti, non per creare comunità umane.

Noi sentiamo oggi una profonda reazione a questa cultura della scuola. Essa non può cambiare per assestamenti di strutture e di gestione. Deve cambiare perché un nuovo contenuto deve pregnarla. E io oso dire che questo contenuto deve essere la cultura della pace, perché si fa pace quando si comincia a riconciliare il ragazzo col proprio mondo, a renderlo cosciente del proprio mondo. Per farvi un esempio, personale ma eloquentissimo, io, che ero figlio di minatori, sono stato in una scuola in cui tutti erano figli di minatori. Tutti i nostri genitori erano silicotici, tossivano in continuazione e non facevano altro che bere per attutire la silicosi. Bestemmiavano naturalmente, perché la bestemmia è liturgia della bettola, con la maledizione del prete che diceva che era peccato mortale ubriacarsi. Poveri uomini, i nostri padri, che ci hanno abituato a disprezzare perché erano ubriachi, bestemmiavano ed erano silicotici! Le miniere erano a duecento metri, i nostri padri si rovinavano, e a scuola le maestrine ci parlavano di Attilio Regolo e di Cartagine e di Roma, e non delle miniere. Era cultura di guerra quella, perché separava la coscienza dal reale, perché non diventava presa di coscienza dell'esperienza vissuta, ma estraneazione.

La cultura della pace è una cultura in cui la coscienza deve crescere a partire dall'esperienza. Una dimensione planetaria, si è detto, ma calata nel particolare. Questo cambiamento è fondamentale per una cultura di pace. Ed allora il discorso della cultura dominante e della cultura oppressa scompare, perché certamente la cultura borghese, che è anch'essa cultura dominante, ha valori immensi che non vanno sperperati, vanno anzi ereditati. Sempre però col presupposto che la cultura di potere deve essere orientata ad una crescita comune dell'uomo nella pluralità delle sue esperienze.

Nuovi rapporti conoscitivi

Terzo elemento: noi ci siamo accorti appena, a livello generale, che il nostro ambiente di esperienza collettiva è stato rovinato dalla cultura della violenza. Lo spazio fisico della natura è stato considerato come uno spazio di illimitate conquiste, come se la nostra figura del progresso avesse a sua disposizione, senza discussione, riserve di energia inesauribili. Questa cultura della violenza, che ha colpito oltre agli uomini le piante, i fiumi ecc., si rivolta contro di noi: abbiamo una natura che ci deperisce attorno. La catastrofe ecologica non è che un capitolo della cultura della guerra. Il rapporto conoscitivo prepara solo il momento dello sfruttamento. Il rapporto conoscitivo deve invece essere simbiosi, partecipazione. Questa passione ecologica su cui è facile sorridere, perché spesso prende forme ludiche, favorisce la necessità di un nuovo rapporto con la natura, di un nuovo postulato che è quello di pace, perché un capitolo fondamentale della società del futuro sarà quello di vedere se siamo maturi.

Ecco un altro capitolo importante di questa silloge della cultura della pace che è già cominciata, che attende solo di collegare le sue strategie, di trovare un momento unitario per combattere il pericolo della guerra atomica: è quella che ha condotto le nuove generazioni a percepire che il vero luogo della violenza a livello antropologico è il rapporto maschio femmina, la sessualità come luogo di violenza in cui sono stabiliti i rapporti di dipendenza (anzi voluti dalla natura, si diceva): è così che la natura ha fatto la donna, il maschio è per natura superiore alla femmina. Sono luoghi comuni, che appartengono alla cultura laica e a quella cattolica. Oggi si riscopre che nella sessualità, e nella famiglia in cui questi modelli si sono codificati, si ha la perpetuazione del virus della violenza. Il femminismo, inteso come lotta di emancipazione della donna, per il quale non abbiamo documenti nel passato, per il perseguimento di un soggetto storico che sia insieme un uomo e una donna, che stabilisca una soggettività creativa in cui l'elemento femminile e l'elemento maschile giochino in parità è tutto da inventare. La donna non deve essere la crocerossina del maschio guerriero, non deve entrare nell'esercito per arricchirlo di una nuova fisionomia.

I partiti

Noi dobbiamo godere di una nuova politica in cui i partiti si trasformino sino a diventare una espressione costantemente collegata a ciò che ferve nella base, a questa nuova volontà, che non è la cultura che sto descrivendo. Se alla fine non fanno questo, si isolano dal corpo sociale, non sono un vantaggio collettivo, ma il marasma, il caos. Si parla di una contestazione delle istituzioni, che non sia un giudizio globale della loro inefficienza, ma una rimessa in campo del loro rapporto organico tra ciò che ferve creativamente nel corpo sociale e le funzioni di potere che esse rappresentano: questa è una battaglia che si combatte sul terreno della pace.

Le chiese

L'ultimo punto riguarda le chiese. Anche a questo proposito devo dire con gioia che le chiese hanno subito un cambiamento che era follia sperare ai tempi della obiezione di coscienza. Era follia sperano, perché la «Pacem in Terris» di Papa Giovanni fu come qualcosa di inatteso, e capisco perché Papa Giovanni, secondo cronisti attendibilissimi perché vicini fisicamente a lui, quando la firmò senza averla fatta passare per il Santo Uffizio, uscendo dalla regola, disse: «Finalmente è fatta». E aveva senza dubbio compiuto un gesto rivoluzionario nella nostra storia cattolica, perché ha introdotto un discorso profondamente nuovo, la cui fecondità è ancora al di là da venire.

Il Concilio ha portato avanti parzialmente quel discorso. Ma poi è avvenuto un cambiamento profondo, non soltanto nelle strutture della chiesa cattolica, direi più ancora nelle chiese evangeliche. Le chiese evangeliche tedesche, per esempio (mi riferisco a quelle perché il loro governo è più significativo) durante il nazismo erano state succubi del Führer molto più della Chiesa Cattolica, salvo eccezioni come Bonhoeffer e altri. Ebbene, in questo ultimo periodo le chiese evangeliche si sono coinvolte nell'impegno per la pace, nella animazione delle manifestazioni pacifiste, mostrando una vivacità e una creatività inaspettate. Ma non solo. Tutte le chiese evangeliche che hanno fatto capo al Consiglio Ecumenico delle chiese, a partire dagli anni 60, hanno compiuto un processo di revisione della propria realtà storica, non si chiedono più se l'uomo si salva solo con la fede o anche con le opere, se la sola scrittura è la sorgente della fede. Questi problemi, pur importanti, sono ai margini. I problemi centrali sono quelli relativi al futuro dell'uomo, alla pace dell'uomo. Da Upsala, a Nairobi, agli ultimi incontri delle Chiese evangeliche, che, queste ultime si sono schierate sul tema della pace come tema qualificante della loro presenza nel mondo. Ed è ormai certo, a mio giudizio, che il modo in cui le Chiese potranno confessare il Cristo in maniera credibile è obbligo, e il tema della pace è la lotta per la pace.

Le chiese hanno a loro disposizione quel patrimonio profetico che per le condizioni storiche non è ancora potuto fiorire. Noi che studiamo il futuro dell'uomo su una specie di schema normativo, che è la storia della salvezza, sappiamo che le parole di Dio non subito fruttificano, è necessario che venga il Kairòs, la stagione storica in cui le condizioni di struttura necessaria danno alla parola seminata secoli prima la possibilità di fruttificare. Questa è una simmetria asimmetrica tra storia e Parola. Ora trovo nel Vangelo una antropologia di pace. Quando Gesù parlava, nel discorso della Montagna, non faceva della poesia, bella, da celebrare come una impossibilità, che tuttavia onora l'uomo l'averla sognata. No, Gesù ha proposto una alternativa all'uomo, che è sempre lì alle porte come un imperativo da realizzare. Allora l'uomo evangelico è l'uomo inerme, l'uomo che non risponde con la violenza alla violenza, è l'uomo che vince con la sua mitezza, che disarma l'avversario non tenendosi al suo livello, ma eludendolo e svegliando nell'avversario il volto che in lui stesso è stato mascherato e oscurato. Questa dinamica di nonviolenza è la possibilità che ci resta. Francesco e il lupo, questa leggenda aurea, è l'emblema di ciò che sto dicendo. L'alternativa della storia è l'uomo mite, che non significa uomo inerme, ma uomo che pone alla base della convivenza la collaborazione e non la competizione.

Le chiese hanno, per così dire, una cultura che ha due strati diversi: lo strato profondo, è quello del filo aureo dell'Evangelo, che le chiese evidentemente non hanno mai disdetto, anche se spesso lo hanno soffocato e perfino proibito. Oggi ormai la parola di Dio è consegnata al popolo, e questo fermento profetico comincia a fermentare nelle comunità cristiane. Hanno poi un'altra cultura, quella delle teologie codificate, ben pensate, che si preoccupano di dire oggi ciò che hanno detto ieri, e di non dire cose in contrasto con ciò che un papa ha potuto dire un secolo fa. Questa preoccupazione della continuità archivistica, della cultura che allarga il proprio codice senza smentire quello precedente, è una ripetizione all'infinito del già detto, mentre è necessaria una invenzione creativa. Le chiese sono a un bivio: o vogliono rispondere alla congiuntura nuova con la cultura codificata dai loro teologi, di ieri, ed esse non fanno che balbettare e restano nella comune confusione, o esse attingono alla parola profetica che hanno nella loro memoria, nella pratica pastorale, facendo credito totale a quella Parola, ed esse saranno la guida della mutazione antropologica di cui si è parlato.

La volontà profetica della chiesa di farsi carico della pace nel mondo, della «Pacem in Terris», la registriamo con istituzionale gioia poiché anche la chiesa istituzionale ha un grande debito contratto nel passato di fronte alla pace del futuro. Infatti troppe cose sono state permesse e benedette, ma quando vediamo i mutamenti ci rallegriamo, perché non desideriamo che Dio punisca i peccatori, visto che noi saremmo - ahimè! - nel rogo insieme agli altri. Noi vogliamo che Dio converta i cuori e renda le sue chiese capaci di assolvere il ruolo a cui la storia le ha destinate senza alternative.

E allora i segni ci sono e sono omogenei a quelli della metamorfosi culturale che rapidamente ho descritto. Non spero che i generali della Nato o i nostri ministri degli esteri diventino profeti, chiedo solo che agiscano con la saggezza di cui farebbe obbligo la loro causa, una prudenza di cui abbiamo già qualche segno. Ma la profezia non è sul tavolo di Ginevra. La profezia passa attraverso la volontà dei popoli. Allora sono convinto che stiamo vivendo questa mutazione. Tutti i nostri discorsi, non solo quelli di questo convegno, sono delle verità epocali, che acquistano il diritto di essere onnipresenti, perché sono quelle in cui si decide il destino dell'uomo. E molto importante non dimenticare che a dare la spinta alla mutazione è anche la certezza che essa non ha alternativa; o la nostra cultura diventa una cultura per la pace, o la terra diventa un cimitero per sempre. L'appello alla nostra volontà è ormai decisivo, estremo.

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Il messaggio della pace
nel Nuovo Testamento

di Ermino Pinciroli

Quando noi parliamo di pace, normalmente pensiamo all'assenza della guerra. Non era così per gli antichi israeliti: quando essi parlavano di pace, quando pregavano, per l'avvento della pace, pensavano a qualche cosa di molto grande, alla somma di tutti i beni: giustizia, armonia, totalità, successo, buona salute, riconciliazione, abbondanza di raccolto, incolumità. Non vogliamo essere come quei falsi profeti dell'Antico Testamento, che predicando la pace dicevano: «Pace, pace», intendendo dire: «Tutto va bene»; mentre niente, o quasi, andava bene. Se noi parliamo di pace non è per chiudere gli occhi sulla realtà storica e porci per qualche momento in un mondo irreale. Se parliamo di pace è perché vogliamo scoprirne le radici profonde; vogliamo farci stimolare da un impegno, che è di tutti; vogliamo porci nel filone di quegli uomini che, a incominciare dai profeti dell'Antico Testamento, fino al Cristo, fino ai profeti di oggi, (per esempio Oscar Romero) hanno saputo mantenere viva, con la loro vita, la speranza in un mondo più giusto.

Anche da un ambiente, sconvolto dalla violenza, può venire un messaggio di pace. Israele è vissuto sempre in balia delle superpotenze del suo tempo; è vissuto in un mondo fatto di invasioni, guerre, deportazioni; eppure è stato capace di trasmetterci un messaggio di pace ricco e profondo. Il tema della pace prima di essere un tema di ordine etico, che riguarda le nostre scelte di vita, è un tema di ordine relativo: cioè ci rivela il volto di Dio, l'identità di Cristo, della Chiesa, che sarà vera nella misura in cui saprà proporre e costruire la pace all'interno di se stessa e fra le nazioni.

Proponiamo alla lettura tre testi: Matteo 5,1-12; 26,47-52; Giovanni 20, 19-27.

Matteo 5, 1-12

Gesù inizia il suo ministero annunciando il Regno (Mt. 4,23); proclama le Beatitudini per dire che il Regno è presente e per far conoscere le esigenze del Regno.

(v. 5) «Beati i miti, perché erediteranno la terra». Makàrioi = felici, fortunati, perché avete i requisiti per far parte del Regno, perché siete preparati a ricevere le benedizioni del Regno. Oi praei's miti, non violenti: in questa parola si sente subito in primo piano il rapporto con il prossimo; si tratta di coloro che realizzano rapporti sociali sulla base della non violenza. Matteo che ha riportato questa Beatitudine, ha voluto presentare in Gesù un modello di uomo mite, non violento, e lo ha fatto, lasciandoci particolarmente due testimonianze: «Prendete il mio giogo sopra di voi e diventate miei discepoli perché io sono mite (praùs) ed umile di cuore (tapeinòs tè kardìa)». (Mt. 11,28-30). Si sente che la non violenza e l'umiltà sono abbinate.

L'altro testo riguarda l'episodio dell'ingresso di Cristo in Gerusalemme (Mt. 21,1-11). Lo stesso episodio era stato prima descritto da Marco (Mc. 11, 1-11); ma mentre Marco pone l'accento sulla acclamazione messianica, Matteo pone l'accento sul fatto che Gesù realizza finalmente l'ideale del Messia disarmato (cfr. Is. cc. 2-9-11), ma soprattutto realizza l'ideale del re che viene con intenzioni di pace, previsto da Zaccaria (9,9-10). Matteo, nel citare Zaccaria, tralascia due appellativi (giusto, vittorioso), ma non tralascia il terzo appellativo, mite, non violento (praùs). «Perché erediteranno la terra». Si noti qui il passivo divino, che è uno dei modi preferiti di dire di Gesù. Erediteranno la terra da parte di Dio; questo è il significato. La terra non in senso storico, ma in senso escatologico.

(v. 9) «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati Figli di Dio». Oi eirenopoioì si tratta di coloro che fanno la pace. Non sono quindi «pacifici», perché la parola pacifico travisa il significato del termine greco, mettendoci davanti coloro che sono tranquilli, cioè che non vogliono compromettersi con la storia. Qui si tratta di operatori di pace: il riferimento immediato in Matteo, è ai rapporti ecclesiali della sua comunità, perché dietro la sua Chiesa c'erano offese gravi, divisioni, ritardate riconciliazioni; ma l'espressione assume un significato per noi molto esteso; quindi gli operatori di pace sono: coloro che compiono gesti di riconciliazione; coloro che edificano la pace all'interno della Chiesa, fra le varie Chiese (Ecumenismo); coloro che ricuciono fili spezzati, rapporti infranti, in famiglia, nel proprio quartiere...; coloro che costruiscono la pace fra le nazioni. Tutti questi saranno chiamati figli di Dio. Si faccia attenzione a questo ebraismo: il quale vuol significare che entreranno a far parte della famiglia di Dio.

Il miglior commento a queste due beatitudini viene dato da Matteo stesso, nel seguito del capitolo quindi del suo Vangelo:

(vv. 21,22) Si esorta ad evitare la violenza fatta con le parole, con l'insulto.

(vv. 23-24) E’ un'altra indicazione per chi vuol essere costruttore di pace dentro la comunità: Matteo vuol dirci che non ha senso spezzare il pane eucaristico, segno di riconciliazione, di unità, se restiamo divisi.

(vv. 38-41) E’ la legge del taglione, che si trova nel libro Esodo (21, 24-25); una legge progressista con la quale Mosè intese superare la logica di Lamech, uno dei discendenti di Caino (Gn. 4,23-24). Quando Mosè propose la legge del taglione, fece fare ad Israele un notevole superamento, dando una legge sacra, capace di arginare la vendetta, era una legge necessaria perché le tribù non si eliminassero a vicenda. Ma Cristo vi recò un superamento impensabile (Mt. 5,38-39), che arriva poi ad un atteggiamento che sconcerta (Mt. 18,21-22). Ci troviamo di fronte ad un cammino: dal1a violenza più spregiudicata (Gn. 4,23-24), a una violenza più contenuta (Es. 21,24), alla totale non violenza proposta da Gesù (Mt. 5,38-39) fino alla misericordia senza limiti (Mt. 18,21-22).

(vv. 43-44) A coloro che entravano a far parte della comunità ecclesiale, Matteo chiedeva la disponibilità a perdonare e ad amare il nemico (i Romani, la sinagoga...).

Matteo 26, 47-52

Tutti e quattro gli evangelisti riportano questo episodio: quindi nella Chiesa delle origini è preso in particolare considerazione. «Uno di quelli che erano con Gesù, messa mano alla spada...». Si tratta di Pietro (cfr. Gv. 18, 10). L'episodio ci dice che è ancora presente nella comunità di Gesù la tentazione della violenza, la tentazione zelota. Al tempo di Matteo gli zeloti erano forti e battaglieri: nel 69 d.C., sono entrati in Gerusalemme ed hanno creato una nuova gerarchia; dopo pochi mesi sono arrivati i Romani e li hanno uccisi nel tempio dove si erano rinchiusi. La tentazione della violenza riemerge nel gruppo di Gesù come nella comunità ecclesiale di Matteo. «Rimetti la spada nel fodero»: Gesù respinge decisamente la tentazione della violenza. Gli zeloti volevano instaurare il regno di Israele, ricorrendo alla violenza e sono falliti.

Gesù ha accettato la momentanea sconfitta, ed ha instaurato il regno con la non violenza: Egli è più che un rivoluzionario non violento; Egli è un profeta e sa vedere con lucidità e chiarezza dentro il groviglio della storia, sa vedere a distanza, superando l'urgenza di certe contingenze storiche. Soprattutto è un uomo, che ha fatto capire che non basta il cambiamento delle strutture politiche o religiose per ottenere la giustizia e la pace; è pure necessaria la conversione del cuore, perché è dal cuore che provengono gli atti di violenza: «i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti» (Mt. 15,19). Gesù ha saputo fare una profonda diagnosi della storia, perché ha saputo fare una profonda diagnosi dell'uomo.

Giovanni 20, 19-27

Cristo mantiene la promessa, che aveva fatto qualche giorno prima: nei discorsi di addio aveva detto «Vi lascio la pace, vi dò la mia pace. Non come ve la dà il mondo, io la dò a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate più timore» (Gv. 14,25-27). La pace qui appare come sicurezza di essere amati da Dio e di essere nelle sue mani. Apparendo ai suoi discepoli, dice loro: «Pace a voi». Non si tratta di un semplice saluto, o augurio; ma di una vera comunicazione della pace. Ora che Gesù è morto ed è risorto, ora che tutto è compiuto, Gesù può fare il dono della pace, sintesi di tutti i beni promessi da Dio, per i tempi messianici. Comunica la pace mostrando le ferite: probabilmente per accantonare delle incertezze e mettere in evidenza che il Cristo della Resurrezione è il medesimo Cristo della Passione (anche se in Giovanni non c'è il problema: «t Lui o è un fantasma?», come è e invece in Luca 22).

A mio avviso, si tratta di un gesto da ricollegare con il tema della fede (cfr. Gv. 20,27). Le piaghe, allora, diventano un segno di credibilità, come un segno fu il lenzuolo, lasciato nel sepolcro, in quella determinata posizione: cioè non piegato, come potremmo pensare noi, ma disteso, però afflosciato perché il corpo di Gesù non era più presente. Ma noi possiamo pensare anche a un altro significato: Gesù ha comunicato la pace ai suoi discepoli, mostrando le ferite, per dire che la pace è un dono insanguinato; frutto non di una vita tranquilla, ma di un martirio; un dono che passa attraverso la passione. Questo si capisce meglio se, abbandonando il contesto di Giovanni, si legge Luca 12,50-53: Gesù è consapevole di dover ricevere un battesimo di sangue e di essere segno di contraddizione. Egli è un uomo di pace, ma non di una pace che provoca conflitti e contrasti tra le persone più intime.

Conclusioni

Abbiamo preso in considerazione tre testi, premettendo che il tema della pace è anzitutto un tema di ordine rivelativo. Che tipo di Cristo si rivela in questi testi? Pietro, nel suo discorso a Cornelio, presenta Gesù come «annunciatore di pace» (Atti 10,36). Nella lettera agli Efesini (2,15), Paolo definisce Gesù come «colui che opera la pace»: quale dovrà dunque essere l'identità del cristiano e della Chiesa?

Essere operatori di pace non significa andar d'accordo con tutti. Gesù non è riuscito ad andare d'accordo con tutti. Egli nel Vangelo non si presenta come colui che cammina nel mezzo, dando ragione a quelli di destra e a quelli di sinistra; egli ha fatto una scelta, la scelta preferenziale dei poveri, dei deboli, degli emarginati. Correremmo il rischio di diventare operatori non di pace, ma di un facile pacifismo, se avessimo la pretesa di andare d'accordo con tutti.

Alla pace appartiene certamente l'ordine psico-fisico dell'individuo: fare la pace, prima di essere un problema sociale, rimane un problema personale: si tratta cioè di costruire la pace nel profondo di noi stessi, riconciliando lo Spirito con il corpo, i nostri ideali interni con il nostro comportamento esterno, superando la dissociazione che alle volte creiamo all'interno di noi stessi e della nostra esistenza.

Al problema della pace appartiene la sfera della natura; il problema ecologico, il problema della difesa dell'aria, dell'acqua, della vita che il Creatore ha diffuso nell'Universo...

Nel valore della pace rientra la sfera socio-politica: dire pace è dire giustizia, lotta all'oppressione ed a varie forme di sfruttamento, protezione dei deboli, degli emarginati, degli anziani, promozione dei diritti umani di tutti gli uomini, ricupero della complementarietà tra uomo e donna.

La pace è la prima ed ultima parola della storia: essa riemerge, sempre a livello biblico, dall'armonia esistente nel Paradiso Terrestre (Gn. 2) e dalla visione della Apocalisse (c. 4) dove si contempla il trono di Dio avvolto dall'arcobaleno, simbolo della signoria di Dio sulla storia e della pace finale.

La pace è la prima ed ultima parola della storia: essa si colloca nel nostro oggi come impegno; sta davanti a noi come speranza.

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Spiritualità per un lavoro di pace

di Richard Friedli




Il discorso sulla Spiritualità della Pace è piuttosto insolito quando si parla di ricerca di pace? Di solito in questa ricerca sono presenti tutte le discipline scientifiche, ma non la teologia o la scienza religiosa. Sono considerate solitamente la sociologia, l'economia, la storia, la scienza militare, la biologia persino (per il problema del razzismo), la geografia e la demografia, ma non la teologia. Anche i temi studiati sono numerosi: teorie dei conflitti, disarmo controllato, diplomazia, le forze di sicurezza dell'O.N.U., l'antisemitismo, ecc., ma non si ricorre mai alla spiritualità come ad un fattore positivo di ricerca per questi problemi. Anzi si parla spesso delle religioni come fattori di disunione, di intolleranza, di proselitismo, di propaganda. E noi invece vogliamo essere con la spiritualità uno dei fattori positivi nella ricerca della pace.

La mia riflessione si articolerà in quattro parti: la missione della chiesa, lo shalom, la strategia per arrivare allo shalom, la meditazione.

La missione della Chiesa

Occorre approfondire questo termine per intenderci. Nel vocabolario spirituale e teologico questo termine è comparso molto tardi, solo nel XVI-XVII sec., al momento della colonizzazione, quando l'evangelizzazione ha accompagnato l'esportazione della civiltà occidentale. Queste spedizioni verso altri continenti, soprattutto verso l'America Latina, ad opera delle comunità carmelitane e gesuitiche della Spagna si sono iniziate a chiamare «missioni». Prima questo termine era utilizzato nella Scolastica quando si trattava di cercare di formulare ciò che noi vedremo nella meditazione e nella preghiera come «Mistero di Dio»; quando si è cercato di afferrare la pienezza, la densità del mistero divino si è cercato di farlo ricorrendo al vocabolario trinitario, Padre, Figlio e Spirito, e quando i teologi cercavano di parlarne, di tradurre questo vocabolario biblico, si è parlato di missionari. Giovanni ci parla della Missione di Cristo: «come il Padre mi ha mandato, così io mando voi». «Come il Padre mi ha amato, così io amo voi. Siate perfetti come il Padre è perfetto». Sempre nel Vangelo di Giovanni c'è questo equilibrio. Gesù stesso ha presentato la sua missione durante la sua prima manifestazione in pubblico, secondo Luca nella sinagoga di Cafarnao, a partire dal testo di Isaia: «Lo spirito di Dio è su di me perché mi ha consacrato con l'unzione, egli mi ha inviato (ecco la missione) per proclamare un anno di grazia del Signore».

Ciò che mi sembra importante è che quando Gesù descrive la sua missione non si riferisce a delle realtà religiose, ma a delle realtà profane, si riferisce ai poveri che devono ricevere il messaggio, cioè alla dimensione economica del mondo, perché presso Giovanni e Luca la povertà non è un termine soprattutto spirituale, è un termine economico molto concreto. Quando Gesù parla della liberazione dei prigionieri si riferisce ad una realtà politica, quando parla dei ciechi che devono riacquistare la vista, si riferisce ad una realtà somatica e parla anche della dimensione teologica, religiosa teologale quando parla di questo giorno del Signore. Dunque quando Gesù definisce la sua missione lo fa in contrasto con una realtà, e gli parla dell'assenza di vita piena nella dimensione economica, politica, psicologica e corporale, e annuncia la salvezza.

Lo 'shalom' dono e impegno

Il senso della sua missione è di inserire nel mondo lo shalom, a tutti i livelli, di far sì che lo shalom si ingrandisca in tutte queste dimensioni. Questa deve essere anche la missione della chiesa, la quale deve adoprarsi, ricorrendo a tutto ciò che le scienze umane possono darci, per evolvere le situazioni reali verso ciò che essa vede come vita pienamente sviluppata, come shalom. La chiesa si trova così in una situazione eccentrica.

Il centro della chiesa è il Mistero di Dio, approfondito come condivisione del suo amore per uomini, ma anche teso verso la situazione del mondo, dove lo shalom non è ancora arrivato. Il suo centro è o in Dio o nel mondo. Non può organizzarsi come se essa stessa fosse il centro; essa deve ingrandire lo shalom. Lo shalom è un'esperienza contrastata e contrastante, non ha un contenuto reale, è una speranza (qui interviene la dimensione profetica, escazologica). Questo termine capta ciò che noi speriamo si realizzi in questa dimensione economica, politica, psicologica e somatica; nella sua etimologia vuol dire «essere in pienezza», perciò non è un termine che entri immediatamente in contrasto con la guerra, non va riferito immediatamente a due grupPi opposti. Nella tradizione biblica shalom è anzitutto riferito a una comunità unica che si è divisa e quando questa comunità ritrova l'armonia, ecco lo shalom ingrandisce. La tematica della guerra come opposta a shalom è assai poco presente nell'Antico Testamento. L'opposto di shalom è l'assenza totale di vita piena, è l'angoscia, la paura, l'ingiustizia, la mancanza di libertà.

Tra queste assenze di shalom vi è pure la guerra, ma come una cosa fra tutte quelle che minacciano la comunità. Questo termine, shalom, dunque è molto più ricco di significati che non come opposto di guerra. Per es. vi è shalom quando dopo una lunga siccità arriva la pioggia, quando gli emarginati (che nell'A.T. sono l'orfano, la vedova e lo straniero) possono contare su un giusto diritto, quando in un gruppo diviso si ritrova la fiducia reciproca.

L'opposto a shalom non è guerra ma violenza. Spesso si discute su che cosa si intende per pace. Io intendo un processo, un'evoluzione, uno sviluppo che avviene all'interno dei gruppi, dalle famiglie fino ai problemi internazionali, ovunque e è ricorso o minaccia di ricorso alla violenza. Violenza è qualsiasi influenza che fa sì che lo sviluppo sociale, politico, psicologico, ecc. sia inferiore a quello che sarebbe possibile. Se una persona o una comunità possono svilupparsi di meno di quanto sarebbe possibile, allora vi è violenza. Facciamo un esempio: un'epidemia o una carestia che nel XVII sec. abbia provocato migliaia di morti non può essere considerata violenza, perché a quell'epoca mancavano i mezzi di informazione e di trasporto che avrebbero permesso di intervenire. Oggi invece situazioni simili sono violente, perché è possibile attualmente sia per i mezzi d'informazione che di trasporto conoscere le situazioni e garantire a tutti gli esseri un pieno sviluppo. Dunque oggi dobbiamo parlare di situazioni di violenza o, come dice spesso il Papa in riferimento all'America Latina, di strutture di peccato.

C'è dunque un legame anche di vocabolario tra la ricerca della pace e la analisi teologica del peccato; il problema della violenza non è solo un problema di persone ma è sovente un problema di strutture che impediscono lo sviluppo. Lo shalom non è soltanto la pace dell'anima e quindi se vogliamo realizzarlo non possiamo farlo unicamente con la liturgia, con invocazioni, con la penitenza, ma dobbiamo intervenire per abbattere le strutture che impediscono lo shalom.

Le strategie per costruire lo shalom

Noi dobbiamo lavorare a diminuire tutte le situazioni di aggressività e di conflitto. Ma a questo proposito voglio considerare i risultati di un'inchiesta molto significativa, che è stata fatta in Canadà, in U.S.A. e in Germania tra gli anni '60 e '70. Le domande erano di questo tipo: Siete a favore del disarmo? Cosa pensate della pena di morte? Siete disposti a contribuire alla guerra in Vietnam? Accettereste un'imposta come cittadino del mondo? Ritenete il patriottismo come la più grande virtù? L'appartenere all'estrema destra o alla estrema sinistra sono per voi elementi di divisione? Parallelamente si è chiesto a queste persone di fare un'autovalutazione su una scala che aveva come gradi: molto religioso, praticante, poco praticante, fino ad ateo e agnostico, con una dozzina di possibilità. Poi si sono confrontate le risposte. Ebbene, i risultati mostrano una contraddizione flagrante con il messaggio d'amore e di pace del cristianesimo: i cristiani sono più favorevoli alla guerra dei non cristiani, i cristiani che si dichiarano molto fedeli alla loro religione sono molto più pronti a punire che non coloro che si dichiarano poco attaccati alla dottrina; i cattolici si augurano le armi più dei protestanti ed i protestanti più degli atei. In tutti i gruppi analizzati i praticanti hanno dimostrato una tendenza nettamente più forte ad accettare la potenza militare come mezzo di risoluzione dei conflitti che i non praticanti. Coloro che professano una visione religiosa del mondo sono meno interessati a una comunità mondiale che coloro che si dichiarano poco religiosi.

Dunque noi dobbiamo lavorare prima di proclamare delle strategie positive per la pace, per diminuire nella nostra stessa comunità tutto questo legame di aggressività e di severità a partire dalla famiglia fino ai problemi internazionali.

In un modo più positivo, facciamo ora un'analisi della prima comunità cristiana, di come essa ha risolto i conflitti presenti al suo interno. Il conflitto non è qualcosa di non cristiano; la maniera di risolverli è più o meno nel dinamismo del Vangelo. Ecco un commento alla prima lettera ai Corinti in cui si vede come Paolo abbia accettato e risolto i conflitti di questa grossa comunità. Nella comunità di Corinto esistevano tre strati, sotto il profilo sociologico. Un primo gruppo era di cittadini liberi, colonizzatori romani, dunque dominatori. Conosciamo molte di queste persone: Tito Giusto, presso il quale Paolo ha abitato, Caio, Crispo, che presiedeva la sinagoga, Erasto, che è nella lista dei saluti, e che è presentato come l'economo della città (oggi potremo dire che era il direttore delle costruzioni della città). Erano dunque persone molto importanti e ricche che offrivano la loro casa per accogliere tutti i cristiani e celebrare l'eucarestia. Il secondo gruppo era costituito dagli schiavi, in genere prigionieri, stranieri. Ciò che è molto interessante è che pare sia stata una donna ad organizzare questi schiavi, CIoè. E lei che informa Paolo che ci sono dei conflitti tra di loro. Il terzo gruppo è ancora di schiavi, ma schiavi istruiti, che lavorano come segretari, burocrati ecc. e collaboravano dunque nelle strutture della città.

In questo contesto si sono sviluppati quattro tipi di conflitti: primo, un conflitto politico, tra cittadini liberi e schiavi ed è interessante vedere come Paolo si comporta a questo proposito, perché lui scrive sempre in una posizione eccentrica della chiesa, tenendo il mondo all'ordine del giorno. In quella situazione particolare c'era un problema di orari, da questa questione pratica parte poi l'insegnamento di Paolo circa l'eucaristia. Infatti i liberi smettevano prima il loro lavoro e cominciavano a bere e a mangiare; quando arrivavano gli schiavi, più tardi, perché il loro lavoro durava di più, dicevano che non c'era più nulla da mangiare e da bere. Ora Paolo dimostra che questa situazione distrugge il senso stesso dell'eucarestia, perché anche se la sua celebrazione è ortodossa, come svolgimento diventa eretica, perché segno di divisione anziché d'amore e di riconciliazione.

Il secondo conflitto a livello sociale è quello a proposito del ruolo dell'uomo e della donna nella chiesa. Le donne insistevano dicendo che se nella vita pubblica ci sono dei ruoli differenti, delle distribuzioni diverse di lavoro tra uomo e donna, nella comunità questa divisione non deve più esistere, a causa della liberazione che Cristo ha portato. In parecchi testi Paolo dice: tra di voi non ci sono più dei maestri e degli schiavi, non vi sono più uomini e donne, a causa della croce che Gesù ha gettato sull'abisso che divideva la gente.

Il terzo conflitto è un conflitto culturale tra i cittadini liberi e gli schiavi analfabeti dall'altra. Ciò si manifestava in occasione dello sviluppo della liturgia, perché gli analfabeti hanno tutto un modo particolare di esprimere i loro sentimenti diverso da chi è legato da una cultura libresca. Ed è proprio tra i non colti che nascono le manifestazioni carismatiche, i trance, i trasporti, la glossolalia, tutte le manifestazioni diverse da quelle di chi ha una formazione intellettuale formata sui libri. ~ un problema culturale che è ancora il nostro.

Il quarto conflitto era teologico e nasceva dalla questione della carne sacrificata agli idoli (1Cor 8). La carne che veniva offerta dai pagani nei templi veniva poi venduta nelle adiacenze dei templi a prezzo meno caro che l'altra carne in città. Allora alcuni cristiani dicevano: Perché non comprarla, dato che costa meno? Noi sappiamo che il solo liberatore è Cristo, gli dei non esistono e questa carne è come le altre, non dobbiamo temere la sua magia. Altri cristiani dicevano: No, non possiamo comprarla perché questa carne è in rapporto con forze demoniache e pagane. Qui Paolo fa intervenire il principio che «aver ragione non è un criterio». Egli dice: anche se teologicamente ho ragione, poiché Cristo è il solo salvatore, se il mio comportamento diviene pietra d'inciampo, scandalo per qualcuno, allora io rinuncio ad avere ragione per non farne un problema per questo fratello o sorella per cui Cristo è morto.

In questo contesto egli ha introdotto, nel cap. 12, il modello del corpo di Cristo, che non è il corpo mistico di Cristo, ma ha un profilo sociologico molto preciso; a Corinto sono questi tre gruppi ed egli cerca di dire che il criterio è quello di costruire questo corpo, ossia di formare una comunità che è in definitiva una comunità di comunità, che deve essere una comunità cristiana eucaristica e credibile. Il criterio è perciò costruttivo. Bisognerebbe far intervenire tutte le nostre tecniche per disinnescare i pregiudizi, le situazioni di classe, le tensioni e qui devono intervenire la antropologia, la sociologia, la psicologia. Ma noi abbiamo la prospettiva, la linea di come lavorare. Quando vi sono delle situazioni in cui, in queste situazioni conflittuali, la speranza già progredisce, noi dobbiamo riconoscerlo e proclamarlo. La dimensione profetica non è solo il denunciare i conflitti, ma far vedere ciò che già progredisce nelle nostre comunità in modo positivo e proclamano. Avete già sentito parlare dell'iniziativa che la Conferenza delle Religioni per la pace ha lanciato verso l'Europa e che è giustamente un tentativo di rafforzare ciò che nei conflitti progredisce positivamente in Europa, così come Amnesty International tutta presa dei diritti dell'uomo denuncia negativamente e parallelamente ciò che contrasta lo shalom.

La meditazione strumento di pace

La meditazione è il quarto punto di riflessione. Oltre alle tecniche che possono diminuire i conflitti e le paure, un altro contributo ci può venire dalla meditazione. Sempre nella 1 Co. 13, Paolo in questa serie di conflitti fa appello al principio di carità, ma io desidero utilizzare qui il termine greco di agape nel suo significato preciso. In ebraico esiste un solo termine per designare l'amore, l'amicizia, il superamento dell'egoismo, in greco invece esistono tre parole, tra cui potevano scegliere gli evangelisti: eros, filia, agape. Il termine eros esprime tutta la dimensione che cerca la soddisfazione personale emotiva e affettuosa del mio corpo e della mia psiche, per mezzo di un partner. Nel N. T. non esiste questo termine eros. La filia indica la simpatia spontanea verso un'altra persona. Questo termine compare spesso nel N.T.: Gesù aveva molti amici e amiche, Marta, Maria, Lazzaro, Giovanni, Pietro. Il termine agape viene usato per indicare l'amore verso il nemico, una relazione di apertura e di responsabilità con l'altro, anche se io non lo posso sopportare, se è socialmente il mio avversario.

Noi dobbiamo trovare una tecnica per sorpassare la dimensione erotica e quella della simpatia e arrivare, in una situazione conflittuale, al livello in cui io posso di nuovo rinnovare i rapporti positivi con qualcuno. Se io sono una persona o un gruppo in una situazione conflittuale con un'altra persona o gruppo e se vogliamo condurre questa lotta in un modo leale, rifiutando il ruolo che egli gioca, allora la meditazione potrebbe essere una tecnica che mi farà arrivare a questo livello dell'agape dove i due si sperimentano come l'amata per Dio, anche se a livello psicologico o sociologico essi sono nemici, dove io arrivo a percepire la profondità della presenza di Dio nel nemico e in me. A partire da questa esperienza io potrò lavorare di nuovo a livello dei conflitti, non per negare i conflitti o rifiutarli semplicemente, dicendo: siamo sempre degli amici, ma lottando ancora.

Voglio rapidamente accennare a due teorie sull'aggressività. Una prima stabilisce il meccanismo che assimila l'aggressività a partire dall'insieme dei bisogni affettivi, sociali, fisici, che a causa di un'influenza diretta o di una struttura violenta non possono ricevere una risposta. Si può parlare allora di una frustrazione che diventerà aggressività contro se stessi (droga, alcool, suicidio) o aggressività verso altri. In una tale teoria, se io arrivo a diminuire la frustrazione diminuisco il rischio dell'aggressività e la meditazione sarebbe, appunto, un mezzo per diminuire i miei bisogni affettivi, fisici, corporali, psicologici; io divento più maturo e non ho il bisogno del conforto altrui. Ecco qui tutte le tecniche del digiuno, dell'ascesi, del pellegrinaggio, delle veglie, ecc.

La seconda teoria (nella linea di Freud e di Fromm) intende l'aggressività come una delle forze istintive, scritte al fondo di tutti i dinamismi. Se è così, io posso lavorare per non essere abbandonato passivamente a tutte le spinte dell'istinto; la meditazione mi permette di inserire una distanza tra questa spinta all'aggressività e l'atto aggressivo che io eseguo. La meditazione mi renderà lucido su ciò che mi capita e allora io posso diminuire questa tendenza verso l'aggressività. S. Paolo nella lettera ai Romani parla della dialettica fra ciò che voglio fare e ciò che non faccio, fra ciò che non voglio fare e ciò che faccio lo stesso. Le tecniche dello Yoga e dello Zen sono delle tecniche che giustamente vogliono avere una presa su queste possibilità intellettuali che sfuggono al nostro controllo e mi alienano. La meditazione ci aiuterà in questo.

Pubblicato in Dossier Pace
La pace fugge dal campo dei vincitori

di Raimon Panikkar




Intervista al filosofo,
chimico, teologo, figlio di madre spagnola e padre indiano. E' un misto
di varie culture e spiritualità. Una figura
agile ed elegante; il corpo lungo e sottile avvolto in una tunica
bianca. Il suo volto è abbronzato, ricco di un sorriso aperto e
immediatamente comunicativo.


Può darci una definizione di pace e guerra oggi?
“La nostra cultura tecnocratica, che attraverso il culto
dell’accelerazione ha trasgredito i ritmi naturali della natura e della
mente, ha prodotto una società che, oltre a non avere la pace, ne rende
difficile e urgente la realizzazione ai nostri giorni. Ciò non
significa che i tempi passati non avessero i loro problemi, dai quali
possiamo anche trarre lezione. Pace non vuole dire mantenere uno status
quo rivelatosi ingiusto. Non sto proponendo la guerra contro, ma
l’emancipazione dallo status quo e la sua trasformazione in un fluxus
quo, un muoversi verso un’armonia cosmica sempre nuova. Troppo spesso i
discorsi sulla pace tendono a diventare sogni idilliaci di un paradiso
ideale”.

I diversi nomi della pace
Lei parla di pace esterna e di pace interna e che è impossibile vivere senza entrambe. Può spiegarci il suo pensiero?
“È sconvolgente e pericoloso vivere in situazioni di guerra o di
conflitto di qualsiasi tipo. Il mondo è pieno di ingiustizie
istituzionalizzate e non, che distruggono la pace.
Dall’ultimo
conflitto mondiale, più di mille persone al giorno cadono vittime della
guerra, milioni sono i profughi nel mondo, i bambini che vivono
abbandonati sulla strada e la gente che muore di fame. Non dovremmo
minimizzare il dolore umano, ma se vi è pace interiore esiste ancora
qualche possibilità di sopravvivenza. Senza pace interiore la persona
si disgrega. Crimine, droga e molte altre piaghe individuali e sociali
derivano dalla mancanza di pace interiore. La pace è più che un’essenza
di conflitti armati. Se non c’è pace dentro di noi non vi può essere
nemmeno pace attorno a noi. La mancanza di pace interiore origina
competizioni che sfociano in sconfitte che innescano vendette di ogni
tipo dichiarate o meno. D’altra parte, non è possibile godere in
pienezza la pace interiore se il nostro ambiente umano ed ecologico
subisce violenza e ingiustizia. Viceversa, senza pace esteriore, la
pace interiore è solo apparente o superficiale o uno stato
esclusivamente psicologico di isolamento artificiale dal resto della
realtà”.

Lei afferma dunque che nessuna spiritualità autentica
può propugnare la fuga dal mondo reale e nessun saggio si può chiudere
nel proprio egoismo o nella proprio autosufficienza...

“Certo
occorre camminare nell’unità. La pace interiore produce la pace
esteriore e questa nutre la pace interiore. Analogamente, il disordine
interiore produce lotta esteriore e questa genera a sua volta la
degradazione interiore. La relazione è tuttavia sui generis. Non
abbiamo visto talvolta persone dotate di una misteriosa, affascinante
serenità in situazioni ingiuste e catastrofiche? Ma al contempo, non
siamo forse stati testimoni di depressioni inesplicabili in condizioni
di vita esternamente ottimali? Tutto l’universo è coinvolto nella
stessa avventura. La filosofia della vita intesa come “la sapienza
dell’amore” propria della vita stessa ci aiuta a superare la dicotomia
fra interiorità ed esteriorità e ci consente di godere della pace
interiore in mezzo a sofferenze esterne e di impegnarci ad alleviare le
ingiustizie senza perdere la nostra gioia interiore”.

La pace un dono, non una conquista
Lei dunque è favorevole alla lotta per la pace...
“Non si combatte per la pace; si combatte per i propri diritti o,
eventualmente, per la giustizia, ma mai per la pace. È una
contraddizione. I regimi che vengono imposti non rappresentano la pace
per chi li subisce, siano essi bambini, stranieri, poveri, famiglie o
nazioni. Noi accettiamo la pace come un dono, ma il dono della pace non
è un giocattolo. È una spinta, una aspirazione. La pace non è una
condizione pre-confezionata. Cristo voleva che noi ricevessimo la sua
pace, non voleva imporcela, né tantomeno voleva che noi la imponessimo
agli altri. La natura della pace è grazia, è dono. Noi scopriamo la
pace: è una scoperta, non una conquista. È frutto di una rivelazione:
possiamo sperimentarla come la rivelazione dell’amore, di Dio, della
bellezza della realtà, dell’esistenza della provvidenza, di un
significato nascosto, dell’armonia dell’essere o della bontà della
creazione, della speranza, della giustizia, o anche dell’amore puro di
chi ama…
La pace deve essere continuamente nutrita e persino
creata. Per raggiungerla non esiste ricetta né programma pre-costituito
possibile né tantomeno un ritorno allo stato primitivo, una volta che
l’innocenza è stata perduta. La pace la si ricrea ogni volta. È dono è
dovere”.

La vittoria non conduce alla pace
Nella sua relazione (...) lei ha affermato che la vittoria non conduce mai alla pace. Una provocazione?
"Ne sono testimoni gli ottomila e più trattati di pace (di cui siamo a
conoscenza) stipulati nel corso dei millenni della storia umana.
Nessuna vittoria ha mai portato una vera pace. Non si può ribattere
attribuendo la colpa di ciò alla natura umana, perché la maggior parte
delle guerre sono state fatte, e giustificate, come correzioni di
trattati di pace precedenti. Gli sconfitti, se non proprio i loro
figli, prima o poi emergeranno ed esigeranno ciò che era stato loro
negato. Nemmeno la repressione del male porterà a risultati permanenti.
La pace fugge dal campo dei vincitori, direi parafrasando Simone Weil.
La pace non è il ripristino di un ordine sovvertito: è costantemente un
nuovo ordine. È un fatto storico che la vittoria conduce alla vittoria,
non alla pace. Conosciamo bene gli effetti collaterali deleteri di
“vittorie” prolungate. Nonostante tutte le nostre distinzioni, la
vittoria è sempre quella di un popolo su un altro popolo o di una
persona su un’altra persona, e un popolo o un essere umano non è mai un
malvagio assoluto. A livello teorico non si può quindi dire che la
vittoria sia stata riportata sulle forze del male o gli errori o le
aberrazioni. Forse vorremmo solo distruggere il male, ma eliminiamo il
malfattore, vorremmo punire il crimine, ma puniamo il criminale”.

Disarmo militare e disarmo culturale

La guerra oggi la si combatte prima sui media poi sui campi di battaglia.

“Certo, dobbiamo disarmare le nostre rispettive culture insieme con (e
a volte anche prima) l’eliminazione delle armi. Le nostre culture sono
spesso bellicose, trattano gli altri come nemici, come barbari,
selvaggi, primitivi, pagani, non credenti, intolleranti e così via.
Inoltre in molte culture la ragione stessa è usata come arma: per
vincere e convincere.v Disarmo culturale non è solo una frase ad
effetto, ma, nella nostra attuale situazione, un requisito
indispensabile per garantire la pace e giungere a un disarmo duraturo.
Dobbiamo dire innanzitutto che non è puro caso se la civiltà
occidentale ha sviluppato oggi un arsenale di armi così terribile sia
per qualità che per quantità. È un qualcosa che inerente a questa
cultura che ha portato a una simile situazione: competitività, ricerca
di soluzioni “migliori” che non tengono conto della possibilità di
affrontare le cause e risolvere il problema alla base, e tutto ciò a
discapito delle arti, dei mestieri, della soggettività, noncuranza del
mondo dei sentimenti, senso di superiorità, universalità e così via. Un
esempio di questo atteggiamento è palese nel fatto che i discorsi dei
politici e degli intellettuali si concentrano esclusivamente sulla
riduzione degli armamenti trascurando questi temi più fondamentali. Il
disarmo culturale tuttavia è rischioso e difficile quanto quello
militare. Si diventa vulnerabili. È risaputo che la riduzione degli
armamenti è un problema fondamentalmente culturale. Il passaggio
dall’agricoltura, come modo di vita, all’agribusiness, come mezzo di
guadagno, potrebbe essere preso ad esempio di quanto vogliamo dire.
Disarmo culturale non significa voler ritornare alla vita primitiva, ma
presuppone una critica della cultura non solo alla luce di ciò che non
è andato bene in quella occidentale, ma anche nella prospettiva di un
approccio interculturale genuino”.

Religioni e pace

Le religione sono una via privilegiata verso la pace?

“La gente era disposta a lottare per la propria salvezza, prova ne sia
che molte delle guerre del mondo sono state guerre di religione.

Siamo testimoni oggi di una trasformazione della nozione stessa di
religione per cui si può affermare che le religioni sono modi diversi
di avvicinare e di acquisire quella pace che al giorno d’oggi è forse
uno dei pochi simboli universali. Summa nostrae religionis pax est et
unanimitas
(l’essenza della nostra religione è la pace e la concordia),
scrisse Erasmo in una lettera del 1522”.

Pubblicato in Dossier Pace
Sabato, 01 Dicembre 2007 22:48

Nonviolenza violenta? (Enrico Peyretti)

Nonviolenza violenta?

di Enrico Peyretti




Tutto serve. Tanti anni fa, in Spagna, lessi su un muro «Los guerrilleros de Cristo Rey, somos la ley». Gesù guerrigliero, di estrema destra. A quando Gandhi alfiere dell’impero? Nella pubblicità, come Gesù, è già stato ripetutamente usato. Anche i suoi metodi possono servire a tutto, secondo l’articolo Nell’ombra delle “rivoluzioni spontanee”, di Régis Genté e Laurent Rouy, su «Le Monde Diplomatique» (gennaio 2005, p. 6). Nel ’99 in Jugoslavia, falliti i bombardamenti della Nato, si organizzano, e si finanziano bene, potenti manifestazioni popolari nonviolente e Milosevic (il quale se lo merita pure) cade. Serbia, Georgia, Ucraina: funziona! Il metodo è quello delle grandi rivoluzioni nonviolente dell’89 nell’Europa orientale. Certo, non è solo manipolazione, c’è una vera insorgenza popolare contro autoritarismi e dittature. Ma il metodo serve a qualunque scopo.

Aggiustare le elezioni

Dove un potere deve un po’ aggiustare le elezioni per legittimarsi – ma questo non è successo, almeno nel 2000, anche negli Usa, modello di democrazia da esportazione forzata? – si infiltrano, secondo gli autori dell’articolo, organizzazioni e fondazioni americane. Una, il National Democratic Institute, è presieduta da Madeleine Albright, quella che disse che le vittime della guerra del Golfo «valevano la pena». Un’altra, Freedom House, è diretta da James Woolsey, ex capo della Cia, già attivo in Serbia nel 2000. Vanno in aiuto a parti interne che «volevano far crollare il regime più che avere libere elezioni», come dice Gia Jorjolani, del Centro per gli studi sociali di Tbilisi, Georgia.

I media e i movimenti studenteschi (Otpor, Resistenza, in Jugoslavia) vi hanno grande parte. Seminari di «formazione per formatori» sono tenuti anche a Washington (9 marzo 2004), pare con la presenza di Gene Sharp, teorico della lotta nonviolenta e autore di un classico manuale in tre volumi, Politica dell’azione nonviolenta (Edizioni Gruppo Abele), molto usato anche dai nonviolenti italiani.

Quelle rivoluzioni nonviolente in Serbia e Georgia, a detta degli stessi politici che hanno preso il potere, sono state sostenute da forze contrarie ai precedenti regimi. Nelle recenti elezioni contestate e ripetute, sotto pressione popolare, in Ucraina, hanno avuto parte evidente la Polonia e l’Unione Europea. Personaggi ivi emergenti fanno parte della nomenklatura arricchitasi con le privatizzazioni. Non sempre ci guadagna la democrazia: un anno dopo la «rivoluzione delle rose» in Georgia, una militante per i diritti umani, Tinatin Khidasheli, scrive «La rivoluzione delle rose è appassita» («International Herald Tribune», Parigi, 8 dicembre 2004).

La politica estera americana, dunque, si servirebbe oggi non solo della guerra, ma anche di questi movimenti, non veramente spontanei, anche se attecchiscono grazie ai difetti, e a volte i crimini, dei regimi contestati. Pare che, oltre l’area ex-sovietica, punti ora ad applicare il metodo a Cuba, mentre nel Medio Oriente le possibilità sono scarse, anche per l’odio che gli Usa si sono guadagnati.

Democrazia: metodo e fine

Che dire, da parte di chi crede nella nonviolenza come metodo giusto per fini giusti? Anzitutto, proprio questo: non solo i mezzi devono non essere violenti, ma anche i fini. La Germania nazista e l’antisemitismo fascista, cominciarono la persecuzione degli ebrei, diretta allo sterminio, col boicottaggio economico, che in sé è un tipico mezzo nonviolento contro le economie ingiuste. Usare mezzi giusti per fini ingiusti è tanto ingiusto quanto usare mezzi ingiusti per fini giusti. La nonviolenza gandhiana è una speranza per l’umanità spinta sull’orlo della distruzione totale dalla ideologia della violenza: manipolarla per fini di dominio, uguali a quelli che si cercano con la guerra e la violenza, è falsificare un valore umano. La nonviolenza non è solo una tecnica utile, ma la cultura del rispetto dell’umanità in ogni persona e popolo. Come insieme di tecniche può servire al dominio incruento e sottile, ma non meno ingiusto. Come cultura e spiritualità non può farsi strumentalizzare dall’ingiustizia del dominio. Perciò, la ricerca della nonviolenza non può essere semplice attivismo, ma educazione morale profonda. Su di ciò i nonviolenti devono vigilare e approfondire il loro lavoro. Si sono già viste anche da noi forze politiche sbandierare Gandhi e poi rendersi utili ai potenti e persino alla guerra.

Certo, puntare al potere con la demagogia incruenta è qualcosa di meglio che con una guerra o un golpe sanguinario, mezzi usati senza scrupoli da chi ora si serve della nonviolenza, ma mai da Gandhi, da Luther King, da Badshah Khan. Così, la democrazia, ovviamente, è meglio della dittatura. Ma essa è vera se e quando le persone si educano a decidere secondo giustizia, e non soltanto perché si contano le teste invece di tagliarle. Non c’è vera democrazia là dove le teste decidono liberamente di tagliarne altre, o di opprimerle, o tacitarle. La democrazia che elegge Hitler è falsa democrazia, forma senza sostanza. Non c’è vera democrazia dove il principio di maggioranza instaura una dittatura della maggioranza, come sta accadendo in Italia. La democrazia è un metodo, ma soprattutto un fine: farci tutti più rispettosi della comune umanità. Perciò la nonviolenza dei mezzi e dei fini è l’aggiunta e il completamento della democrazia.

Pubblicato in Dossier Pace
La parola di Dio
ci educa alla pace

di Rinaldo Fabris

Che cosa può dire la «parola di Dio» in rapporto alla pace? Il suo messaggio si può riassumere con questa espressione: «La parola di Dio ci educa alla pace». Questo può sembrare una cosa scontata. Il vero problema è questo: quale uso viene fatto e si può fare della Bibbia che testimonia la parola di Dio? Questa Bibbia che per venti secoli è stata letta, proclamata nelle Chiese non ha impedito che i cristiani organizzassero le guerre e in nome anche di quella stessa fede che fondavano sulla parola di Dio testimoniata nella Bibbia. Mi domando allora se la parola di Dio, la Bibbia, può educare alla pace dal momento che le generazioni che ci hanno preceduto pur ascoltando questa parola non sempre hanno costruito la pace ma anche in nome della fede cristiana hanno prodotto la guerra. Si impone allora l'interrogativo: quale uso della Bibbia per costruire e fare la pace?

Credo che ci siano tre modi sbagliati di usare la Bibbia in maniera non «pacifica» non per produrre la pace, ma per costruire in maniera subdola, astuta, una situazione che produce la guerra.

Primo: uso ideologico della Bibbia. È l'uso della Bibbia come fonte di teorie sulla guerra, la cosiddetta «legittima difesa». Non si può usare la Bibbia per giustificare la guerra giusta da una parte o dall'altra. Questo è un uso ideologico della Bibbia, e tanto più pericoloso quanto più si appella all'autorità di Dio. È ancora un uso ideologico della Bibbia quello in cui si ricavano dai testi sacri teorie sulla pace intesa come pacifismo più o meno bucolico o mitico, la pace dell'Eden; l'uso di alcuni testi profetici e anche messianici che sono legati all'ideologia regale dove la pace è la sottomissione degli altri popoli. Alcuni testi che leggiamo con tanto entusiasmo sono nati all'interno dell'ideologia regale, dove il re conduce le guerre per sottomettere gli altri popoli. La pace era il frutto di sottomissione più o meno violenta degli altri.

L'uso ideologico della Bibbia ba giustificato le guerre condotte e prodotte dai cristiani.

Secondo: uso moralistico della Bibbia. Troviamo certo nei comandamenti e anche nel Vangelo la espressione «non uccidere». Ma questo comando, relativo all'assassinio, non ha impedito di organizzare le orge di sangue, l'omicidio e l'assassinio legittimato. Anche se i cristiani sanno che c'è il comando di Dio «non uccidere», una volta ogni tanto si può sospendere questa legge perché l'avversario va ucciso. La legittimazione dell'omicidio collettivo, in base a un uso moralistico della Bibbia è contro la pace. Anche l'altro uso moralistico della Bibbia che si appella alla frase del Vangelo «Porgi l'altra guancia» per sostenere un pacifismo rassegnato e passivo, non serve a produrre la pace. Molte volte questo pacifismo in nome dello slogan «porgi l'altra guancia», è stato l'alibi per non partecipare alla lotta, alla faticosa costruzione della pace per sedersi al tavolo e spartire i frutti delle lotte degli altri.

Terzo: uso spiritualista della Bibbia. La pace, si dice, è dono di Dio, dono finale atteso per gli ultimi tempi. Dunque durante la storia, la nostra povera storia umana, rassegnamoci a limitare, a contenere la guerra entro limiti sopportabili, in una situazione di violenza necessaria. Ancora si dice la pace di Cristo non è la pace del mondo, dunque ogni sforzo mondano, umano e civile per costruire la pace non serve a produrre la pace che è dono di Dio e del Cristo. Questo è un uso spiritualista della parola di Dio che molte volte conduce a una soluzione intimista: la pace si costruisce solo con la riforma delle anime, con la preghiera, aspettando che questo mondo di peccato passi e venga la pace definitiva. E questa posizione assolve il sistema di morte. Anche se è una richiesta di pace non è un costruire la pace, ma la fuga verso l'egoismo anche se è fatta in nome della spiritualità e della fede.

Allora qual è l'uso corretto della Bibbia? Quale confronto onesto con la parola di Dio per lasciarci educare da essa a una pace attiva, storica, che è dono di Dio ma senza che questo diventi un alibi alla rassegnazione o alla dimissione? Prima di tutto la Bibbia non deve essere intesa come un concentrato di formule dottrinali, di sentenze o massime morali. La Bibbia è la storia dove Dio si rivela prendendo una forma umana. È una storia vissuta, raccontata, scritta e riscritta; una storia che ha il suo momento culminante nella vicenda umana di Gesù di Nazareth, il falegname, il maestro, il profeta ucciso dagli uomini, ma risuscitato da Dio e che ci rivela il volto di Dio come amore. Qui mi piace ricordare una pagina della lettera scritta a Tito, il Vescovo di Creta: «L'amore benigno e gratuito di Dio per la salvezza liberante di tutti gli uomini si è manifestata storicamente; quest'amore ci educa a rinnegare l'egoismo elevato a sistema per attuare rapporti giusti tra di noi nel mondo, in attesa dell'ultima piena realizzazione della salvezza che è dono del salvatore nostro Gesù Cristo. Quelli che hanno accettato questo progetto si impegnano come uomini liberi per una prassi che costruisce la pace», (Tito 2,11-14). La pace è dono di Dio, ma anche impegno degli uomini.

Ecco allora tre momenti per un ascolto e una attuazione della parola di Dio che ci educa a costruire la pace.

Primo: una presa di coscienza. il problema della pace oggi è un problema di rapporti umani giusti, liberi e vitali. Questo rapporto giusto, libero dell'uomo con l'uomo è la sostanza del progetto di Dio. Un progetto che parte dalla Genesi, ha il suo momento culminante nella proclamazione del regno di Dio per mezzo di Gesù. Questo è il senso della pace biblica, della pace dell'alleanza: è la libertà degli oppressi; è la libertà per realizzare una vita piena; questo è il sogno di Isaia che per i deportati scriveva questa pagina immaginando il ritorno di quelli che erano stati deportati in esilio, come una carovana di liberati: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero dei lieti annunzi, che annuncia la pace; messaggero di bene che annuncia la salvezza, che dice a Sion: regna il tuo Dio» (Is. 57,2). Il regno di Dio è annuncio di pace che vuoi dire salvezza, e bene. Nel linguaggio biblico salvezza e bene è la libertà per gli oppressi; è ritorno in patria dei profughi deportati. Questo è il contenuto essenziale del regno di Dio che Gesù ha annunciato come «buona notizia» per i poveri. Il regno di Dio si è fatto vicino come libertà, come rapporti giusti: libertà dei corpi malati; rapporti giusti fra le persone. E allora la storia conflittuale umana fatta di oppressione e di ingiustizia, stando a questa parola di Dio che annuncia la pace come giustizia, come rapporti liberi tra le persone, questa storia conflittuale non può essere superata con la violenza. La violenza non costruisce la pace. Questa affermazione oggi suppone una nuova presa di coscienza.

Secondo: una nuova mentalità. La giustificazione della violenza, intesa come necessità, come risposta a un'altra violenza, oppure come forza da usare in maniera limitata contro altre forze per legittima difesa, è una giustificazione fatta in una situazione di peccato e in nome del peccato. Questo modo di pensare nasce da una logica di peccato, cioè di non-libertà, di non-redenzione, cioè da una logica di morte. Quando si dice: siccome c'è una violenza già organizzata si può rispondere a questa violenza organizzata con un'altra violenza come legittima difesa, questo modo di ragionare è logica di peccato, che nega la redenzione e la libertà creativa dell'amore di Dio rivelato in Gesù. A questa logica di peccato anche i cristiani si sono appellati per la legittima difesa, per proclamare la «guerra giusta». A questi si oppone spesso la concezione della non-violenza intesa come scelta passiva, rassegnata, vittimistica in nome della non-resistenza. Ma questo non è la buona notizia del regno di Dio. La novità evangelica contro questa interpretazione propone un nuovo modo di concepire il superamento della violenza: non la legittima difesa, non la difesa limitata o l'uso limitato della violenza ma l'amore attivo.

Questo contenuto essenziale del Vangelo è stato deformato in una lettura moralistica o intimistica. Quando Gesù propone un modo alternativo di leggere la parola di Dio, «i dieci comandamenti», fa questa proposta concreta. Il «non uccidere» non può essere più limitato all'assassinio ma esso abbraccia anche il nemico, perché anche il nemico fa parte del prossimo. Quindi in nome di nessuna ideologia o sistema politico si può giustificare l'uccisione dell'altro. I cristiani non possono mettere fra parentesi il «non uccidere» in nome di una necessità, di una legittima difesa. Questo sarebbe ancora una concessione nella logica del peccato rinnegando la novità liberatrice del Vangelo. Educarci alla pace vuol dire ascoltare la parola di Dio senza riduzioni, superando questa mentalità moralistica che si appella alla parola di Dio per giustificare l'uccisione dell'altro, cioè il peccato. Il «non uccidere» per il Vangelo vale anche per il nemico che è il mio prossimo: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori perché siete figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? Se date il saluto soltanto ai vostri fratelli che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt. 5,43-47). Il Vangelo non solo critica l'odio del nemico ma denuncia anche la logica della rappresaglia come logica di peccato e propone non la rassegnazione, non la resistenza passiva, ma l'amore attivo che libera anche il nemico da una situazione di violenza (Mt. 5,21-25). L'uso della violenza giustificata in nome di Dio o di una necessità storica è logica di peccato che viene smascherata dall'annuncio evangelico.

La proposta alternativa allora non è la semplice non-violenza, non è semplicemente la resistenza passiva, ma è un amore che porta anche l'avversario nella situazione di giustizia o di libertà; libera l'altro dalle radici della violenza. La parola di Dio ascoltata senza riduzioni di comodo ci lascia forse nell'incertezza sui mezzi da usare, ma certamente non ci dà licenza di servirci di strumenti di morte per organizzare la legittima difesa, per uccidere l'altro. Questa stessa parola di Dio deve portarci anche a smascherare l'ipocrisia dei cristiani che vedono la violenza distruttiva solo da una parte. E violenza non solo quella della rapina, ma anche quella delle evasioni fiscali, anche quella delle esportazioni di capitali all'estero; è violenza non solo quella dal basso, non solo la protesta, ma anche quella burocratica, anche quella legittimata dall'alto.

Terzo: quale decisione operativa ci suggerisce allora la parola di Dio? Non solo una presa di coscienza, non solo una nuova mentalità, che ci fa superare il moralismo oppure la rassegnazione passiva, ma gesti e fatti di pace. Una parola di Dio che deve diventare storia, perché è stata storia, opera di pace in Gesù di Nazareth fino al punto di accettare di morire per il suo progetto di pace fondata sulla libertà e l'amore. (...)

Prima di tutto si deve avere il coraggio, in nome della parola di Dio che ci giudica, di chiamare le cose con il proprio nome. È violenza anche l'insediamento di nuove strutture militari in una zona già depauperata e strangolata dai vincoli militari. È violenza anche la decisione e la pianificazione fatta sulla testa e sulla pelle della gente che non può difendersi e non può parlare dentro la giungla burocratica. È violenza l'espropriazione culturale della propria lingua, delle proprie abitudini e tradizioni vitali in nome di un assetto sociale efficentistico e omogeneo. È opera di pace invece una scelta antimilitare come il servizio civile alternativo; sostenere e promuovere in prima persona un servizio alternativo è opera e gesto di pace come risposta alla parola di Dio che ci chiama a costruire una storia di pace. È opera di pace la partecipazione effettiva della popolazione per costruire le proprie case, il proprio paese, mantenendo la propria fisionomia. È opera di pace la restituzione, la difesa, la promozione della fisionomia culturale(...), della lingua, delle minoranze etniche. Tutto questo allora può essere una risposta effettiva a quella parola di Dio che è diventata storia, vita, passione e morte di Gesù Cristo e che ci educa oggi ad una prassi di amore attivo per costruire la pace.

Pubblicato in Dossier Pace

Ahimsa: il sentiero della nonviolenza
di Thich Nhat Hanh



La parola sanscrita ahimsa, tradotta normalmente con 'nonviolenza' vuol dire letteralmente non danneggiare o anche innocuita'. Per praticare ahimsa, occorre innanzi tutto averne fatto esperienza interiore. In ognuno di noi sono presenti in una certa misura sia la violenza sia la nonviolenza. In base alla nostra condizione d'esistenza, la risposta alle situazioni sara' piu' o meno nonviolenta. Per esempio, potremmo anche essere orgogliosi di essere vegetariani, ma dovremmo in ogni caso renderci conto che l'acqua nella quale bolliamo le verdure contiene molti piccolissimi microrganismi.

Non possiamo essere completamente nonviolenti, ma col nostro essere vegetariani andiamo in direzione della nonviolenza. Se vogliamo andare a nord, possiamo usare la stella polare come punto di riferimento, ma non riusciremo mai a raggiungerla. Il nostro sforzo consiste unicamente nel muoverci in quella direzione. Chiunque puo' praticare la nonviolenza, anche i soldati. Alcuni generali dell'esercito, per esempio, conducono le operazioni militari in modo da evitare di uccidere persone innocenti: si tratta di un tipo di nonviolenza. Se dividiamo la realta' in due settori, quello violento e quello nonviolento, e ci schieriamo da un lato attaccando l'altro, il mondo non conoscera' mai la pace. Saremo sempre disposti ad accusare e condannare chi riteniamo responsabile delle guerre e delle ingiustizie sociali, senza riconoscere il livello di violenza presente in noi stessi. Se vogliamo che il nostro intervento sia efficace siamo tenuti a lavorare su noi stessi e a collaborare con chi condanniamo. Non porta mai a niente alzare una staccionata e allontanare chi consideriamo un nemico, persino se si tratta di qualcuno che agisce con violenza. Dobbiamo avvicinarlo con il cuore pieno di amore e fare del nostro meglio per suscitare in lui la pratica della nonviolenza. Non avremo mai successo se operiamo per la pace spinti dalla rabbia.

La pace non e' un fine. Non si puo' ottenerla con l'uso di mezzi non pacifici. Nel protestare contro una guerra, possiamo darci l'aria di essere una persona pacifica, un vero rappresentante della pace, ma questa nostra presunzione non sempre corrisponde alla realta'. Osservando in profondita', ci accorgiamo che le radici della guerra sono presenti nel nostro stile di vita privo di consapevolezza. Non abbiamo seminato a sufficienza la pace e la comprensione in noi stessi e negli altri, e quindi siamo corresponsabili: "Giacche' io sono stato in questo modo, ora loro si comportano in quel modo". Nella via dell'interessere troviamo un approccio piu' olistico: "Questo e' cosi' perche' quello e' cosi'". È questa la via della comprensione e dell'amore. Sulla base di questa comprensione, possiamo vedere con chiarezza e permettere al nostro governo di vedere con chiarezza. Poi possiamo partecipare a una dimostrazione e proclamare: "La guerra e' ingiusta, distruttiva e non e' degna di una grande nazione quale la nostra". Cio' e' assai piu' utile di un atteggiamento caratterizzato da una condanna rabbiosa del prossimo. La rabbia fa sempre peggiorare le cose. Sappiamo come scrivere lettere di vibrata protesta, ma dobbiamo anche imparare a scrivere al nostro presidente e ai nostri rappresentanti lettere con un grado di comprensione e un tipo di linguaggio che possano essere apprezzati. Se non ne siamo capaci, le nostre lettere potrebbero essere tutte cestinate, e non dare alcun contributo alla causa della pace.

Amare vuol dire comprendere. Non possiamo esprimere il nostro amore a qualcuno se non riusciamo a comprenderlo. Se non capiamo il nostro presidente o i membri del parlamento non saremo capaci di indirizzargli una lettera d'amore. Chiunque e' felice di poter leggere una buona lettera nella quale condividiamo le nostre intuizioni e la nostra comprensione. Ricevendo una lettera di quel genere, il destinatario si sente capito e presta attenzione alle nostre raccomandazioni. Potreste credere che si possa cambiare il mondo eleggendo un nuovo presidente, ma il governo non e' che un riflesso della societa', a sua volta e' riflesso della nostra coscienza. Per produrre un cambiamento sostanziale, siamo noi, i membri della societa', che dobbiamo trasformarci. Se aspiriamo a una vera pace, dobbiamo dimostrare amore e comprensione cosicche' i responsabili delle decisioni politiche possano imparare da noi. Tutti noi, compresi i pacifisti, custodiamo del dolore nel cuore. Ci sentiamo arrabbiati e frustrati e non troviamo mai nessuno che sia in grado di capire la nostra sofferenza. Nell'iconografia buddhista, c'e' un bodhisattva chiamato Avalokitesvara che possiede mille braccia e mille mani, e ha un occhio nel palmo di ogni mano. Le mille mani rappresentano l'azione, e l'occhio in ogni mano rappresenta la comprensione. Comprendendo una situazione o una persona, qualsiasi azione sara' d'aiuto e non causera' ulteriore sofferenza. Con un occhio nel palmo della mano, saprete sempre come praticare la vera nonviolenza. Immaginate cosa accadrebbe se anche ognuna delle nostre parole avesse un occhio. Per un artista e' facile dipingere un occhio nella mano, ma come mettere un occhio anche nelle nostre parole? Prima di dire qualcosa, dobbiamo renderci conto di cio' che stiamo per dire e della persona alla quale sono dirette quelle parole. Con l'occhio della comprensione eviteremo di pronunciare parole che finirebbero per far soffrire l'altro. Accusare e discutere sono forme di violenza. Se mentre parliamo soffriamo molto, le nostre parole saranno cariche d'amarezza, e non potranno aiutare nessuno. Dobbiamo imparare a calmarci e a diventare un fiore prima di parlare. È questa l'arte della parola amorevole.

Anche l'ascolto costituisce una pratica profonda. Il bodhisattva Avalokitesvara ha un grande talento per l'ascolto. Il suo nome in cinese significa 'ascoltare i lamenti del mondo'. Per comprendere la sofferenza degli altri dobbiamo saper ascoltare. Per far cio' dobbiamo svuotarci e lasciar spazio in modo da poter ascoltare con piena attenzione. Se inspiriamo ed espiriamo per rinfrescarci e svuotarci, saremo in grado di sedere con calma e ascoltare la persona che sta soffrendo. Chi sta soffrendo ha bisogno di qualcuno che ascolti con concentrazione senza giudicare o reagire. Se non trova nessuno disposto a farlo nella propria famiglia, potrebbe recarsi da uno psicoterapeuta. Con il solo ascolto profondo alleviamo gia' un bel po' di sofferenza. Questa e' una pratica di pace molto importante. L'ascolto e' fondamentale sia nelle nostre famiglie sia nella nostra comunita'. Dobbiamo ascoltare chiunque, specialmente le persone che consideriamo nemici. Se dimostriamo la nostra capacita' di ascolto e comprensione, chi ci sta di fronte sara' a sua volta disposto ad ascoltarci, e avremo una possibilita' di esprimergli il nostro dolore. È l'inizio della guarigione. Il pensiero e' alla base di ogni cosa. Dovremmo disporre un occhio di consapevolezza in ognuno dei nostri pensieri. Senza una corretta comprensione di una situazione o di una persona, i pensieri possono risultare fuorvianti e creare confusione, disperazione, rabbia oppure odio. Il compito piu' importante consiste nello sviluppo di una corretta comprensione. Se guardiamo in profondita' nella natura dell'interessere, se vediamo che tutte le cose 'inter-sono', non abbiamo piu' motivo per rimproverare, discutere e uccidere, e diventiamo amici di tutti gli esseri.

Abbiamo cosi' analizzato i tre campi dell'azione: il corpo, la parola e la mente. Oltre a cio', c'e' la non-azione, che spesso e' piu' importante dell'azione. Pur non facendo nulla, possiamo talvolta rendere le cose piu' agevoli semplicemente in virtu' della nostra presenza pacifica. Se una piccola imbarcazione si trova nel bel mezzo di una tempesta, e qualcuno resta calmo e stabile, gli altri non si faranno prendere dal panico, e sara' piu' facile che l'imbarcazione non faccia naufragio. Ci sono molte circostanze nelle quali la non-azione puo' essere molto efficace. Un albero non fa nient'altro che respirare, ondeggia i rami e le foglie e cerca di mantenersi fresco. Pero', se non ci fossero gli alberi non ci saremmo neppure noi uomini. Il non-agire degli alberi e' fondamentale per il nostro benessere. Se possiamo imparare a vivere prendendo esempio dagli alberi, mantenendoci cioe' vitali e solidi, calmi e pacifici, anche se non facciamo molte altre cose, gli altri trarranno beneficio dalla nostra non-azione, dalla nostra mera presenza.

Possiamo praticare la non-azione anche nell'ambito dell'uso della parola. Le parole possono creare comprensione e accettazione reciproca, ma possono anche causare sofferenza agli altri. A volte e' meglio non dire nulla. Questo libro tratta l'azione sociale nonviolenta, ma e' opportuno discutere anche la non-azione nonviolenta. Per chi desidera realmente aiutare il mondo, la pratica della non-azione e' essenziale. Naturalmente, la stessa non-azione talvolta puo' risultare dannosa. Se qualcuno ha bisogno del nostro aiuto e ci tiriamo indietro, potremmo farlo morire. Se per esempio un monaco vedesse una donna che sta annegando e non volesse aiutarla a causa dei voti che gli impediscono di toccarla, violerebbe il piu' importante principio della vita. La nostra non-azione di fronte all'ingiustizia sociale puo' causare ulteriori danni. Quando c'e' bisogno che facciamo o diciamo qualcosa e rifiutiamo di intervenire, possiamo renderci responsabili di un'uccisione proprio grazie alla nostra non-azione o al nostro silenzio. Per praticare ahimsa dobbiamo innanzi tutto imparare i metodi per trattare pacificamente noi stessi. Se in noi stessi c'e' vera armonia, sapremo anche come intervenire con i familiari, gli amici, i colleghi. Le tecniche sono sempre secondarie. La cosa piu' importante e' trasformarsi in ahimsa, cosicche' quando ci troviamo in determinate circostanze, evitiamo di causare altra sofferenza.

Per praticare ahimsa dobbiamo saper inviare delicatezza, gentilezza amorevole, compassione, gioia ed equanimita' ai nostri corpi, alle nostre sensazioni e agli altri. La vera pace deve fondarsi sull'intuizione e sulla comprensione, e per procedere in questa direzione e' necessario praticare una profonda riflessione, osservando in profondita' ogni atto e ogni pensiero della nostra vita quotidiana. Con la consapevolezza, e cioe' con la pratica della pace, possiamo iniziare a trasformare le guerre presenti in noi stessi. Per far cio' esistono tecniche ben precise. Una di queste e' la respirazione consapevole. Ogni qual volta ci sentiamo arrabbiati, possiamo interrompere le nostre attivita', astenerci dal dire qualsiasi cosa e inspirare ed espirare diverse volte, consapevoli di ogni inspirazione e di ogni espirazione. Se ci sentiamo ancora tesi, possiamo fare una meditazione camminata, mantenendo contemporaneamente l'attenzione sui nostri lenti passi e sul respiro.

Coltivando la pace interiore creiamo la pace nella societa'. Dipende da noi. Praticare la pace interiore vuol dire ridurre le guerre in corso tra le nostre sensazioni o tra le nostre percezioni, in modo da poter creare un'atmosfera di pace anche con gli altri, compresi i membri della nostra famiglia. Mi viene spesso chiesto: "Cosa fai se stai praticando l'amore e la pazienza e qualcuno irrompe in casa tua e cerca di rapire tua figlia o uccidere tuo marito? Come bisognerebbe comportarsi? È meglio sparare a quella persona o agire in modo nonviolento?". La risposta dipende dalle condizioni del proprio essere. Se si e' preparati, e' possibile reagire in modo calmo e intelligente, nel modo piu' nonviolento possibile. Per essere pronti ad agire in quel modo, con intelligenza e nonviolenza, occorre pero' essersi esercitati in precedenza. Potrebbero volerci dieci anni, forse anche di piu'. Se aspettate la situazione d'emergenza, potrebbe essere troppo tardi per porsi questa domanda. Una risposta schematica sarebbe del tutto superficiale. Nel momento decisivo, anche se sapete che la nonviolenza e' migliore della violenza, se tutto cio' non e' che una comprensione intellettuale, se non lo sentite con tutto il vostro essere, non riuscirete a reagire in modo nonviolento.

La paura e la rabbia presenti in voi vi impediranno di agire nel modo piu' nonviolento possibile. Per prevenire la guerra, per fermare in tempo la prossima crisi, dobbiamo cominciare subito. Quando e' scoppiata una guerra o ci troviamo nel bel mezzo di una situazione critica, e' gia' troppo tardi. Se noi e i nostri figli pratichiamo ahimsa nella nostra vita quotidiana, se impariamo a seminare la pace e la riconciliazione nel nostri cuori e nelle nostre menti, potremo davvero iniziare a creare la pace e cosi' facendo saremo in grado di prevenire la prossima guerra. Se poi, nonostante i nostri sforzi, arrivera' un'altra guerra, sapremo di aver fatto del nostro meglio. Sono sufficienti dieci anni per prepararci e preparare la nazione a evitare un'altra guerra? Quanto tempo ci vuole per respirare in consapevolezza, per sorridere e per essere pienamente presenti in ogni istante? Il nostre vero nemico e' la dimenticanza. Nutrendo la consapevolezza ogni giorno e innaffiando i semi della pace in noi stessi e nelle persone che ci circondano, avremo buone possibilita' di impedire la prossima guerra e di disinnescare la prossima crisi.

(da L'amore e l'azione, Ubaldini, Roma)
Pubblicato in Dossier Pace
Lunedì, 10 Settembre 2007 23:58

Violenza necessaria? (Jean-Marie Muller)

Violenza necessaria?

di Jean-Marie Muller

Spesso è la violenza delle situazioni di ingiustizia che provoca la violenza delle armi. È importante comprendere la violenza che nasce dalla rivolta degli oppressi quando vogliono liberarsi dal giogo che pesa su di loro. Se la nonviolenza condanna e combatte anzitutto la violenza dell’oppressione, essa obbliga ad una solidarietà attiva con quelli che ne sono le vittime. Quando questi, il più delle volte come ultima risorsa, ricorrono alla violenza, non è il caso, in nome di un ideale astratto di nonviolenza, di voltare loro sdegnosamente la schiena. Non è il caso di respingere in un mucchio solo tanto quelli che sono responsabili dell’ingiustizia quanto quelli che ne sono le vittime. È importante non dimenticare che i veri fautori di violenza sono quelli che traggono profitto dal disordine stabilito e non difendono nient’altro che i loro privilegi. Ma liberare gli oppressi è anche tentare di permettere loro di liberarsi dalla propria violenza. Anche questo è un obiettivo della solidarietà verso di loro.

Spesso la violenza degli oppressi e degli esclusi è più un mezzo di espressione che un mezzo di azione. Non è tanto la ricerca di una efficacia quanto la rivendicazione di una identità. È il mezzo che hanno, per farsi riconoscere, coloro la cui esistenza stessa resta non soltanto sconosciuta, ma misconosciuta. La violenza è allora il mezzo di rivoltarsi contro questo misconoscimento. È l’ultimo mezzo di espressione di quelli che la società ha privato di tutti gli altri mezzi di espressione. Poiché essi non hanno avuto la possibilità di comunicare con la parola, tentano di esprimersi con la violenza. Questa si sostituisce alla parola che è loro rifiutata. La violenza vuol essere un linguaggio ed essa esprime anzitutto una sofferenza; essa è allora un “segnale d’allarme” che deve essere decifrato come tale dagli altri membri della società. La violenza è per gli esclusi un tentativo disperato di riappropriarsi del potere sulla propria vita, di cui sono stati spossessati. La violenza diventa allora un mezzo di esistenza: «sono violento, dunque sono». E la violenza permette di farsi riconoscere tanto più per il fatto che essa è proibita dalla società. Essa simboleggia allora la trasgressione di un ordine sociale che non merita di essere rispettato. Ciò che gli attori della violenza ricercano è precisamente questa trasgressione. A colui che la legge esclude da ogni riconoscimento, la violazione della legge appare allora come il mezzo migliore per farsi riconoscere. Questo può essere vero per l’individuo come per il gruppo. Anche il gruppo può volere provare a sé stesso di esistere come gruppo facendosi valere presso gli altri con l’impiego della violenza. Esso così obbligherà gli altri a riconoscere che esiste, non fosse che col combatterlo sul terreno della violenza, là dove egli stesso ha scelto di esprimersi. Inoltre la violenza della trasgressione, distruggendo i simboli di una società ingiusta, gettando a terra gli emblemi di un ordine iniquo, provoca un maligno piacere, un godimento reale. In questo modo, la violenza esercita un fascino su quelli che sentono la frustrazione e l’umiliazione di essere degli esclusi.

Ma comprendere la violenza non è giustificarla. Infatti, se la violenza è giusta quando serve una causa giusta, non diventerà allora il diritto e il dovere di ogni uomo, di ogni gruppo, di ogni popolo e nazione? E si è mai incontrato nel corso dei secoli, si è mai visto al mondo un uomo, un gruppo, un popolo, una nazione che non pretenda ad alta voce che la sua causa è giusta? E se noi aderiamo oggi al discorso che approva la violenza per difendere la buona causa, come potremo opporci domani a quello che approverà la violenza per la cattiva causa? Basterà discutere della causa e non della violenza? Probabilmente no, non basterà. Se la violenza è legittimata come un diritto dell’uomo, ciascuno potrà prendere a pretesto questo diritto per ricorrervi ogni volta che lo stimerà imposto dalla difesa dei suoi interessi. In realtà l’ideologia della violenza permette a ciascuno di giustificare la propria violenza. La storia si trova allora risucchiata in una spirale di violenze senza fine. Si crea una reazione a catena di violenze degli uni e degli altri, tutte legittimate, le une come le altre, una catena che nessuno potrà più interrompere. La violenza diventa fatalità. La nonviolenza intende spezzare questa fatalità.

Secondo le ideologie che dominano le nostre società, è necessario opporsi alla prima violenza, dell’oppressione o dell’aggressione, con una contro-violenza che possa contenerla e alla fine vincerla. Quelle stesse ideologie legittimano e giustificano questa seconda violenza affermando che essa ha per fine di stabilire la giustizia o di difendere la libertà. L’argomento – che si pretende sia al di sopra di ogni sospetto – incessantemente avanzato per giustificare la violenza, è che essa è necessaria per lottare contro la violenza. Questo argomento implica un corollario: rinunciare alla violenza sarebbe lasciare libero corso alla violenza. Ma, quali che siano le ragioni avanzate, questo argomento resta colpito, in teoria come in pratica, da una contraddizione irriducibile: lottare contro la violenza con la violenza non permette di eliminare la violenza. Le ideologie della violenza vogliono occultare questa contraddizione. La filosofia della nonviolenza e la strategia che essa ispira ... portano al contrario tutta la loro attenzione sulla violenza per tentare di superarla. Poiché qui si pone una questione essenziale e decisiva: il fatto di impiegare la violenza con l’intenzione di servire una causa giusta cambia o no la natura della violenza? In altri termini, è possibile qualificare diversamente la violenza secondo il fine al servizio del quale si pretende utilizzarla? Le ideologie della violenza vogliono dare una risposta positiva a questa duplice questione, e insinuano che l’uso della violenza per una causa giusta non è altro che l’uso della forza. La filosofia della nonviolenza fa una critica radicale a questa risposta e la respinge assolutamente. La violenza, in definitiva, resta la violenza, ossia essa resta ingiusta e, dunque, ingiustificabile perché resta disumana quale che sia lo scopo che si pretende di servire utilizzandola.

Jean-Marie Muller, da: Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclée de Brouwer, Paris 1995, pp. 38-41, traduzione di Enrico Peyretti, in:  Il Foglio, 289.

Pubblicato in Dossier Pace

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