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La pace, dono di Dio
e profezia dei cristiani

di Enzo Bianchi

Il mio contributo, certo del primato dell'Evangelo, va alle fonti, alla parola di Dio, per rileggere e ricomprendere lo shalom, la pace evangelica. Per arrivare ad una visione cristiana della pace si possono percorrere due vie: la prima è quella di fare un discorso primario, diretto, senza mediazioni, un discorso che nasce solo dall'ascolto della Parola; l'altra via è quella di aprire un discorso che tenga conto dei dati biblici ma che, volendosi capace di ricezione anche da uomini non cristiani, si apra alla sapienza umanistica, cerchi un dialogo, un confronto con essi. Questa seconda via è quanto mai necessaria e urgente ed io non penso affatto a minimizzarla, tuttavia in questa occasione preferirei fermarmi alla prima possibilità, sia perché credo sia primaria ed essenziale per percorrere poi la seconda, sia perché è innanzi tutto a livello biblico che si registra una scarsità di contributi sulla pace anche nel periodo (gli anni sessanta) che vide una fecondità di interventi su questo tema; inoltre non vorrei che restassero delle diffidenze nei confronti dell'annuncio di pace biblico, soprattutto per quel che riguarda l'Antico Testamento, purtroppo così sovente ritenuto, nella storia della chiesa, fonte di teologia della guerra, almeno di quella detta «Guerra Santa».

Occorre subito fare una precisazione sul linguaggio biblico perché purtroppo il nostro termine «pace» nel linguaggio corrente risulta molto depauperato rispetto ai termini shalom dell'Antico e eirene del Nuovo Testamento. Queste precisazioni sono ovvie, ma vale la pena di ricordarle sempre perché noi siamo troppo abituati a pensare la pace come semplice assenza di guerra, come tranquillità, calma. In realtà, lo shalom biblico è molto di più, è un concetto che positivamente esprime un valore assoluto in una gamma amplissima di significati e in una dinamica che rende sovente difficile la distinzione tra la pace di Dio e la pace con Dio e quella molto più materiale tra gli uomini. Già i LXX han dovuto forzare la lingua greca nel tradurre shalom con eirene dando a quest'ultimo termine un significato più esteso, un contenuto mai posseduto dal greco. Come cogliere la portata del termine shalom non solo quale opposto di guerra (come in Qo. 3,8 shalom/milhama) ma nella fedeltà al linguaggio biblico? Vale la pena di riportare alcuni esempi presi direttamente dal testo biblico. Quando Assalonne, ribellatosi al padre Davide, cade in battaglia, dei messaggeri ne portano lanotizia. Davide, che attendeva la fine delle ostilità, domandò a quelli: «c'è pace (shalom) per il mio figlio Assalonne?». Saputo che era caduto morto, Davide piange. (cfr. 2 Sam. 18, 19-19,5). La pace allor qui non è fine delle ostilità ma è vita piena e salvezza. La pace tra Davide e Assalonne poteva giungere non con la semplice fine della ribellione, con la vittoria del re sul rivoltoso, ma con la prosperità, con la vita piena di entrambi. Ma shalom è anche salute fisica, felicità, prosperità materiale. Non solo gli ebrei si salutano con la formula shalom (cfr. Gn. 29,6; 2 Sam. 18,28) ma quando formulano una preghiera chiedono la pace, augurano la pace per una persona, per il popolo, per gli abitanti della città santa di Gerusalemme (cfr. Sal. 122,6-9; 128,2-6; 147,15-14 ecc.). In questi casi la pace è strettamente collegata con la benedizione; anzi è il segno della sua dilatazione sul popolo e sul credente insieme; non è mai un bene individuale, tanto meno un bene soltanto collegato con un'entità collettiva. È un bene promesso ai poveri, atteso dai poveri, capito dai poveri.

A volte c'è una localizzazione dello shalom biblico in un soggetto, in una persona, ma la sua destinazione è il popolo di Dio e quando lo shalom è sulla città, sulla terra, nonlo è in modo astratto, dovendo raggiungere ciascunodei credenti. Né va dimenticato che lo shalom come calma, quiete, situazione in cui si vive senza angoscia e in cui regna la felicità non èuna esperienza soltanto psicologica ma è concreta, quotidiana, integra, che tocca l'uomo biblico tutto intero. Non c'è una pace interiore, una pace spirituale senza che ad essa corrisponda un'esperienza umana nell'esterno, nel concreto, nel materiale! Perfino la situazione a volte invidiabile del malvagio che prospera, che sta bene, che soddisfa i suoi bisogni è detta shalom (cfr. Sal. 73,7 shalom reshaim).

Questa pace biblica, però, non è un'utopia, non sta in un passato perduto, ma è una possibilità che Dio offre all'uomo, è una pace nella storia! Essa fa parte, dunque, dell'annuncio profetico e non è accessoria rispetto all'annuncio del Dio unico e fedele, il Dio dell'Alleanza fatta in ogni carne. Quest'alleanza sarà sempre alleanza di Pace (berit shalom) mentre la sua rottura significherà morte, distruzione, desolazione. Non han forse ragione gli esegeti nel tradurre shalom quando esso appare col suo più pieno significato con il termine salvezza? Frutto e risultato dell'Alleanza con Dio è la salvezza, è la pace, rapporto di riconciliazione e di scambio tra i credenti del patto, in cui Dio dà ciò che possiede: la vita, la gioia, la pace, la salvezza!

Il criterio ermeneutico per cui pace e salvezza sono sinonimi ci è fornito dal grande annuncio dell'evangelo in Is. 57,7: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annuncia la pace, messaggero di bene, ché annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio!» e ancora in Is. 54,10: «La mia grazia non ti abbandonerà e il patto della mia salvezza (berit shalom) non vacillerà!». L'annuncio della pace è dunque annuncio della buona notizia, dell'evanghelion, riservato ai poveri. Quando Dio regna, quando il suo regno viene tra gli uomini, allora si manifesta la pace! Luca 4,18: «ai poveri un lieto messaggio (evanghelion)» è l'annuncia della pace. Per questo chi annuncia il regno, annuncia la pace, chi mostra di essere sotto la signoria di Dio si mostra servo e artefice della pace, chi accoglie il Regno di salvezza accoglie la pace.

A questo punto se noi dovessimo fare la storia della pace nella rivelazione dovremmo percorrere tutta la storia di salvezza. Mi limito, dunque, a fissare alcuni rapporti che servano di riferimento essenziale ad un discorso biblico.

Pace e violenza

Di fronte allo shalom, alla pace veterotestarnentaria non sta la guerra (milhama) ma la violenza (hamas). La guerra è una delle forme che minacciano la pace, è il pericolo più grande e manifesto, ma ve ne sono altrianaloghi e tutti possono convergere nell'espressione hamas indicante la violenza essenziale, radicata nel cuore dell'uomo ma capace di ferire tutto l'ordine di relazioni tra gli uomini, tra l'uomo e le cose, tra l'umanità e Dio. Non dimentichiamo che il messaggio biblico ci proviene proprio da un ambiente di violenza, il Medio Oriente, dove la storia è fatta di guerre, di rivoluzioni, di invasioni e dove sovente la violenza è legalizzata, eretta a sistema. L'esperienza di Israele si colloca in questo spazio, anzi la nascita stessa di Israele e della sua coscienza di popolo avvengono nella violenza patita nella schiavitù egiziana. Una delle prime domande che si pone il credente israelita è proprio questa: dadove viene la violenza? Chi l'ha introdotta nel mondo? Perché il rapporto personale tra uomo e uomo è minacciato dall'odio e dalla violenza? La risposta è formulata a più riprese e in forte crescendo nei primi capitoli della Genesi.

C’è una violenza primaria insediata nel cuore dell'uomo che si manifesta addirittura nell'immagine e nella somiglianza di Dio ormai perduta, nell'Adam maschio e femmina. Il rapporto stesso uomo e donna è minacciato dal dominio, da un atteggiamento di violenza, e questo per una presa di posizione di entrambi nei confronti di Dio. Le scelte dell'uomo non sono mai concluse e irrelazionate nella sfera umana ma sono inerenti al rapporto con il Creatore (cfr. Gn. 23,24). La storia di Caino e di Abele è una risposta successiva. La relazione tra uomo euomo, la relazione profonda tra fratelli, si spezza per una rivalità, una lotta. Caino agricoltore e Abele pastore impersonano due condizioni sociali tra cui scoppia la violenza. Caino fa il sacrificio a Dio separato da quello di suo fratello, si separa nel riconoscimento dell'Unico Creatore e nella sua libertà uccide il fratello. Il monoteismo non poteva essere che una fraternità; spezzata questa fraternità, appare l'omicidio (Gn. 4, 3-16) La violenza si espande vertiginosamente e si costruisce sulla crudeltà e sulla vendetta. Lameck può cantare: «Ho ucciso un uomo che mi aveva graffiato, un ragazzo per un mio livido. Se Caino sarà vendicato sette volte, io Lameck, settantasette» (Gn. 5,23-24). Dal rifiuto di Dio cresce la violenza e si estende a tal punto che «la terra era corrotta e piena di violenza» (Gn. 6,11). Dio, frustrato nella suaqualità di creatore, constata che la terra «per causa degli uomini erapiena di violenza» (Gn. 6,13), che conil suo male poteva solo meritare il diluvio.

Dio però non accetta che questa violenza separi per sempre l'uomo da Lui e ricompare la pace con la nuova umanità sfuggita al diluvio. Dio si vincola all'uomo, a ogni carne, e gli garantisce la salvezza attraverso l'alleanza. In questa alleanza cosmica Dio non chiede altro che il rispetto della vita dell'uomo: «Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello!» (Cfr. Gn. 9,5). Così Dio non abbandona l'umanità omicida a se stessa ma ascolta il grido di quelli che patiscono violenza, si china su di loro e promette pace, salvezza.

Anche nell'alleanza mosaica al Sinai, alleanza con cui Dio si sceglie un popolo tra tutte le genti, una delle clausole del patto è: «Tu non ucciderai» (Es. 20,13), formula categorica senza repliche né eccezioni. L'israelita non dovrà esercitare la violenza, dovrà invece, attraverso l'osservanza dei Comandamenti, creare una situazione di vita sociale e familiare in cui la violenza non abbia spazio per introdursi. Non esiste nell'Antico Testamento nessuna giustificazione per la violenza e quando si prescrive quel famoso codice del taglione (Es. 21,23-24) in realtà si cerca di arginare la violenza, di metterle un limite, affinché non si estenda come nel caso di Lameck e di tutta l’esperienza medio-orientale antica. Anche le guerre di conquista della terra da parte di Israele sono narrate non come resoconto di guerre storiche ma come un preludio del giudizio delle Nazioni alla fine del mondo.

grande messaggio deuteronomistico Dio mette davanti lo shalom e la violenza, la benedizione e la maledizione, la vita e la morte. Ora qui è evidente (basta leggere il capitolo 28 del Deuteronomio) che la pace, lo shalom, faparte della costituzione di Israele. Ciò che Dio enuncia sotto forma di benedizione è esattamente la definizione piena della parola pace, shalom. Questo significa che la violenza può solo sorgere per libera scelta dell'uomo che percorre le vie dell'infedeltà a Dio e alla sua legge. La guerra sarà nient'altro che una delle punizioni per l'infedeltà: «Se seguirete le mie leggi, se osserverete i miei comandi e li metterete in pratica... io metterà pace nel Paese: nessuno vi incuterà terrore e la spada non passerà per il vostro Paese (Lv. 26,3.6) ma se non mi ascolterete e non metterete in pratica tutti questi comandi... manderò contro di voi la spada vindice della mia alleanza» (ib. v. 14; 25). Le vie della pace sono dunque praticabili, la violenza, le guerre non sono un fato ineluttabile che pesa sugli uomini: Israele sa e annuncerà che la pace è una possibilità per l'uomo che rimane in alleanza con Dio.

La pace dono di Dio

insieme viene data anche la pace con Dio, la riconciliazione con il Signore. È qui che si misura la portata teologica e religiosa della pace! Ed è proprie questa qualità della pace che è testimoniata in una singolare espressione del Salmo 85,9; 11: «Il Signore annuncia la pace per il suo popolo, i suoi fedeli. Si incontrano amore e verità, si baciano pace e giustizia». Può essere per noi scandaloso ma nella Bibbia la parola pace, pur essendo anche impegno umano è essenzialmente dono di Dio, è qualcosa che l'uomo da se stesso non può darsi, per il quale l'uomo può predisporre situazioni, per il quale deve invocare il Signore ma in definitiva quando le aspirazioni degli uomini alla pace. Sono corrisposte, ciò appare sempre come dono di Dio.

Lo shalom non nasce da un regolamento internazionale dei conflitti né dalla coesistenza pacifica perché la pace è nella storia ma non è della storia è nel mondo ma non è del mondo. Noi siamo portati a pensare che essa possa nascere da un'evoluzione di fattori storici, di cause interne al mondo ma non è così. Potrebbe anche darsi che un'evoluzione, un nuovo ordine politico internazionale, un ulteriore sviluppo dei rapporti tra le nazioni possa offrire dei mezzi diversi dalla guerra per la risoluzione dei conflitti ma noi per questo cesserebbe la violenza e forse assisteremmo, e già vi assistiamo, al sorgere di vinti e vincitori senza che si siano prima schierati degli eserciti e si siano messe in moto le macchine micidiali della guerra atomica. La guerra non è che un aspetto del confronto crudele e violento tra i poteri. Questa illusione di pace infraumana l'aveva già avuta come tentazione Israele quando pensò che avere un re significasse garantirsi la pace. In nome dell'ideologia monarchica dominante Israele avrà un re, ma il profeta non attenderà mai la pace da lui! Il profeta ammonisce che «il re non dovrà avere un gran numero di cavalli, né dovrà accrescere la sua cavalleria, la sua armata» (cfr. Dt. 17,16; 1 Sam. 8,11-18) ma a questo programma il re non si atterrà e non sarà mai degno di essere un ministro di Dio.

Neanche Davide sarà degno di edificare un tempio al Signore avendo guerreggiato durante la vita e avendo sparso il sangue davanti a Dio sulla terra. Solo il re pacifico, solo Melkisedeck Re di Salem, solo il Sommo Sacerdote Gesù saranno degni di edificare al Signore una vera dimora tra gli uomini (cfr. 1 Re 5,17; 1 Cr. 22,7; 10; Eb. 7,1-28). Neanche Davide, avendo usato violenza, può rappresentare interamente la missione religiosa di Israele. La pace che annunciano i profeti quale menuha, riposo gioioso e pacifico, dono storico e salvifico ad Israele e in particolare ai poveri, agli umili, ai curvati (anawim) di quel popolo verrà solo da Dio; a tal punto che i profeti attendono questo dono da un bambino appena nato, il cui nome è principe della pace (per shalom) e nel cui regno la pace non avrà fine. Sarà lo zelo del Signore Shevaot a fare questo (Is. 9,5-6) con un intervento diretto, divino! In quei giorni la parola del Signore, il devar Adonai, parola-evento, farà sì che gli uomini «forgeranno le loro spade in aratri, le loro lance in falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non si eserciteranno più nell'arte della guerra» (Is. 2,4).

Cosa devono fare allora gli uomini? Non restare passivi ma salire verso Gerusalemme, visione di pace, camminare nella luce del Signore, ascoltare e mettere in pratica la sua parola. La pace, lo shalom, dipende da questo, non da uno sforzo umano che vorrebbe procurare la pace a partire dalla volontà, dalle operazioni umane. Appare chiaro a questo punto che la pace è una persona, il Messia, l'Emmanuele, il Dio-con-noi! ed è una pace non solo per Israele, ma una pace internazionale, tra tutti i popoli, tutti i figli di Adamo, una pace cosmica che riconcilia il Cielo e la Terra, la Creatura e il Creatore. È una pace in cui i nemici storici di Israele, i grandi imperi di Egitto e di Assiria, saranno solo popoli accanto a Israele, una benedizione in mezzo alla terra e saranno benedetti dal Signore quali popoli che gli appartengono (Is. 19,23-25). Il Messia è dunque la pace e la pace è l'opera del Messia il quale «toglierà i carri da guerra da Efraim, i cavalli da Gerusalemme e farà sparire l'arco da guerra. Egli annuncerà la pace alle nazioni e il suo regno si estenderà dall'uno all'altro mare...» (Zac.2,10). Egli apparirà «giusto e vittorioso, cavalca sopra un asino e sopra un asinello» (Zac. 9, 9-10). La pace allora non può essere altro che dono non utopico ma profetico, non atemporale ma storico, non celeste ma nel mondo. I poveri: i soli soggetti ad annunciare la pace.

Gli uomini che vogliono farsi annunciatori di questa pace non potranno fare altro che adottare, in tutta la storia di Israele e poi nella storia cristiana, i metodi e le qualificazioni della pace messianica: essi dovranno essere operatori di pace nella mitezza e non nella violenza, nella debolezza non nella forza, nella povertà non nel possesso, nel servizio non nel potere. Se un credente annunciasse una pace diversa da questa non sarebbe altro che un banditore di pseudo-profezie. È chiaro percepire come sia più facile, più realistico per un cristiano che si crede capace di dialogo umanistico con gli uomini indicare altre vie di pace, ma questo sarebbe un annuncio falso. Anche per il popolo di Dio ci fu la tentazione di ascoltare questi profeti chiamati tecnicamente «profeti di pace» (hannavi asher jinnave leshalom: Ger. 28,9). Essi annunciano la pace a basso prezzo, la collocano nelle alleanze e nei trattati internazionali, la ricercano presso i potenti regni vicini di Israele, la proclamano in una situazione di ingiustizia che non può lasciare spazio all'autentico shalom. Costoro che «hanno visioni personali di pace» (Ez. 13,16), che gridano pace, pace quando pace non c'è (Ger. 6,14) peccano non tanto nel promettere la pace (anche i profeti autentici la promettono!) quanto nel cercarla e dichiararla trascurando il peccato, non discernendo il giudizio di Dio, non attendendola da lui come dono (cfr. Is. 6,13 5.; Ger. 14,13 e 26,16, 28; 1Re 22,5 Mi. 3,5 s.).

Purtroppo quanti ministri di falsa pace, obbedienti allo pseudos della profezia, sono ancor oggi numerosi tra i cristiani e sovente sono tali in buona coscienza e con retta intenzione. Ma costoro che ingannano il popolo dicendo: pace! pace! e pace non c'è! «hanno avuto visioni false, hanno detto parole del Signore mentre il Signore non li ha inviati» (Ez. 13,6).

Pace e giustizia

Se è vero che la pace è un dono di Dio e non un problema tecnico, funzionale, intramondano, è pur vero che esistono delle condizioni per la pace. Ma guai a noi se cercassimo ancora una volta di mettere noi queste condizioni, di essere noi a determinarle con le nostre forze! Di nuovo restiamo scandalizzati perché vorremmo essere protagonisti e artefici della pace, armati della sola volontà di pace. Ma la parola di Dio ci svela che queste nostre paci sono tutte fittizie essendo la pace strettamente legata alla nostra condizione di giustizia. Ma quale uomo è giusto se Dio non lo previene con il dono della sua sedaga? Per la Bibbia l'ingiustizia è misconoscimento di Dio, è generata dall'idolatria, mentre la giustizia è legata alla conoscenza di Dio (daat Ihwh). Quando i profeti con le loro invettive e minacce attaccano i ricchi, i nobili, i prepotenti, gli oppressori, i gaudenti, non si fermano mai nello spazio dell'etica e della morale ma denunciano la radice dell'ingiustizia che sta nell'errato atteggiamento verso Dio. La conoscenza di Dio non determina soltanto l'atteggiamento intellettuale dell'uomo ma tutto il suo operare, il suo stare nella società umana.

È significativa a questo proposito la minaccia di Geremia verso il re Joakim che costruiva case sontuose facendo lavorare il prossimo senza pagare il salario per il lavoro compiuto. Geremia lo condanna facendo il confronto con il padre, il quale «mangiava e beveva certo, ma praticava il diritto e la giustizia e c'era pace. Questo non significa conoscermi?» (Ger. 22,15-16). La pratica della giustizia, la liberazione dell'oppresso mostrano la conoscenza di Dio e portano la pace. Ma se tale conoscenza di Dio non c'è, se c'è idolatria, allora la pace non è possibile perché la giustizia è infranta. L'uomo deve essere integrato nella conoscenza di Dio se vuole essere un operatore di giustizia e avere il dono della pace, non in virtù di una disposizione arbitraria ed estrinseca, ma in virtù del legame che vi è tra i differenti aspetti della stessa realtà storica. La pace esige di fatto un uomo nuovo, un uomo rifatto da Dio.

Israele capì questo dopo la distruzione di Gerusalemme, l'olocausto, la distruzione dei tempio, la deportazione a Babilonia. Geremia, Ezechiele e il terzo Isaia saranno i profeti che aiuteranno il popolo a capire questo legame inscindibile tra pace e giustizia. La morte, la devastazione sono diventate ineluttabili a causa dell'ingiustizia di Israele ma Dio promette un cuore nuovo, un'alleanza nuova, una nuova legge inscritta nel cuore in una economia che non prevede più l'assoluta fedeltà di Israele ma soltanto l'assoluta fedeltà di Dio (Ger. 31,31-33). L'uomo nuovo con un cuore di carne (Ez. 36,25 s.), munito di un nuovo spirito, abbandonando l'idolatria e l'ingiustizia, troverà lo shalom che verrà esteso a tutti i popoli pagani che riconosceranno il Signore, anche all'Egitto (Is. 19,21). Le nazioni fatte discepole del Signore avranno abbondanza di pace perché nell'osservanza della volontà del Signore meriteranno la pace. La pace sarà opera della giustizia, frutto della giustizia sarà la tranquillità e la fiducia per sempre (Is. 32,17) e sulla terra «giustizia e pace si baceranno perché verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal Cielo» (Sal. 85,11-12).

Solo nella conoscenza di Dio «la tua pace diventa come un fiume e la tua giustizia come onde del mare, dice il Signore» (Is. 48,18) e Gerusalemme sarà fondata sulla giustizia (Is. 54,14) avendo per sovrano la pace, per governatore sedaga (Is. 60,17). Il credente non dovrà mai darsi pace finché non sorga la giustizia come stella sul popolo di Dio (Is. 62,1): una giustizia vista da tutti i popoli come dono dell'Amante all'Amata, elargizione della sua santità, della sua fedeltà, della sua misericordia che salva in radice l'uomo e il popolo. Noi siamo tentati di dire che la Pace è possibile solo quando esiste la giustizia intersoggettiva tra le componenti sociali, nazioni o persone: questo è vero in una certa misura ma non dobbiamo pensare che la pace sia dono alla nostra giustizia perché è già dono questa stessa possibilità di giustizia, la giustizia di Dio!

Pace e vangelo

Il Nuovo Testamento non aggiunge un'ulteriore rivoluzione a questa pace veterotestamentaria che abbiamo delineato in alcuni punti focali. Il Nuovo Testamento proclama semplicemente che questa pace è in atto dal momento in cui Dio ha visitato il suo popolo «guidando i nostri passi sulla via della pace» (Lc. 1.79). L'intervento di Dio teso a evangelizzare la pace è diventato definitivo attraverso Gesù di Nazareth perché intervento messianico. Quando il bambino principe della pace ci è stato dato a Betlemme, gli Angeli non possono far altro che annunciare la pace agli uomini oggetto della benevolenza divina (Lc. 2,14) e quando Gesù appare ad annunciare il Regno di Dio, annuncia la realizzazione possibile della pace nella sua signoria. Dunque il Vangelo non è altro che annuncio della pace compiuta in Cristo, pace resa possibile dalla presenza in mezzo agli uomini del Figlio di Dio. Con la sua morte in croce, subendo la violenza che il mondo intero scaricava su di lui, Gesù effondeva il suo spirito che è spirito di pace «distruggendo in sé l'inimicizia, abbattendo il muro di separazione che teneva separati giudei e pagani, creando un uomo nuovo» (Ef. 2,13-18).

La pace ormai è Cristo, è Gesù di Nazareth, è quella parola che Dio ha mandato ai figli di Israele per evangelizzare la pace! (At. 10,36). La pace dono di Dio; la pace legata alla giustizia, la pace messianica non è solo annunciata ma è donata, lasciata ai discepoli di Cristo risorto che si presenta con il saluto della pace: «Pace a voi» (Lc. 24,36; Gv. 20,19 s.). Ma Gesù non è solo portatore di pace, anzi proprio perché porta la pace autentica, prima è anche portatore di divisione, di spada: è segno di contraddizione (Lc. 2,31-34; 12,51; Mt. 11,12). Egli non può essere uno di quei profeti di pace e per questo richiede ai discepoli una violenza contro le loro membra (Mc. 8; 9,42-48), contro la loro vita (Mc. 8,34-36) contro i loro possessi (Mc. 10,29-30). Come lui è entrato nella pace di Dio dopo un aver sofferto la morte, il discepolo che non è più del maestro deve entrare nella volontà del Padre attraverso il carico della propria croce, luogo di violenza, patibolo reale; questo ci scandalizza ancora di più che l'annuncio della pace veterotestamentaria e dobbiamo confessare che come cristiani abbiamo sovente un concetto errato della pace evangelica.

Ha pace chi entra in comunione con Dio, chi accetta di essere amato da Dio, chi confessa realmente Gesù come Signore e lo attende come il Veniente, Colui che mette fine alla scena di questo mondo per aprire Cieli nuovi e Terra nuova. Solo chi sa di essere stato amato da Dio quando gli era ancora nemico e riconosce quest'amore nella Croce di Cristo (Rm. 5,10) sa distinguere la pace del mondo dalla pace dono di Dio del Messia (cfr. Gv. 14,27). Se il discepolo ha accolto questa pace può e deve proclamarla come primo annuncio, deve farsi messaggero del Vangelo: «Pace a questa casa» (Lc. 10,5-7) e può soprattutto mostrarla, farsi esegeta dello shalom nella vita concreta, nella compagnia degli uomini. Possedendo il Regno di Dio pur nella povertà, nell'afflizione, nella fame e nella sete di giustizia, resterà mite, misericordioso e sarà operatore di pace, un figlio di Dio! (Mt. 5,3-10). È vero che Gesù non porta nessun cambiamento delle forze storiche, ma dà ai poveri, agli umiliati, una potenza che sta tra le componenti della storia: è una potenza disarmata, una violenza dei pacifici che è però efficace. Questi poveri che sono la chiesa autentica dovranno amare i nemici, fare del bene ai delinquenti e perdonare settanta volte sette, quante le volte della vendetta di Lameck che è presente in ogni generazione umana. Costoro, sull'esempio di Gesù, non ricorreranno alla forza, non useranno la spada, non impareranno l'arte della guerra, non si difenderanno. Sono infatti seguaci di un Signore che è Agnello sgozzato ma ritto in piedi, vincitore del male.

È questo il luogo in cui si verifica la fedeltà della chiesa al Signore, il luogo in cui noi possiamo misurare la nostra qualità di discepoli! L'unico modo per vincere la violenza non sarà mai quello di difenderci o di prepararci a fare una violenza difensiva. Il cristiano dovrebbe avere un tale orrore delle armi da non dare mai il suo contributo per la corsa folle agli armamenti, per l'installazione di missili che vorrebbero difendere la pace. È una vergogna questa nostra timidezza in questi giorni e si può solo comprendere se sappiamo vedere tutta l'ambiguità della nostra martyria di pace nel quotidiano, nella vita di ogni giorno, fraterna, sociale, politica. Il cristiano sa che questo fa parte della scena del mondo che passa e per questo deve uscire in fretta dal sistema della violenza inserendosi nell'economia della pace messianica. Di fronte alla guerra, alla violenza, il cristiano deve fare un discernimento e, sapendo che il mistero di iniquità è in atto nella storia umana (2Ts. 2,7), non aggiungere la voce a quanti dicono: «pace e sicurezza» come se il mondo di per se stesso potesse giungere alla pace (cfr. 1Ts. 5,3).

Di fronte alla violenza subita il cristiano non può far altro che diventare ministro del perdono di Dio: questa è la sua iniziativa di pace che immette nella storia energie divine, forze messianiche capaci di vincere il male con il bene (Rm. 12,14). Forse in questo caso il cristiano rischia di vedere elevarsi contro di se tutto l'odio del mondo, può anche essere ucciso, perseguitato, ma sarà colui che non ha adorato né la bestia né la sua immagine (Ap. 20,4). Il Regno di Dio consiste nella pace portata da Cristo al mondo, ma pegno e anticipazione profetica di questa pace dobbiamo essere noi cristiani, la chiesa, noi portatori della pace di Cristo nella compagnia degli uomini.

Pubblicato in Dossier Pace
Domenica, 14 Gennaio 2007 19:42

Pace e guerra XXI Secolo (Carlo Maria Martini)

Pace e guerra XXI Secolo

di Carlo Maria Martini

INTRODUZIONE

Sono lieto di partecipare a questo momento di studio e di riflessione promosso dal Forum di Relazioni internazionali, allo scopo di individuare i contenuti che i concetti di pace e di guerra vanno assumendo oggi, all'alba del XXI secolo.

Saluto e ringrazio tutte le autorità politiche, militari ed ecclesiali qui presenti, come pure i rappresentanti delle Organizzazioni internazionali, del mondo accademico e delle organizzazioni umanitarie, i relatori e tutti i partecipanti a questo incontro.

La riflessione da voi promossa nasce dalla consapevolezza che le gravi instabilità e ingiustizie del nostro tempo provocano interventi militari, interventi tesi in teoria a garantire, ristabilire o imporre il rispetto dei diritti fondamentali di persone e collettività e che tuttavia suscitano gravi interrogativi di ordine morale, politico e anche militare in chi ha la responsabilità della decisione e dell'esecuzione di tali interventi.
Tale riflessione, inoltre, si impone all'alba del nuovo millennio, dopo un secolo - il XX - che, per un verso, è stato uno dei periodi più tragici dell'intera storia umana e, per un altro verso è stato il secolo in cui si sono levati i più alti appelli alla pace.

L'ultimo secolo, infatti, "è stato un secolo segnato da odio e da profondo disprezzo nei confronti dell'umanità, odio e disprezzo che non rinunciavano a nessun mezzo e metodo per annientare e sterminare l'altro" . È stato un secolo di guerre, intervallate da periodi più o meno lunghi, non di pace, ma di tregua: oltre alle due guerre mondiali, molti altri, circa centoottanta, sono stati i conflitti armati interni a singoli Stati o a livello internazionale, i quali - secondo attendibili stime internazionali - tra il 1950 e il 1990 hanno provocato circa quindici milioni di morti nel mondo. Né si possono dimenticare le incalcolabili sofferenze che queste innumerevoli guerre hanno inflitto all'umanità: hanno causato milioni e milioni di morti e di feriti, distrutto famiglie, gettato nella miseria popoli interi, creato maree di profughi, condannato al sottosviluppo interi continenti. Lungo lo stesso secolo, si è pure instaurata una corsa agli armamenti più distruttivi e più sofisticati che non ha nemmeno lontanissimi paragoni nei secoli precedenti: se tutto questo non ha portato all'olocausto nucleare, pur avendolo sfiorato varie volte, non è stato - come alcuni hanno giustamente osservato - per rinsavimento o per saggezza, ma per timore, perché ci si è resi conto che in una guerra atomico-nucleare, combattuta su tutto il pianeta con l'uso di armi nucleari strategiche, non ci sarebbero stati né vinti né vincitori, ma la fine della storia umana .

Il secolo XX, nel contempo, è stato il secolo nel quale l'idea e l'azione per la pace hanno indubbiamente conosciuto una significativa accelerazione. È stato, infatti, il secolo della proclamazione dei Diritti dell'uomo, dell'affermazione della democrazia e della sconfitta dei totalitarismi, della fine del colonialismo, delle creazione di grandi organismi internazionali e, in particolare, dei primi tentativi - con la Società delle Nazioni e con l'ONU - di realizzazione di una sorta di governo mondiale, con lo scopo di mantenere la pace e di "preservare le nazioni future dal flagello della guerra" . È stato anche il secolo nel quale ha preso avvio una cultura della pace, che si è espressa con personalità come Leone Tolstoj, Gandhi e, in Italia, nel "Movimento non-violento per la pace" di Capitini. In campo cattolico, infine, oltre all'affermazione, specialmente nella seconda metà del secolo, di un forte movimento pacifista, va indubbiamente ricordato il ricchissimo magistero soprattutto pontificio da Benedetto XV a oggi e la presa di posizione del Concilio Vaticano II.

Siamo posti di fronte così a uno dei temi - quello della guerra-pace - tra i più ardui e complessi della convivenza umana e della morale sociale, che ha accompagnato la riflessione della coscienza umana e cristiana lungo tutta la storia e che oggi, con lo straordinario mutamento dovuto all'avvento delle armi atomiche e nucleari, si pone con caratteristiche significativamente diverse dal passato. E' per tutti questi motivi che anch'io mi sento profondamente interpellato da questo tema, pur non avendo di esso competenza specifica. Vi rifletto a voce alta di fronte a voi con la mia coscienza di cristiano e di vescovo, alla ricerca di parametri etici e alla luce del messaggio evangelico, pur consapevole della complessità dei problemi che altri potranno approfondire in maniera più precisa e concreta. Le mie fonti di ispirazione sono naturalmente anzitutto le Sacre Scritture e la dottrina sociale della Chiesa. Risento dunque anzitutto in me la parola di Gesù "Beati gli operatori di pace,perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9), il suo invito provocatorio "Ma io vi dico, amate i vostri nemici" ( Mt 5,44) e guardo al futuro con la speranza del profeta Isaia "Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci" (Is 2,4), tenendo conto nello stesso tempo del lungo cammino storico dei popoli e delle coscienze per interiorizzare e attuare un tale messaggio, in costante conflitto con le infedeltà e gli egoismi umani.

In questo contesto intendo proporre alcuni spunti di riflessione generale su quattro punti:

1. La coscienza cristiana di fronte alla guerra;
2. L'edificazione della pace nella giustizia e nella solidarietà;
3. In questa luce, qualche riflessione sulla cosiddetta ingerenza umanitaria;
4. Principi per una riconsiderazione dell'attuale assetto internazionale.

1. LA COSCIENZA CRISTIANA DI FRONTE ALLA GUERRA

Quella della Chiesa e dei cristiani verso la guerra è una storia e una riflessione che ha accompagnato i due millenni di cristianesimo fin qui trascorsi. Essa - come è stato giustamente notato - "sembra avere subito numerosi mutamenti lungo i 20 secoli che stanno concludendosi. Infatti è passata da un atteggiamento più o meno pacifista nei primi quattro secoli alla formulazione della teoria della guerra giusta, poi al sostegno di politiche destinate a costruire la pace" .

In ogni caso, a partire dal dato storico e dalla dottrina recepita, sembra affiori progressivamente entro la tradizione cristiana una linea convergente nel tentativo di ridurre sempre di più dimensioni e conseguenze di ogni intervento bellico.

In questo senso va letta anche la dottrina della "guerra giusta", sostenuta per molti secoli dalla teologia, senza essere mai sancita in modo "ufficiale" dal Magistero della Chiesa. Tale dottrina, infatti, - nell'accezione condivisa dalla morale cattolica e diversamente da quella deviazione interpretativa che se ne è data a partire dal Rinascimento, allorché venne utilizzata per arrecare una parvenza di legittimazione morale alle diverse ambizioni nazionali - "non è animata dall'intenzione di "giustificare" nel senso di promuovere o incoraggiare il ricorso alla guerra. Al contrario, essa mira a ridurre il più possibile tale ricorso. "Il più possibile", in quanto non esclude a priori che - in particolari situazioni - l'astensione da interventi militari avrebbe effetti controproducenti proprio rispetto al fine che sempre deve essere perseguito: quello di assicurare le condizioni per una convivenza umana "pacifica", libera, cioè, dal dominio della violenza incontrollata e del "potere" arbitrario" . Il presupposto di tale teoria consisteva nella convinzione che la guerra, che in ogni caso costituisce una disgrazia e comporta mali grandi e orrendi, in alcune circostanze potrebbe apparire come in qualche modo "inevitabile" o "necessaria". In ogni caso l'intento di tale teoria, intento di stampo prettamente pedagogico, era quello di fare appello alla coscienza perché rinunciasse alla violenza - aiutandola a liberarsi dai condizionamenti della passione, del desiderio di vendetta, e di ogni sorta di sopraffazione - e decidesse se, in quel momento preciso e concreto, il ricorso alla violenza fosse in qualche maniera ammissibile e giustificabile. Per raggiungere tali scopi, questa teoria individuava condizioni e regole molto precise e severe - anche se spesso concretamente inattuabili, considerata la logica stessa della guerra, che mira a infliggere al nemico danni gravissimi, assai superiori a quelli probabilmente indispensabili per conseguire il pur giusto fine per cui si fa la guerra - perché una guerra potesse dirsi "giusta" .

La guerra - come appare anche dalla teoria appena ricordata della "guerra giusta" - è sempre un male e, come tale, va evitata o almeno - quando essa apparisse come inevitabile - va limitata il più possibile nelle sue dimensioni e nelle sue conseguenze. Ciò è ancora più evidente e urgente a mano a mano che si passa alla guerra moderna, a una guerra, cioè, che per sua natura comporta armi e distruzione di massa, che sfuggono al controllo dell'uomo e che, seppure in misura diversa, si qualifica pressoché sempre come "guerra totale", anche quando non si usassero armi chimiche o termonucleari, ma armi cosiddette convenzionali . Come sottolinea, infatti, anche Giovanni Paolo II, oggi "non è difficile affermare che la potenza terrificante dei mezzi di distruzione, accessibili perfino alle medie e piccole potenze, e la sempre più stretta connessione, esistente tra i popoli di tutta la terra, rendono assai arduo o praticamente impossibile limitare le conseguenze di un conflitto" .

Alla luce di questi radicali cambiamenti intervenuti nel modo di fare la guerra e nel concetto stesso di guerra, si comprende come, nel secolo XX, con gli interventi del magistero, da Benedetto XV a Giovanni Paolo II, si sia passati dalla considerazione delle condizioni classiche per l'affermazione di una "guerra giusta" all'affermazione della impossibilità di dichiarare "giusta" una guerra totale, o condotta con armamenti strategici ultimamente incontrollabili, fino all'affermazione della necessità di evitare, fin dove possibile, ogni guerra, in un contesto come l'attuale, nel quale un conflitto appare non facilmente delimitabile una volta avviato, nel quale, civili vengono di solito ad essere molto più coinvolti dei militari stessi e dove le conseguenze creano facilmente effetti negativi destinati a perdurare ben oltre la durata delle operazioni belliche. Come, infatti, già si esprimeva Giovanni XXIII nella Pacem in terris, superando così il concetto di "guerra giusta", "Nell'era atomica è irrazionale [alienum est a ratione] pensare che la guerra possa essere utilizzata come strumento di riparazione dei diritti violati" . E il Concilio, che per lo più non ha voluto pronunciare anatémi, su questo punto ha avuto una parola ferma e dura: "Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato" .
Secondo questi interventi, si deve, quindi, concludere che la guerra moderna è di fatto quasi sempre immorale . Essa, inoltre, è anche inutile, dannosa e irrazionale, perché non solo non risolve, se non apparentemente e momentaneamente, i problemi che l'hanno scatenata, ma li aggrava e ne crea di nuovi ancora più gravi. Come ha scritto Giovanni Paolo II, "il secolo XX ci lascia in eredità soprattutto un monito: le guerre sono spesso causa di altre guerre, perché alimentano odi profondi, creano situazioni di ingiustizia e calpestano la dignità e i diritti delle persone. Esse, in genere, non risolvono i problemi per i quali vengono combattute e pertanto, oltre ad essere spaventosamente dannose, risultano anche inutili. Con la guerra, è l'umanità a perdere" . Ne segue l'accorato appello risuonato già sulle labbra di Paolo VI prima, nel suo intervento all'ONU , e poi ripreso solennemente anche da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus: "Mai più la guerra!". No, mai più la guerra, che distrugge la vita degli innocenti, che insegna a uccidere e sconvolge egualmente la vita degli uccisori, che lascia dietro di sé uno strascico di rancori e di odi, rendendo più difficile la giusta soluzione degli stessi problemi che l'hanno provocata!".

In questo quadro, che concorre ad affermare che oggi non esistono "guerre giuste" e non esiste un "diritto di 'fare' la guerra", l'unico spiraglio che rimane praticamente aperto in ordine alla "legittimità" - e non tanto e ancora alla "doverosità" - di un intervento bellico è quello che riguarda la cosiddetta guerra difensiva, in presenza di un'aggressione ingiusta in atto . È, per altro, uno spiraglio molto piccolo, se si considera soprattutto il tema della "proporzionalità" tra il bene che ci si aspetta di conseguire e i danni da infliggere e i costi da sostenere. Come dice, infatti, il Concilio, "fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità d'un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto d'una legittima difesa" . È un diritto, questo ribadito anche recentemente nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che precisa anche gli attuali rigorosi criteri di legittimità morale, la cui "valutazione morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune" . In forza di tali criteri, "occorre contemporaneamente: - che il danno causato dall'aggressione alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; - che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; - che ci siano fondate condizioni di successo; - che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione" .
Ne segue che, anche in questo caso, - come ho ricordato fin dall'inizio - la logica e l'intento di fondo è di ridurre sempre più dimensioni e conseguenze dell'intervento bellico e, positivamente, di sollecitare un'azione articolata e convergente che porti a superare le cause di un possibile conflitto. Si tratta, tra l'altro, di proseguire non soltanto nella linea di una delimitazione degli effetti negativi degli armamenti, ma in quella della accurata reinterpretazione del concetto stesso di "difesa". Per un verso, superata la prospettiva tradizionale della "difesa del territorio nazionale e della popolazione ad esso inerente", si potrebbe accedere a sempre nuove identificazioni dei "mali sociali" o "strutture di peccato" cui una o più nazioni, anche solidalmente, sono chiamate a rispondere, con la conseguente predisposizione di tattiche e mezzi idonei allo scopo. Per un altro verso, si tratterebbe di dare spazio a diversificate e convergenti azioni di difesa, non esclusa anche la difesa non-violenta. Occorre, infatti, - come ricordavo in occasione della Giornata Mondiale della Pace del 1984 - "avere il coraggio di esigere che i responsabili programmino forme di difesa militari e civili non offensive, che non sono la rassegnazione totale, ma non sono neppure la deterrenza e la dissuasione offensiva che è al centro del dibattito morale oggi. Bisogna osare la via realistica della dissuasione puramente difensiva, che è poi la versione moderna della "legittima difesa", la quale ultima è troppo spesso confusa con la legittima offesa. Gli scienziati e i tecnici vanno mobilitati non per scoprire armi più vulneranti (anche se si dice che rimarranno solo a scopo di minaccia e di monito), ma modi di neutralizzare l'offesa così da scoraggiarla perché priva di risultati adeguati. È così che gli Stati moderni intendono la legittima difesa all'interno delle loro strutture civiche. Perché non deve essere lo stesso anche tra gli Stati, in attesa di un'autorità definitiva che regoli i conflitti con i soli mezzi del dialogo?"

Con la condanna del ricorso alla guerra, infine, la coscienza cristiana è andata progressivamente condannando la corsa agli armamenti e superando la logica della deterrenza, intesa come accumulo di armi - a livello quantitativo e, oggi soprattutto, a livello qualitativo e di tecnologie avanzate - allo scopo di dissuadere qualsiasi avversario dal compiere atti di guerra. "Riguardo a tale mezzo di dissuasione - come si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica - vanno fatte severe riserve morali" . Esso infatti - come afferma il Concilio e gli fa eco lo stesso Catechismo - "non è la via sicura per conservare saldamente la pace né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile. Le cause di guerre, anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente. E mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente" . In altri termini - come ha detto il Papa il 23 agosto 1982 - "la logica della deterrenza nucleare non può essere considerata come uno scopo finale o un mezzo appropriato e sicuro per salvaguardare la pace internazionale". Ancora più precisamente - come ha affermato lo stesso Giovanni Paolo II nel suo Messaggio all'ONU dell'11 giugno 1982 - "Nelle condizioni attuali, una "deterrenza" fondata sull'equilibrio, non certo come un fine in se stesso ma come una tappa sulla via di un disarmo progressivo, può ancora essere giudicata moralmente accettabile. Tuttavia, per assicurare la pace, è indispensabile non essere soddisfatti di questo minimun che è sempre esposto al reale pericolo dello scoppio di una guerra".

A dire, cioè, che la politica della deterrenza può essere moralmente accettabile solo se, nello stesso tempo, si fa sinceramente e concretamente ogni sforzo per imboccare la via del negoziato, allo scopo di giungere al disarmo e se si lavora per mutare il clima di sfiducia e di paura nei rapporti internazionali. Ne segue che essa non è, invece, moralmente accettabile quando non fosse controbilanciata da una politica di riduzione o limitazione degli armamenti e di disarmo progressivo e multilaterale . Ne segue pure che, tale politica va tanto più superata quanto più crescono il negoziato, il disarmo, la fiducia tra gli Stati. Come sottolineavo nella già citata mia omelia per la Giornata Mondiale della Pace del 1984, "la sicurezza non deve essere intesa solo come sicurezza militare, ma deve consolidarsi attraverso un potenziamento del dialogo, dei sistemi democratici, degli organismi di controllo internazionali. La stessa dissuasione deve farsi forte non solo di quell'atteggiamento così disumano che è la forza violenta, ma anche e soprattutto di quelle risorse più degne dell'uomo che sono la solidarietà internazionale, le sanzioni giuridiche, l'isolamento di chi usa prepotenza, ecc." . E aggiungevo: "Occorre anche sviluppare tecniche e addestramenti di difesa civile non violenta, e investire per questo in programmi adeguati. L'insieme di questi mezzi costituirebbe una reale alternativa alla deterrenza offensiva. Sarebbe una efficace dissuasione difensiva che ci permetterebbe di affrontare tutti con cuore più disponibile il tema del disarmo, in parte anche di un disarmo unilaterale. […] Non ci vengano dunque a dire che non c'è alternativa realistica alla deterrenza offensiva. C'è, e bisogna trovarla con tutte le forze, se non si vuole che la dissuasione aggressiva che è poi la garanzia del mutuo annientamento, tollerata ora come male minore e come ripiego provvisorio e solo alla condizione di trovare vie di uscita più umane e pacifiche, diventi un'abitudine, una pratica accettazione della spirale degli armamenti, e infine una trappola di morte per l'umanità".

2. L'EDIFICAZIONE DELLA PACE NELLA GIUSTIZIA E NELLA SOLIDARIETÀ

Da quanto detto fin qui risulta che non bastano la ribellione morale alla guerra e alla corsa agli armamenti e il rifiuto della politica della deterrenza. Occorre, insieme e positivamente, impegnarsi per costruire la pace, la quale - come insegna la Pacem in terris - è fondata sulla verità, sulla giustizia, sull'amore, sulla libertà . Ne seguono - quale sfida urgente e improcrastinabile anche per il XXI secolo - la necessità e il dovere di impegnarsi per eliminare dal nostro mondo le disuguaglianze sociali e gli squilibri economici tra i popoli, le condizioni di oppressione e lesione dei diritti umani più essenziali, le minacce per l'umanità connesse con ogni tipo di totalitarismo politico o ideologico.

"Il mobilissimo e impegnativo compito della pace, insito nella vocazione dell'umanità ad essere e a riconoscersi come famiglia" - ha scritto Giovanni Paolo II nell'ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace introducendo la questione della solidarietà come condizione ineliminabile per la pace - "ha un suo punto di forza nel principio della destinazione universale dei beni della terra". E aggiungeva: "Nessuno si illuda che la semplice assenza di guerra, pur così auspicabile, sia sinonimo di pace duratura. Non c'è pace vera se ad essa non si accompagnano equità, verità, giustizia e solidarietà. Resta destinato al fallimento qualsiasi progetto che ritenga separati due diritti indivisibili e interdipendenti: quello alla pace e quello ad uno sviluppo integrale e solidale".

A questo proposito, l'edificazione della pace, soprattutto in un contesto di globalizzazione come l'attuale, richiede che si abbia a far maturare un'autentica cultura della solidarietà. Nel fare ciò va superata ogni concezione "assistenzialistico-sentimentale" della solidarietà stessa, vedendola piuttosto come responsabilità per il bene comune. Si deve pure riconoscere il nesso che intercorre tra efficienza e solidarietà, convinti che quest'ultima, proprio in quanto risponde a un principio etico superiore di fraternità verso chi si trova in condizioni di bisogno, può essere considerata anche una "convenienza" per lo stesso funzionamento complessivo della società. Essa, inoltre, può essere realizzata mediante una pluralità di "reti di sostegno", capaci di attuarsi in ordine a una molteplicità di situazioni, che di per sé non riguardano soltanto i "poveri". Infine, va attuata riconoscendo anche il "vincolo" e il "debito" che ci lega a tutto il patrimonio ambientale, economico, culturale, sociale lasciatoci in dono dalle generazioni che ci hanno preceduto: ciò esige - proprio in nome della solidarietà - che ci si assuma la responsabilità di consegnarlo "migliorato" alle generazioni future. In altre parole, la sfida che ci attende è quella di assicurare "una globalizzazione nella solidarietà, una globalizzazione senza marginalizzazione".

Va pure sottolineato, in particolare, - come ha sottolineato Giovanni Paolo II nell'enciclica Sollicitudo rei socialis - che "il traguardo della pace, tanto desiderata da tutti, sarà certamente raggiunto con l'attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma anche con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci insegnano a vivere uniti, per costruire uniti, dando e ricevendo, una società nuova e un mondo migliore" . Il riferimento a queste "virtù" mi suggerisce una parola di richiamo al ruolo fondamentale e irrinunciabile dell'educazione per l'edificazione della pace. Si tratta, infatti, di far crescere le persone nella libertà, purificandola da ogni falsificazione o riduzione e rispettandola e promovendola con saggezza e prudenza. Si tratta di condurre un'opera paziente e coraggiosa di responsabilizzazione che aiuti ogni persona a crescere in quella solidarietà che - per riprendere ancora alcune espressioni del Papa - è "la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti" . Si tratta, in ogni ambito educativo e nella concretezza dell'esperienza quotidiana, di comunicare alcuni valori fondamentali - quali il rispetto dell'altro, il senso della giustizia, la sincerità, l'onestà, l'accoglienza cordiale, il dialogo, la disponibilità disinteressata, il servizio generoso - che soli possono concorrere a far crescere uomini veri, giusti, generosi, forti e buoni, quegli uomini cioè che possono contribuire positivamente all'edificazione di una convivenza umana più pacifica. Tutto questo nasce dalla convinzione che - come si legge in un documento della Commissione "Giustizia e pace" della Conferenza episcopale italiana - la pace chiama certamente in causa le istituzioni, "ma è sempre il cuore dell'uomo che è chiamato a scegliere tra la forza e il dialogo, la competizione e la solidarietà" . Ne segue che il pur necessario cambiamento delle istituzioni resta impresa vana e impossibile se non cambia il cuore dell'uomo e se, quindi, attraverso l'opera educativa, l'uomo non viene aiutato ad essere pienamente se stesso, nel riconoscimento dell'altro e in un rapporto di prossimità e di fratellanza con tutti.

È, infine, un'azione, quella dell'edificazione della pace, che invita l'intera umanità a impegnarsi su vie nuove e a sviluppare la collaborazione fattiva di tutte le forze ideali che, riconoscendo il valore superiore dell'ideale della pace, partecipano alla sua costruzione. Ne segue la necessità di un dialogo, non ingenuo e cieco, ma lucido, tra le parti sociali delle diverse civiltà: un dialogo che orienti e induca a guardare alla pace non soltanto come a un'assenza di guerra, imposta con la forza, ma come a un'opera di giustizia inscritta nella realtà. In altri termini, oggi si chiede a tutti di costruire la pace, guardando agli interessi globali dell'intera umanità e adoperandosi per uno sviluppo solidale nel rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno. E proprio in riferimento a queste esigenze di solidarietà e di difesa dei diritti possono essere ripresi e reinterpretati i criteri individuati nel passato per la problematica della "guerra giusta" . Ciò significa che autorità competente, giusta causa, retta intenzione, preoccupazione per le popolazioni civili, considerazione e rispetto delle proporzioni possono essere aspetti di una "griglia di lettura" che permette ai popoli di giudicare se l'agire quotidiano dei loro governi rafforzi o metta in pericolo la pace. E tale "griglia di lettura" può costituire il nucleo di una "teologia della pace", che teologi, politici e militari devono elaborare insieme.

3. QUALCHE RIFLESSIONE SULLA COSIDDETTA INGERENZA UMANITARIA

Un'altra questione - da distinguere opportunamente da quelli fin qui affrontati della guerra e dell'intervento armato a scopo difensivo - è quella che riguarda un intervento armato, o comunque supportato dall'uso di armi, orientato a finalità di carattere umanitario, attuato sia nel tentativo di comporre i rapporti tra differenti Paesi o di prevenire un conflitto, sia per ristabilire livelli accettabili di convivenza all'interno di un singolo Stato, i cui poteri pubblici non sono o non sarebbero più in grado di provvedervi in modo autonomo .
Il presupposto che fonda e spiega la possibilità di questa cosiddetta "ingerenza umanitaria" è dato dalla convinzione, che i diritti umani, da un lato, in quanto strettamente connessi con la dignità della persona umana, sono anteriori e preminenti a qualsiasi differenziazione o specificazione e, dall'altro lato, proprio per questo non hanno frontiere, perché sono universali e indivisibili. Ne segue - come ha scritto il Papa nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno - sia che "chi offende i diritti umani offende la coscienza umana in quanto tale, offende l'umanità stessa", sia che "il dovere di tutelare tali diritti trascende i confini geografici e politici entro cui essi sono conculcati", per cui "i crimini contro l'umanità non si possono considerare affari interni di una nazione" . Ne segue che, soprattutto in un tempo di interdipendenza come il nostro, il principio di non-ingerenza tra gli Stati, se inteso in modo assoluto, si rivela anacronistico e antistorico, oltre che non rispettoso della posta in gioco allorquando vengono conculcati i diritti degli uomini e dei popoli.

A partire da tutto ciò, contro ogni presunta "ragione" della guerra, va anzitutto affermato "il valore preminente del diritto umanitario e pertanto il dovere di garantire il diritto all'assistenza umanitaria delle popolazioni sofferenti e dei rifugiati" e, nello stesso tempo, "il dovere di individuare tutti quei modi, istituzionali e non, che possono concretizzare al meglio le finalità umanitarie" . Si apre qui un capitolo molto vasto e interessante, che non è possibile ora sviluppare, circa il senso, le condizioni e i limiti degli interventi delle diverse organizzazioni umanitarie e, in particolare, di quelle di ispirazione cristiana.

Dalle medesime considerazioni e quando i soli interventi umanitari non fossero sufficienti, deriva anche la legittimità-doverosità della più diretta "ingerenza umanitaria" che preveda anche l'eventuale uso delle armi. Così si esprime il proposito il Papa nel più volte citato Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno: "Evidentemente, quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l'aggressore" . Una legittimità-doverosità che deve rispondere a precise e rigorose condizioni, così espresse: "Queste tuttavia devono essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un'autorità riconosciuta a livello soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi".

Si tratta di un principio di carattere etico-giuridico prima che politico e militare, che sancisce il diritto-dovere della comunità internazionale di intervenire anche con la forza, se necessario, negli affari interni di uno Stato, quando sono in gioco i diritti fondamentali dei cittadini. Come tale esso sembrerebbe da considerare - più che nella linea della difesa da un male - nella logica degli interventi di ristabilimento dell'ordine pubblico. Si tratta, quindi, di interventi che possono anche arrivare a prevedere l'uso delle armi, ma come "extrema ratio" e dopo avere utilizzato tutta una serie di altri mezzi, oltre a quelli dovuti alla prevenzione e alla diplomazia. Siamo di fronte, in altre parole, a un intervento armato di tipo sussidiario, sia come "affiancamento" o "protezione" di operazioni umanitarie in corso, sia come modalità di "ristabilimento" dell'ordine pubblico.

È evidente che tale principio richiede una vera riconsiderazione dell'attuale assetto internazionale, in cui la sovranità dei singoli Stati è piena ed indiscussa, così da mettere in atto e portare a ulteriore sviluppo processi virtuosi di autolimitazione di essa da parte di ogni singolo Paese e da creare effettivamente spazi e condizioni per un'azione efficace, accolta e riconosciuta di organismi internazionali, come l'ONU, a loro volta riformati almeno quanto a poteri e a capacità rappresentativa. Si apre qui, tra l'altro, anche il grosso capitolo della giustizia internazionale e del suo ristabilimento: un ambito vastissimo e comprendente tutto quanto attiene al problema dello sviluppo e che va ben oltre il campo degli interventi estremi di carattere armato. Questi ultimi, comunque, andranno presi in considerazione là dove non ci fosse altra possibilità realistica, sempre però secondo quella logica sussidiaria a cui ho già accennato e che, come tale, è complementare ad altri interventi, anche di carattere punitivo o restrittivo della "libertà statuale", se così si può dire, in linea con la logica della "giustizia penale" che si applica all'interno degli Stati.

4. PRINCIPI PER UNA RICONSIDERAZIONE DELL'ATTUALE ASSETTO INTERNAZIONALE

Da tutto quanto siamo venuti dicendo fin qui, appare con sufficiente chiarezza la sempre più urgente necessità di dare vita ed efficienza ad istituzioni sovrastatali per il trattamento dei diversi conflitti. Lo richiedono sia la crescente interdipendenza a livello mondiale, sia il potere incredibilmente devastante degli armamenti, sia il già richiamato principio dell'ingerenza umanitaria. Tutto ciò rende, infatti, "impensabile che si possa provvedere a un giusto "ordine internazionale" - e, forse, alla stessa sopravvivenza dell'umanità - senza mettere in discussione il consueto modo d'intendere la "sovranità statale"" . La pace, in questo senso, richiede strutture politiche sovranazionali davvero efficaci nell'arginare le possibili sopraffazioni. Era già questo l'auspicio di Paolo VI nel suo discorso alle Nazioni Unite: egli, infatti, - partendo dalla convinzione che il bene comune universale pone oggi problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni, di Poteri pubblici cioè, che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale - così si esprimeva: "Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a instaurare un'autorità mondiale, capace di agire con efficacia sul piano giuridico e politico?"

"Si apre qui" - come ha sottolineato Giovanni Paolo II anche nell'ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace - "un campo di riflessione e di deliberazione nuovo sia per la politica che per il diritto, un campo che tutti auspichiamo venga coltivato con passione e con saggezza". E aggiungeva: "È necessario e non più procrastinabile un rinnovamento del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali che abbia nella preminenza del bene dell'umanità e della persona umana su ogni altra cosa il punto di partenza e il criterio fondamentale di organizzazione".

Nel cercare di assolvere a questo compito importante e sempre più urgente, è necessario ripensare l'idea stessa di nazione. È necessario, infatti, superare ogni forma di nazionalismo e aprirsi ad una convivenza più accogliente e solidale. Si tratta di distinguere adeguatamente tra nazionalismo e patriottismo; di discernere tra sentimenti nazionali positivi e negativi; di riconoscere e difendere i diritti delle minoranze contro la tendenza all'uniformità; di rispettare e promuovere il diritto di ogni nazione di preservare la propria sovranità nazionale; di ricercare formule che, superando l'immediata identificazione tra "Stato" e "nazione", consentano a popoli diversi di vivere in un'unica entità statale vedendo ampiamente salvaguardati i propri diritti e la propria identità. L'ottica per realizzare questo necessario e urgente ripensamento dovrebbe essere quella della "cultura della nazione", vista come luogo nel quale si manifesta la sovranità fondamentale della società, quella sovranità per la quale l'uomo è supremamente sovrano: è proprio mediante tale cultura che la nazione esiste ed è in forza del diritto a tale cultura che la nazione ha diritto ad esistere . E, tuttavia, tutto ciò non si può né si deve identificare con nessuna sorta di nazionalismo. Le differenze nazionali non devono scomparire, ma piuttosto devono essere mantenute e coltivate come fondamento di solidarietà. Nello stesso tempo, però, non si può dimenticare che la stessa identità nazionale non si realizza se non nell'apertura verso gli altri popoli e attraverso la solidarietà con essi. Ne segue che la stessa nozione e realtà della nazione va mantenuta e interpretata entro la tensione vitale tra universalità e particolarità che caratterizza la condizione umana. In questa ottica, l'autonomia nazionale è sì un valore importante, ma non assoluto: prima degli interessi nazionali, infatti, ci sono gli uomini con la loro inalienabile dignità e, al di sopra delle tradizioni particolari dei singoli gruppi umani, si pone la comunità universale, da costruire nella giustizia, nella solidarietà e nella pace. In ogni caso, la nazione non si identifica a priori e necessariamente con lo Stato. Si danno e si devono dare, quindi, diverse possibili forme di configurazione giuridica della singole nazioni e di aggregazione tra di esse e ciò dovrebbe sempre avvenire, oltre che nel rispetto dei diritti delle minoranze, in un clima di vera libertà, garantito dall'esercizio dell'autodeterminazione dei popoli.

C'è pure bisogno - oggi più che mai in un contesto segnato da interdipendenza, globalizzazione, mondializzazione dei fenomeni economici, sociali e politici - di dare vita a un nuovo diritto internazionale. Le diverse iniziative politiche interne dei diversi Paesi non bastano più; occorrono la concertazione fra i Paesi e il consolidamento di un ordine democratico internazionale, tendenzialmente planetario, con istituzioni nelle quali siano equamente rappresentati gli interessi legittimi di tutti i popoli. Si tratta, quindi di mirare a un "governo mondiale", di cui quelli "regionali", compreso quello europeo, sono da vedere come tappa e, in qualche modo, prefigurazione.

Perché ciò possa avvenire occorre puntare al superamento della sovranità assoluta degli Stati. Questa è la Strada maestra per dare al mondo un ordine più giusto e una sicurezza stabile, arrivando ad una forma democratica e partecipata di governo mondiale, ossia a quella "autorità pubblica universale [...] dotata di efficace potere per garantire a tutti i popoli la sicurezza, l'osservanza della giustizia e il rispetto dei diritti", come si esprime il Concilio Vaticano II . Si deve, quindi, pervenire a una sempre più reale e corretta limitazione del principio di sovranità degli Stati. Questa idea mette in discussione le forme tradizionali della collaborazione internazionale, che si fonda ancora su relazioni pattizie tra gli Stati ed è diretta a contemperare i loro interessi particolari. È una strada da percorrere con saggezza e con decisione, nella certezza che, se la sovranità degli Stati - così come storicamente si è andata realizzando - ha rappresentato uno strumento di gestione particolaristica ed egoistica degli interessi nazionali, la sua limitazione non può che significare l'avvio concreto di un processo istituzionale capace di sfociare in un assetto di governo che serva un'autentica cultura di solidarietà internazionale. Si tratta, in altri termini, di porre in atto quei mutamenti anche istituzionali capaci di "elevare i rapporti tra le nazioni dal livello "organizzativo" a quello, per così dire, "organico", dalla semplice "esistenza con" alla "esistenza per" gli altri, in un fecondo scambio di doni, vantaggioso innanzitutto per le nazioni più deboli, ma in definitiva foriero di benessere per tutti. Solo a questa condizione si avrà il superamento non soltanto delle "guerre guerreggiate", ma anche delle "guerre fredde"; non solo l'eguaglianza di diritto tra tutti i popoli, ma anche la loro attiva partecipazione alla costruzione di un futuro migliore; non solo il rispetto delle singole identità culturali, ma la loro piena valorizzazione, come ricchezza comune del patrimonio culturale dell'umanità" .
Da un punto di vista più propriamente etico-culturale, occorre lasciarsi ispirare e guidare da quel concetto di "famiglia delle nazioni", lanciato nello stesso discorso tenuto dal Papa all'ONU. Giovanni Paolo II sottolineava allora che "il concetto di "famiglia" evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici rapporti funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per sua natura, una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, sul rispetto sincero. In un'autentica famiglia non c'è il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti. Sono questi, trasposti al livello della "famiglia delle nazioni", i sentimenti che devono intessere, prima ancora del semplice diritto, le relazioni fra i popoli".

CONCLUSIONE

Concludendo questo mio intervento, vorrei partire da una considerazione di ordine pratico, che ci dice come, ancora oggi, purtroppo, in qualche caso, la guerra appare come inevitabile: quando non vi è un diverso modo di difendere un popolo che appare destinato all'annientamento, non c'è altra scelta.
A tale "inevitabilità", però, non ci si può arrendere. Dobbiamo continuamente porci la domanda circa quale possa essere l'alternativa all'uso delle armi. Tale alternativa va pensata, cercata, anche quando sembra impossibile. In questo senso, dobbiamo augurarci che la coscienza critica dei cristiani e di ogni uomo faccia ancora dei passi ulteriori.

Nel frattempo, occorre che la mobilitazione contro il male sia accompagnata da un'opera progettuale, che dia nuova consistenza alla pace, alla sicurezza, alla stessa dissuasione. Non ci si può rassegnare alla logica della guerra o della dissuasione armata: vorrebbe dire finire in una trappola mortale per l'umanità.
Come ho avuto modo di sottolineare in altre occasioni, si tratta di "disarmare gli animi, armando la ragione". È un invito e un appello che tutti ci coinvolge e che mi auspico possa essere accolto, così da dare un volto più bello e più umano - perché più pacifico - al secolo XXI.

(Relazione tenuta a Roma il 12.07.2000 durante il convegno a Palazzo Rospigliosi promosso dal Forum di Relazioni internazionali)

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La guerra o la pace sono per voi
di Raoul Follereau



Giovani di tutto il mondo, o la guerra o la pace sono per voi.
Scrivevo, venticinque anni fa:
O gli uomini impareranno ad amarsi o, infine, l’uomo vivrà per l’uomo, o gli uomini moriranno.
Tutti e tutti insieme
.
Il nostro mondo non ha che questa alternativa: amarsi o scomparire.
Bisogna scegliere. Subito. E per sempre.
Ieri, l’allarme.
Domani, l’inferno.
I Grandi – questi giganti che hanno cessato di essere uomini – possiedono, nelle loro turpi collezioni di morte, 20.000 bombe all’idrogeno, di cui una sola è sufficiente a trasformare un’intera Metropoli in un immenso cimitero. Ed essi continuano la loro mostruosa industria producendo tre bombe ogni 24 ore.
L’Apocalisse è all’angolo della strada.
Ragazzi, Ragazze di tutto il mondo, sarete voi a dire “NO” al suicidio dell’umanità.
“Signore, vorrei tanto aiutare gli altri a vivere”. Questa fu la mia preghiera di adolescente.
Credo di esserne rimasto, per tutta la mia vita, fedele…
Ed eccomi al crepuscolo di una esistenza che ho condotto il meglio possibile, ma che rimane incompiuta.
Il Tesoro che vi lascio, è il bene che io non ho fatto, che avrei voluto fare e che voi farete dopo di me.
Possa solo questa testimonianza aiutarvi ad amare.
Questa è l’ultima ambizione della mia vita, e l’oggetto di questo “testamento”.
Proclamo erede universale tutta la gioventù del mondo. Tutta la gioventù del mondo: di destra, di sinistra, di centro, estremista: che mi importa!
Tutta la gioventù: quella che ha ricevuto il dono della fede, quella che si comporta come se credesse, quella che pensa di non credere. C’è un solo cielo per tutto il mondo.
Più sento avvicinarsi la fine della mia vita, più sento la necessità di ripetervi: è amando che noi salveremo l’umanità.
E di ripetervi: la più grande disgrazia che vi possa capitare è quella di non essere utili a nessuno, e che la vostra vita non serva a niente.
Amarsi o scomparire.
Ma non è sufficiente inneggiare a: “la pace, la pace”, perché la Pace cessi di disertare la terra.
Occorre agire. A forza di amore. A colpi di amore.

I pacifisti con il manganello sono dei falsi combattenti. Tentando di conquistare, disertano.
Il Cristo ha ripudiato la violenza, accettando la Croce.

Allontanatevi dai mascalzoni dell’intelligenza, come dai venditori di fumo: vi condurranno su strade senza fiori e che terminano nel nulla.
Diffidate di queste “tecniche divinizzate” che già San Paolo denunciava.
Sappiate distinguere ciò che serve da ciò che sottomette.
Rinunciate alle parole che sono tanto più vuote quanto sonore.
Non guarirete il mondo con dei punti esclamativi.
Ciò che occorre è liberarlo da certi “progressi” e dalle loro malattie, dal denaro e dalla sua maledizione.
Allontanatevi da coloro per i quali tutto si risolve, si spiega e si apprezza in rapporto ai biglietti di banca.
Anche se sono intelligenti essi sono i più stupidi di tutti gli uomini.
Non si fa un trampolino con una cassaforte.
Bisognerà che dominiate il potere del denaro, altrimenti quasi nulla di umano è possibile, ma con il quale tutto marcisce.
Esso, Corruttore, diventi Servitore.
Siate ricchi della felicità degli altri.
Rimanete voi stessi. E non un altro. Non importa chi. Fuggite le facili vigliaccherie dell’anonimato.
Ogni essere umano ha un suo destino. Realizzate il vostro, con gli occhi aperti, esigenti e leali.
Niente diminuisce mai la dimensione dell’uomo.
Se vi manca qualcosa nella vita è perché non avete guardato abbastanza in alto.
Tutti simili? No.
Ma tutti uguali e tutti insieme!
Allora sarete degli uomini. Degli uomini liberi.
Ma attenzione!
La libertà non è una cameriera tuttofare che si può sfruttare impunemente. Né un paravento sbalorditivo dietro il quale si gonfiano fetide ambizioni.
La libertà è il patrimonio comune di tutta l’Umanità. Chi è incapace di trasmetterla agli altri è indegno di possederla.
Non trasformate il vostro cuore in un ripostiglio; diventerebbe presto una pattumiera.
Lavorate. Una delle disgrazie del nostro tempo è che si considera il lavoro come una maledizione. Mentre è redenzione.
Meritate la felicità di amare il vostro dovere.
E poi, credete nella bontà, nell’umile e sublime bontà.
Nel cuore di ogni uomo ci sono tesori d’amore.
Spetta a voi, scoprirli.
La sola verità è amarsi.
Amarsi gli uni con gli altri, amarsi tutti. Non a orari fissi, ma per tutta la vita.
Amare la povera gente, amare le persone infelici (che molto spesso sono dei poveri esseri), amare lo sconosciuto, amare il prossimo che è ai margini della società, amare lo straniero che vive vicino a voi.
Amare.
Voi pacificherete gli uomini solamente arricchendo il loro cuore.
Testimoni troppo spesso legati al deterioramento di questo secolo (che fu per poco tempo così bello), spaventati da questa gigantesca corsa verso la morte di coloro che confiscano i nostri destini, asfissiati da un “progresso” folgorante, divoratore ma paralizzante, con il cuore frantumato da questo grido “ho fame!” che si alza incessante dai due terzi del mondo, rimane solo questo supremo e sublime rimedio: ESSERE VERAMENTE FRATELLI.
Allora… domani?
Domani, siete voi.



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Fa’ di me un arcobaleno di pace
di Dom Helder Camara

Signore, fà di me
un arcobaleno di bene e di speranza
e di Pace.
Arcobaleno che per nessuna ragione
annunci
le ingannevoli bontà,
le speranze vane,
le falsi paci.
Arcobaleno incarnato da te
quale annuncio
che mai fallirà
il tuo amore di Padre,
la morte del Tuo Figlio,
la meravigliosa azione
del Tuo Spirito, Signore.

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Educare alla pace

Conferenza Episcopale Italiana
Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace


INTRODUZIONE

1. - La pace è una promessa e insieme un'invocazione, che nasce nel profondo dell'essere di ogni uomo e ogni donna. In essa si proiettano immagini di tranquillità e di sconvolgimento, di fratellanza e di conflitto, di vita e di morte; essa vive della memoria del dolore, della paura che il dolore si rinnovi, della speranza di esserne risparmiati. La pace appare come la condizione e la sintesi di ogni altro bene desiderato.
Eppure c'è uno scarto tragico fra la sincerità dell'invocazione e la realtà della vita. Si fa la guerra affermando di avere in cuore la pace. In nome del proprio sogno si contrasta il sogno dell'altro e non gli si fa posto. Il conflitto è contrabbandato come il prezzo inevitabile da pagare per la quiete e l'ordine, spesso identificati con la vittoria e la tranquillità del più forte. E il sangue di Abele continua a gridare dai solchi della terra (cf. Gen 4,10).

2. - È allora spontaneo chiederci: perché questa contraddizione? Se la pace, sempre inseguita, sembra sempre sfuggire al possesso dell'uomo, non ci sarà nella stessa condizione umana qualcosa che impedisce il realizzarsi del sogno?
Certo la pace chiama in causa le istituzioni, nelle quali si esprimono e vengono regolate la vita e le relazioni dei popoli. Ma è sempre il cuore dell'uomo che è chiamato a scegliere tra la forza e il dialogo, la competizione e la solidarietà. La guerra non è altro che la massificazione dei gesti di ostilità fra uomo e uomo, quotidianamente vissuti e dispersi nelle inimicizie, nelle sopraffazioni, negli egoismi individuali. Cambiare le istituzioni è quindi necessario, ma resta impresa vana e impossibile se non cambia il cuore dell'uomo.
Infatti il volto definitivo dell'uomo non è quello del carnefice né quello della vittima, perché entrambi si mostrano disumani. Nel profondo dell'esistenza personale l'uomo avverte che la propria "verità totale" è una sorta di traguardo: egli "diventa" uomo, nella continua tensione verso la pienezza del proprio essere. Poiché dunque il dinamismo che accompagna tale crescita è l'educazione, se si vuole che il seme dell'invocazione alla pace diventi frutto, occorre educare alla pace.

3. - È questa la prospettiva nella quale intendiamo metterci, concludendo un itinerario di riflessione e proposta, che è iniziato con il tema dell'educazione alla legalità (1991) ed è passato attraverso il tema dell'educazione alla socialità (1995).
Le pagine che seguono si propongono anzitutto di ascoltare, raccogliere e condividere con ogni uomo e donna le contraddizioni e le attese contenute nell'invocazione umana alla pace. Nelle ambiguità che accompagnano l'invocazione si profilano infatti appelli rigorosi alla conversione, che coinvolgono insieme credenti e non credenti. Nella tensione costruttiva, che comunque l'invocazione rivela, spuntano valori umani che vanno condivisi e stimati per se stessi, ma che - per chi crede in Gesù di Nazaret - si manifestano pure come germi del regno di Dio che cresce nella storia, fino alla pienezza di novità del giorno ultimo (cf. Parte prima).
I credenti in Cristo sanno di dover condividere l'invocazione di pace di tutta l'umanità, ma anche la ricchezza del messaggio evangelico sulla pace, donato loro per grazia, rivolto però a tutta l'umanità. Una sintetica proposta di tale messaggio viene quindi offerta fraternamente, come contributo al crescere della speranza e della responsabilità collettive (cf. Parte seconda).
Dall'ascolto e dallo scambio nasce infine la proposta di alcune linee per un progetto di educazione alla pace, con l'unico desiderio di contribuire all'elaborazione di un itinerario educativo che si mostri condivisibile e vivibile. Le sue ragioni vanno perciò fondate sull'invocazione umana più vera e drammatica, e vanno alimentate ai valori di vita che la fede cristiana aiuta a riconoscere e a vivere come dono dall'alto, ma che ognuno può scoprire scrutando il proprio cuore. La pace infatti è di tutti e può nascere solo con l'opera convergente di tutti (cf. Parte terza).

PARTE PRIMA

IN ASCOLTO DEL GRIDO DI PACE CHE NASCE DAI CONFLITTI

4. - Il secolo che si va chiudendo ha conosciuto esperienze terribili di guerre di sterminio e di ecatombe nucleare. Ma quando sono caduti i muri della contrapposizione tra blocchi politici e ideologici, la guerra - per certi versi diventata "fredda" e per altri spesso dislocata sui fronti dei popoli emergenti - ha mutato volto. Essa si è come frantumata e disseminata in una miriade di conflitti particolari, così orrendi da suscitare perfino il pudore di nominarli, nel timore che la ripetizione diventi "informazione consumatoria" e impedisca di sussultare e di gridare lo sgomento.
Si possono infatti usare con sufficiente distacco termini come conflitti locali o etnici o tribali, guerra civile, terrorismo, sfruttamento economico di massa... Ma con quali parole si possono nominare i genocidi e le violenze delle "pulizie etniche" di ogni tipo e colore? o le stragi sanguinose degli scontri tribali e delle azioni terroristiche organizzate contro i civili? Come parlare dei corpi dilaniati dalla bomba che esplode nel mercato? o delle masse dei disperati costretti a fuggire da una terra desertificata dallo sfruttamento operato da poteri economici estranei e incontrollabili?
La stessa religione può essere utilizzata come motivo per innescare o inferocire lo scontro, talora offrendo una specie di "bandiera" che serva a identificare il "nemico", o più spesso in nome di radicalismi e fondamentalismi che offendono il volto di Dio predicando l'odio per l'"altro" in nome di Dio. Quando poi il fondamentalismo nega la libertà religiosa, esso insidia la pace perché perseguita l'uomo e gli impedisce la libera ricerca dell'Assoluto, seminata da Dio stesso nel cuore umano.
Episodi di violenza, di razzismo, di esclusione, di rifiuto, di disprezzo della vita sono ormai ogni giorno sotto i nostri occhi, dentro la quiete apparente delle nostre città e delle nostre case; si consumano nelle relazioni politicihe ed economiche, nei rapporti sociali che mettono a confronto le diversità di ogni genere. Essi esplodono nella concorrenzialità efficientistica e spietata che - in ogni campo - espelle i deboli e i vinti, nei ricatti di una vita di coppia e di famiglia sempre più attraversata da linee di frattura, nella violenza fisica e psichica esercitata sulle donne e sui bambini, nell'aggressività cieca che devasta perfino i momenti del gioco e della competizione sportiva.

5. - Pure la situazione italiana Paese presenta forme di conflitto che mettono insieme radici antiche ed espressioni nuove. Permane la violenza indotta dalla criminalità organizzata, ma lo scontro tradizionale fra gruppi di potere per il controllo del territorio assume le strategie più raffinate delle vendette "trasversali", dei "veleni" riversati sulle istituzioni, dell'investimento nel mercato di morte della droga.
Più in generale, la vita politica risente della mancanza del senso dello Stato come mediatore dei conflitti e non come erogatore di vantaggi sulla base dei rapporti di forza. Il "bipolarismo incompiuto" della politica è vissuto come polarizzazione contrappositiva di forze e non come competizione democratica e progettuale. Il conflitto fra le istituzioni (magistratura, parlamento, partiti...) offre spazi e giustificazioni apparenti a rivalse personali o di gruppo. Le rivendicazioni localistiche sono spesso frutto delle inadempienze di un sistema statale centralistico e lontano dalla vita della gente, ma mostrano anche il volto duro della difesa ad ogni costo di un benessere costruito con il proprio sudore, diventato però a sua volta estraneo alle radici solidaristiche tradizionali. Così, problemi oggettivamente gravi e difficili, quali la regolamentazione saggia e solidale dei fenomeni migratori e l'armonizzazione dello sviluppo fra Nord e Sud del Paese, mancano del contesto sociale, e non solo politico, necessario alla loro soluzione.
La stessa "diaspora politica" dei cattolici non si configura come opportunità per l'animazione di progetti legittimamente diversi, ma alimenta scontri e diffidenze incrociate, che si riproducono talora anche all'interno delle comunità cristiane, le rendono incerte e quindi silenziose e assenti.

6. - È dunque profondamente mutato il volto di ciò che fino ad ora è stato chiamato "guerra" e, di conseguenza, non può non mutare il volto di ciò che si continua a chiamare "pace".
Un aspetto è certo: se il conflitto sta perdendo sempre più i caratteri della generalità e dell'ideologizzazione, tipici di un recente passato, ciò significa che esso si sta sempre più avvicinando al vissuto dei gruppi sociali e degli individui. È quindi sempre più un problema personale e di relazioni interpersonali. È sempre più un problema di educazione. Per questo la volontà di ascoltare e raccogliere il grido di pace, che nonostante tutto si fa strada nei conflitti del tempo presente, si orienta verso alcuni appelli rilevanti e coglie alcuni fatti significativi.

Pace e giustizia

7. - Ci sono situazioni in cui l'ordine regna; ma non sempre l'assenza della guerra è sinonimo di pace. C'è infatti assenza di conflitto anche nelle situazioni di oppressione, quando il debole soggiace alla prepotenza del forte e non è in grado di reagire e di opporsi. In tal caso la pace apparente è la maschera iniqua di un ordine perverso, fondato sulla forza e sull'ingiustizia: essa sconta la propria menzogna nella minaccia di rivolta che si genera dentro alla disperazione degli oppressi.
Il giogo dell'ingiustizia infatti non è sopportabile a lungo e l'uomo che la subisce è spinto a scuoterlo, anche a costo della vita. La rivolta per la libertà e la giustizia, così frequente nella storia, è sempre stata investita di significato ideale e di una forte carica etica, anche se la bontà dei fini porta talora a giustificare un'azione violenta che non si cura della bontà dei mezzi. L'umanità comincia dunque a capire che senza giustizia non c'è pace, che per fare pace occorre cominciare a fare giustizia. Anche la giustizia però è per l'umanità un'invocazione e un sogno, che deve faticosamente farsi strada fra la resistenza della malvagità presente nell'uomo e nella storia e la debolezza delle istanze e degli strumenti che dovrebbero fronteggiarla e impedirne, o almeno delimitarne, gli effetti degeneranti.
Il dinamismo della pace impone dunque una strategia di movimento, che si armonizza con il dilatarsi degli orizzonti della giustizia, sia nel tessuto ampio e complesso dei rapporti fra uomini e fra istituzioni sia, soprattutto, nel cuore dell'uomo. Infatti la coscienza etica progredisce quando passa dall'obbedienza imposta con la sferza dei castighi alla giustizia abbracciata e praticata nella gioia. Dentro a un mondo minacciato e divorato dai conflitti, la pratica della giustizia come virtù è un fattore dinamico e operoso della costruzione della pace: i giusti sono i veri operatori di pace.

8. - La ferita più profonda inferta dall'ingiustizia è quella della violazione dei diritti umani, e quindi dei diritti dei popoli. La pace infatti non può realizzarsi quando tali diritti propri sono oppressi da una relazione prevaricatrice, o quando sono trascurati o dimenticati dal silenzio e dall'indifferenza. Anche questa intuizione, per quanto possa apparire ovvia, riceve consensi finché rimane principio astratto e viene spesso contraddetta nei fatti, specialmente quando il grido di rivolta è debole o muto. Basta pensare al diritto alla vita, violentato fin dallo sbocciare dell'essere umano nel grembo materno o manipolato da pratiche di eutanasia, segno radicale dell'incapacità dell'uomo di affrontare da solo il mistero del dolore.
La stessa logica si verifica poi quando il godimento di diritti vitali - quali la salute, la casa, l'istruzione, il lavoro... - viene abbandonato all'incontro casuale con opportunità positive o negative e con la sollecitudine o con l'indifferenza degli altri. Diversi modelli di "Stato sociale" mostrano il limite dei progetti assistenziali certo a causa della scaltra usurpazione da parte di alcuni dei benefici preparati per altre povertà, ma anche e soprattutto perché l'apparato confida nell'efficienza organizzativa e dimentica che l'uomo, prima che un catalogo di bisogni, è un cuore che chiede ascolto.
Ritardare la promozione umana è dunque ritardare la pace. La strategia minimale che si appaga di avari e misurati consensi alle istanze di giustizia e quasi ne teme le rivendicazioni, deve cedere il passo alla radicalità del principio che la promozione dei diritti umani è il criterio fondante della speranza di una pace durevole.

9. - Lo sviluppo della condizione umana sulla terra sta anche mettendo in luce nuove frontiere della giustizia, che scavalcano il tempo e lo spazio e interpellano l'umanità sui diritti delle generazioni future. Ogni generazione consegna all'altra un mondo che a sua volta ha ricevuto: può essere un mondo migliore o peggiore, segnato dalla giustizia e dalla pace o prenotato alla tribolazione e alla sventura. Per questo quanto più crescono la conoscenza e il dominio dell'uomo nei confronti del cosmo, tanto più essi si caricano di responsabilità e di doveri.
La sensibilità per questi problemi, tenuta desta dagli allarmi ecologici, ripropone l'immagine dell'uomo come custode e non dèspota del creato, impegnato a non creare condizioni di vita per il pianeta che risultino irreversibili e immodificabili di fronte alle esigenze e ai rischi del futuro. La violenza alla natura prepara altre violenze.

Pace e solidarietà

10. - La pace è opera della giustizia, e la giustizia è legata all'osservanza della regola. Può accadere però che la legge sia osservata in modo solo astratto e formale, o sia subìta come un tributo alla paura della frusta. L'uomo intende invece il linguaggio della pace quando impara il linguaggio dell'amore, quando si affaccia sulla realtà dell'altro, lo riconosce e lo accoglie nella sua somiglianza e diversità, si fa solidale con lui.
La coscienza e l'esperienza comuni avvertono infatti che l'atteggiamento di pace contiene il senso della prossimità, della fratellanza. Nel loro nome la diversità non ispira diffidenza, ma dilata il dialogo, apre alla scoperta della natura umana nella sua pienezza, accoglie e condivide l'originalità di ogni fisionomia e cultura, arricchisce l'orizzonte della collaborazione. Lo scambio di un gesto d'amore diventa riconoscimento reciproco che rassicura e ridona il senso del proprio valore. Il rifiuto di tale gesto invece fa sentire esclusi e rifiutati, e quando l'essere dell'uomo viene squalificato - da sé o da altri - nasce l'odio. Esso è un veleno piantato nel cuore che mostra un'incredibile capacità riproduttiva e genera la coazione alla vendetta: è il "nemico ereditario" della storia dell'uomo, dei popoli, delle fazioni, dei gruppi ostili. Quanto più l'odio distende le radici, tanto più vi è ostacolo alla pace.
Non solo l'odio tiene l'uomo lontano dai sentieri della pace: c'è anche il nemico, più sottile ma non meno devastante, che si chiama indifferenza. Essa nasce dalla perdita delle radici e del senso di sé e delle cose, e diventa noia, livellamento delle coscienze nel vuoto dei significati, disamore per la vita, trasgressione vissuta senza nemmeno la consapevolezza dei propri motivi, fuga nella realtà "virtuale", talora anche violenza rivolta contro sé stessi mediante la droga, le malattie anoressiche, la sfida assurda del rischio, il brivido dell'autodistruzione. È sotto gli occhi di tutti il costume di vita disumanizzante delle metropoli fatte di "folla solitaria", dove l'indifferenza è eretta a sistema e lo svuotamento dei valori e dei rapporti avviene con la pura forza della suggestione e dell'abitudine.
Una società disintegrata, che non coltiva le ragioni dell'amore alla vita, non può essere una comunità di pace. La tempra dell'uomo costruttore di pace non si manifesta sulla soglia che distingue chi odia da chi è indifferente all'odio, ma su quella che separa chi ama da chi resta indifferente all'amore.

11. - La pace nasce dalla liberazione dall'odio e dal superamento dell'indifferenza, perché ambedue rimandano all'altro un messaggio di squalificazione e impediscono il riconoscimento reciproco. Nello stesso tempo bisogna riconoscere che il conflitto esprime in modo naturale e realistico la non eliminabile presenza di interessi concorrenti o divergenti, anche dotati di una propria razionalità, per quanto parziale.
Ci sono infatti interessi simili, che si trovano a spartire risorse insufficienti per tutti, e affermano simmetricamente il proprio diritto e il proprio bisogno, in concorrenza con l'altro e non necessariamente "contro". Ci sono poi interessi contrapposti che si escludono a vicenda, per cui la soddisfazione degli uni comporta la sconfitta degli altri. La pace quindi non può essere sognata nell'annullamento dei conflitti, ma nella costruzione paziente delle vie per la loro composizione, nella giustizia e nella solidarietà, per evitare che all'interno di questi meccanismi si insinui la dinamica dell'odio e che la percezione del bene e della verità si deformi nell'esclusione dell'"altro", visto come una minaccia potenziale. La realtà dei conflitti chiede un sistema di giustizia che abbia la forza di tenere in equilibrio le rivendicazioni concorrenti o contrapposte, temperandole e convogliandole nella ricerca di soluzioni concordate nel rispetto dell'altro e del metodo democratico. Ma tale sistema rivela a sua volta la necessità di educare coscienze che riconoscano l'antagonista come un uomo dotato di pari diritti e dignità, e sappiano chiedersi se le proprie "giuste pretese" non siano calcolate sulla misura o dismisura del proprio avere attuale e se non siano la contropartita della sottomisura o dell'esclusione di altri al banchetto dei beni della terra.
Né va dimenticato infine il conflitto che nasce dallo scontro ideologico (anche di origine religiosa) e assume forme diverse ma ugualmente insidiose e implacabili. In tal caso la pace non domanda di barattare la verità con una quiete a ogni costo, né di dissiparla nell'equiparazione di ogni opinione soggettiva. L'amore per la verità sa invece distinguere l'errore dall'errante e ha la forza di mantenere l'irriducibilità delle diverse prospettive, senza compromettere la relazione umana, fatta di rispetto e di accoglienza nei confronti di ciascuno.

12. - La pace nasce dal riconoscimento reciproco e si sviluppa nel sentirsi uniti in un vincolo comune, entro un cerchio di relazioni definito e carico di interessamento affettuoso, che inizia dal rapporto familiare e si allarga sempre più fino ad abbracciare l'umanità intera.
La storia insegna come spesso la guerra sia stata scongiurata dallo stringersi di alleanze tra famiglie, gruppi, nazioni, e come la pace sarebbe definitiva se l'umanità trovasse le vie per un'alleanza globale e stabile. Per quanto però la realtà sia oggi diversa, non è comunque vano auspicare che il processo di unificazione umana continui attraverso l'ampliamento dei trattati e delle istanze di governo internazionali, non per imposizione, ma per lo sviluppo libero e condiviso della coscienza di fraternità universale.

Scelte e gesti di pace

13. - L'ascolto attento di quanto risuona nell'invocazione umana alla pace rivela anche alcune scelte e alcuni gesti già concretamente realizzati e visibili, nei quali è possibile riconoscere con gioia i germi di un futuro di speranza. Attorno a questi "semi di pace" sono anche nati movimenti di opinione a favore della pace, che si impegnano su diversi fronti per influenzare le scelte degli Stati e rivelano la loro incisività e credibilità nel riferimento a valori umani universali, non a letture ideologiche o "schierate" dei problemi. È giusto allora richiamare e riconoscere tali percorsi.
a) Il rifiuto della logica delle armi: fa ormai parte della coscienza comune la distinzione fra la violenza, che aggredisce e opprime, e la forza, che difende e soccorre. Così anche l'intervento armato può assumere il volto dell'intervento umanitario, quando più nessun'altra ragione umana si rivela capace di fermare lo sterminio e le atrocità contro gli indifesi. Non è però pensabile che la soluzione dei conflitti possa essere demandata al confronto tra i potenziali bellici messi in campo. In più la corsa agli armamenti continua a rappresentare oggi una delle piaghe più gravi dell'umanità e una delle cause più acute delle povertà nel mondo. Anche per quanto riguarda l'Italia si sa a sufficienza, malgrado i troppi e fitti silenzi, che molte armi impiegate altrove per seminare morte (comprese le micidiali mine-giocattolo che straziano i bambini) recano il marchio di fabbriche italiane. È quindi legittimo e doveroso che nel dibattito democratico siano presenti voci e strategie mirate a far cessare la produzione e il commercio delle armi, perché i loro ricavi grondano sangue.
b) La non-violenza: l'opzione per la pace si fa visibile nello stile di vita personale e di gruppo. Lo stile della non-violenza rivela una singolare capacità di provocazione. L'uomo non violento non distoglie il volto dalla brutalità dell'oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole "nemico" perché altri lo hanno definito come tale.
c) L'obiezione di coscienza al servizio militare: è una scelta che non sottrae alla responsabilità verso il proprio paese e non smentisce il principio della liceità di quel servizio. Essa si propone dunque non come disobbedienza alla legge, ma come obbedienza a una norma superiore, che vincola la coscienza; non nasce dalla semplice ripugnanza per la guerra né dalla volontà di fuggire la complicità e i rimorsi, ma è profezia di valori e di atteggiamenti non manipolabili dalle leggi dell'uomo. La stessa cultura giuridica moderna riconosce ormai in modo generalizzato l'esistenza del diritto soggettivo al rispetto della coscienza e, in numerosi Stati, l'obiezione al servizio militare è regolata per legge attraverso la sostituzione con il servizio civile. Si fa anzi strada un'ulteriore tendenza secondo la quale le ragioni della coscienza non possono essere sottomesse al vaglio di un'autorità amministrativa, per cui la scelta fra servizio militare e civile diventerebbe una pura opzione individuale. Al di là di ogni giudizio sulle scelte giuridiche che potranno essere compiute, l'originario valore di profezia dell'obiezione di coscienza non dev'essere comunque stemperato in una scelta, priva di prezzo, fra pari opportunità giuridiche. Essa deve invece suscitare la ricerca di forme più rigorose di generosità, affinché l'adesione al valore affermato (la pace) si traduca in vita reale (essere operatori di pace). Il significato autentico dell'obiezione infatti si misura sulla condotta effettiva dell'obiettore: un servizio civile offerto coscienziosamente in risposta generosa e sincera a bisogni umani reali, si propone come stile di vita che annuncia e costruisce la pace.
d) La cooperazione internazionale: si articola e si sviluppa nei rapporti fra le istituzioni mondiali, ma conosce pure la fecondità delle realizzazioni promosse dal volontariato organizzato o individuale e da esperienze del genere "non profit", quali le "banche etiche", il "commercio equo e solidale", ecc. Spesso anzi proprio le "organizzazioni non governative" raggiungono gli avamposti dove i soccorsi ufficiali non arrivano (magari perché prosciugati o dirottati strada facendo), dove "uomini senza frontiere" accostano direttamente il dolore e il bisogno, impegnando la vita per amore e non per calcolo. La cooperazione internazionale è seme di pace, perché restituisce visibilità all'appartenenza all'unica famiglia umana, scioglie la diffidenza e il timore reciproci, sostituisce la rapina con il dono.

PARTE SECONDA

CON IL DONO DELLA PACE CHE VIENE DA DIO

14. - I cristiani sanno di dover condividere con ogni uomo e ogni donna di questa terra la speranza per la pace che cresce e la responsabilità per gli ostacoli che essa incontra. Essi però sanno anche di aver ricevuto un messaggio capace di illuminare e sostenere il cammino dell'umanità e di essere quindi chiamati a testimoniarlo e a condividerlo, perché contribuisca a far fruttificare la speranza e l'impegno.
Il messaggio evangelico sulla pace infatti va incontro alla domanda dell'uomo, il quale - nell'apparente irraggiungibilità di una mèta tanto sognata - è tentato di vedere e gridare una sorta di imperfezione di sé e del cosmo, che sembra condannare all'assurdità le attese più profonde. Tale messaggio infatti rivela la fonte ultima di ogni possibilità di pace nell'amore di Dio Padre, che "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16). Per chi crede in Gesù di Nazaret, la sua croce e la sua resurrezione sono la promessa, la via, il compimento della pace, già operanti nel cuore della storia, anche se non ancora nella pienezza dei frutti.

La pace: continua offerta di Dio nella storia dell'uomo

15. - Nel racconto biblico della Genesi, i giorni della creazione sono scanditi dalle parole: "E Dio vide che era cosa buona" (Gen 1,4ss). Il cosmo dunque è uscito buono dalle mani di Dio. La pace - come assenza di morte e pienezza di vita, di bontà, di armonia (shalom) - è un costitutivo essenziale del mondo così come è uscito dalle mani del suo Creatore. Nello stesso tempo Dio ha deciso di affidare all'uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, la responsabilità di coltivare e custodire il giardino del mondo; gli ha chiesto pure di accogliere questo compito come una libertà ricevuta in dono, non come spazio di chiusa autosufficienza (cf. Gen 2,15-17).
L'uomo aveva però - e ha costitutivamente - il potere di accettare o rifiutare il disegno di Dio e la sua risposta è stata negativa. Così il peccato delle origini ha scatenato il conflitto nei rapporti umani, nei confronti di Dio e del creato (cf. Gen 3). Caino uccide il fratello Abele (cf. Gen 4,1-16) e nella prima città si innalza il canto sinistro di Lamech "Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette" (Gen 4,23-24). La violenza e la divisione si estesero poi al punto che troviamo scritto: "Il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra" (Gen 6,6) e decise di mandare il diluvio. Ma Dio è Dio della vita e non della morte: quando il mondo, con il piccolo nucleo dei salvati, riemerse dall'abisso delle acque, l'amore infinito di Dio tracciò nel cielo l'arcobaleno, promessa di un nuovo e definitivo patto di pace (cf. Gen 9,12-17).
Così tutta la storia della salvezza, testimoniata dalla rivelazione biblica, è la storia dell'appassionata ri-offerta all'uomo della possibilità e della responsabilità di aderire al "regno di Dio", cioè al progetto di costruire la storia umana come storia di pace. La chiamata di Abramo, promessa di benedizione per tutte le genti (cf. Gen 12,1-3), è l'avvio di questo cammino. La liberazione di un popolo di schiavi - con l'offerta di un patto d'amore e con la proposta di una legge che temperasse l'istinto della violenza - è il gesto decisivo e rivelatore di una via ormai aperta (cf. Es 3,7-12; 21,23-25).
L'annuncio profetico del Messia attraversa tutta la storia di Israele come una promessa di pace (cf. Is 11,1-9) e culmina nella figura del Servo di Jahweh, che prende su di sé la violenza dei propri carnefici e li redime (cf. Is 52,13-53,12). Alla coscienza scoraggiante dei fallimenti umani, è offerta la promessa del dono di un "cuore nuovo", che cambi dall'interno i passi e le vie dell'uomo (cf. Ez 11,19; Sal 51,12).

La pace: dono di Dio in Cristo crocifisso e risorto

16. - Il dono divino della pace culmina nella persona, nell'insegnamento e nella vicenda di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, l'uomo nuovo che può dare al mondo una pace diversa da quella che il mondo stesso pensa di offrire e che risulta impossibile senza la conversione del cuore (cf. Gv 14,27). Infatti la pace offerta da Cristo è il frutto della sua decisione, libera e amorosa, di dare la vita sino al termine estremo della morte di croce, accompagnata dal perdono per i crocifissori: "Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia... per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia" (Ef 2,14-16). Chi opera in questo modo non è lo sconfitto, ma il vincente, perché Dio garantisce per lui. La risurrezione di Cristo infatti è la conferma della fedeltà di Dio e il primo saluto del Crocifisso-Risorto ai discepoli diventa il nucleo stesso del messaggio evangelico: "Pace a voi!" (Gv 20,19).
Ogni giorno, di fronte alle sconfitte che la pace conosce anzitutto nella vita personale di ciascuno, possiamo lanciare verso il cielo la domanda, che anche Paolo di Tarso ha sperimentato: "Io non riesco a capire neppure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Sono uno sventurato. Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?" (Rm 7,15.24).. Di fronte all'annuncio di Cristo risorto però possiamo anche sperare nella possibilità che la nostra domanda non si perda in un cielo vuoto, ma incontri un dono e divenga grido di riconoscenza: "Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!" (Rm 7,25). Se il sangue di Abele continua a gridare dalla terra le sconfitte generate dall'odio, il sangue di Cristo, "dalla voce più eloquente di quello di Abele" (Eb 12,24), grida più forte la speranza di pace.

La pace: dono di Dio affidato all'invocazione dell'uomo e alle sue mani

17. - La pace del Signore Gesù Cristo ci è già donata, ma l'uomo ha il potere tremendo di respingere il dono e il seme, per quanto rigoglioso, deve conoscere i tempi lunghi e incerti della fioritura, prima che si possa mietere la spiga (cf. Mc 4,26-29). L'attesa umana della pace allora si colloca al crocevia fra l'invocazione alla grazia divina che cambia il cuore e il proposito di non rinnegare il compito affidato da Dio alla nostra libertà, alla nostra sapienza, alla nostra generosità.
Perciò il discepolo di Cristo deve fare propria con decisione la logica della croce, cioè la logica del dono di sé e non del dominio e del possesso (cf. Mc 10,32-45); e in tale cammino scopre una giustizia "nuova" e "superiore", che trasforma radicalmente le dinamiche di ogni rapporto umano, fino a chiedere forme d'amore inattese e impensabili (cf. Mt 5,20-48). Di conseguenza l'impegno a edificare la pace diventa testimonianza resa all'amore di Dio (cf. Mt 5,9), perché si alimenta al distacco dall'ansia dell'avere, proprio di chi si sa affidato all'amore del Padre (cf. Lc 12,22-32) ed è quindi capace di condivisione fraterna (cf. 1 Gv 3,16-18). La fatica quotidiana della riconciliazione nell'unità, diventa segno offerto al mondo, perché possa credere che Cristo è venuto (cf. Gv 17,20-21).

La pace: dono di Dio offerto nella speranza

18. - La croce di Cristo ci pone in cuore la fiducia che il regno di Dio già opera come lievito nella storia e che alla fine ci saranno "un nuovo cielo e una nuova terra" (Ap 21,1), nei quali giustizia e pace regneranno e ogni lacrima sarà asciugata. Ma tutto ci è donato nella forma del "già e non ancora". È quindi nostro compito rendere ragione di fronte alla storia della speranza che è in noi (cf. 1 Pt 3,13) e assumere la fatica fiduciosa di orientare tale storia al suo traguardo, contro ogni pronostico disperato e con la consapevolezza che fino all'ultimo le tracce del male renderanno la pace incompiuta.
Tale impegno coinvolge i gesti e i pensieri della vita quotidiana, nei suoi aspetti più semplici e in quelli più alti, per cui coloro che lo assumono devono mettere in conto il rischio di trovarsi "come pecore in mezzo ai lupi" (Mt 10,16), di suscitare divisioni, di offrire pace e di ricevere rifiuto, ostilità, persecuzione e morte (cf. Mt 10,1-25). Ma, come Cristo risorto, i discepoli continueranno portare al mondo il saluto di pace (cf. Mt 10,12s), a dire con efficacia: "Pace a voi" (1 Pt 5,14), così che la pace augurata diventi dono maturo.

La pace: dono di Dio e frutto del perdono

19. - L'ascolto dell'invocazione umana alla pace e della risposta che ad essa offre l'amore di Dio conduce alla soglia di una parola grande e tremenda: il perdono. Esso è desiderio di un abbraccio che rigenera e domanda di riparazione e riconciliazione; non distrugge la memoria di ciò che è accaduto, ma proprio perché non dimentica, può misurare per intero l'irreparabilità del dolore e della violenza e compiere il miracolo dell'andare oltre. L'uomo che tenta di chiedere o di dare il perdono sa che nessuno ha forza e vita bastanti per compensare il male inflitto o subìto, ma riconosce che anche un solo ultimo respiro può bastare a strappare il peso dal cuore e a tentare un nuovo azzardo d'amore.
La via del perdono rimane comunque una via che appare talora assurda per l'uomo, e lo sarebbe se fosse affidata soltanto alle sue forze. Il perdono invece corrisponde sì a una delle aspirazioni umane più profonde, ma è anzitutto dono e grazia da accogliere, perché è attributo dell'amore di Dio. Dio infatti perdona perché sua è l'onnipotenza dell'amore che crea ogni cosa e, sola, può ri-fare il cuore traviato dell'uomo. Gesù di Nazaret manifesta tale onnipotenza perdonando il peccato nel gesto stesso di guarire il male fisico dell'uomo (cf. Mc 2,1-12), perché ha riscattato personalmente ogni male e ogni crudeltà, morendo per amore sulla croce.
Non si può dunque annunciare al modo la pace se non si annuncia il perdono. Il nostro perdonare è partecipazione al perdono di Dio: a Lui lo chiediamo con la preghiera del "Padre nostro"; da Lui lo riceviamo per le nostre colpe e lo impariamo giorno per giorno vivendo gesti umili e concreti di riconciliazione, di giustizia, di solidarietà e di misericordia; nel suo nome lo doniamo, per rinnovare il miracolo di una nuova creazione che cancella l'inimicizia nel mondo. Sul canto sinistro di Lamech, che prometteva settanta volte sette vendetta, si impone il comando di Cristo di offrire settanta volte sette il perdono (cf. Mt 18,21s).

PARTE TERZA
PER UN PROGETTO CONDIVISO DI EDUCAZIONE ALLA PACE

20. - L'invocazione di pace che sale dalla terra chiede di essere tradotta in coerenza di vita; il dono della pace che viene dall'alto attende di essere accolto e custodito. La via da percorrere è quella dell'educazione alla pace, perché su questa via la pace diventa possibile.
Ci si può chiedere, talvolta con scetticismo, se i tempi siano maturi per tale progetto, ma per chi ha cuore e occhi trasparenti i segni della speranza sono visibili nella nostra storia e il "vangelo della pace", che abbiamo condiviso, apre vie nuove e insospettate a chi si lascia raggiungere da Cristo, a ogni uomo e donna di buona volontà. È dunque possibile, ed è necessario, che l'educazione alla pace diventi una scelta decisa.
Ora si può "imparare la pace" anzitutto esercitandosi a praticarla ogni giorno, all'interno di ogni relazione e in ogni àmbito di vita. L'educazione alla pace però si propone pure come processo esplicito, intenzionale e permanente, che prevede spazi di ricerca, di elaborazione e di esperienza organicamente strutturati all'interno dell'itinerario educativo globale. Ci sono poi contesti umani (la famiglia, la scuola...) che sono per natura ordinati allo sviluppo libero e responsabile della persona umana, e quindi a far crescere uomini e donne di pace, con una proposta educativa continua e consapevole.
L'educazione alla pace deve quindi anche tradursi in un progetto formale, che determini gli obiettivi e le condizioni per il loro raggiungimento, individui i soggetti da chiamare in causa e i percorsi da compiere. Tale progetto deve però nascere come esito condiviso di un confronto libero e sereno, nel quale le diverse opzioni culturali vengono sinceramente vissute e offerte come contributi alla crescita comune e non come motivi di contrapposizione. Per questo sembra utile definire qui alcune linee essenziali, rimandando ad altri àmbiti e ad altre competenze l'individuazione di itinerari più precisi e specifici.

Il contesto sociale dell'educazione alla pace

21. - Un progetto di educazione alla pace richiede un contesto sociale che offra le condizioni necessarie per un'esperienza quotidiana di relazioni costruttive e per una proposta educativa non resa vana dalle circostanze nelle quali si compie. In continuità con il precedente documento Educare alla legalità quindi, si vede necessario mettere a fuoco l'esigenza di promuovere un'adeguata cultura della regola, al di là di ogni prospettiva puramente formale. L'illegalità infatti è nemica della pace e ogni giorno verifichiamo i frutti amari di questa realtà, specialmente quando essa diventa organizzazione e logica di vita, propone modelli esistenziali di sopraffazione e di facile arricchimento, destabilizza con il terrore e il sospetto il tessuto delle relazioni sociali, inquina i processi della politica e dell'economia.
La cultura della regola (o della legalità) diventa invece via di educazione alla pace anzitutto e normalmente attraverso la prevenzione, ma anche proponendo vie di riconciliazione là dove le contese già insorte chiedono una soluzione pacificante e non soltanto tecnica. In questa linea il mondo della legge ha introdotto la figura del giudice di pace, che dovrà comunque esprimere sempre meglio il volto del compositore dei conflitti, non l'immagine tradizionale di chi alla fine sentenzia in forza della legge. Per quanto riguarda invece il processo penale va incoraggiata la ricerca di "mediazioni" che - accanto alla specifica dinamica processuale e punitiva, nella quale non c'è spazio per la composizione - pongano attenzione al tema della riparazione, non per risarcire perdite inguaribili, ma per stabilire uno spazio di incontro e di possibile pacificazione fra il reo e la sua vittima. Lo stesso fenomeno del "pentitismo" dovrà sempre meglio configurarsi dentro questo orizzonte, al quale concorre in modo determinante anche la proposta evangelica del perdono.
In ogni caso ciò che passa per le aule dei tribunali è pur sempre una parte minima della conflittualità già esplosa e che attende riconciliazione. Per questo vanno sostenuti gli organismi di mediazione (consultori familiari, altre iniziative di volontariato per l'"ascolto", alle quali può contribuire anche la comunità ecclesiale), che aiutino i cittadini a sanare le fratture e a evitare il senso della sconfitta che diventa voglia di rivalsa. Infatti quando un equilibrio infranto si ricompone per una scelta non subìta ma condivisa, un reale esercizio di pace si è compiuto.

22. - Un secondo aspetto da considerare è lo sviluppo di una cultura politica che sia supporto autentico all'educazione alla pace. La competizione anche dura è parte integrante del gioco politico, ed è anzi garanzia della democraticità del sistema. Quando però la competizione non si colloca sul piano del confronto democratico fra progettualità diverse e assume le forme dell'aggressione personale e della contrapposizione preconcetta e senza scambi fra blocchi, o quando diventa l'arena di singoli protagonismi o di interessi di parte, allora la politica degenera e i cittadini non possono che smarrire il senso dello Stato e delle sue finalità. Se quindi le recenti vicende della politica italiana hanno inferto un duro colpo alle connivenze fondate sullo scambio di favori, va ora incoraggiato ogni sforzo destinato a far ritrovare alla politica il suo profilo alto, che significa capacità autentica di governare democraticamente lo sviluppo del Paese, in spirito di servizio nei confronti del bene comune e nel contesto di una globalizzazione sempre più ampia dei problemi e dei rapporti.
Ci sono in particolare due àmbiti nei quali la cultura e la prassi della politica devono oggi mostrare la propria capacità di essere strumenti di educazione alla pace. Il primo riguarda lo sviluppo effettivo della partecipazione, attraverso la definizione di un sistema compiuto di autonomie, che faccia arretrare lo stato dall'invasione burocratica della società civile e riapra la "vicinanza" e la corresponsabili fra cittadini e istituzioni. La seconda riguarda la capacità di comporre le autonomie in un quadro unitario di responsabilità e di solidarietà, che garantisca in tutto lo Stato eque opportunità di sviluppo e non abbandoni i rapporti reciproci alle spinte egoistiche locali o di gruppo. Una comunità di pace infatti è una comunità di uomini liberi e responsabili, capaci di costruire insieme rapporti di condivisione e di scambio.

23. - Una terza condizione per l'educazione alla pace è lo stabilirsi di un contesto caratterizzato da un'economia per l'uomo e per la comunità. Anche l'economia infatti è una realtà strutturalmente conflittuale, perché si trova a soddisfare bisogni molteplici con risorse sempre limitate e perché la distribuzione dei beni è talora inestricabilmente legata a rapporti di forza. Già la precedente riflessione su Stato sociale ed educazione alla socialità aveva messo in luce che molti conflitti sociali nascono proprio dallo squilibrio nell'accesso ai beni della terra e possono essere affrontati solo con la rimozione delle ingiustizie, a livello mondiale e locale. Il problema però si pone dentro a ogni uomo, quando l'avere è vissuto come segno di successo e di autoaffermazione; quando il rifiuto della condivisione viene giustificato con il "merito" di chi ha accumulato beni con la propria intraprendenza, anche se la bilancia del merito è spesso truccata da condizioni di partenza disperatamente diseguali; quando la legittima soddisfazione dei bisogni personali viene sopraffatta dalla bramosia dilagante che diventa rapina e sfruttamento sistematici.
Esiste quindi un nesso profondo fra la pace e la "questione sociale" della giusta distribuzione dei beni, secondo criteri dinamici di valutazione, che tengano conto dello sviluppo tipicamente umano dei bisogni, ma anche delle condizioni di reciprocità del loro soddisfacimento, in un contesto di effettiva condivisione fraterna, che riceve forza dalla scoperta della paternità universale di Dio. Inoltre una sapiente politica economica, orientata alla pace sociale, non può accontentarsi di moltiplicare i beni materiali, ma deve contribuire all'innalzamento generalizzato della qualità della vita, al rispetto dell'ambiente e alla diffusione dei beni spirituali, che salvano dalla tristezza del consumo diventato costrizione priva di senso umano.
Una particolare attenzione va riservata al tema del lavoro, che si rivela sorgente continua di conflitti e postula il confluire delle rivendicazioni contrapposte in un "patto" condiviso. Appare dunque provvida la rete di regole dettate direttamente dallo Stato a tutela di diritti non negoziabili che toccano l'integrità e la dignità della persona che lavora (rifiuto delle discriminazioni, difesa della salute, libertà sindacale...). Al di là di tale rete però si pone il campo della contrattazione collettiva, nel quale si definiscono altre regole di condotta, non imposte dall'alto ma generate dal consenso. Educare alla pace quindi significa maturare la coscienza che lo strumento della contrattazione deve servire a fondere interessi divergenti in un obiettivo comune; a stipulare accordi che non dimentichino o cancellino le giuste rivendicazioni di altri settori, magari troppo deboli per farsi sentire, come quello dei senza-lavoro. Il controllo dell'asprezza del conflitto e del suo dilagare sociale, chiede pure che vengano utilizzati metodi di lotta adeguati al fine, senza che improvvise negazioni di servizi essenziali si ritorcano contro la comunità invece che diventare mezzo di pressione sulla reale controparte.

24. - Ma c'è un'ultima condizione, che oggi si rivela assolutamente necessaria per educare alla pace, ed è la comunicazione, intesa non semplicemente come gestione di mezzi informativi, ma come via privilegiata alla fraterna messa in comune dei pensieri, dei sentimenti, delle ragioni di vita, in un incontro libero dall'inganno e dalla violenza.
Esistono infatti conflitti interpersonali, generazionali e sociali che derivano o sono resi più acuti da una comunicazione mancante o scorretta, per cui diventa necessario approfondire e stabilire concretamente il rapporto fra educazione alla pace e comunicazione. Tale rapporto va anzitutto definito sul piano personale e interpersonale, quando la comunicazione innesca una ricerca continuamente sollecitata dalla più profonda istanza veritativa, che non prescinde dalla domanda sull'Assoluto; favorisce la formazione di convinzioni e atteggiamenti responsabili, liberi e coscienti; permette la condivisione e l'interscambio di valori comuni in base ai quali costruire la convivenza, a partire dalle comunità originarie; assicura il riconoscimento effettivo dei diritti della persona e l'educazione a viverli in modo solidale e non contrappositivo.
Sul piano invece dell'organizzazione e della gestione dei mezzi, la comunicazione educa alla pace quando offre conoscenze che garantiscano alla persona di crescere in dignità e di non essere ingannata su se stessa e sul mondo; rende possibile un'effettiva integrazione tra persone e comunità, in un contesto ormai definito di globalizzazione integrale del mondo; consente agli utenti di non essere fruitori passivi e deresponsabilizzati, ma li stimola ad essere artefici e protagonisti di cultura nella propria comunità.
C'è una comunicazione che educa alla partecipazione e quindi alla pace, perché la partecipazione induce alla condivisione e alla corresponsabilità, genera democrazia. C'è invece un circolo di informazioni nel quale troppi uomini non sanno e troppo pochi sanno e determinano ciò che gli altri devono sapere; ma esso serve soltanto a consolidare emarginazioni e sopraffazioni che minano alla radice ogni reale possibilità di pace.

Obiettivi per un progetto di educazione alla pace

25. - L'articolazione di un organico progetto di educazione alla pace chiede la definizione formale di un insieme coerente di obiettivi, che si presenti strategicamente organizzato e si traduca poi in percorsi più propriamente culturali, pedagogici e didattici, da elaborare in altre sedi. È qui sufficiente offrire alcune indicazioni essenziali, e la prima riguarda l'obiettivo del dialogo, con tutto ciò che esso comporta.
A tale proposito occorre anzitutto denunciare i limiti di una tolleranza di matrice illuministico-borghese, che presuppone un soggetto umano individuale così sicuro di sè da poter "portare" (o sop-portare) l'altro e il diverso "anche se" diverso, con magnanimità e distacco. Nella prospettiva invece di una soggettività in relazione (alla quale concorre anche il volto di Dio-Trinità e il continuo definirsi di Gesù di Nazaret in relazione al Padre), l'altro diventa un elemento di costruzione dell'identità individuale, "perchè" diverso, in quanto la sua diversità apre e arricchisce. Così perdono di significato i razzismi e le esclusioni di ogni tipo e maturano possibilità di pace in una convivenza effettivamente interetnica, interculturale, interreligiosa.

26. - Un altro obiettivo dell'educazione alla pace è individuabile nel "circolo virtuoso" che deve stabilirsi fra sobrietà e solidarietà, allo scopo di ridurre i conflitti che si generano nell'accedere al banchetto dei beni della terra. Infatti la globalizzazione e l'interdipendenza dei problemi economici ed ecologici fanno sì che ogni scelta personale abbia ripercussioni molto ampie e si traduca spesso in un aggravio di peso sulle spalle di chi è meno fortunato. Di conseguenza educare alla sobrietà nell'uso dei beni (evitando sia l'accumulo che lo spreco) diventa condizione per una più giusta distribuzione degli stessi, per oggi e per domani, e colloca la solidarietà in una prospettiva di giustizia e non di elemosina.

27. - Un'ultima indicazione può essere data circa l'obbiettivo dell'educazione alla gestione dei conflitti. Essi infatti sono un'esperienza ineliminabile del rapporto interpersonale e sociale, e la loro presenza esige che le persone maturino atteggiamenti, convinzioni e strumenti per vivere dentro la tensione in modo non distruttivo. A questo proposito sembra opportuno segnalare due percorsi. Il primo riguarda la consapevolezza dei diritti e dei doveri, che genera rapporti paritari, non permette di sbilanciare le attese soltanto sui bisogni individuali, impone che ciascuno faccia la propria parte e apre a istanze più alte, come quella del perdono. Il secondo si riferisce all'assunzione competente e responsabile del metodo democratico, in base al quale i conflitti vengono risolti non semplicemente con la forza dei numeri, ma con l'accettazione sincera e consapevole di una regola che cerca di garantire il maggior bene possibile per il maggior numero possibile di persone.

Luoghi e soggetti dell'educazione alla pace

28. - In un progetto di educazione alla pace emerge in primo luogo e con forza la responsabilità della famiglia, modulo primo e naturale della vita, cellula e paradigma della convivenza sociale. In essa l'educazione alla pace inizia con l'esperienza del "prendersi cura" della diversità di ciascuno rispetto all'altro. Ciò accade anzitutto nella relazione coniugale, quando le inevitabili ferite reciproche - tanto più crudeli perché inferte in un contesto di "prossimità" intensamente voluto - vengono riconosciute sinceramente e lenite nell'esercizio quotidiano della comprensione, della riconciliazione, del perdono.
Il percorso di accoglienza reciproca e di continua riconciliazione della coppia, ha anche il potere di ripercuotersi positivamente sui figli, per sé esposti ai traumi derivanti dalle tensioni dei genitori e talora al rischio di essere usati come "ostaggi" o oggetti di ricatto nella contesa. Nel contesto del "prendersi cura" dell'altro va però inserito anche il tema dell'accoglienza della vita, di fronte al fenomeno inquietante della denatalità che si manifesta in Italia. Tale fenomeno infatti è contrario alla cultura di pace perché spesso è segno di un conflitto fra la responsabilità verso una nuova vita e la conservazione della libertà e del benessere personali; e perché riduce le possibilità di sperimentare l'"essere fratelli" nel suo contesto primario e naturale.
L'educazione alla pace in famiglia si sviluppa poi nel modo di vivere le relazioni e i conflitti generazionali, tra genitori e figli, superando da una parte l'autoritarismo che impone senza motivare e dall'altra la tentazione di liquidare facilmente la saggezza maturata dall'esperienza di vita. Per questo occorre definire regole semplici e condivise di vita familiare, dove ciascuno possa conoscere e sperimentare diritti e doveri; e soprattutto occorre stabilire un dialogo che affronti i temi forti della vita, superando l'impaccio delle differenze in un clima fatto di accoglienza, ascolto, rispetto e amore donati senza riserva. In tale clima si rivela particolarmente il "genio" femminile dell'educare alla pace, perché la contiguità della relazione educativa con quella connessa al dono della vita (fin da quando essa è custodita nel grembo) può fondare un rapporto che porta in sé l'offerta e la certezza dell'essere accolti e amati.
Infine, la famiglia educa alla pace quando rifiuta ogni chiusura egoistica, in nome della propria quiete, e diventa luogo nel quale trovano risonanza, ascolto e risposta le sofferenze e le attese del mondo, con la collaborazione di tutti i membri. Ciò comporta scelte quali la determinazione del livello di benessere familiare con attenzione ai bisogni altrui e non solo al calcolo delle risorse possedute; la disponibilità a mantenere nell'àmbito familiare i membri che hanno bisogno di cure particolari e di aprire la casa a forme di affido, di adozione o simili; la capacità di assumere responsabilità negli spazi di partecipazione civile ed ecclesiale, particolarmente in quelli che richiedono l'esperienza di coppia o di genitori (scuola, consultori matrimoniali, ecc.). Ovviamente, perché la famiglia possa far fronte alle proprie responsabilità verso la vita e verso l'educazione, occorre anche una politica familiare che risponda all'esigenza di conciliare il lavoro con la maternità e le cure parentali; e che ponga le condizioni per un effettivo esercizio del diritto alla casa, alla salute, al lavoro e alla libertà educativa, anche in riferimento alla scelta scolastica.

29. - Accanto alla famiglia, un progetto di educazione alla pace chiede il coinvolgimento della scuola. Infatti, in un contesto di corretta sussidiarietà, la scuola si affianca alla responsabilità primaria della famiglia per proseguire l'educazione alla pace, attraverso un intervento pedagogico che ha al suo centro l'esperienza culturale. Tale compito (dal quale non va ritenuto assente il mondo universitario, pur con la specificità che lo caratterizza) riguarda anzitutto i modi concreti nei quali sono vissute le relazioni scolastiche e nei quali la scuola si inserisce nel più ampio contesto sociale, coinvolgendo i diversi soggetti in una prospettiva di "comunità educante". Si può allora "imparare la pace" a scuola, vivendo processi effettivi di partecipazione, democrazia e responsabilità nel lavoro, nel rispetto dei diversi ruoli e competenze; prendendosi cura di chi è più debole ed evitando che l'apprendimento diventi puro spazio di competizione per il successo personale e quindi radice di conflitti, invece che strumento di relazione e di aiuto reciproco.
In secondo luogo la scuola risponde al progetto di educazione alla pace con l'offerta di un "sapere per la vita", identificato nell'apprendimento dei percorsi cognitivi-valutativi e delle conoscenze che rendono possibile il distacco critico e l'autonomia personale, senza dei quali non ci sono libertà e responsabilità, e neppure cultura di pace. Ciò non significa ovviamente che il tema della pace debba configurarsi come contenuto di una particolare disciplina scolastica. È invece necessario che nella didattica e nei contenuti dei diversi saperi siano fatti emergere esperienze comunicative, quadri di riferimento e significati valoriali che possono dar vita a un'organica cultura di pace. Nella programmazione di particolari saperi poi si potranno prevedere utilmente alcune unità didattiche finalizzate ad esplicitare organicamente il tema della pace nel contesto della ricerca storica, letteraria, religiosa, filosofica, economica, geografica, ecc.

30. - L'educazione alla pace costituisce però un itinerario di formazione permanente, che deve coinvolgere tutte le esperienze nelle quali si realizza lo sviluppo integrale della persona umana, valorizzando anche dimensioni interiori e "gratuite", quali la contemplazione, la creazione e ri-creazione estetica, la riflessione sapienziale, e non solo ciò che riguarda gli aspetti sociali del conflitto.
Per questo un progetto di educazione alla pace interessa il vasto e complesso mondo dell'associazionismo, nel quale le persone di ogni età si raccolgono spontaneamente per rispondere al bisogno di continua crescita personale, di comunicazione e di socializzazione, di cultura, di esperienza religiosa, di sport e tempo libero, ecc.; o per mettere a disposizione competenze ed energie in varie forme e organizzazioni di volontariato sociale e di impegno civile, sindacale e politico. Anche tali aggregazioni infatti possono offrire percorsi esperienziali, animati dai valori che fanno crescere le possibilità di pace ad ogni livello.

Comunità cristiana e educazione alla pace

31. - La comunità cristiana si riconosce come un popolo di fratelli e di sorelle riconciliati per grazia dall'amore di Dio, nonostante le continue resistenze e cadute, attraverso la morte e la resurrezione di Cristo e con l'opera incessante dello Spirito di carità e verità. Essa quindi risponde all'invocazione umana di pace anzitutto accogliendo e celebrando nella storia il mistero della pace che viene dall'alto, e sottoponendosi alla sua potenza rinnovatrice per rendergli testimonianza davanti a tutti.
I segni di questo cammino sono dunque l'ascolto della Parola, che convoca l'umanità attorno allo svelarsi del progetto di Dio; la partecipazione, soprattutto domenicale, al banchetto del Corpo e del Sangue di Colui che ha dato se stesso per riconciliare i dispersi; la gioiosa esperienza del perdono del Padre, reso presente nel sacramento della riconciliazione; l'appartenenza a una comunità che vive, custodisce e manifesta - anche se con mezzi e gesti poveri e compromessi - una comunione che è partecipazione alla vita stessa di Dio e si apre a una fraternità senza confini; la possibilità di posare sul mondo uno sguardo che riconosce in ogni "ultimo" la presenza di Colui che si è fatto servo di tutti per amore, e quindi di offrire gesti di carità che diventano annuncio e svelamento del volto di Dio, perchè solo a Lui sia resa gloria.
L'esperienza del dono divino della riconciliazione, accolto e testimoniato, diventa per la Chiesa possibilità concreta di uno stile di vita che educa alla pace.
a) Il dono della pace va chiesto con insistenza nella preghiera e va accolto in modo particolare nella liturgia, dove Dio attualizza il suo fare grazia. È quindi importante valorizzare i segni liturgici che esprimono e fanno sperimentare il dono e l'impegno della pace, in particolare nella sequenza penitenziale di gesti di riconciliazione che preparano alla celebrazione sacramentale del perdono di Dio e da essa promanano. Il tema della pace poi, con le sue valenze di fede, trova il suo spazio naturale nei momenti formativi della vita comunitaria, nelle occasioni che convocano tutto il popolo di Dio (come la celebrazione della Giornata mondiale della pace), nelle esperienze di catechesi per ogni età e condizione, negli itinerari di formazione propri di gruppi, associazioni e movimenti ecclesiali, nelle "scuole di pace" promosse dalla comunità ecclesiale.
b) Le comunità cristiane sono chiamate a una costante attenzione verso i problemi della pace nel mondo, con un duplice obbiettivo: operare su di essi un discernimento sapienziale di fede, dal quale derivino motivi di conversione e di impegno; e esprimere nei loro confronti prese di posizione e gesti di partecipazione visibili e coerenti, anche incoraggiando scelte generose come quelle della non violenza, dell'obiezione di coscienza, dell'autotassazione a vantaggio dei poveri ecc. Questo impegno, che ha la sua sede naturale nei Consigli pastorali parrocchiali e diocesani, chiede la valorizzazione delle competenze dei laici cristiani e delle aggregazioni laicali ecclesiali e un dialogo fiducioso e collaborativo con i movimenti e le organizzazioni a favore della pace che operano nella società civile.
c) Nella comunità cristiana si incontrano gruppi e persone che interpretano in modi diversi il cammino di fede e il rapporto con il mondo; non di rado tale diversità diventa motivo di dubbi incrociati e di scarsa collaborazione, rischiando anche di rendere meno efficace la testimonianza della comunione. Lo stile di pace esige allora che ogni posizione accetti di subordinarsi

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Venerdì, 05 Maggio 2006 00:47

I cristiani e la guerra (Massimo Toschi)

I cristiani e la guerra
di Massimo Toschi

In un tempo di grande stanchezza per la nostra chiesa e anche per la società, siamo chiamati a vivere il tema della fede come resistenza e della resistenza della fede. Questo ci costringe a guardare con coraggio dentro noi stessi, le nostre scelte, le nostre omissioni. Troppe volte abbiamo fatto passare come resistenza ciò che invece aveva il volto cinico di un adeguamento astuto al mondo. Basterebbe guardare al fatto che la profezia si è svuotata, nella chiesa, in proclamazione di astratti principi e che la dignità della politica si è frantumata in una logica di opportunismo e di piccola furbizia.

Attualizzazione di una pagina di Bonhoeffer

Scrivendo a dieci anni dall’avvento di Hitler in Germania, Bonhoeffer si pone il problema di chi resiste di fronte all’ostensione del male, nella sua abissale malvagità. Si cercherà di leggere questo testo, provando a farne un’attualizzazione rispetto alla situazione di oggi, con tutti i limiti di un’operazione di questo genere. In modo particolare prenderemo come riferimento le guerre di oggi, a partire dalla guerra del Kosovo. Questo testo, presente in Resistenza e resa, presenta una tipologia di coloro che pensano di resistere.

1. Bonhoeffer denuncia innanzitutto il fallimento degli "esseri razionali", di chi cioè crede che la ragione sia qualcosa al di sopra delle parti, capace di regolare e di trovare soluzioni adeguate al conflitto delle parti.

Sono coloro che quando il conflitto diventa supremo, non hanno più parole da dire né gesti da compiere, ma si arrendono, diventandone partecipi e giustificatori, ai meccanismi sottili della forza e del dominio. Sono gli illusi che pensano di contenere la guerra con la forza della ragione, e si trovano a predicare le ragioni della forza.

2. C’è poi il fallimento del "fanatismo etico". Sono coloro che si accontentano dell’astratta declamazione dei principi, dei loro principi, senza assumersi la fatica e la responsabilità di analizzare i reali meccanismi di violenza e di dominio. Essi non sanno guardare lontano, oltre le pareti della loro ideologia, non si piegano su chi si trova nella prova, ma si ritengono soddisfatti di comprimere il mondo nelle loro idee.

Sono inevitabilmente destinati a stare nel coro di chi canta le lodi dei più forti. Essi arrivano sempre dopo gli eventi e cercano di affermare ad alta voce le loro ideologie, nella convinzione che questo basti a cambiare il mondo.

3. C’è poi l’uomo di coscienza", che da solo pensa di combattere contro le contraddizioni e le complessità della storia. "S’accontenta di avere una coscienza salva, invece che una buona coscienza, finché non mente alla propria coscienza per sfuggire alla disperazione".

Sono coloro che non sanno misurarsi con la durezza della realtà, che arrivano a manipolare la realtà, per avere la coscienza tranquilla. Pur di custodire la coscienza, si preferisce credere a ciò che altri ci fanno credere. Basti ricordare, nel nostro paese, un certo solidarismo a buon mercato e consolatorio, che è stata l’altra faccia di una guerra fatta credere come umanitaria.

4. Viene poi indicata "la via del dovere": "Ciò che viene ordinato viene inteso come la cosa più certa; la responsabilità dell’ordine è di chi l’ha impartito, non di chi lo esegue. Ma attenendosi strettamente al dovere, non si giunge mai al rischio di agire sotto la propria responsabilità, che è la sola maniera di colpire in pieno il male e per superarlo".

È la via di chi nasconde le proprie responsabilità dietro al rispetto comodo e astuto delle alleanze e degli impegni presi, che usa dei conflitti e della guerra per accreditarsi come colui che è capace di rispondere agli obblighi dati. La tipicità di questo atteggiamento si trova in coloro che fanno dell’obbedienza alle alleanze il paravento dietro cui porre il loro opportunismo politico, che li esenta dalla fatica di trovare vie impervie e originali alla pace.

5. Ci sono poi coloro che si vogliono "sporcare le mani, per trovare una qualunque soluzione ai conflitti": "Chi è disposto a sacrificare lo sterile principio al compromesso fruttuoso, la sterile saggezza della moderazione al radicalismo fruttuoso, badi che la sua libertà non lo porti alla rovina. Egli accetterà il male per allontanare il peggio e non sarà più in grado di riconoscere che proprio il peggio, che egli vuole evitare, potrebbe essere il meglio. Qui sta la matrice originaria di tante tragedie".

Dietro questa descrizione stanno i difensori del minor male, che in questo modo hanno giustificato i mali peggiori. Sono i padri e i figli di una cultura di guerra, che pensano che la guerra sia l’unico strumento capace realisticamente di produrre la pace. E dunque hanno inventato degli aggettivi nobili per dare dignità di pace alla guerra: dalla guerra giusta alla guerra umanitaria. Volendo resistere alla guerra, ne hanno fatto l’unico strumento per realizzare la pace, rendendo così credibile ogni guerra, anche la più terribile.

6. C’è infine chi pretende di resistere "chiudendosi nello spazio della sua interiorità, lasciando che la storia prosegua il suo corso, con il risultato o di rimanere schiacciato sotto la responsabilità per quello che non fa e potrebbe fare o di assumere la logica del fariseo, che trova la sua autogiustificazione nelle sue leggi religiose".

Basti pensare all’uso che si è fatto delle infinite veglie di preghiera per la pace, all’uso civile di liturgie riparatrici quando c’è un grande lutto nel paese, quasi che si potesse usare la preghiera per coprire le nostre omissioni e le nostre responsabilità. La preghiera in queste situazioni sembra darci una coscienza tranquilla, che ci permette di riprendere il cammino senza che nulla cambi nella nostra vita, senza sentire la responsabilità di cambiare nel profondo la storia.

Il vero resistente

Il testo si conclude con una domanda: chi resiste? La risposta di Bonhoeffer è netta: "Soltanto colui che non ha come ultima istanza la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma è disposto a sacrificare tutto questo, quando viene chiamato a un’azione responsabile e obbediente, nella fede e in un vincolo esclusivo con Dio: il responsabile, la cui vita non vuole essere che una risposta all’interrogativo e alla chiamata divini".

Il vero resistente, allora, è colui che vive in modo radicale la chiamata di Dio e la sua obbedienza a lui. È proprio questa sottomissione assoluta alla signoria di Dio che genera una fecondità storica, che dona al credente di compiere azioni che operano nella storia secondo il realismo dell’Evangelo, non temendo l’opposizione del mondo.

Ma ci sono testimoni di questa resistenza? La domanda di Bonhoeffer rimbalza su di noi, senza offrire risposte consolatorie. Anzi la sua conclusione è ancora più drammatica: "Siamo stati testimoni muti di azioni malvagie, ci siamo lavati con molte acque, abbiamo imparato l’arte della mistificazione e del discorso ambiguo, l’esperienza ci ha resi diffidenti verso gli uomini e spesso abbiamo loro mancato nella verità e nella libera parola; conflitti insopportabili ci hanno reso arrendevoli e forse persino cinici. Serviamo ancora a qualcosa? Ci sarà rimasta tanta forza di resistenza interiore contro le situazioni imposteci, ci sarà rimasta tanta spietata sincerità verso noi stessi da poter ritrovare la strada della semplicità e della rettitudine?".

La fede come resistenza

Scrive Pietro: "Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà la grazia agli umili… Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi. E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi" (1 Pt 5,5-10).

La citazione tratta dal Libro dei Proverbi è ripresa anche da Giacomo, che la colloca in un passaggio che riguarda le cause della guerra e all’interno di un’alternativa secca: "Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio" (Gc 4,4).

Dunque c’è una prima resistenza ed è quella di Dio davanti ai superbi e i cristiani partecipano e sono chiamati a rendere visibile questa resistenza. Essa ha il suo centro nella passione del Signore: è in Gesù che Dio resiste ai superbi, è la croce il luogo di questa resistenza: "A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia" (1 Pt 2,21-23).

La resistenza di Gesù si manifesta nella perfetta obbedienza al Padre e al tempo stesso nella resistenza assoluta alla logica violenta della forza, in qualunque modo giustificata e legittimata. Proprio l’obbedienza al Padre chiede questo, proprio la comunione con il Padre genera questo.

Dio resiste ai superbi perché è il Dio della pace e dei poveri, il Dio crocifisso, che giudica i pensieri dei superbi e ne smaschera i mezzi violenti con la consegna del Figlio sulla croce. Dio resiste alla logica del mondo inaugurando con l’evento della croce il tempo del perdono, della condivisione, della pace.

Resistere è vivere la mitezza là dove la violenza è più grande; è testimoniare la pace al cuore dei conflitti, è stare nella casa dei poveri di fronte al dominio dei potenti. Questa è la via di Gesù, iniziata a Nazareth e compiuta sulla croce. Quando Pietro ci indica di seguire le orme di Gesù, indica esattamente questa strada: una strada a caro prezzo.

La resistenza dei credenti

I discepoli del Signore non hanno una loro resistenza da fare, ma partecipano e vivono dell’unica resistenza che Dio ha compiuto in Gesù di fronte al mondo e al suo principe.

Resistenza come sequela

Se la resistenza di Dio si compie in Gesù, la sequela indica per il credente la misura concreta della resistenza cristiana. Pietro indica in una condizione umiliata, nella vigilanza e nella sobrietà le caratteristiche della sequela, là dove Dio dona la grazia della resistenza nella fede. Tutto questo per discernere dove la mondanità e lo spirito del mondo prendono il sopravvento e cercano di catturare il cuore dei credenti, conformandoli al buon senso comune e a una riduzione etica della fede.

I giorni della guerra hanno mostrato un forte adeguamento dei credenti alla ragione politica, spesso giocata sulla menzogna e sulla manipolazione ideologica. Oppure hanno reso visibile un pacifismo ideologico del giorno dopo, che non cerca di prevenire le guerre e i conflitti, ma si contenta moralisticamente di condannarli, spesso con ambigue intenzioni.

Abbiamo percepito in questo tempo un’assenza di profezia e un’assenza di politica, segno concreto di un sale che perde il sapore, di una chiesa che non sa più riconoscere la sua casa tra i poveri e tra le vittime.

Siamo stati operatori di solidarietà, ma non di pace. La pace scandalosa dell’Evangelo è stata messa tra parentesi. È stata consegnata nella mani di generali e politici, con il risultato che ci è toccato di vedere degli agnelli diventati come lupi e dei lupi che pretendevano di apparire agnelli.

Non abbiamo seguito le orme di Gesù, ma quelle dei soldati e dei bombardieri. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che hanno perso la fede e la politica, sono aumentate all’infinito le sofferenze dei poveri e delle vittime, è cresciuto l’odio, sono germogliati motivi per nuovi conflitti.

Resistenza come ascolto di Dio

La resistenza al mondo, ai superbi del mondo, è frutto dell’ascolto di Dio. È’ nell’ascolto del Signore che si genera la forza per resistere: "Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché lo ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi assiste… per questo rendo la mia faccia dura come pietra" (Is 50,5-7).

È perché il servo ha ascoltato, che la sua faccia si è fatta dura di fronte ai violenti del mondo. È la sottomissione a Dio che rende possibile la resistenza di fronte ai potenti. Quando i cristiani si perdono in ragionamenti vuoti che servono a legittimare la guerra e la violenza, mostrano che non sono figli dell’ascolto di Dio, che non sono plasmati da questo ascolto, che preferiscono stare alla tavola dei potenti per elaborare nuove etiche che diano buona coscienza ai signori del mondo, piuttosto che essere incatenati nei pretori, solidali davvero con le vittime della terra. Si vuole essere interlocutori credibili, si cerca di esser efficaci, in realtà si rimane prigionieri nel coro di una cultura di guerra.

Resistenza come ascolto delle vittime

Alla fine di questo secolo, di cui la guerra è la cifra più profonda, possiamo dire che ogni guerra che in esso è avvenuta ha sempre trovato un cristiano pronto a difenderne le ragioni in nome di una astratta etica, che non è mai stato capace di guardare nel profondo il volto delle vittime. Basti pensare alla teoria degli "errori" durante la guerra nel Kosovo, che permetteva alla guerra "umanitaria" di mantenere la sua coerenza anche se si uccidevano civili inermi, che non avevano nessun legame con obiettivi militari, che avevano tutto il diritto di vivere e la cui uccisione è condannata da ogni diritto anche di guerra. Ma le vittime non hanno volto, non hanno nome. Nei filmati sono apparse sempre come una scomoda coreografia di una guerra capace di colpire obiettivi con la massima precisione. Quei filmati in realtà nascondevano tutta la tragedia degli inermi che morivano, delle sofferenze che si aprivano nella vita di molti.

Hanno cercato di spiegarci che tutto questo era, come si dice nella cultura della guerra, un male necessario, che per una pace giusta si dovevano sopportare anche questi errori e che anche i credenti dovevano riconoscere le ragioni di questa guerra. Qualcuno, molto autorevole, è arrivato a parlare dell’ingerenza umanitaria in Kosovo e dunque dell’azione della Nato come la realizzazione storica del "buon samaritano".

Ma i discepoli del Signore che si fa vittima sono chiamati ad ascoltare non le parole dei sapienti della guerra, ma il grido muto delle vittime: perché in quel grido c’è il grido del Signore sulla croce, là dove è vittima in mano di altri: "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio". Dio chiamerà suoi figli gli operatori di pace, perché ameranno i nemici e faranno la pace a misura del Figlio che si fa vittima, resistendo alla tentazione della violenza per sconfiggere il male alla radice, e inaugurando il tempo del perdono. Dio diventa vittima perché le vittime siano ascoltate; i cristiani riconoscono la via della pace secondo Dio e non secondo il mondo quando stanno dalla parte delle vittime, di tutte le vittime.

Resistenza come martyria

La resistenza cristiana ha il suo punto alto nella testimonianza del Vangelo fino alla consegna della vita. Oggi il martirio in molte parti del mondo è la misura di una resistenza cristiana che si affida alle armi del Signore: l’annuncio del Vangelo, la pace, la condivisione di vita e di destino con i poveri e con le vittime.

Da Romero ai sette monaci dell’Atlas, appare una nuova fecondità storica del Vangelo, che non si esprime in un progetto o in una ideologia, che non si affida ai mezzi forti del mondo, ma che si incarna nella vita e nella morte violenta di coloro che resistono alla logica del mondo non cercando un dominio religioso, ma consegnando la vita per tutti, in primo luogo per i nemici, come ha fatto il Signore.

Questa linea di resistenza così è presentata da mons. Claverie, vescovo martire di Orano, in una drammatica omelia in cui affronta il decisivo problema dei cristiani in Algeria, chiamati a scegliere se partire o restare: "È il momento di restare, anche in silenzio ed impotenti, al capezzale di coloro che amiamo: una semplice offerta di presenza, per stare vicini a chi soffre anche solo tenendolo per mano. Questo attesta la nostra volontà di amare gratuitamente… i calcoli troppo umani rischiano di pervertire il meccanismo interiore della missione cristiana: la chiesa non è nel mondo per conquistarlo e neppure per salvarsi, insieme ai suoi beni e al suo personale. Essa è, con Gesù, legata all’umanità sofferente".

Conclusioni

Quando si parla di resistenza cristiana, non si vuole dunque indicare un modo di difendere spazi di società o un progetto per influenzare l’economia e il governo del mondo, ma stili e di forme di presenza ecclesiale che, nella loro debolezza e fragilità, cercano solamente di resistere alla mondanità, nelle sue molteplici forme, con la forza inerme e creatrice del Vangelo.

Non c’è una dottrina della resistenza cristiana, ma ci sono cristiani che, per grazia di Dio, al cuore dei conflitti, là dove sistemi ingiusti pretendono di esercitare il loro dominio, resistono testimoniando che l’amore è più forte della morte: secondo il paradosso evangelico del seme che muore per produrre frutto, del farsi poveri per arricchire tutti, del diventare maledizione perché tutti siano benedetti, del dare la vita per i nemici, del perdonare fino a settanta volte sette. Quando questo accade, diventa visibile la resistenza di Dio nei confronti dei superbi.

Talora questi cristiani non sono riconosciuti dalle chiese, talora le chiese non cercano la sottomissione a Dio e la resistenza alla mondanità, ma al contrario si sottomettono alla mondanità e induriscono il loro cuore di fronte alla Parola di Dio; ma questo non può giustificare nessuno dal venir meno alla vocazione di una resistenza secondo lo Spirito, perché i poveri e le vittime, per continuare a sperare, domandano cristiani che cercano solamente il Regno di Dio e non si arrendono alle culture e ai poteri dominanti.

La democrazia, la giustizia sociale ed economica, l’identità culturale e l’ambiente diventano luoghi teologici nei quali esercitare la profezia della fede, il discernimento della resistenza cristiana. Non si tratta di costruire una nuova dottrina sociale cristiana, ma di generare credenti che nello Spirito sappiano leggere i segni dei tempi, rendano visibile la fecondità storica del cristianesimo secondo un’originalità mai definita una volta per tutte ma continuamente alimentata dall’azione della grazia, e per questo siano capaci di una testimonianza, coraggiosa ed efficace secondo il Vangelo, dell’amore di Dio e del più piccolo dei fratelli.

Non ricette etiche ma la via della testimonianza

Le parole di Bonhoeffer erano dette quando Hitler era vincente in Europa e nel mondo, ma hanno straordinario valore anche per noi, in un tempo in cui la chiesa in Occidente sembra indicare più la via delle ricette etiche che quella della bella testimonianza.

C’è una stanchezza dei credenti, che è figlia di un ruolo etico che la società sembra sempre più domandare, e di un riconoscimento dell’azione ecclesiale, a cui si chiede una legittimazione etica della politica. Il risultato è "lo svuotamento della parola della croce", è il venir meno della testimonianza coraggiosa dei credenti, che sempre più stanno nel coro.

Spesso le parole e i gesti delle chiese sulla guerra e sull’economia hanno più il sapore di vecchie e stanche dottrine, sia pure aggiornate, che l’assunzione davanti al Crocifisso dei drammi della storia. Volendo incidere sui grandi poteri e modificarne i comportamenti, si percorre la via dell’ideologia e non quella della profezia. Il risultato è l’elaborazione di una dottrina sociale, che ha la pretesa di umanizzare l’economia e la guerra, con l’effetto di giustificarne i meccanismi profondi.

La resistenza cristiana

La resistenza cristiana è una resistenza nella pazienza e nella mitezza, che ha il volto della condivisione della vita con chi soffre e con chi è vittima. Una condivisione che ha il prezzo più alto e rappresenta una perfetta assimilazione al mistero di Gesù, il testimone fedele.

P. Christian, priore di Tibhirine, pochi giorni prima del sequestro, indica le parole costitutive della resistenza cristiana: pazienza, povertà, presenza, preghiera, perdono. Così conclude: "Perdono è il primo nome di Dio nella litania dei 99 nomi, Ar Rahman, Ar Rahma. E la pazienza è l’ultimo nome dei 99, Es Sabour. Ma Dio è al tempo stesso povero. Dio è al tempo stesso presente, è al tempo stesso preghiera. Ecco la pace che Dio dona. Non è come la dona il mondo".

Queste parole sono l’ultima consegna di Christian prima del suo martirio e il martirio dà ad esse la parresia del Vangelo.

(da Missione Oggi, dicembre, 1999)

Pubblicato in Dossier Pace

Per la pace, “ecologia umana internazionale”
Card. Renato Martino





Il Magistero sociale della Chiesa nelle sue varie manifestazioni – ricordo per inciso il ricco patrimonio di idee contenute nella Pacem in terris del Beato Giovanni XXIII, nei tanti Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace proposti dai Sommi Pontefici da Paolo VI sino a quello di quest’anno del Santo Padre Benedetto XVI, nel capitolo decimo del Compendio della dottrina sociale della Chiesa - usa sostanzialmente la stessa chiave, miscelando, con sapienti dosaggi, le quattro dimensioni sopra richiamate e illuminandole con la grazia e la forza del Vangelo della pace di nostro Signore Gesù Cristo.

Lo stesso Consiglio per la Giustizia e per la Pace, già nella sua denominazione, è una dimostrazione di quanto sia importante utilizzare il registro di molteplici dimensioni interdisciplinari nell’approccio alle complesse tematiche della pace. Essendo il Presidente di questo Dicastero, recentemente ho voluto anch’io offrire una qualche riflessione che, utilizzando lo stesso paradigma, ho reso pubblica nel mio volume Pace e guerra. Sono certo che i valenti e qualificatissimi oratori convocati a questo nostro Colloquio sapranno darci contributi di grande spessore e profilo. Per quello che mi riguarda permettetemi una qualche riflessione previa che mi auguro possa essere utile a stimolare la nostra comune ricerca dei cammini della pace. Mi sembra che la prima cosa di cui abbiamo bisogno è una corretta comprensione di come si pone oggi il problema della guerra e della pace. Il conflitto in genere e la guerra in particolare, infatti, stanno cambiando la propria fisionomia. Sono più orizzontali che verticali, più diffusi che concentrati, più frammentati che unitari, più quotidiani che eccezionali, più vicini che lontani, più immateriali (e perfino virtuali) che materiali. L’11 settembre ha dimostrato che la morte di tremila persone è alla portata di tutti: basta un coltellino come quello adoperato da un dirottatore. A questo riguardo, un attento osservatore ha parlato di «guerre democratiche».

Questi rilevanti cambiamenti sono stati provocati soprattutto dal processo di globalizzazione. È doveroso tenere conto di questo contesto completamente nuovo in cui oggi si collocano le problematiche della pace e della guerra, sia per conoscere i nuovi condizionamenti negativi per il processo di pace, sia per discernere le nuove opportunità, su cui fare leva, con evangelica speranza, per creare migliori condizioni di pace. La violenza, i conflitti e le guerre si frammentano e quasi si nebulizzano, mentre un tempo erano situazioni circoscritte e unitarie. Aumentano i micro-conflitti ampiamente dislocati, mentre diminuiscono le guerre convenzionali attuate su grandi teatri. C’è una recrudescenza di guerre civili, etniche, tribali, locali. Nel mondo sviluppato c’è un incremento di insicurezza civile, di guerra per bande e tra gruppi di potere illegale, di micro-illegalità attuata, purtroppo, anche da minorenni. Dopo la fine del sistema dei blocchi contrapposti, le guerre si sono disseminate nel mondo come espressione di tensioni particolaristiche difficilmente riconducibili a uno schema unitario.

Ho qui accennato ad alcuni cambiamenti in atto nel modo di considerare la guerra nell’epoca globalizzata. Medesime considerazioni andrebbero fatte per la pace. Poiché la globalizzazione è «quello che gli uomini ne faranno», dobbiamo mettere in evidenza le opportunità positive che essa pone nelle nostre mani. L’orizzontalità, per esempio, ha permesso e permetterà ancor più in futuro, di moltiplicare gli attori della pace sulla scena globale, di sviluppare la partecipazione della società civile e dei gruppi di advocacy. La trasparenza delle informazioni rende possibile all’opinione pubblica mondiale farsi un’idea, esprimersi e diventare un vero e proprio interlocutore dei poteri politici su temi di guerra e di pace. Il tragico fenomeno della «delocalizzazione» delle guerre può stimolare maggiormente gli uomini di buona volontà e la comunità internazionale ad affrontarne le cause sociali ed economiche e a favorire il dialogo tra le etnie e le religioni. Se la fine dei blocchi ha prodotto e tuttora tende a produrre una fase di instabilità internazionale, apre anche a nuove possibilità di intervento che in precedenza erano precluse. Ogni epoca porta con sé rischi ed opportunità. Appartiene al realismo cristiano considerare i primi e alla speranza cristiana valorizzare le seconde. Se la guerra si fa diffusa e decentrata, quotidiana e smaterializzata … ebbene, anche la pace lo può essere, e lo deve essere. Ciò che vale per il negativo vale anche e prima di tutto per il positivo.

Il contesto globalizzato cambia i connotati sociologici della pace, ma non ne altera la dimensione antropologica ed etica. Occorre quindi un supplemento di interpretazione del mondo di oggi nelle sue dinamiche principali e di coraggio profetico per poter annunciare e preparare la pace anche nel nuovo contesto globale. Parallelamente, serve anche la capacità di recuperare il senso pieno della pace. Possiamo allora chiederci quali siano le nuove esigenze della pace e, quindi, quali strade possiamo percorrere per costruirla e realizzarla meglio di quanto non siamo riusciti a fare fino ad ora.

a) Acquisire una mentalità preventiva. È plausibile ritenere, in primo luogo, che la pace richiederà sempre di più di essere ricercata con una mentalità attrezzata a prevenire i conflitti piuttosto che con interventi a posteriori. Le cause della guerra si moltiplicano e si intrecciano. Le cause legate ad interessi economici si aggiungono a conflitti etnici o religiosi; il retaggio di storici rancori si combina con situazioni politiche di incertezza o di dispotismo; sofferenze sociali alimentano rivendicazioni espresse in forme violente che spesso si combinano con la lotta per la sopravvivenza, oppure con le tensioni provocate dal possesso di risorse naturali. Il carattere dell’incertezza caratterizza così anche la guerra e, quindi, la pace, come altri importanti fenomeni sociali del nostro tempo. Che la guerra sia un’«avventura senza ritorno», come aveva detto Giovanni Paolo II, è purtroppo vero anche dal punto di vista delle novità sociologiche: una volta scoppiata diventa difficilissimo dipanare il groviglio delle sue cause per intervenire ex post e ristabilire la pace. Per tutti i motivi che ho qui brevemente richiamato, il futuro richiederà sempre di più una maggiore prevenzione dei conflitti piuttosto che una loro «riparazione» posteriore. Pertanto non si può non concordare con quanti affermano che la complessità del mondo globalizzato non richiede meno politica, ma una intensificazione del ruolo della politica, proprio per gestire la maggiore incertezza con un dialogo più aperto e una concertazione più responsabile. In questo contesto va collocata l’esigenza, più volte richiamata dalla Santa Sede, di potenziare e riorganizzare gli Organismi internazionali.

b) Coltivare una «ecologia umana» internazionale. La guerra è oggi un fenomeno globale e questo dato deve far emergere sempre di più, come risposta attiva, che anche la pace è un fenomeno globale. Credo che questa globalità vada intesa soprattutto in senso intensivo: il venir meno dell’ecologia politica e perfino dell’ecologia naturale, dipendono dal venir meno della «ecologia umana» (Cf. Centesimus annus n. 38) Cosa si intende con questa espressione? Significa che non solo l’ambiente naturale, ma anche l’ambiente umano – la famiglia, la società, l’economia e la politica – richiede il rispetto di una sua propria ecologia, di un suo funzionamento fisiologico ove la dignità della persona sia veramente posta al centro.

Ora, il fatto nuovo tipico della società globalizzata è che tendono a sparire i confini tra ecologia naturale (ossia il rispetto responsabile dell’ambiente), ecologia sociale (la giustizia e la promozione di persone e gruppi), ecologia politica (le relazioni tra gli Stati e gli organismi politici) ed ecologia umana (un ambiente morale in cui la dignità della persona sia rispettata). I confini tendono a sparire nel senso che le interrelazioni tra questi ambiti sono sempre più strette e complesse. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel caso della guerra. Per esempio: le lotte per sfuggire alla povertà ed accaparrarsi risorse naturali generano conflitti; a loro volta i conflitti comportano distruzione di risorse naturali e generano povertà. Le lotte per garantirsi i diritti di sfruttamento dell’ecosistema (si pensi alla bioingegneria vegetale ed animale che tenderebbe a mettere il proprio copyright sulla biodiversità) generano profitti e benessere per alcuni, ma anche possono indurre ceti e popoli alla povertà. Trovo che il concetto di ecologia umana possa fornire una chiave di lettura dei fenomeni del conflitto e della guerra e quindi, in positivo, della pace, in grado di aiutarci a fronteggiare le nuove sfide globali. Essa permette di intendere l’interconnessione nell’uomo dei diversi ambiti di ecologia e la necessità di un impegno coerente e orientato perché, come in un sistema di vasi comunicanti, tutto influisce su tutto. La costruzione della pace si fa oggi in primo luogo, impegnandosi per una ecologia umana plenaria, per un rispetto della dignità dell’uomo in tutti gli ambiti.

c) L’impegno delle religioni. Fino a qualche anno fa sembrava vincente l’idea di uno spazio pubblico internazionale «neutro» rispetto alle religioni, affidato quasi esclusivamente agli Stati e, in particolare, alle due superpotenze. Sembrava che nel mondo occidentale la valenza pubblica della religione fosse inibita dalla laicità della vita politica, quando non dal laicismo e dal processo di secolarizzazione che tendevano a relegare la religione nel privato. Inopinatamente, invece, dopo il crollo del Muro e la fine dei blocchi, anche le religioni sono state sdoganate. In Occidente si è così appreso che, sotto la patina di un secolarismo rampante, vivevano forti tensioni religiose e non solo nella forma consumistica della New Age. Gli Stati Uniti, per esempio, considerati l’avanguardia della secolarizzazione in Occidente, hanno riscoperto le proprie radici religiose al punto che qualche osservatore parla di una crescente differenziazione proprio su questo punto tra Stati Uniti ed Europa. In Oriente, dalla disgregazione dell’impero sovietico sono emerse molteplici appartenenze religiose, che in alcuni casi, purtroppo, sono addirittura esplose anche in forma di virulenti conflitti. Le migrazioni globali, d’altra parte, hanno posto le religioni l’una accanto all’altra e la scena politica mondiale, con le sue note vicende, ha condotto alla ribalta della cronaca e della politica la religione islamica. Tutto questo comporta non solo un rinnovato peso sociale e politico delle religioni, ma soprattutto una loro rivendicazione di «diritto» a un ruolo pubblico. Se talvolta ciò è stato ed è fonte di conflitto e di guerra, ritengo che possa e debba diventare oggi e domani elemento di pace. Su questo terreno si giocheranno sempre di più nel prossimo futuro le sorti della pace nel nostro mondo. Una condizione fondamentale per la pace è che le religioni sappiano evitare con sempre maggiore accortezza i due estremi del fondamentalismo laico e del fondamentalismo religioso. Il fondamentalismo laico non ammette la presenza della religione nello spazio pubblico, relegandola ad affare privato; il fondamentalismo religioso si risolve nell’occupazione diretta dello spazio pubblico, senza rispetto del principio cristiano di laicità: simili posizioni non possono avere altro esito se non quello di aumentare i conflitti religiosi. Come si vede, sarà sempre più importante garantire in futuro la libertà religiosa non solo nei testi costituzionali, ma soprattutto nella pratica politica concreta. La libertà religiosa non è causa di guerra, anzi essa è la condizione per evitare il fondamentalismo sia laico sia religioso, le due principali forme di intolleranza religiosa nel mondo di oggi.

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Pubblicato in Dossier Pace
Venerdì, 14 Aprile 2006 01:52

Per una strategia della pace (don Tonino Bello)

Per una strategia della pace

di don Tonino Bello




Gerusalemme, tema generatore


1. Se ricorriamo a uno schema biblico, non è solo per un bisogno di organicità espositiva, ma anche perché vorremo tonificare la saldezza delle nostre analisi, esemplare lo stile del nostro impegno, irrorare la genialità delta nostra prassi di pace, e non banalizzare le nostre utopie.

Lo schema biblico fa perno attorno a un fortissimo tema generatore che sì racchiude in una parola: Gerusalemme. Lo snoderemo in quattro icone.

Nessuno è ormai tanto digiuno di riferimenti scritturistici da non sapere che Gerusalemme è la città santa, che già nella sua etimologia ne rievoca tutta la galassia dello "Shalom" biblico.

E' la "beata pacis visio": il simbolo, l'immagine della pace. Anzi, la sede per eccellenza della pace:
"Glorifica il Signore, Gerusalemme; loda, Sion, il tuo Dio.. egli ha messo pace nei tuoi confini, e ti sazia con fior di frumento" (Salmo 147,12-14).

Verso Gerusalemme, casa del Dio della pace, si orientano i passi dei pellegrini ebrei. A Gerusalemme diroccata si volgono le nostalgie degli esuli che hanno perso la pace in terra di Babilonia. Su Gerusalemme si impernia tutta la vita terrena di Gesù, Principe della pace. Verso la Gerusalemme celeste, luogo della pace escatologica, si muove finalmente tutta la storia universale.

Sulla scorta, allora, di questo tema generatore, tracceremo quattro proiezioni:
- salire a Gerusalemme (linea ermeneutica della pace);
- sostare a Gerusalemme (linea dossologica della pace);
- scendere da Gerusalemme (linea politica della pace);
- verso la Gerusalemme del cielo (linea utopica della pace).

Salire a Gerusalemme


2.1 Per gli Ebrei era sempre un momento di grande intensità emotiva il pellegrinaggio verso Gerusalemme, "città del sommo Dio".

Quando arrivavano certe date classiche, un fremito di commozione prendeva l'animo di tutti. E mentre salivano verso il colle di Sion, cantavano i salmi detti appunto delle "ascensioni". Uno dei più belli è il salmo 122: "Quale gioia, quando mi dissero: andremo alla casa del Signore. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! ... Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano; sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: su di te sia pace":

L'icona degli ebrei che salgono verso Gerusalemme, città della pace, deve essere paradigmatica per noi, pellegrini che faticosamente saliamo le alture alla ricerca della pace.

Eccoci condotti, allora, alla dimensione ermeneutica del nostro impegno: quella della ricerca.

Si potrebbe assumere come telaio di questa prima dimensione la frase di un monaco certosino del 1100, Guigo II, che, parlando della "lectio divina", cioè della metodologia da usare per leggere compitamente, in modo sapienziale, la Parola di Dio, scandisce quattro momenti: la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione. E dice così: "La lettura è un esercizio esteriore, la meditazione è una comprensione intellettuale, la preghiera è desiderio, la contemplazione è superamento di ogni senso.
Ora, ecco la prima proiezione.

I credenti dovrebbero essere testimoni di una "lectio divina" della pace. Scandendo, appunto, i quattro momenti che venivano proposti ai monaci per la "lectio divina" della Parola.

2.2 Anzitutto la lettura.

Di che cosa? Dei segni di guerra e dei segni di pace. Gli apparecchi ricetrasmittenti dell'opinione pubblica sono spesso grossolani. Registrano solo ingiustizie e guerre "scenografiche". E comunicano solo segnali di pace connotati dall'enfasi.
Dovremmo avere antenne più sensibili a captare le modulazioni di violenza emesse da tutte le direzioni.

La violenza a onde corte che viene perpetrata, ad esempio, mediante l'aborto.
Dopo gli anni roventi degli steccati culturali e degli scontri etici, pare che il bisogno di una autentica difesa della vita non nata stia ricongiungendo le sue proiezioni con l'ansia di un mondo affrancato dall'incubo nucleare, verso un comune allargamento degli orizzonti di quelle evidenze etiche che tutti si affannano a proclamare in decadimento.
La violenza a onde medie che viene perpetrata in paesi pure vicini a noi, ma non sempre collocata nella focale dei "media". Così sui massacri che avvengono nel Libano, in Iran, in Irak, in Etiopia, in Mozambico, in Sudan..., nei paesi del Medio Oriente, o sulle violazioni dei diritti umani che vengono perpetrate non solo in Sud Africa, o in Centro America, o nell'America Latina, ma anche nei paesi dell'Est europeo, cade la complicità della stampa e l'indifferenza delle coscienze.

La violenza a onde lunghe che viene subdolamente perpetrata, più che sul versante dell'avere, su quello dell'essere. Hanno ancora valore le parole che Solgenitzin scriveva nel 1972: "I tipi di coercizione più pericolosi per la pace sono quelli che agiscono senza missili nucleari, senza flotte e senza aviazione, e sono tanto larvati che si potrebbe quasi scambiarli per tradizioni e usanze abituali... Per ottenere pace autentica, è necessario che la lotta contro le forme invisibili, larvate, di violenza sia condotta con la stessa decisione con cui se ne combattono le forme clamorose.... L'impegno è quello di cancellare dagli uomini l'idea che qualcuno possa avere il diritto di usare violenza contro il diritto e la giustizia. Non si serve la causa della pace se ci si abbandona alla benignità di coloro che usano la violenza: la pace è favorita da colui che integralmente, decisamente e instancabilmente difende il diritto dei perseguitati, degli oppressi, degli assassinati".

Ma dovremmo avere anche antenne più sensibili a captare le modulazioni di pace, e a ritrasmetterle per dare speranza alla gente.

Oggi assistiamo a un impressionante trapasso culturale sul tema della pace, che si esprime, come osserva E. Balducci, in una duplice forma: "quella di superficie, che diventa prorompente quando gli eventi politici e militari creano le giuste occasioni, e quella sommersa, che ha i suoi luoghi di incubazione e di creatività disseminati nelle città e nei villaggi, sotto le denominazioni più diverse e con i più diversi sostegni: dagli enti locali ai partiti, dagli istituti scolastici alle parrocchie. Il movimento per la pace è come una galassia che occupa la zona intermedia tra l'opinione pubblica e le strutture di partito, una zona nella quale avvengono, magari silenziosamente, le metamorfosi chimiche destinate, forse, a mutare in futuro anche gli apparati del potere. E' difficile ridurre a tratti unitari un fenomeno che è, come dicono i sociologi, allo "stato nascente". Vi si trova il massimalismo utopico che abbraccia in uno slancio generoso dell'immaginazione il futuro del mondo intero, e l'insistenza ossessiva su di una opzione particolare, come, tanto per fare un esempio, l'abolizione della caccia; la pro pensione a risolvere tutti i problemi sul piano etico, senza tener conto della complessità del nesso che stringe ed oppone etica e storia; la demonizzazione degli uomini politici in cui si incarna l'ideologia di sicurezza armata, e l'idealizzazione della guerriglia contro gli imperi atomici. E' un mondo fluido quello del movimento per la pace, in cui si alternano stati di incandescenza e improvvisi raffreddamenti. Ma, osservato nel suo insieme, esso esprime un vero e proprio processo di conversione culturale, che investe ormai anche gli ambienti più tradizionali e che, attraverso la pluralità eterogenea dei suoi approcci, va elaborando alcune linee che già prefigurano un disegno unitario destinato ad imporsi, nel futuro, a tutti i livelli della società".

2.3 Il secondo momento della "lectio divina" della pace è quello della meditazione.

Io vorrei dire: quello della sistematizzazione teologica. Purtroppo non c e ancora in Italia una apprezzabile teologia della pace. Non si va più avanti dei troppo frammentati sussulti di ordine biblico, e delle pur giuste analisi di linguaggio che indugiano intorno ai termini shalom, eirene, o intorno al termine opposto hamas (il contrario di shalom non è guerra, ma violenza), la violenza essenziale che scompagina il complesso delle relazioni tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e le cose, tra l'uomo e l'altro uomo.

Quello delta pace viene visto ancora solo come tema di ordine etico, che risiede cioè esclusivamente nelle nicchie operative della morale, non un tema di carattere cristologico e trinitario che cerca cittadinanza negli spazi speculativi della fede.
Non c'è ancora una "irenologia" sistematica. Si annaspa attorno a incerti riferimenti cristolo-gici, centrati sul famoso passo della lettera agli Efesini (2,14-18), in cui si afferma che "Egli (Cristo) è la nostra Pace".

Si intuisce che il Vangelo è annuncio di pace, ma poi per un verso ci si impantana nelle dissertazioni sulla spada da rimettere nel fodero o sull'altra guancia da porgere allo schiaffo; mentre, sul fronte opposto, si tenta addirittura la fondazione di una teologia della guerra o la legittimazione di una certa violenza sulla base del Vecchio Testamento e di alcune espressioni del Nuovo ("non sono venuto a portare la pace, ma la spada"...).
Manca ancora del tutto una riconduzione della pace sul terreno trinitario: anzi, definirla proprio su questo modulo trinitario come la convivialità delle differenze, o come icona della vita trinitaria, sembra poco più che una esercitazione retorica.

E' davvero malinconico osservare come il cristiano, definito da Tertulliano "uno che lavora per la vita", non trovi ancora chiari riferimenti in una "irenologia", che dovrebbe essere una "obiezione di coscienza totale" di fronte ai poteri della terra che minacciano di bruciare l'umanità in un olocausto senza precedenti.

Ecco il compito più duro della "ascesa" verso Gerusalemme. Emerge da più parti la necessità di affrontare il problema della fondazione teologica detta pace, mollando gli ormeggi dall'area moralistica, tecnica, funzionale, intramondana e diplomatica. Sarà proprio dalla "irenologia" che si scateneranno nel mondo quei venti freschi e salutari che rinnoveranno la storia.

2.4 Ed eccoci al terzo momento della "lectio divina": la preghiera.

E' qui che si deve innestare, in moduli più forti, l'impegno dei credenti sulla spiritualità della pace. Spiritualità che non significa confino nelle zone vaporose dei sospiri, o trastullo di gruppo con la panna montata delle canzonette religiose.

Mi sembra molto significativa una espressione di Nicolas Berdiaeff: "Il pane per me stesso è una questione materiale. Il pane per il mio vicino è una questione spirituale".
Spiritualità delta pace significa appunto cercare il pane per il proprio vicino. Ma significa anche approfondire la coscienza che il pane "sovrasostanziale" della pace è un dono che va chiesto a Dio, è qualcosa che l'uomo da se stesso non può darsi. Lo shalom non nasce dal regolamento internazionale dei conflitti. Non viene fuori dai trattati e dalle pattuizioni delle cancellerie. Non è semplice frutto di operazioni diplomatiche. Non è il puro risultato che si ottiene da sforzi di buona volontà. Questi elementi sono pure necessari, ma come predisposizione all'accoglimento del dono di Dio. Da soli, otterranno al massimo il disarmo, non ta pace. Produrranno la coesistenza pacifica, non l'esistenza della pace.

La pace è "oriens ex atto", come la Chiesa. E come ci stiamo abituando a pensare alta "Ecclesia de Trinitate", così dobbiamo abituarci a pensare alla "pax de Trinitate". E come la Chiesa non è una realtà atemporale ma storica, non celeste ma inserita nel mondo, non utopica ma profetica... così deve essere la pace. E come la Chiesa, icona detta Trinità, è epifania e primizia del mondo nuovo come Dio lo ha progettato dall'eternità, così la pace sulla terra, icona della vita trinitaria, deve essere epifania e primizia della pace del mondo rinnovato.

Questo parallelo tra Chiesa e pace, caratterizza la spiritualità delta pace come spiritualità ecclesiale.

Cercare il contesto della più cordiale ecclesialità non è tentare un'operazione di assestamento aziendale.

Significa, invece, intuire che l'unica trama che può veicolare l'acqua della pace "oriens ex alto" è la trama ecclesiale, non tanto per le sue strutture, quanto per il suo essere "realtà di comunione".

Di qui, dovrebbero scaturire molteplici iniziative tutte da inventare, e che vanno dalla stimolazione nei confronti delle nostre comunità ecclesiali, al coinvolgimento "simpatico" dei nostri pastori, alta pressione rispettosa sui nostri vescovi perché siano più audaci in certe denunce e impegnino il loro magistero anche sul terreno difficile della pace, a una maggiore "parresia" delle nostre Chiese locali, alla riconduzione diuturna delle nostre realtà di base sul versante della implorazione, secondo la formula umile e coraggiosa del Card. Etchegherray: "Signore, dammi l'accortezza di spiegare bene che la pace non è così semplice come immagina il cuore, ma più semplice di quanto crede la ragione!".

E che la letizia della pace sia in fermento nella nostra comunità ecclesiale, è un segno dei tempi che con speranza dovremmo annunciare. Non è forse vero che per noi credenti d'occidente la pace è il nostro modo di costruire la liberazione?

2.5 Finalmente siamo arrivati all'ultimo momento della "lectio divina" della pace: la contemplazione. Che non e "stasi", ma "estasi" (ex-sta-sis), cioè movimento, esodo, sequela.

Sequela di Cristo, che significa camminare nella luce del Signore e nell'ascolto della sua Parola, con tutte le implicanze difficili del martirio. Ecco il discorso sulla mitezza, sulla nonviolenza attiva, sulla povertà come metodo, sul servizio, sulla partenza dagli ultimi, sul perdono come disarmo unilaterale (insegnatoci direttamente da Cristo, e così difficile da accogliere sia a livello personale, sia a livello internazionale).

Senza queste dimensioni, noi credenti diventeremmo solo banditori di pseudo-profezie, o di una pace "a basso prezzo", direbbe Bonhoeffer il quale parlava di "grazia a caro prezzo".

Sostare a Gerusalemme

3.1 Scegliamo anche qui un paradigma biblico tratto dal Vangelo di Luca: "I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per La festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava" (2,41-61).

L'icona di Gesù che rimane a Gerusalemme e che, nel tempio, ascolta e interroga, occupandosi delle cose del Padre suo, deve essere parabolica anche per noi, alla ricerca di uno stile che ci caratterizzi come operatori di pace.

Eccoci condotti, allora, alla dimensione dossologica del nostro impegno. Come telaio di questa seconda dimensione, assumo i tre pilastri che hanno Sostenuto l'incontro di preghiera del 27 ottobre ad Assisi: silenzio, digiuno, pellegrinaggio.

3.2 Anzitutto, il silenzio.

Gesù ascolta, e se rompe il silenzio è solo per interrogare, non per dare risposte. Mi sembra che ci sia qui la freccia stradale che ci indica una proiezione molto significativa sul piano dette nostre metodologie. Chi si impegna per la pace non è chiamato a emettere un rumore tra i tanti rumori attuati che parlano di pace. Non ha la vocazione a dire cose eclatanti, atte a conciliare il fascino della prima donna o il "look" del protagonista nel concerto degli "strumenti delta pace". Non è smanioso di emergere, dicendo ogni volta la sua su ogni problema di fondo o su ogni vicenda occasionale. Non ha paura di perdere il treno della popolarità, né si affanna a prendere tutte le coincidenze sotto la pensilina della cronaca. Non ama declamare la verità, rivestendola di arroganza. Predilige l'ascolto e la riflessione.

Il suo, però, non è un "silenzio-stampa", dettato cioè dal calcolo. Tantomeno è un silenzio prudenziale, pavido, bilanciato, turgido di compromessi. E' un silenzio che esplode, anzi, con audacia profetica, nella direzione della Parola rivelata. Diventa allora incontenibile: non imbavaglia la verità per paura di dispiacere ai potenti; non decurta la Parola per farla entrare nel clichè delle cautele carnali; non sterilizza il linguaggio per tener buoni quelli del Palazzo; non attenua le asprezze "irrazionali" del messaggio per timore di apparire ingenuo, ma lo trasmette per intero fino alle sporgenze del paradosso.

Il silenzio diviene così l'utero entro cui la Parola diviene carne, come nel grembo di Maria.

3.3 Dopo il silenzio, il digiuno.

Siccome nell'antichità era vietato digiunare di domenica, il digiuno è il segno della ferialità. Colloca pertanto la pace sul terreno banale e difficile dei giorni normali. Ed è questo della "ferialità" il digiuno più significativo che potremmo esprimere nel deserto del mondo, così pieno di "aspiranti al ruolo dì Dio".
Forse coinciderà per noi anche col digiuno della gloria e della cronaca. Ma se ne avvantaggerà la dossologia verso il Principe della pace.

3.4 E, infine, il pellegrinaggio.

Verso dove? All'interno della comunità ecclesiale e all'esterno, nello stile della missione.
Più precisamente: verso il cuore della gente, verso il cuore delle comunità cristiane che stanno nel "tempio", verso gli ultimi.

E' splendido quell'inciso di Luca che dipinge Gesù "seduto in mezzo".

Stare in mezzo alla gente. Per interrogarla, ponendole domande di fondo sul senso della vita. Per coscientizzarla facendo fermentare i germi di verità depositati nelle più profonde stratificazioni popolari. Per smuoverla, operando quegli smottamenti di terreno sul quale il fatalismo e il senso dell'ineluttabilità hanno sopraelevato edifici di inerzia.
Stare in mezzo alle comunità cristiane. Per animarle al coraggio. Per esortarle alla denuncia profetica. Per coinvolgerle nei processi di liberazione planetaria.

Stare in mezzo agli ultimi. Perché, partendo da essi, va riformulata la strategia di ogni movimento che si impegna per la pace. E' mettendosi in corpo l'occhio del povero che potremo ridisenare la cartina geografica dei luoghi dove oggi Cristo è crocifisso.
Se sapremo compiere questo pellegrinaggio verso la gente (scegliendo la dimensione popolare del nostro impegno), verso le comunità ecclesiali (portando al loro interno il soffio della universalità e della speranza) e verso gli oscuri domicili degli ultimi (rendendoli protagonisti del loro riscatto), allora si sprigionerà davvero, dai sotterranei della storia più che dai palazzi dei potenti, una incontenibile dossologia trinitaria.

Scendere da Gerusalemme

4.1 L'icona biblica che ci richiama la dimensione politica della pace e che traduce la coscienza in progetto, è quella del buon samaritano in viaggio sulla Gerusalemme-Gerico.

E' su quest'asse che si giocano i sogni diurni delle nostre utopie. E' l'asse che parte dalla Città Santa (Gerusalemme è la città del tempio; è il luogo dove si celebra l'ultima cena, dove si consuma la morte di Gesù e si realizza la sua risurrezione; è l'epicentro della pentecoste...) e conduce verso Gerico (verso l'ecumene, la storia, anzi la cronaca: cronaca nera, per giunta, che ha come protagonisti dei briganti, i quali spogliarono, percossero, lasciarono mezzo morto un uomo, simbolo di tutti gli oppressi della terra).
E' l'asse su cui la fede interseca la storia, la speranza incrocia la disperazione della terra, la carità s'imbatte con i frutti della violenza.

Tra i verbi che traducono i comportamenti concreti del samaritano ("lo vide, n'ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò te ferite, gli versò olio e vino, lo caricò sul suo giumento, lo portò ad una locanda, si prese cura di lui"), quello che mi sembra più espressivo è questo: "gli si fece vicino".

Farsi vicino a chi? Al popolo.

Eccoci condotti allora a quella che, secondo me, dovrebbe essere l'opzione fondamentale degli operatori di pace: farci vicini al popolo.

Il samaritano non lasciò il malcapitato sulla strada, per andare in città a denunciare l'accaduto alle forze dell'ordine. Non si recò agli sportelli della polizia per sporgere querela contro ignoti. Non andò a protestare contro le omissioni del Ministero degli Interni. Non lasciò boccheggiante sul sentiero verso Gerico quell'uomo mezzo morto per convocare una conferenza-stampa sul degrado etico della città, o sulle violenze del sistema, o sull'inadempienza dei poteri costituiti.

Forse, dopo, avrà fatto pure questo. Anzi, visto il suo zelo, c'è da pensare che in seguito, "il giorno seguente", abbia assolto anche a questo compito. Diversamente, avrebbe peccato per omissione di atti di ufficio.

Ma intanto, il gesto fondamentale che ritenne di compiere fu quello "di farsi vicino", e passare dal piano della denuncia a quello della costruzione diretta. La pace parte dal popolo e non dalle cancellerie. Dalle cancellerie semmai vi passa: ma per trovare le ratifiche, per ricevere il marchio di origine controllata.

L'intelligenza diplomatica e la ragione fredda porteranno allora a compimento ciò che la profezia creativa, che fermenta nel popolo, ha già indicato.

Laddove si scopre questa verità, è la democrazia tutta che avanza, sussulta, si migliora. Sicché la testimonianza, la solidarietà, la partecipazione, il coinvolgimento del popolo si pongono al servizio di un unico grande progetto storico da realizzare. Divengono i nuovi strumenti della politica. Gli impegni concreti da assumere con forza dovrebbero essere il riflesso di questa opzione di fondo. E quali sono?

Ne individuiamo cinque, o meglio proponiamo cinque aree:

4.2 L'area della educazione alla pace.

Forse potrà sembrare una forzatura, ma io considero che il discorso sulla educazione alla pace è il crinale, o se si vuole, la peripezia decisiva su cui ogni movimento si gioca la sopravvivenza.

Oggi stanno esplodendo numerose iniziative che hanno come scopo la promozione di una cultura della pace. Soprattutto nel mondo della scuola assistiamo a una fecondità di pubblicazioni e programmi, non gestiti più in termini di semplice trasmissione della cultura tradizionale. Un nuovo ecumenismo culturale si sta organizzando proprio attorno al tema della pace.

4.3 L'area della nonviolenza e della difesa popolare nonviolenta.

Si inserisce qui non solo un maggiore approfondimento concettuale della nonviolenza come valore di popolo, ma anche la comprensione delle metodologie nonviolente, in relazione con la fede.

L'irrobustimento che si compie nella nonviolenza tra la fede e la storia. Il ricongiungimento tra morale individuale e quella collettiva.

Si inserisce qui il lavoro di coscientizzazione popolare contro il commercio delle armi e la militarizzazione del territorio.

Si inserisce qui tutta l'azione educativa della base perché si accorga degli effetti disastrosi della violenza tecnologica. L'ecologia è un grosso capitolo del grande libro della pace.

4.4 L'area dei diritti umani e del rapporto Nord-Sud.

Lo spostamento dell'asse che spaccava l'Est dall'Ovest sulla demarcazione che divide il Nord dal Sud ci ha fatto prendere coscienza che mancanza di pace non è solo la guerra, ma la violazione dei più elementari diritti umani.

Entrano qui tutte le riflessioni sulla qualità della vita. Sullo sviluppo tecnologico. Sull'allargamento dello sguardo agli orizzonti della mondialità.

Sul permanere della logica del profitto che tende a riproporre, nei paesi poveri, fasti e nefasti dei paesi industrializzati. Sulla solidarietà con i paesi del Terzo Mondo che esige lo smascheramento del mercato delle armi. Sul Nuovo Ordine Economico Internazionale. Come anche sulla tragica situazione degli immigrati in casa nostra. Dobbiamo assecondare gli sforzi che vanno compiendo anche tante riviste missionarie divenute tribune implacabili contro le ingiustizie, e divulgare in mezzo al popolo le planimetrie di tutte le violenze, a partire da quelle che si consumano nel nostro territorio.

4.5 L'area della obiezione di coscienza.

Non tanto per ciò che immediatamente produce scombinando i calcoli del potere costituito, quanto per il contenuto di crescita popolare che essa racchiude.
Starei per dire che non è tanto l'obiezione di coscienza che ci interessa, quanto la coscienza dell'obiezione. Perché dietro le quinte di ogni obiezione c'è sempre una coscienza collettiva che matura.

4.6 L'area delle cesure difficili da ricomporre.

Tra testimonianza personale (ineludibile specialmente sulle scelte di sobrietà e di coerenza) e progetti sociali.

Tra impegno locale (con tutte le sue logiche di incarnazione e quindi, di vissuto spicciolo) e mutamenti globali.

Tra tensioni di solidarietà concreta (fatta di gesti di condivisione, di assistenza, di "olio e vino" sulle ferite) e politica.

Tra diritti dell'uomo (volti verso una nuova qualità della vita) e sviluppo appropriato.

E' qui, su queste cesure e su queste lacerazioni che dobbiamo chinarci per operare la ricomposizione o, se volete, per "fasciare le ferite".

Verso la Gerusalemme del cielo
5. "Non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura" (Eb. 13,14). La città futura è la Gerusalemme nuova, descritta nei capitoli finali dell'Apocalisse e vista come la dimora della pace.

C'è un inno bellissimo nella liturgia della Chiesa che comincia così: "Coelestis urbs Jerusalem, beata pacis visio". Città della Gerusalemme del cielo, tu sei uno stupendo spettacolo di pace!

Ecco la nostra ultima icona: quella utopica. La più bella. Perché è l'icona della speranza.
Di qui nasce tutta la forza che sostiene la nostra fatica di viandanti. Di qui si muove anche tutta la vergogna che ci deve fare arrossire ogni volta che l'ambiguità del nostro "martirio" ci fa tentennare di fronte alle "exousie" (onnipotenze) del mondo. Di qui trae origine un coraggio che si rinnova, nonostante la povertà delle realizzazioni, l'incompiutezza dei nostri disegni, e l'amarezza di dover constatare che, in fatto di pace, il "già" impallidisce sempre dinanzi al "non ancora".

Ma non dobbiamo aver paura. Un giorno godremo nella loro interezza di tutte quelle realtà che qui sulla terra siamo chiamati a far spuntare allo stato germinale e che ci sforziamo di far maturare nei segni: la pace, la fraternità, la giustizia, la libertà.
E' dalla Gerusalemme del cielo (nella quale entreremo 1' "ottavo giorno") che si deve scatenare l'empito entusiasta per ciò che agli occhi umani sembra incredibile, assurdo, irraggiungibile: la nonviolenza, il disarmo, l'unilateralità del disarmo, il perdono, la rinuncia evangelica, la povertà, la gratuità, la tenerezza...

Ci accorgeremo finalmente che la pace non è un'aspirazione, ma è una persona: Gesù Cristo, l'Emmanuele, il Dio con noi.

"Egli spezzerà l'arco detta guerra e annuncerà la pace alle genti. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna. E dominerà da mare a mare, dal fiume fino ai confini della terra." (Salmo 71).

La presenza di Maria, "gloria di Gerusalemme", il cui grembo materno, curvo come una vela, è segno del "già" sospinto verso il "non ancora", vuole essere anche l'icona del nostro pianeta gravido di speranza e proteso verso "cieli nuovi e terra nuova".

(Testo base del discorso pronunciato al Congresso nazionale di Pax Christi, a Rocca di Papa)
Pubblicato in Dossier Pace
Martedì, 28 Marzo 2006 02:23

Il sogno di Dio (Alex Zanotelli)

Il sogno di Dio
(cfr Ap, 12-13)
di Alex Zanotelli *

Dio sogna un mondo diverso da quello che abbiamo tra le mani. E chiama tutti a realizzarlo qui e ora, smascherando l'impero del denaro, cambiando la politica, rinnovando la Chiesa, facendo comunità e vivendo sobriamente. Può Dio accettare situazioni assurde come quella di Korogocho, dove migliaia di persone vivono accatastate, prive di tutto, minacciate dall'aids, mentre a meno di tre km ci sono ville da nababbi? Uno dei migliori biblisti americani, Walter Brueggemann, nel suo libro The Prophetic imagination, riassume in tre proposizioni il senso del sogno di Dio sull’umanità:

- Dio sogna per il suo popolo un'economia di eguaglianza: significa che i beni di questo mondo devono servire a buona parte delle persone e non a una minoranza. L'economia è al primo posto (e qui bisogna dar atto a Marx di aver visto giusto), perché il primato dell'economia [purtroppo] è chiarissimo.

- Per ottenere questo, però, c’è bisogno di una politica di giustizia, cioè di un tipo di politica che batta la tendenza delle società umane a strutturarsi nella disuguaglianza. E qui Marx si è sbagliato: l'uomo non è cattivo perché la società lo fa cattivo: la cattiveria è dentro l'uomo, fa parte dell'uomo.

- Ma per avere una politica di giustizia c'è bisogno di un popolo che faccia un’esperienza religiosa dove Dio è libero … Un Dio che essendo libero (Jhwh è il rifiuto di darsi un nome) non è il Dio del sistema, ma il Dio delle vittime di ogni sistema, il Dio degli oppressi, delle vedove, degli orfani, di chi non conta.

Ecco il cuore del sogno di Dio. Questo sogno viene affidato a Mosè, che è chiamato a tornare in Egitto ad affrontare l’Impero che, come ogni impero - faraonico, babilonese, romano, come l'odierno impero del danaro -, è l'opposto del sogno di Dio. Ogni impero è basato su un'economia di opulenza, dove poche persone hanno tutto.

«Che cos'è il regno di Dio? » ho domandato un giorno, durante la celebrazione, a una vecchietta che vive sulla discarica di Korogocho. «Caro Alex », mi ha risposto, «Il Regno di Dio è saziarsi». Ed è vero. La prima cosa che Dio vuole è che ognuno di noi abbia di che vivere con dignità. In Egitto c'era il 10% della popolazione che viveva nell’abbondanza a spese di molti morti di fame. A Roma la stessa proporzione: questa la realtà imperiale. Un'economia di opulenza richiede una politica di oppressione. Ecco perché le armi sono parte integrante di ogni Impero. Ogni anno si spendono 900 miliardi di dollari in armamenti. Ogni Impero esige, poi, una religione in cui Dio è prigioniero del Sistema. […] È questa l’analisi che ci aiuta a fare la letteratura apocalittica (la nuova forma che la profezia assume in contesto imperiale) da Daniele all'Apocalisse.

L'Apocalisse ha aiutato le piccole comunità cristiane dell’Asia minore a leggere l’Impero di Roma, la grande Bestia che sale dal mare, espressione suprema di tutti gli imperi della storia. La Bestia cavalca nella storia i vari imperi. Nell'Apocalisse la Bestia cavalca la grande prostituta che è Roma. È importante notare che mentre la prostituta è uccisa, la Bestia fugge per cavalcare «altro» nella storia. Il profeta vuole dire che questa Bestia che cavalca Roma non può essere identificata con l'Impero. Roma è la grande prostituta, ma la Bestia una realtà più grande dell'Imperium. L'Apocalisse ha tolto la facciata di virtù della Roma imperiale, rivelandola per quello che era: violenta, oppressiva ...

Questo ci può aiutare a rileggere oggi l'Impero del Denaro […] Ma non esiste una posizione neutra per leggere la realtà. Il contesto è altrettanto importante del testo. È chiaro che il profeta dell'Apocalisse non ha analizzato Roma da Roma. Questo profeta legge l'Impero dalla parte degli oppressi, dei crocifissi del potere imperiale. Il profeta dell'Apocalisse parte da qui: in primo luogo dal Crocifisso, da quel Gesù crocifisso fuori le mura, fatto fuori dal potere politico romano insieme con l'aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme, vittima dell'Impero. È poi da tutti gli altri crocifissi. E noi cristiani non abbiamo altra scelta, se non quella di leggere la realtà a partire dal Crocifisso, dai crocifissi, dalle vittime, dagli ultimi. Ecco perché siamo sempre «dall’altra parte» . Se noi, come il profeta dell'Apocalisse, riusciamo a leggere la realtà dalla parte di chi paga per questo Sistema, dalla parte del Crocifisso e delle vittime dell'Impero, è chiaro che l'Impero economico è oggi la grande Bestia. E quella Bestia che aveva cavalcato Roma, la grande prostituta, ora cavalca l'Impero del Denaro. È ancora lei che cavalca nella storia.

Questo potere economico oggi ha stravinto, come è detto in questo testo: «Aveva potere su ogni tribù, popoli, nazioni e tutti l’adoravano». Oggi sembra che tutti si inchinino davanti a questo strapotere, davanti ai grandi dell'economia. E così noi diventiamo parte integrante del Sistema. Nelle lettere che il profeta scrive. a nome del Signore, alle sette comunità, alle sette chiese (e quindi a tutta la Chiesa) egli manifesta il suo timore che le comunità cristiane stiano lentamente adattandosi alla cultura dominante. È lì il vero, grande pericolo. Non ha paura della persecuzione, che invece rafforza la comunità. Il nostro grande pericolo è che anche noi diventiamo parte integrante dell’idolatria dominante, dell’economia imperante, per cui finiamo col non dire più nulla a nessuno.

Ma la resistenza si paga sempre. Essa implica il martirio, che non è soltanto il martirio fisico ma anche e soprattutto quello psicologico. È eroico oggi, nel cuore dell'Impero, fare resistenza, vivere in maniera alternativa. Questo richiede una conversione personale ma anche strutturale (la dimensione economico- politica della conversione).

Dobbiamo imporre all’economia di attenersi a decisioni prese democraticamente. Altrimenti la democrazia è una vuota parola. Dobbiamo ridimensionare il nostro stile di vita, dobbiamo imparare a vivere più semplicemente... È chiaro che compiti tanto gravosi non possono essere affrontati individualmente. Ci si deve aggregare in comunità di resistenza. È attraverso le nuove tecnologie informatiche è possibile rimanere in connessione con le lotte del Sud del mondo, fare un'informazione fuori dal coro, che denunci le ingiustizie e organizzi la speranza. Inoltre, dobbiamo aiutare la Chiesa a cambiare... la Chiesa deve trovare il coraggio di dire la verità sul Sistema: deve coniugare fede ed economia; deve mettere in evidenza la nonviolenza attiva, che è stata inventata non da Gandhi ma da Gesù.

È importante che dietro a ogni piccola iniziativa ci sia una comunità dove ritrovarsi, per aiutarsi nell'analisi sociale (per i credenti è importante la Parola!). Non potete resistere a tutto, impegnarvi su tutti i fronti, sul nucleare come sugli immigrati, sulla pace come sul commercio o sull’informazione..., è impossibile! Ogni comunità dovrebbe assumersi un impegno preciso, per poi connettersi con le altre comunità. Perché è dal basso che nascere qualche cosa di nuovo e tocca a noi farlo nascere. È la grande lotta contro il Drago dell'Apocalisse, non per ucciderlo ma per cambiarlo. L’Agnello può trasformare il Drago, finché Babilonia diventi la città di Dio, la sposa dell'Agnello. Non ci sono Imperi da abbattere, non ci sono nemici da uccidere, ma solo da trasformare. È l'immenso compito di cambiare un mondo che ci sta inesorabilmente portando alla monte […].


* Prefazione,
in G. MARTIRANI, Il drago e l’agnello, Ed. Paoline, Milano, 2001, 15-17

Pubblicato in Dossier Pace

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