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La contraddizione
tra guerra e Cristianesimo
di Primo Mazzolari

Il cristiano che non si scopre in contraddizione col Vangelo di pace, o non si è mai guardato in Colui che — essendo “segno di contraddizione” — svela i pensieri degli uomini, oppure ama ingannare se stesso. La misura della nostra elevazione spirituale viene fornita dalla maggiore o minore consapevolezza delle nostre contraddizioni, la quale ci distoglie dal sentirci soddisfatti e dal legare lo Spirito al nostro corto passo e ai nostri brevi traguardi.

Non è forse una contraddizione

che dopo venti secoli di Vangelo gli anni di guerra siano più frequenti degli anni di pace?

che sia tuttora valida la regola pagana: “ si vis pacem, para bellum”?

che l'omicida comune sia al bando come assassino, mentre chi, guerreggiando, stermina genti e città sia in onore come un eroe?

che nel figlio dell'uomo, riscattato a caro prezzo dal Figlio di Dio, si scorga unicamente e si colpisca senza pietà il concetto di nemico per motivi di nazione, di razza, di religione, di classe?

che l'orrore cristiano del sangue fraterno si fermi davanti a una legittima dichiarazione di guerra da parte di una legittima autorità?

che una guerra possa portare il nome di “ giusta ” o di “ santa ”, e che tale nome convenga alla stessa guerra combattuta dall'un campo o dall'altro per opposte ragioni?

che si invochi il nome di Dio per conseguire una vittoria pagata con la vita di milioni di figli di Dio?

che venga bollato come disertore e punito come traditore chi, ripugnandogli in coscienza il mestiere delle armi, che è mestiere dell'uccidere, si rifiuta al “ dovere ” ?

che sia fatto tacere colui, che per sé soltanto, senza la pretesa di coniare una regola per gli altri, dichiara di sentire come peccato anche l'uccidere in guerra?

che si dica di volere la pace, e poi non ci si accordi sul modo, appena sopraggiunge il dubbio che ne scapiti la potenza, l'orgoglio, l'onore, gli interessi della nazione?

che si predichi di porre la vita eterna al disopra di ogni cosa, e poi ci si dimentichi che il cristiano è l'uomo che non ha bisogno di riuscire quaggiù?

Crediamo che questi pochi accenni bastino per dar rilievo alla nostra sostanziale contraddizione, per metterci in vergogna davanti a noi stessi, e per sentirci meno sicuri in un argomento ove la nostra troppa sicurezza potrebbe degenerare in temerarietà o in un delittuoso conformismo alle opinioni dominanti.

(tratto da Primo Mazzolari, Tu non uccidere, Vicenza, 1955)

Pubblicato in Dossier Pace
Martedì, 08 Novembre 2005 00:22

La salvezza è la pace (Enrico Peyretti)

La salvezza è la pace
di Enrico Peyretti




«Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio ma da come parla delle cose terrestri, che si vede se la sua anima ha soggiornato in Dio», dice Simone Weil, citata dal teologo torinese Oreste Aime nel (...) convegno sulla salvezza nell’Ortodossia e nel Cristianesimo occidentale, indetto dal Centro di studi religiosi comparati Edoardo Agnelli. Sembra per lo più che i teologi ortodossi volino nei cieli, senza toccare terra. Sembra di ascoltare una spiritualità così unicamente concentrata in Dio da non vedere più il mondo amato da Dio. Ora, noi siamo in terra, e aspettiamo la Gerusalemme celeste che, nelle figure del libro dell’Apocalisse, scenderà sulla terra, e non saremo noi a salire dalla terra al cielo.

La salvezza che speriamo e attendiamo è oggetto di una speranza tutta formale, oppure comincia realmente e si può intravedere in parzialità e contraddizioni, ma in realtà incoativa, già in questo tempo? Soltanto la mistica e la liturgia sono profezia del mondo risanato, o non anche la vita quotidiana nell’amore per il prossimo, che certamente è parte essenziale del cristianesimo orientale?

Dio ci salva dal peccato. E il peccato in definitiva è ogni offesa al prossimo, ogni violazione della relazione umana, ogni atto di dominio e disprezzo, che oscurano il senso dell’esistenza e creano dolore e paura, cioè morte, non-vita. Il nostro stare col prossimo è la misura del nostro stare davanti a Dio. Il prossimo è il primo sacramento di Dio, che dunque è onorato oppure offeso in esso, e di esso Dio si fa difensore e vindice.

Non c’è storia della salvezza senza salvezza della storia, diceva Ellacuria. E per Sobrino non è solo nella vita dopo la morte, ma nelle opere del Gesù storico che si attua il regno di Dio. La salvezza si realizza e si fa conoscere nel mondo delle relazioni, ha detto nel convegno Yannaras: nelle buone relazioni. Se il peccato è inimicizia, offesa e violenza nella nostra relazione con l’altro, Cristo è l’uomo senza inimicizia, è l’uomo nuovo, nonviolento nell’umanità violenta, è lui la pace vissuta, che abbatte le divisioni, è l’uomo-per-gli-altri, è il Salvatore.

Salvezza nella storia, cammino fuori dal peccato, è ogni riduzione della violenza (in tutte le sue forme, dirette, strutturali, culturali, esterne ed interne), ogni passo di pace. La parte di pace che riusciamo a costruire, come «figli di Dio», con la sua azione in noi, che lo sappiamo o no, è la profezia nella storia della piena salvezza finale.

Poiché l’amore del prossimo è l’elemento comune e la misura di fedeltà in tutte le vive religioni umane, la pace è la salvezza che Dio (comunque lo conosciamo) costruisce in noi e con noi, su tutte le vie religiose e umane autentiche. Quando Aldo Capitini esprime il pensiero che la vita senza morte (la salvezza) comincia col non uccidere, dice questo. Per Panikkar la pace è il nuovo mito emergente (mito in senso positivo), è la nuova etica universale, quasi una religione comune, nel rispetto delle differenze (la pace è pluralismo, insiste Panikkar); la pace è un valore che giudica oggi tutte le etiche, filosofie, politiche e religioni. Ci sarà il compimento della vita umana, non ci saranno molte salvezze come molte sono le teorie della salvezza. La pace è il contrario del dominio, è la carità concreta, è rispettare e amare il valore dell’altro.

Bisogna che anche la salvezza cristiana impari ad esprimersi così. Ciò non toglie nulla a Dio. Non ci si salva senza Dio, ma neppure senza il mondo, e desiderarlo non è bene. Ci si salva nella pace, la quale va all’infinito, cominciando dai passi qui difficili ma possibili, passi profetici da riconoscere con venerazione.

La salvezza è la pace. E ciò non va capito come riduzione della salvezza a qualche buona e giusta azione politica umana, come se non ci fosse Dio nell’uomo che pratica la giustizia. Va inteso nel senso che la vita buona, fragile e preziosa, nostro compito quotidiano nel piccolo e nel grande, è segno nei nostri giorni della salvezza che, nonostante la forza del male, viene, verrà, e sarà pace piena.


(da
Il foglio, n. 294, settembre 2002)
Pubblicato in Dossier Pace
Domenica, 19 Giugno 2005 21:23

Lettera per la pace (Ernesto Sábato)

Lettera per la pace
di Ernesto Sábato


 



Cari bambini:

Vi siete già resi conto di come il potere vince, di come gli uomini uccidono per il potere.
Vi siete già resi conto, l'avete visto in televisione, delle atrocità dei bombardamenti, dei massacri, della miseria, dell'orrore che la guerra reca a chi la subisce.
Sapete anche che altri bambini come voi vedranno morire di dolore i loro genitori, i loro fratellini. Ma questo al potere non interessa.
Sapete anche che milioni e milioni di uomini e donne hanno manifestato per le strade di tutto il mondo il loro desiderio di pace, la loro opposizione a questa guerra. E anche questo sembra non interessare al potere.

Allora, davanti alla gravità della situazione in cui viviamo, il messaggio che voglio comunicarvi è il seguente: dobbiamo rimanere saldi nella convinzione di non accettare e di non rassegnarci alla guerra.
Dobbiamo mantenere accesa nell'anima, cari bambini, la fiammella di questo dolore dell'umanità, ed esservi fedeli.
Se sapremo tener ferma questa determinazione, sarà incrollabile.
Potranno fare la guerra, ma dovranno sapere che sono assassini, che così li chiameranno i bambini di tutto il mondo.

L'amaro presente col quale ci dobbiamo confrontare esige che le nostre parole, i nostri gesti, la nostra opera si consacrino, come autentico compimento della nostra più alta vocazione, a manifestare l'angoscia, il pericolo, l'orrore, ma anche la speranza, il coraggio e la solidarietà degli uomini.
In questa terribile situazione, ogni uomo e ogni donna, ma anche voi, bambini, siete chiamati a farvi portavoce del grido di dolore di migliaia di persone, le cui vite stanno per essere ridotte al silenzio attraverso la violenza delle armi.

E' ormai evidente che coloro che detengono il potere prendono decisioni diverse dal sentire dell'umanità, scatenando guerre atroci - con macabra ironia definite umanitarie - contro popoli abbandonati a se stessi.
Davanti a questi fatti, davanti alla violenza e alla morte dei nostri fratelli, dobbiamo resistere per proteggere quella dimensione assoluta in cui la vita e i valori sono elementi insostituibili, l'unica che dà la misura della grandezza umana.

In tutte le lingue, 'pace' è una parola suprema e sacra, espressione del desiderio di Dio per gli uomini. Il desiderio di un regno di pace e giustizia; pace e giustizia che siamo qui a chiedere e testimoniare.


Testo letto il 25 marzo 2003 da Ernesto Sábato davanti a 2000 bambini delle scuole pubbliche di Buenos Aires, riuniti nello Stadio de Obras Sanitarias per manifestare a favore della pace.

Traduzione dallo spagnolo a cura di Luciana Barcina/Andrea Grechi (Traduttori per la pace)

Pubblicato in Dossier Pace

Giustizia, pace e salvaguardia del creato
don Tonino Bello



Il Discorso pronunciato all'Arena di Verona, il 30 aprile 1989, alla Vigilia dell'Assemblea Ecumenica di Basilea.


Carissimi amici,
radunati in nome della pace, della giustizia e della salvaguardia del creato, in questa splendida Arena dove si visibilizza per qualche ora il popolo sterminato dei costruttori di pace!
Io vi porgo lo stesso saluto che oggi, giorno del Signore e signore dei giorni, risuona nelle nostre Chiese, dove, radunato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito, si visibilizza il popolo santo dì Dio.
La pace di Gesù Risorto sia con tutti voi!
Un popolo che sta in piedi.
E vorrei tanto che da questo catino, divenuto icona del popolo invisibile dei costruttori di pace, partisse un grande saluto verso quella "moltitudine immensa, che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua", che la pace la costruisce nel silenzio della storia o nell'esilio della geografia. Nei bagni di folla o nella solitudine dei deserti. Nelle foreste dell'Amazzonia o nel vortice disumano delle metropoli. Sul letto di un ospedale o nel nascondimento di un chiostro. Nell'operosità di una scuola materna che si apre ai valori della mondialità o nel travaglio provocato da uno stile di accoglienza nei confronti dei fratelli di colore.
E' un popolo sterminato che sta in piedi. Perché il popolo della pace non è un popolo di rassegnati.
E' un popolo pasquale, che sta in piedi, come quello dell'Apocalisse: "tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello".
Davanti al "trono" di Dio. Non davanti alle poltrone dei tiranni, o davanti agli idoli di metallo.
E davanti all'"Agnello". Simbolo di tutti gli oppressi dai poteri mondani. Di tutte le vittime della terra.
Di tutti i discriminati dal razzismo.
Di tutti i violentati nei più elementari diritti umani.
A questo popolo invisibile della pace, dall'Arena di Verona, giunga la nostra solidarietà.
Ma anche il nostro incoraggiamento: con le parole delle beatitudini, secondo la traduzione che Sostituisce il termine "beati" con l'espressione "in piedi".
"In piedi, costruttori di pace. Sarete chiamati figli di Dio".


1. Dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario di Dio

La prima cosa che desidero dirvi è questa: l'evoluzione del concetto di pace ha subito lo stesso arricchimento che, nella rivelazione cristiana, ha avuto il concetto di Dio.
Nell'economia del Vecchio Testamento, il monoteismo assoluto di Jahweh era il cardine portante di tutta la storia della salvezza.
Poi, "quando venne la pienezza dei tempi", Gesù ci ha rivelato che Dio è pluralità di persone: Padre, Figlio e Spirito.
Esse vivono così profondamente la convivialità delle differenze, esistono cioè così unicamente l'una per l'altra, che formano un solo Dio.
Uno per uno per uno fa sempre uno. Un solo Dio in tre Persone: è la formula con cui noi cristiani esprimiamo il mistero principale della nostra fede.
Si è passati, così, dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario di Dio.
Per la pace è avvenuta la stessa cosa.
Siamo giunti alla pienezza dei tempi, ed è balenata alle nostre coscienze la convinzione che la pace oggi si declina inesorabilmente con la giustizia e con la salvaguardia del creato. Siamo passati, per così dire, dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario della pace.
Dal monoteismo assoluto
al monoteismo trinitario della pace...
Tutto questo crea scandalo.
Così come ha creato scandalo Gesù, quando ha proclamato di essere figlio di Dio. Al punto tale, che l'hanno ucciso. Finché per secoli e secoli nelle nostre chiese abbiamo parlato di pace, nessuno ha contestato.
Quando, sulla scorta della Parola di Dio, si è scoperta la stretta parentela della pace con la giustizia, si sono scatenate le censure dei potenti.
Si è detto che il profeta vuole prevaricare sul re. Così come durante il processo di Pilato, la folla ha accusato Gesù di voler prevaricare su Cesare.
Si è asserito che collegare il discorso sulla pace, e quindi il discorso sulla guerra, con i discorsi sull'economia perversa che domina il mondo, sul profitto, sulla massimizzazione del profitto, sui debiti del Terzo Mondo, sulla crescente divaricazione tra Nord e Sud, sulla violazione pertinace dei diritti umani... significa fare la parte degli utili idioti.
Sicché, la giustizia, collocata da Dio stesso accanto alla pace quale sua partner naturale, continua a destare, purtroppo, più sospetto di quanto non susciti scandalo quando viene collocata, sia pure come aggettivo, accanto alla guerra. Tant'è che si parla ancora di "guerra giusta".
Questa sì che è convivenza contro natura!
…nella pienezza dei tempi
Carissimi amici, anche per quanto riguarda la pace è giunta la pienezza dei tempi.
E come nella pienezza dei tempi Gesù, nostra Pace, ci ha rivelato la Paternità di Dio, nostra Giustizia, e ci ha rivelato anche lo Spirito che è Signore e dà la vita a ogni creatura, così oggi abbiamo il privilegio di capire che l'annuncio della Pace si completa, oltre che con la lotta per la giustizia, anche con l'impegno per la salvaguardia del creato.
Quello della tutela dell'ambiente non è l'ultimo ritrovato della nostra furbizia brontolona o delle nostre strategie del consenso. Non è ammiccamento alle mode correnti. Ma è un compito primordiale che ci sovrasta come partner dello Spirito Santo, affinché la terra passi dal "Kàos", cioè dallo sbadiglio di noia e di morte, al "Kòsmos", cioè alla situazione di trasparenza e di grazia.
Tra otto giorni celebreremo la festa di Pentecoste e noi ripeteremo l'invocazione "Manda il tuo Spirito, Signore: tutto sarà ricreato, e rinnoverai la faccia della terra".
La faccia della terra.
La crosta della terra.
La pelle di questa nostra terra, deturpata dagli inquinamenti, invecchiata dalle nostre manipolazioni, violentata dalle nostre ingordigie.
Ebbene, questa pelle diventerà fresca come la pelle di un adolescente. E si realizzerà la splendida intuizione dì Isaia che, addirittura invertendone l'ordine, aveva collegato insieme salvaguardia del creato, giustizia e pace: "In noi sarà infuso uno Spirito dall'alto. Allora il deserto diventerà un giardino.. e la giustizia regnerà nel giardino.. e frutto della giustizia sarà la pace". (Is 32,15-17). Il deserto, quindi, diventerà un giardino. Nel giardino crescerà l'albero della giustizia. Frutto di quest'albero sarà la pace!
C'è da chiedersi: è mai possibile che questa visione trinitaria della pace, così saldamente fondata sui plinti della Sacra Scrittura, abbia tanto stentato a diffondersi perfino nelle nostre Chiese?
La risposta è semplice: se solo ora dal monoteismo assoluto della pace siamo passati al monoteismo trinitario, è perché siamo giunti davvero alla pienezza dei tempi.
Il che non significa che ormai il discorso sia acquisito. Tutt'altro.
Come per il discorso trinitario su Dio, nei primi dieci secoli del cristianesimo, si sono sostenute tante lotte, sono scoppiate tante dispute, e sono celebrati tanti Concili; così sarà per il discorso trinitario sulla pace.
Nicea... Costantinopoli... Efeso!
Assisi... Basilea... Seoul!
Vogliamo salutare, in questo momento, dall'Arena di Verona, i delegati delle Chiese italiane che dal 16 al 21 maggio saranno a Basilea.
E proprio perché siamo consapevoli dell'importanza che questo avvenimento racchiude, vogliamo salutarli con lo stesso entusiasmo con cui i fedeli delle prime comunità cristiane salutavano i loro vescovi che partivano per i grandi concili ecumenici.


2. Il Dio dei filosofi e il Dio di Gesù Cristo

La seconda cosa che voglio dirvi, strettamente collegata con la prima, è questa: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio dei profeti, il Dio che in Gesù ha manifestato il suo volto trinitario, non è il Dio di Socrate, di Platone, di Aristotele, delle accademie, dei filosofi insomma.
Il Dio dei filosofi è l'ultima conclusione della nostra attività raziocinante.
E' la soglia suprema messa in cima a tutta l'impalcatura degli umani sillogismi.
E' la casa che svetta sui basamenti della nostra logica organica.
La sua tenuta dipende dalla saldezza dì questi basamenti. Se un solo passaggio razionale cede sotto l'urto di un ragionamento opposto, ruzzola anche Dio che ci sta sopra.
Il Dio dei filosofi, insomma, è un Dio che regge solo se è garantito dalla sicurezza dei nostri argomenti.
E poi non scalda. Non coinvolge. Non ti riempie di passione.
Accettare questo Dio è come sposare una donna di cui hai preso tutte le misure, di cui ti sei fatto consegnare tutti i certificati di garanzia, e contro i cui rischi di abbandono ti sei premunito con mille polizze di assicurazione.
Il Dio di Gesù Cristo è diverso.
Non viene dal basso. Ci è stato rivelato dall'alto. Non è frutto della carne e del sangue della nostra sapienza terrena. E' un Dio garantito solo dalla nudità della nostra fede.
Non è un Dio a cui ci si aggrappa con i funambolismi della mente. Ma un Dio a cui ci si abbandona con la fiducia del cuore, dietro un richiamo che inesorabilmente ti precede.
Attenzione! Non è che si voglia disprezzare la fatica della ricerca umana o che si intenda svilire l'importanza di un Dio trovato dagli sforzi del nostro pensiero. No! Quella della ricerca razionale di Dio è una fatica benedetta, che ogni cristiano deve compiere con tutti gli altri uomini che lo cercano con cuore sincero. Diciamo solo che questo Dio, dopo che l'abbiamo trovato, non ci appaga. Anzi, non ci si può chiamare neppure credenti per il semplice fatto di averlo raggiunto attraverso gli impervi sentieri del pensiero.
Il Dio vero, quello di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, quello rivelatoci da Gesù, è totalmente Altro ed è totalmente Oltre.
E noi credenti, dopo aver condiviso la fatica del pensiero con tutti i ricercatori onesti, dobbiamo essere l'indice puntato verso questo totalmente Altro e totalmente Oltre.
La pace del mondo e la pace di Gesù Cristo
Ed eccoci al momento cruciale di questa seconda riflessione.
Per la pace vale lo stesso discorso che si è fatto per Dio.
C'è una pace dei filosofi. E c'è una pace di Cristo.
La prima è quella prodotta dai nostri sforzi diplomatici, costruita dai dosaggi delle cancellerie, frutto degli equilibri messi in atto dalle potenze terrene. Al punto che, se una sola condizione va in crisi, si rompe il giocattolo e ruzzola tutto intero il castello.
La pace di Cristo, invece, è quella che non esige garanzie, che scavalca le coperture prudenziali, e che resiste anche quando crollano i puntelli del bilanciamento fondato sul calcolo.
Questo è il senso profondo dell'espressione evangelica che proprio oggi è risuonata nella Messa: "vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come ve la dà il mondo, io la do a voi" (Gv 14,27)
Questo è il salto di qualità a cui ci provoca la frase divenuta ormai celebre di D. Bonhoeffer: "Osare la pace per fede".
Ci riempie di commozione un testo che questo grande testimone del Risorto scrisse nel 1934, e che è divenuto un monito per noi: "Una via alla pace che passi per la sicurezza non c'è. La pace infatti deve essere osata. E' un grande rischio, e non si lascia mai e poi mai garantire. La pace è il contrario della garanzia. Esigere garanzie significa diffidare, e questa diffidenza genera di nuovo guerre. Cercare sicurezze significa volersi mettere al riparo. Pace significa affidarsi interamente al comandamento di Dio, non volere alcuna garanzia, ma porre nelle mani di Dio Onnipotente, in un atto di fede e di obbedienza, la storia dei popoli... Chi rivolgerà l'appello alla pace così che il mondo oda, che sia costretto a udire?... Solo la Santa Chiesa di Cristo può parlare in modo che il mondo, digrignando i denti, debba udire la parola della pace, e i popoli si rallegreranno perché questa Chiesa di Cristo toglie, nel nome di Cristo, le armi dalla mano dei suoi figli e vieta loro di fare La guerra e invoca la pace di Cristo sul mondo delirante".
Carissimi amici, come per la ricerca di Dio abbiamo detto che non intendiamo svilire lo sforzo della fatica razionale, anzi la incoraggiamo e la sosteniamo, ma sentiamo anche il dovere di indicare il totalmente Oltre e il totalmente Altro di Dio, sulla base di ciò che Cristo ci ha rivelato di Lui, così per quanto riguarda il mistero della pace, col più grande rispetto per lo sforzo che il mondo laico sta compiendo, e con la gioia più grande nel vederci accomunati come credenti accanto a tanti camminatori di ogni fede, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo specifico, originale, coraggioso!
E il nostro contributo è quello di essere segno dell'inquietudine, richiamo del "non ancora", stimolo dell'ulteriorità. Spina dell'inappagamento, insomma, conficcata nel fianco del mondo.
Per un a Chiesa coraggiosa e profetica
Riconosciamolo. Come Chiesa accusiamo ancora pesanti deficit di "parresia". Siamo ancora fermi alla pace dei "filosofi", e non ci decidiamo ad annunciare finalmente la pace dei "profeti".
Dovremmo essere indice puntato verso il totalmente "altro", e verso il totalmente "oltre" gli isolotti raggiunti dalle minuscole asfittiche paci terrene, e invece siamo spesso prigionieri del calcolo, vestali del buon senso, guardiani della prudenza, sacerdoti dell'equilibrio.
E' vero, sì, che i "profeti" debbono tenere conto delle lentezze con cui i "re" elaborano le mediazioni e le fanno camminare nella prassi quotidiana. E' vero anche che devono accettare di vedersi sempre tra le mani eccedenze di annunci che non verranno mai canalizzare in scelte storiche concrete. Ma non tocca ai profeti operare riduzioni in scala. E sarebbe ben triste che a provocare cadute di tensione, per quel che riguarda l'annuncio della pace, dovessero essere proprio loro.
In certe comunità si densifica sistematicamente il sospetto. Si paventano strumentalizzazioni anche nelle scelte più generose a favore degli ultimi.
Ogni occasione è buona per opporre, allo spirito delle intuizioni evangeliche di pace, il rigore della lettera che uccide. Si spiano annidamenti di "discordanze" col magistero ufficiale, a ogni svolta di frase.
Talvolta, per frenare la valanga inarrestabile della profezia, si fa uso maldestro e ingeneroso perfino di estemporanee espressioni del Papa, resecate dal loro contesto e scorniciate dal genere letterario confidenziale e bonario con cui sono state pronunciate. E non si tiene conto, invece, di tutto il magistero audace e non ancora dissepolto di questo Pontefice, che ormai in ogni suo discorso ci sprona ad "affrontare la tremenda sfida dell'ultima decade del secondo millennio", con l'imperativo etico della solidarietà, e va denunciando in tutto il mondo, come nessun altro, le "strutture di peccato" che opprimono i poveri!
Siamo arrivati al punto che, come cristiani, ci troviamo oggi nella necessità di dover recuperare i forti distacchi in tema di pace, che una moltitudine di non credenti ha inflitto a noi, titolari delle inesauribili riserve utopiche del Vangelo!
La paura dell'olocausto nucleare ha fatto fare a loro più strada di quanta non ne abbiano fatta fare a noi la fede, la speranza, e l'amore.


3. Ceri pasquali e non lucignoli fumiganti

In piedi, allora, costruttori di pace.
Non abbiate paura! Non lasciatevi sgomentare dalle dissertazioni che squalificano come fondamentalismo l'anelito di voler cogliere nel "qui" e nell'"oggi" della Storia i primi frutti del Regno.
Sono interni alla nostra fede i discorsi sul disarmo, sulla smilitarizzazione del territorio, sulla lotta per il cambiamento dei modelli di sviluppo che provocano dipendenza, fame e miseria nei Sud del mondo, e distruzione dell'ambiente naturale.
Fin dai tempi dell'Esodo, non sono più estranee alla Parola del Signore le "fatiche di liberazione degli oppressi dal giogo dei moderni faraoni.
Coraggio! Non dobbiamo tacere, braccati dal timore che venga chiamata "orizzontalismo" la nostra ribellione contro le iniquità che schiacciano i poveri. Gesù Cristo, che scruta i cuori e che non ci stanchiamo di implorare, sa che il nostro amore per gli ultimi coincide con l'amore per lui.
Se non abbiamo la forza di dire che le armi non solo non si devono vendere ma neppure costruire, che la politica dei blocchi è iniqua, che la remissione dei debiti del Terzo Mondo è appena un acconto sulla restituzione del nostro debito ai due terzi del mondo, che la logica del disarmo unilaterale non è poi così disomogenea con quella del vangelo, che la nonviolenza attiva è criterio di prassi cristiana, che certe forme di obiezione sono segno di un amore più grande per la città terrena… se non abbiamo la forza di dire tutto questo, rimarremo lucignoli fumiganti invece che essere ceri pasquali.
Ce lo auguriamo con le parole di Bonhoeffer a Basilea, "vogliamo parlare a questo mondo, e dirgli non una mezza parola, ma una parola intera. Dobbiamo pregare perché questa parola ci sia data". E noi pregheremo.
Anzi, è proprio dall'Arena di Verona, in questo splendido vespro di primavera, che vogliamo cominciare il grande settenario, in preparazione alla Pentecoste che celebreremo domenica.
E invocheremo lo Spirito Santo. Non solo perché rinnovi il volto della terra. Ma anche perché faccia un rogo di tutte le nostre paure.
Pubblicato in Dossier Pace
Giovedì, 03 Marzo 2005 00:37

Una storia per la pace (Enrico Peyretti)

Una storia per la pace
di Enrico Peyretti

"La storia sarebbe una gran bella cosa, se solo fosse vera" (detto attribuito a Lev Tolstoj)

"La storia è una bugia su cui ci si è messi tutti d'accordo" (Napoleone)

Intendo che il compito dato a questo intervento sia la ricerca di un modo di concepire e raccontare la storia, tale da contribuire alla possibilità della pace. Perciò non darò qui bibliografie sulle ricerche storiche di pace, che possono essere trovate altrove (1).

Proverò invece a rispondere a tre domande: quale concezione della storia per una cultura di pace?; quale sentimento di fronte alla storia e quale ricerca storica contribuiscono alla pace?

Il presupposto, che mi pare ovvio, è che la storia non si impone a noi come un oggetto dato, ma noi la vediamo, la raccontiamo, la leggiamo, la orientiamo, la pratichiamo in una direzione o nell’altra, nella logica della violenza o della costruzione pacifica, secondo lo spirito con cui la viviamo e la osserviamo. La scelta preliminare della pace positiva dà luce su un certo profilo della storia, sia come pensiero interpretativo dei fatti passati, sia come azione presente nel mondo.

NOTE

    1. Una bibliografia da me curata, più volte pubblicata in edizioni successivamente crescenti e pur sempre incomplete, può essere richiesta a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Una sua sintesi è stata pubblicata in Effe, n. 9, estate 1998, rivista bibliografica delle Librerie Feltrinelli e, nell'aggiornamento a quella data, nell'Annuario di pace, Italia/maggio 2000-giugno 2001, Trieste, Asterios, 2001, pp. 339-352.



    1. Quale concezione della storia?

    La storia può essere pensata almeno secondo tre principali concezioni, ognuna delle quali può prevalere senza necessariamente escludere del tutto le altre:

    1. storia determinata o guidata principalmente da una dinamica di forze materiali: economiche, militari, organizzative, quantitative;

    2. oppure storia mossa da energie e risorse dello spirito umano, cioè come possibile progresso umano, possibile evoluzione umanizzatrice, civilizzatrice;

    3. storia composta da forze non solo umane ma umane e divine in libera sinergia, per l'affermazione del bene sul male (la salvezza), come nelle visioni religiose (dette di solito provvidenzialiste, termine che non deve essere inteso nel senso di fatalistiche e necessarie), specialmente nelle religioni storico-profetiche, del ceppo di Abramo, meglio che in quelle cosmiche, del ceppo indù (2).

    La prima di queste immagini della storia è quella che più facilmente si impone. Per esempio, i fatti del 1989 nell'Europa dell'Est, sono stati interpretati come la vittoria militare ed economica dell'Occidente nella terza guerra mondiale non combattuta, ma pur sempre decisa dalla forza militare, negando importanza decisiva, pur insieme ad altri fattori, alle rivoluzioni popolari nonviolente (3).

    Molte generazioni, ancora alcuni di noi, hanno imparato a scuola che la storia è mossa e promossa in definitiva dalle guerre, perché la storiografia è stata per lo più opera degli scribi delle corti e dei governi, occupati nelle guerre, o degli intellettuali delle classi dominanti. Poi è venuta l'attenzione degli storici alla vita dei popoli, fino alla microstoria del quotidiano, ben più seria, reale, interessante e istruttiva. Se la storia è questa, se è la storia della vita, allora essa comprende la guerra e la pace, l'amore e l'odio, la distruzione e la costruzione.

    La seconda visione della storia come fatta dallo spirito umano è propria non solo delle filosofie idealiste, ma anche delle filosofie etiche.

    Gandhi, quando gli viene contestato che la nonviolenza è fuori dalla storia, scrive: "La storia in realtà è una registrazione di ogni interruzione della costante azione della forza dell'amore o dell'anima [...], è una registrazione di un'interruzione del corso della natura. La forza dell'anima, essendo naturale, non viene registrata dalla storia". La storia è dunque, per Gandhi, un sismografo, che non scrive nulla quando la terra vive tranquilla e non trema, e si sveglia solo per registrare distruzione e morte. Gandhi dice pure che "il fatto che vi sono ancora tanti uomini vivi nel mondo dimostra che questo non è fondato sulla forza delle armi ma sulla forza della verità e dell'amore" (4).

    Cioè, questo fatto dimostra per Gandhi che la storia reale dell'umanità non è quella delle guerre. La vera storia è il tessuto continuo della vita, nel quale prevale, pur con mille limiti, la cooperazione; nel quale procedono le cose umane, pur con i problemi che la vita sa risolvere più o meno bene. In questo tessuto, violenza e guerre ne sono soltanto gli strappi. Le guerre e la violenza, anziché essere la storia, sarebbero proprio la non-storia, l'arresto e i vuoti della storia umana.

    Aldo Capitini ha questa idea della storia: "La storia vivente ha dimensioni molto più vaste di quella scritta. La storia non ha soltanto aperto questa strada, costruito questo argine, spostate queste pietre dal monte alla piazza architettonica; la storia ha dato moltissimo a me direttamente e interiormente, mediante l'umanità scesa in me dai miei, e abitudini, tendenze, linguaggio, mentalità, che provengono dalla storia e continuano in essa. Anche riguardo a cose elementari la storia mi ha mutato; e certamente non guardo l'alba, il monte, il mare, con lo stesso animo con cui avrei guardato quegli eventi così semplici tremila anni fa. Ormai non posso e non debbo disfarmi dell'attestazione interiore dei valori, perché mi parrebbe di spiantare la ragione d'essere e di svilupparsi di qualsiasi coscienza umana" (5). La sostanza della storia degli uomini è ciò che altrove Capitini chiama la "costruzione corale dei valori", che avviene nell'intimo, nel silenzio, nel continuo delle esistenze, nelle loro dimensioni di incontro e non di scontro eliminatorio.

    Per Levinas la ragione totalitaria, linea di fondo della filosofia occidentale, eleva la storia universale a giudizio inappellabile dell'operato dei singoli, considera la guerra come strumento risolutivo del confronto politico, e infine giustifica tutti i regimi totalitari (6).

    Ma col termine "infinito" opposto a "totalità", egli indica ciò che rompe la totalità, ed è la relazione etica, che sorge dall'appello veniente dal volto bisognoso ed indifeso dell'altro uomo. Questo atto etico non ha bisogno di alcun riconoscimento da parte del giudizio storico per essere sensato, e neppure ha bisogno della promessa religiosa (7), perché è esso stesso significazione di senso. L'atto etico è dunque la vera vicenda umana, che realizza l'umano, e non dipende dal cosiddetto successo storico (8).

    La storia registrata e celebrata, dunque, non è tutta la realtà. Uno dei "convincimenti etici fondamentali" che "molta parte, la parte migliore dell'umanità, ha posto a base del suo vivere in società, ha espresso in una straordinaria varietà di culture popolari tra loro non isolate e ha trasmesso, soprattutto attraverso la sapienza della donna, sino al momento presente", uno di questi convincimenti è "la tranquillità e la pace che vengono dalla certezza di una giustizia non affidata alla storia" (9).

    Anche Gianni Vattimo, rifacendosi a Marcuse, ha espresso l'idea che la storia abbia come senso la riduzione della violenza (salvo poi vedere senz'altro la modernizzazione come effettiva riduzione di violenza, che è giudizio ben discutibile) (10). E dunque, quando avanza la violenza, la storia umana si arresta o arretra, e viceversa.

    Tutti questi modi di interpretare il cammino attraverso vicende che hanno come protagonista eminente lo spirito umano, vedono la storia come consistente soprattutto nelle opere di pace.

    Nella terza delle concezioni indicate, la visione religiosa o teologica della storia come storia della salvezza, attraverso i liberi e fallibili atti umani Dio vive insieme all'uomo la liberazione dal male e la crescita nel bene. Nessuna necessità divina sostituisce l'uomo, ma l'alleanza di Dio lo accompagna. La storia non è garantita dal rischio di fallire (la fedeltà infedele del popolo d'Israele nella Bibbia ebraica, poi, nella Bibbia cristiana, l'immagine mitica dell'inferno e della dannazione, o della distruzione apocalittica, significano questa possibilità di fallimento personale e collettivo), ma è sostenuta dalla speranza attiva. In particolare, nel cristianesimo, Dio si è abbassato (kenosis di cui parla la lettera di Paolo ai Filippesi 2,5-l1) nella condizione umana per condividere con l'umanità tutta l'esperienza del male e dell'ingiustizia più assurdi, per spezzarne l'assolutezza del potere con la forza dell'amore totale e infinitamente vitale. Questa storia di Dio con l'uomo si svolge non nei momenti isolati del rito religioso, ma nel tempo comune, dentro la storia umana, laica, quotidiana, fermentandola senza forzarla. Attraverso la libera fede e la risposta attiva e pratica, nella vita vissuta come amore, si compie la promessa e la profezia di salvezza, come disse Gesù nella sinagoga di Nazareth: "oggi questa parola si realizza tra voi" (11).

    Questo genere di vita nell’amore generoso e sovrabbondante, non può essere altro che costruzione di una storia di pace. In questa visione, la storia vera e salvifica è in corso, è il cuore di tutta la vicenda umana, ed è storia di pace attiva, nella lotta interiore contro il male, nella resistenza forte opposta alla violenza, ma nel perdono e nella mitezza anche verso il violento, per riguadagnarlo all'umanità.

    NOTE

      2. Per questa distinzione, che non va forzata, vedi. H. Küng , Cristianesimo e religioni universali, Milano, Mondadori, 1986, pp. 327-329; A. Rizzi, Il senso e il sacro. Lineamenti di filosofia della religione, Torino, Editrice Elle Di Ci, 1995, pp. 61-70. Raimon Panikkar, filosofo e teologo interculturale, euro-indiano, propone la visione della storia cosmo-teandrica, composta da energie naturali, divine, umane.

      3. Mi scriveva Norberto Bobbio, in una lettera del 10 settembre 1994: "La ragione principale per cui sono capi quei regimi, a cominciare da quelli della Germania Orientale, e della Russia stessa, è la sconfitta in una guerra (la guerra fredda), non combattuta, ma vinta, se non con l'esercizio diretto della violenza, con la minaccia d'una violenza, che si è manifestata alla fine di per sé stessa efficace. La pratica della nonviolenza non c'entra". G. Salio, in Il potere della nonviolenza, Torino, Gruppo Abele 1995, esamina una dozzina di diverse interpretazioni di quegli eventi, scegliendo poi quella di Johan Galtung, che riconosce tra i fattori decisivi l'azione popolare nonviolenta.

      4. M. GANDHI, Teoria e pratica della non violenza, Torino, Einaudi, 1996, pp. 64-65.

      5. A. CAPITINI, La vita religiosa, 2ª edizione, Bologna, Cappelli, 1985, p. 24, citato anche in G. ZANGA, Aldo Capitini. La sua vita, il suo pensiero, Torino, Bresci editore, 1988, p. 78.

      6. E. LEVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità, Milano, Jaka Book, 1990, pp 19 20.

      7. ID., Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Roma, Città Nuova, 1984, p. 124

      8. Cfr. G. FERRETTI, La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996, pp. 102-103, 156-162,262-263.

      9. P.C. BORI, Per un consenso etico tra culture, 2ª edizione, Genova, Marietti, 1995, p. 108.

      10. N. BOBBIO, G. BOSETTI, G. VATTIMO, La sinistra nell'età del karaoke, I libri di Reset Roma, Donzelli 1994. p. 54,

      11. Cfr vangelo di Luca 4,21. Questa lettura del cristianesimo non anzitutto come dottrina, nè morale, né culto rituale, ma come storia profetica, storia santa in atto, lettura che era più chiara nella teologia biblica del primo millennio cristiano, è richiamata oggi efficacemente, per esempio, da un grande monaco, scomparso nel novembre del 2000, Benedetto Calati, i cui saggi principali si possono vedere nella raccolta Sapienza Monastica, Roma, Studia Anselnilana, 1994. Nell'Introduzione a questo volume, Innocenzo Gargano scrive: "La profezia è insomma il mistero che si dispiega progressivamente nelle manifestazioni della bellezza cosmica, nella storia dei popoli, nel mistero nascosto in ogni uomo e donna e nella crescita di ciascun individuo", op. cit., pp. 55-56. Una più rapida e colloquiale esposizione del pensiero di Calati si trova nell'intervista-testamento raccolta da R. LUISE in La visione di un monaco, Assisi, Cittadella, 2000.



      2. Quale sentimento della storia?

      Questa seconda domanda vuole individuare gli atteggiamenti profondi ed esistenziali, prima che elaborati ed interpretativi, con cui gli umani si pongono davanti agli avvenimenti e ai movimenti della storia umana: atteggiamenti e sentimenti di rassegnazione e adattamento a ciò che avviene? Oppure volontà di cambiamento verso un maggior valore, verso un senso migliore, discernendo bene e male, giusto e ingiusto, positivo e negativo? E quale sarà il criterio distintivo tra questi opposti?

      Se ci si pone davanti alla storia avvenuta e alla storia in atto in modo attivo e positivo, il passato sarà osservato per trarne esperienza, ma non sarà proiettato sul presente e sul futuro come una legge fatale, ed il futuro potrà essere progettato e voluto con caratteri migliori di tante situazioni ed eventi del passato.

      Qui entra in gioco davvero l'opzione profonda tra violenza e nonviolenza, tra la legge della forza e della sopraffazione da un lato e, dall'altro lato, la legge dell'equivalenza, cioè dell'uguale valore tra gli esseri umani e del necessario reciproco rispetto assoluto. La "regola d'oro" presente in tutte le culture umane, detta in decine di modi diversi ma analoghi (ne ho raccolti circa venticinque), esprime e comanda questa equivalenza e questo rispetto: non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te (in negativo); fai agli altri quel che desideri che gli altri facciano a te (in positivo).

      L'opzione è dunque essenzialmente morale, ed avviene nell'intimo dell'animo umano, nella libera (relativamente ma realmente libera) decisione fondamentale. Come opzione fondamentale, essa può essere contraddetta da singoli atti della persona, ma vale ancora se rimane l'orientamento di fondo di quella persona.

      Di fronte al male pesantemente presente nella storia e nel presente, la persona che ha scelto di agire secondo la regola d'oro, impegnandosi a superare la violenza della storia anzitutto a cominciare da sè (12), imparerà a indignarsi senza odiare (13), ad impegnarsi, sentendosi presa-in-pegno dal valore degli altri, sentendo che il confine buoni-cattivi, bene-male non passa tra due campi o categorie, ma tra due comportamenti, due spiriti e atteggiamenti tra i quali ognuno ha da scegliere e decidersi, dentro di sé.

      NOTE

        12. Cfr. E. HILLESUM: "È proprio l'unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in sé stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri" (Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 1985, p. 212).

        13. N. NERI, autrice di Un'estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del lager, Milano, Bruno Mondadori, 1999, nel quale mostra come nessuna vittima, nel Novecento, era riuscita come lei a "trasformare il dolore in forza", evidenzia la centralità in Etty Hillesum dell'indignarsi senza "odiare", in un intervento torinese del maggio 2000, ora leggibile nell’opuscolo Il pensiero di un 'estrema compassione, Coop. Studi, via Ormea 69, 10125 Torino, tel 011-650.31.58, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., p- 35.




        3. Quale ricerca storica?

        La ricerca, in generale, dipende da ciò che già si preconosce in parte e per ciò si desidera conoscere, proprio perché non si conosce del tutto: Eros, per Platone, è figlio di ricchezza e povertà: ha e non ha ciò che cerca; è filosofo chi non è sapiente come gli dei, né ignorante come gli animali bruti, ma ha un po' di sapienza e ne desidera altra, come gli esseri umani; Agostino intuisce che Dio dice a chi lo cerca: "Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato".

        Che cosa si cerca nella storia? La scelta degli oggetti, degli ambiti, dei profili che andiamo a cercare nel mare immenso della realtà storica dipende dai sentimenti con cui alla storia guardiamo. E questi derivano dalla prime esperienze dell'esistenza personale, dalla cultura in cui si viene educati, e infine dalle scelte morali con cui personalmente si reagisce alle influenze ricevute e alla realtà incontrata.

        In conseguenza di ciò che ognuno cerca e va a vedere nella storia, si forma la propria concezione della storia. La quale è quell'immagine del cammino umano nel tempo che una data tradizione, un dato insegnamento, una data ricerca e un dato orientamento personale ci danno. Una certa selezione dei fatti storici, da un certo punto di vista, forma quella certa filosofia della storia, che poi determina l'ottica con cui torniamo a cercare fatti e significati nella storia conoscibile. La ricerca storica dipende dal sentimento con cui guardiamo la storia e plasma l'idea della storia, che continuerà a guidare la nostra ricerca. Se abbiamo visto solo guerre e non abbiamo reagito con una indignazione attiva e impegnata a vedere di più, continueremo a vedere solo guerre, a cercare solo guerre nel passato, e a non aspettarci altro che inevitabili guerre nel futuro.

        Per esempio, nei fatti del 1989, Johan Galtung vede la combinazione di tre fattori: il primato della politica, la politica di pace, il potere popolare dei due tipi di movimenti di base, per la pace all'ovest, del dissenso all'est, perché, in quanto cercatore di pace, ha la vista preparata a riconoscere le condizioni che rendono possibili grandi rivolgimenti politici senza uso di violenza. Altri, i più, anche Bobbio, hanno visto soltanto la maggiore minaccia militare e la più forte pressione economica come causa della vittoria occidentale nella guerra non combattuta, ma rimasta minaccia effettiva, la Guerra Fredda. Così la guerra, le armi, la sopraffazione sono riconosciute regine inamovibili della storia (14).

        Un altro esempio: la Resistenza italiana al nazifascismo è stata per lungo tempo interpretata unicamente in termini militari. Anna Bravo ha ricordato che nel dopoguerra l'apposita commissione del Ministero della Difesa riconosceva la qualifica di partigiano soltanto a chi aveva partecipato a tre azioni armate (15).

        Ma Anna Maria Bruzzone affermava: "Nel nostro libro (16) abbiamo dato lo stesso valore a chi ha sparato e a chi ha nascosto in casa gli ebrei" (17).

        Nel lavoro citato alla nota 15, La Resistenza civile nelle ricerche storiche, ho cercato di seguire e dimostrare l'evoluzione, fino al 1995, della storiografia della Resistenza nello scoprire e riconoscere la realtà della resistenza civile. Claudio Pavone, che, nel suo saggio maggiore del 1991 (18) era rimasto insensibile alla ricerca della resistenza civile, non armata, nel 1995 riconosceva chiaramente, grazie al lavoro di Bravo e Bruzzone, il "valore euristico" del concetto di resistenza civile, che è "qualcosa di più ampio della cosiddetta resistenza passiva (19)

        Jacques Semelin, il maggiore storico europeo della resistenza civile, ha scritto nella sua opera principale: "Non è stata la sola curiosità storica a motivare questa ricerca: essa è nata da un interrogativo più profondo, di natura etica e strategica, sulle capacità delle società di resistere senz'armi ad una aggressione (o occupazione militare o potere totalitario)" (20).

        Dunque, sono il bisogno e il desiderio di vedere che permettono allo storico serio di vedere, non di sognare, ciò che senza quel desiderio non saprebbe vedere. Il bisogno e la scelta della pace permettono di vedere la pace anche nella storia e non solo nell'utopia. Il pensiero desiderante, spesso disprezzato dai realisti duri, aiuta, guida, illumina la conoscenza della realtà effettiva.

        Per superare la guerra, metterla fuori dalla storia, liberare l'umanità da questo flagello, bisogna inventare e valorizzare le alternative. In questo modo bisogna vedere anche la storia, evidenziando non tanto le paci imposte dai vincitori ai vinti, che sono l'atto di guerra culminante e lo scopo delle guerre stesse, non le paci-intervallo tra le guerre, ma le paci-invece-delle-guerre, cioè i conflitti condotti a soluzioni non distruttive e non omicide.

        Così pure, è da fare anche una storia controfattuale. Non è vero che la storia non si fa con i "se". È invece importante studiare le alternative di pace lasciate cadere, o non viste per incapacità immaginativa, o soffocate per volontà contraria, e ipotizzare le differenti condizioni ed opportunità che ne sarebbero seguite. Non è vero che la storia si fa unicamente con i fatti pesantemente avvenuti. Anche le occasioni perse sono realtà storica da meditare, per fare oggi e domani una storia di qualità umana migliore.

        Questa è ricerca storica per la pace. La ricerca delle alternative alla guerra è particolarmente convincente quando è possibile rintracciare, nella storia fattuale, casi reali (pochi o tanti) di difesa dei giusti diritti, di liberazione da un'oppressione, di lotte condotte senza riprodurre la violenza omicida che si vuole respingere. Quel che è fatto è possibile, anche se appare difficile. La dominante cultura di guerra ha di fatto ignorato queste forme di resistenza e di liberazione, facendole apparire impossibili. A questa scoperta un ramo della cultura della pace sta lavorando in questi anni.

        A conclusione della presente relazione, segnalo il libro di due intrepidi ricercatori per la pace dell'Università di Granada (21), che imposta precisamente il lavoro per una Storia della Pace. Da questa opera traduco alcune righe, a pag. 29, nelle quali si può vedere una profonda consonanza col brano di Gandhi da me citato all'inizio:

        Vorremmo cominciare formulando questa asserzione: le esperienze pacifiche, di scambio, cooperazione, solidarietà, diplomazia, sono state dominanti nella Storia. E, tuttavia, questa è una storia che, forse perché la sua quotidianità e naturalezza non lasciano tracce visibili e dimostrabili, e perché nemmeno fa rumore, non ha avuto bisogno di essere fatta risaltare. Nei paragrafi seguenti proponiamo alcune linee sulle quali costruire una storia della pace: la pace silenziosa; la storia della socializzazione umana, della solidarietà e cooperazione; la storia e le esperienze della "bassa entropia"; la negoziazione come articolazione positiva di realtà in conflitto. Evidentemente, non saranno le uniche linee possibili per la costruzione della Storia della Pace (Peace History), ma con buona probabilità serviranno per alimentare il dibattito a questo riguardo". (In nota, è indicata la rivista Peace and Change come lo spazio nel quale si sono concentrati molteplici sforzi in tal senso).

        Alberto L'Abate ha studiato le precedenti esperienze di interventi alternativi alla guerra in zone di acuti conflitti (22) e ne ha realizzati egli stesso (23). Anche per questo aspetto di prima importanza del suo lavoro lo ringraziamo e lo festeggiamo oggi (24).

        NOTE

          14. Cfr. E. HILLESUM: "È proprio l'unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in sé stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri" (Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 1985, p. 212).

          15. N. NERI, autrice di Un'estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del lager, Milano, Bruno Mondadori, 1999, nel quale mostra come nessuna vittima, nel Novecento, era riuscita come lei a "trasformare il dolore in forza", evidenzia la centralità in Etty Hillesum dell'indignarsi senza "odiare", in un intervento torinese del maggio 2000, ora leggibile nell’opuscolo Il pensiero di un 'estrema compassione, Coop. Studi, via Ormea 69, 10125 Torino, tel 011-650.31.58, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., p- 35.

          16. Cfr. la lettera di Bobbio e il libro di G. SALIO, Il potere della nonviolenza, citati alla nota 3.

          17. Anna Bravo citata da E. PEYREITI in La Resistenza civile nelle ricerche storiche, in Fascismo, Resistenza, Letteratura. Percorsi storico-letterari del Novecento italiano, I Quaderni del Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, n. 2, febbraio 1997, pp. 61-87. La citazione è a p. 67.

          18. A. BRAVO, A.M. BRUZZONE, In guerra senza armi. Storie di donne 1943-1945, Bari, Laterza, 1995.

          19. Cfr. La Resistenza civile..., cit. alla nota 15, p. 67.

          20. C. PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.

          21. Id., I percorsi di questo speciale, articolo introduttivo al fascicolo de Il Ponte, n. 1/1995, dedicato a Resistenza. Gli attori, le identità, i bilanci storiografici, p. 13.

          22. J. SEMELIN, Senz'armi di fronte a Hitler, Torino, Sonda, 1993. p. 13.

          23. Historia de la Paz. Tiempos,, espacios y actores, a cura di F.A. Munoz, M. Lòpez Martìnez, Colleccion Eirene, n. 12, Instituto de la Paz y los Conflictos, Granada, Universidad de Granada, 2000.

          24. A. L'ABATE, Forze nonarmate e nonviolente di pace. I precedenti storici, in volontari di pace in Medio Oriente, a cura di Alberto L'Abate e Silvano Tartarini. I Quaderni della D.P.N.,. n. 21, Molfetta, Edizioni La Meridiana, 1993, pp. 17-35.

          25. Si veda, per esempio, il fascicolo citato nella nota precedente e, di A. L’ABATE, Kossovo: una guerra annunciata. Attività e proposte della diplomazia non ufficiale per prevenire la destabilizzazione nei Balcani, Molfetta, Edizioni La Meridiana, 1999. In questo libro L'Abate riassume l'attività che ha svolto per due anni nella "Ambasciata di pace" a Pristina.

          26. Il saggio qui pubblicato è una rielaborazione della relazione tenuta nel convegno in onore di Alberto L'Abate, per i suoi settant'anni: "La nonviolenza nella ricerca, nell'educazione, nell'azione", Torino, 12.02.2001.

          (Tratto da Quaderni Satygraha n. 4 – dicembre 2003 – pag. 105)

          Pubblicato in Dossier Pace

          Cristo nostra pace
          Per una teologia cristiana della pace
          di Bruno Forte




          Lo shalom biblico, tra alef e beth

          Afferma la tradizione rabbinica che, quando Dio creò il mondo, chiamò al suo cospetto le lettere dell'alfabeto e pose loro la domanda decisiva: «Con quale di voi volete che io inizi la creazione?». E poiché le lettere dell'alfabeto sono come gli umani, tutte alzarono la mano perché ognuna voleva essere la prima lettera della creazione. Tutte tranne una, la Alef. Perché? Perché la Alef non è quasi neanche una lettera, è soltanto una pezza d'appoggio, non ha un suono, assumendo quello della vocale che le si mette accanto. Per questo la Alef, la più piccola, la più insignificante delle lettere, tanto da non considerarsi quasi neanche una lettera, non ebbe il coraggio di alzare la mano, e allora l'Eterno scelse la Beth, la seconda lettera dell'alfabeto. E così il testo della la creazione comincia con le parole: «Bereshit barach Elohim» - «In principio Dio creò» (Gen 1,1).

          Ora, la Beth è, nella grafia dell'alfabeto ebraico, un quadrato aperto in direzione della scrittura che continua. Il senso profondo di questo apologo è dunque che il mondo è una domanda aperta, un interrogativo a cui non è stata data ancora risposta, un cammino, un desiderio, un essere lontano dalle stelle e al tempo stesso tendere ardentemente ad esse ("desiderium" latino viene appunto da "de sideribus": "dalle stelle").

          Quando però l'Eterno rivelò il suo nome, la prima parola della rivelazione del Nome santo cominciò con la Alef: «Haya 'asher 'ehyeh» - «Io sono Colui che sono» (Es 3,14). Dunque la rivelazione di Dio si compie nell'umiltà, nella piccolezza della Alef, lì dove noi non ci saremmo aspettati di incontrare il Volto atteso nascosto. Da questo racconto si comprende già che cos’è nella Bibbia la pace, Shalom. La pace è l'incontro della Alef e della Beth, la pace è l'eterno cercare del mondo, la domanda aperta, l'interrogativo irrisolto di tutto ciò che esiste, l'umanità visitata dall'umiltà della rivelazione, dove l'Altro viene a noi come noi non avremmo atteso o pensato, o forse desiderato. L'Altro si presenta a noi nello sconvolgimento di tutte le misure e di tutti i calcoli della nostra domanda. Shalom è l'incontro della Beth con tutto il carico delle sue domande e della Alef con tutta la "modestia" delle sue risposte. Chi non ha compreso questo non comprenderà mai chi è il Messia e che cos'è la Sua pace. Poiché il Messia verrà nell'umiltà, nel nascondimento e solo così ci darà la sua pace, la pace messianica. La pace di Gesù non è la pace che vince il mondo secondo le misure del mondo, ma quella che lascia aperta l'attesa, che nutre l'inquietudine e che si offre a noi nel segno della contraddizione.

          Come delineare allora una teologia della pace? Rifletteremo dapprima sulla "Beth", cioè sul desiderio dello Shalom. Non sarà una riflessione astratta, ma in riferimento al tempo della modernità, che potremmo intitolare "la parabola della modernità e i suoi modelli di pace, fra utopia e disincanto". In un secondo momento, ci rivolgeremo alla "Alef", dunque alla discrezione e al pudore della rivelazione di Dio, per scoprire l'avvento della pace e comprendere che la pace non è qualcosa, è Qualcuno, è l'Altro che viene a noi. E precisamente il suo venire a noi ciò che ci dà veramente la pace. Finalmente, in un terzo momento, in cui la Alef incontra la Beth e il desiderio del mondo si fa Shalom nell'incontro con il divino, ci chiederemo come essere e come divenire costruttori di pace; quali siano cioè i tratti di coloro che nel mondo costruiscono la pace, secondo la logica della Alef e della Beth, dello Shalom biblico pienamente rivelato e donato in Gesù Cristo.






          La speranza della pace fra utopia e disincanto


          La luce della ragione forte: l'utopia dello pace solo umana


          Tre metafore possono dare in maniera densa il senso di ciò che la modernità è stata e ha espresso nella sua parabola storica: la metafora della luce, la metafora della notte e la metafora dell'aurora.

          L'epoca moderna è l'epoca della luce. Non a caso la modernità compiuta inizia con quella stagione che in tutte le lingue europee classifichiamo nel segno della luce: Illuminismo, Aufklarung, Illustraciòn, Enlightenment, Siècle des lumières. La luce come anima della modernità si lascia riconoscere nella fiducia attribuita alla ragione di poter interpretare il mondo e di cambiarIo: questa è la grande ispirazione dell'epoca moderna, una sete di illuminazione, di comprensione razionale, di trasformazione razionale del mondo. Quando Hegel sintetizza il suo progetto speculativo nella formula «il razionale è reale, il reale è razionale», ciò che esprime in essa non è un gioco di concetti, ma un progetto che ha avuto un destino epocale immenso in tutte le realizzazioni dell'ideologia. La formula veicola esattamente la sete della modernità di poter finalmente illuminare il mondo con la luce della ragione, liberandola dalle tenebre dell'oscurantismo e della barbarie, per realizzare una umanità illuminata o - come si dice - emancipata e adulta, dove ciascuno sia finalmente non oggetto ma soggetto della propria storia. Il grande sogno della modernità, quella che potremmo chiamare "l'utopia moderna", è l'utopia di un mondo finalmente adulto, emancipato, dove nessuno sia asservito ad altri e ognuno sia non più oggetto ma soggetto di storia.


          Qual è il tipo di pace che questa utopia della modernità porta con sé? È la pace di un mondo totalmente compreso e risolto all'interno di una idea: è la pace dell'ideologia, è l'ideologia della pace. Sappiamo bene quanta violenza le ideologie abbiano prodotto, ma non dovremmo dimenticare che tutte le ideologie sono nate dall'ambizione di realizzare una pace universale: la pace del proletariato, la pace della giustizia, il sole dell'avvenire. C'è una sete di pace nell'animo moderno, ma la pace ambita è quella che viene costruita partendo da un modello totalmente ideale che deve applicarsi alla realtà e trasformarla: ecco perché il grande nemico della modernità è l'oscurantismo di chi non vuol servirsi della ragione per trasformare il mondo. Il nemico della pace, il controrivoluzionario, è qualcuno la cui ragione non funziona: ecco perché gli si può tagliare la testa! La metafora della ghigliottina è la metafora tragica dell'assoluta incapacità della visione ideologia del mondo di tollerare il diverso, di accogliere l'altro. Allora si comprende come la pace che l'ideologia perseguirà sarà inesorabilmente una pace violenta, che dovrà essere imposta alla realtà a tutti i costi.

          La sete di totalità della ragione, la luce che Goethe morente invoca come il dono più alto - «Licht, mehr Licht», «Luce, più luce» - di fatto diventa totalitarismo e violenza. La modernità è il tempo della violenza: traducendo in categorie politiche questo sogno di pace, si può dire che si tratta della pace dell'egemonia, della pace imposta dal più forte, dal gendarme del mondo di turno nella storia.

          Questi non sono solo gli inizi del nostro presente, sono purtroppo drammaticamente anche i nostri giorni: chi continua a dire che l'ideologia è morta, non smette di illudersi. L’ideologia è oggi viva più che mai, semplicemente ha cambiato disegno. Che cos'è se non una ideologia lo schema su cui si muove ad esempio la politica di guerra condotta come risposta alla barbarie terroristica? La tesi tanto nota di Samuel Huntington, (1) considerata addirittura profetica del nostro presente nella sua previsione dello "scontro delle civiltà" come scontro dei mondi religiosi ad esse sottesi, risponde in realtà a uno schema totalmente ideologico: l'Ottocento è stato il secolo dello scontro delle nazioni, il Novecento è stato il secolo dello scontro delle ideologie, il XX secolo sarà il secolo dello scontro delle civiltà, dove civiltà è soprattutto quel complesso di idee, di costumi, di prassi, che si radicano in una visione religiosa della vita. Huntington viene considerato il profeta dell'11 settembre del 2001, quando ciò che egli aveva intuito si sarebbe realizzato, o meglio avrebbe iniziato a realizzarsi: lo scontro tra l'Occidente "cristiano" e l'Islam, tra questi mondi religiosi, ovvero queste civiltà, che vengono a impattarsi con un'unica prospettiva di soluzione, la vittoria dell'uno sull'altro.

          Come si vede, lo schema ideologico di una pace totale imposta da una visione ideale del mondo e costruita con l'esercizio della violenza da parte del più forte è quella che la modernità in qualche modo ha inseguito e continua a inseguire. Non c'è stato dittatore, di destra o di sinistra, che non abbia parlato di pace, che non abbia promesso la pace e che non abbia preteso di costruire la pace. Ecco perché dobbiamo essere sempre molto diffidenti verso quei discorsi che fanno della pace un'ideologia. Essere costruttori di pace non può nè deve significare essere "pacifisti" in un senso ideologico.

          Nota
          (1) S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 1997.



          La notte delle ideologie: il disincanto dello violenza moderna

          Il secondo modello è espresso dalla metafora della notte. La visione moderna totalitaria e ideologica della vita, del mondo e della pace ha prodotto la tragedia del "secolo breve", che - a detta dello stesso autore della formula fortunata, Eric Hobsbawm - è stato il secolo tragico, tra i più violenti della storia umana. Hobsbawm calcola che alla fine del Novecento almeno un terzo dell'umanità degli inizi del secolo era stata sterminata a causa dei genocidi e delle guerre. Dunque mai, anche quantitativamente, l'umanità ha avuto un impatto di violenza così globale come nel secolo che si chiude con l'era della globalizzazione, il secolo che si apre col genocidio armeno e che si chiude col genocidio del Rwanda, che vive nel suo cuore e centro l'impensabile e inaudito dramma della Shoah. È chiaro che tutto questo produce una sorta di rigetto della violenza, del totalitarismo dell'idea che tanta violenza ha prodotto: ecco perché la metafora della notte diventa per contrappunto la più adeguata ad esprimere la condizione post-moderna. Se la modernità è il tempo della luce, della ragione forte, tempo di una pace costruita applicando al reale l'ideale, la post-modernità è il tempo del disincanto. Lì dove la modernità era il tempo dell'utopia, di un sogno di pace da costruire a qualunque prezzo, la post-modernità è il tempo in cui non si crede più possibile il sogno della pace, o perlomeno della pace universale.


          Nella coscienza post-moderna, allora, la pace viene a coincidere col patto fra soggetti parziali che si accordano per un interesse comune: ciò che è tipico del post-moderno non è l'assenza di una ricerca di pace, ma è la riduzione della ricerca di pace a un interesse parziale. È questo che scatena le brame etniche e dei gruppi, le logiche "di bassa lega" e "leghiste", sostenute da un interesse di parte esasperato fino a diventare assoluto. Questa è la pace tipica del nichilismo post-moderno, una pace pattizia, fondata cioè sul compromesso che realizzi l'interesse non di tutti, ma solo di quanti riescono a mettersi d'accordo per fare il proprio interesse. Ecco perché si parla di un disincanto: è come se si fosse perso il gusto, il sogno, di una visione più grande, più alta. Mentre l'ideologia ancora sognava un mondo di pace, anche se lo realizzava nel segno della violenza, il disincanto post-moderno non ha più sogni di pace, ha interessi di parte. Tuttavia, nell'interesse di parte la violenza non è minore che nell'ideologia: se si difende un interesse di lega, l'altro diventa semplicemente un nemico, come accade, per esempio, nel caso del clandestino o dell'immigrato, in una certa logica presente anche nel nostro paese.

          Anche il disincanto è dunque un'epoca di violenza. Dobbiamo liberarci dall'idea che il disincanto della post-modernità sia un disincanto innocuo; c'è un potenziale di violenza estremo nel nichilismo, nella logica e nell'etica nichilista, cioè nel1' individualismo di gruppo, che domina il tempo della post-modernità. La frammentazione rispetto ai sogni totalizzanti dell'idea non è meno violenta dell'idea stessa. Se l'ideologia è stata violenza, e nessuno oramai lo nega, il nichilismo post-ideologico e il suo relativismo sono un'ideologia ancora più violenta dell'ideologia stessa. Il riflusso del privato, la chiusura nel proprio gruppo, nella propria etnia, nella propria logica di parte, non sono affatto processi innocui. Anzi, sono eticamente devastanti e producono frutti velenosi per la costruzione dello Shalom secondo il disegno di Dio.



          L'aurora dell'Altro: verso la pace, fondata sulla giustizia e sul perdono

          La terza metafora è quella dell'aurora: è l'aurora dell'altro, l'apertura all'impossibile possibilità; è la metafora legata ad una idea della pace che non sia nè il frutto di una violenza imposta, di un'ideologia dominante, di una egemonia, nè semplicemente il risultato di un compromesso parziale che ci separi in una sorta di isola felice dal grande naufragio del mondo. La pace che indichiamo col termine dell'aurora è una pace apparentemente impossibile e tuttavia desiderata, è la pace fondata sulla giustizia, cioè sul rispetto dell'altro chiunque egli sia, e su quel di più della giustizia che è il perdono, la capacità di andare oltre la semplice misura del dovuto o del ricevuto. Ma su questo terzo modello, di cui in qualche modo è stato segno straordinario il fatto che la coscienza del Papa che denunciava la guerra è diventata voce della coscienza di una grande parte dell' umanità, ci soffermeremo accostando il secondo momento di questa riflessione, che potremmo chiamare "la Alef della pace"; il luogo dove abita l'Altro, Gesù Cristo, nostra pace.







          Gesù Cristo, nostra pace

          Tutta la grande tradizione cristiana, a partire da san Paolo (Ef 2,14), confessa che Cristo è la nostra pace. In questa riflessione ci soffermeremo a pensare che cosa significa che Lui è la nostra pace, alla luce del carattere fondamentale della rivelazione cristologica, la "trasgressione", intendendo questo termine nel senso forte, etimologico, dell'oltrepassare, del trasgredire, del passar oltre, cioè dell'infrangere la soglia per andare più avanti. Cristo è infatti per eccellenza il "trasgressivo", e proprio così è la nostra pace. Ecco il paradosso: quando noi pensiamo pace, pensiamo armonia. In realtà Cristo è pace perché è disarmonia, perché in Lui c'è stata una triplice rottura, un triplice oltrepassamento. Potremmo dire la stessa cosa con un termine più biblico: "esodo": Gesù vive tre esodi fondamentali, tre trasgressioni che lo connotano come il Principe della pace.



          L'esodo di Gesù dal Padre: il dono della pace

          La prima trasgressione consiste nel fatto che Gesù, secondo la rivelazione cristiana, è la Parola uscita dal Silenzio: questo linguaggio era comune nel cristianesimo del primo secolo. Ignazio di Antiochia non esita a parlare di Gesù come del Logos, che procede dal Silenzio: fu poi la paura dello gnosticismo ad allontanare questo linguaggio. Che cosa si esprimeva con esso? Che all'inizio della rivelazione c'è un esodo di Dio da sé e che questo esodo trova il suo compimento nella più alta trasgressione, il venire del Figlio nella carne: Gesù è la Parola venuta dall'eterno silenzio di Dio ad abitare fra noi. In questo senso Tommaso d'Aquino diceva che Cristo è anzitutto Colui che vive «l'exitus a Deo». Noi siamo talmente abituati a queste formule che non ne comprendiamo più la forza trasgressiva: eppure, parlare di un'uscita da Dio di Dio, di un Dio in esilio da Dio, è veramente paradossale, anche se detto con il linguaggio di Tommaso d'Aquino, cioè della voce della grande tradizione cristiana.


          Dunque Cristo è la nostra pace anzitutto perché è un Dio che esce da sé, è un Silenzio che diventa Parola, ma è anche una Parola che resta totalmente appesa a quel Silenzio: Cristo è insomma tutto relativo all'altro da sé da cui proviene, ma che resta avvolto nel silenzio. La grande tradizione cristiana ha espresso questo concetto con il linguaggio della Re-velatio, della rivelazione come svelamento che vela: re-velare significa tanto togliere il velo, quanto ispessirlo. E questo è tutt'altro dall'idea della Offenbarung tedesca, parola usata come equivalente di revelatio, ma che dice in realtà ciò in cui tutto è aperto, spiegato, manifesto, dove Dio è pubblicato. Cristo è invece la nostra pace perché rivelandoci Dio ce lo nasconde. Cristo è la nostra pace perché in Lui non c'è una visione ideologica, né una risposta totale; c'è un restare appesi al divino silenzio.

          Il primo tratto della pace, che è Lui, è quindi di essere totalmente appesa all'Altro, donata dall'Altro, avvolta dal silenzio dell'Altro. Insomma, chi crede in Cristo nostra pace crede in una pace che non sa spiegare, di cui non sa fino in fondo rendere ragione secondo la logica di questo mondo: per il discepolo del Crocifisso la pace viene da altrove, è dono di un altrove che resta nascosto nel silenzio dell'adorazione. Cristo, insomma, in quanto è Colui che esce come parola dall'eterno silenzio del Padre, è la nostra pace non perché ci spiega il mondo come facevano le ideologie, ma perché ci testimonia il mistero del mondo, perchè ci rimanda ad un'origine più profonda, altra, misteriosa e nascosta, cui solo l'adorazione e l'ascolto obbediente corrispondono.



          L'esodo di Gesù da sé: l'Abbandono sorgente della pace

          In secondo luogo, Cristo vive l'esodo da sé senza ritorno: è il mistero della sua croce, è la sua seconda trasgressione, l'uscire da sé fino in fondo per amore nostro. Sappiamo che Emmanuel Lévinas, intriso di linguaggio biblico, definisce così l'amore: «l'esodo da sé senza ritorno». Che cos'è la croce se non l'estremo esodo del Figlio dell'uomo da sé, senza ritorno a sé? Quando ritorno ci sarà, sarà il dono del Padre nell'ora della Resurrezione. C'è, insomma, un'interruzione estrema, c'è l'abisso, c'è la croce, ma questo è esattamente il nome dell'agape. L'agape, la carità, è questo agòn: nel greco del Nuovo Testamento agòn e agape si corrispondono, la radice è la stessa, l'amore, agape, è agonia, è lotta. Ecco perché l'estrema rivelazione dell'agape è la morte, è l'abbandono della croce. Ciò vuol dire che Colui che è la nostra pace è tale perché muore nell'abbandono per amore degli altri: l'altro nome della sua pace è la carità, l'agape. La pace non si costruisce attraverso l'esercizio di una volontà, di una potenza: se noi pensiamo che la pace la fanno le bombe intelligenti o che la pace la fanno le truppe di occupazione, siamo totalmente al di fuori di questa logica della rivelazione cristiana. Chi dice che la pace si costruisce con le armi semplicemente ignora questa evidenza della Croce e dell'abbandono.


          Se il primo carattere della pace rivelata è che essa viene da altrove e resta custodita nell'adorazione e va accolta restando continuamente appesi al silenzio di Dio, il secondo carattere è che la pace si costruisce con la nonviolenza, con la perdita di sè, con il dono della vita fino alla fine: la via della pace non può essere quella della potenza del mondo, ma solo quella della debolezza. Mentre si svolge la grande storia su cui sono puntati i riflettori del mondo, c'è insomma un'altra storia, quella della carità, dove la suora palestinese cura l'ammalato ebreo, dove le religiose di Amman accolgono i profughi musulmani che vengono dall'Iraq... Quest'altra storia è quella del secondo esodo di Gesù, che non ha portato la sua pace con segni di potenza, ma morendo abbandonato sulla croce. Se la Chiesa dimenticasse di essere anzitutto l'Ecclesia Crucis, cioè la Chiesa di questo suo Dio crocifisso, essa semplicemente tradirebbe se stessa. La forza e il grande carisma di questi ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II sono legati proprio alla sua debolezza fisica, unita alla forza della sua fede e del suo amore. La seconda trasgressione del Cristo, l'esodo da sé senza ritorno, ci dice che è l'abbandono di sé per amore di Dio e degli altri la vera sorgente della pace.



          L'esodo di Gesù verso il Padre: la speranza della pace che non delude

          Il terzo esodo è quello che Tommaso d'Aquino chiama il «reditus ad Deum», l'esodo verso il Padre. In esso, ancora una volta, appare chiaro che la pace è legata ad una eccedenza, ad una promessa, ad una speranza: la speranza è l'altro nome della pace, ma essa e anche il fermento critico che ci ricorda come nessuna realizzazione mondana della pace sia totalmente la pace. Non ci sarà mai qualcuno che potrà dirci «abbiamo finalmente realizzato la pace», perché Gesù risorto ci dice che la nostra pace è altrove, è nascosta con Lui nel cuore di Dio e verso questa pace dobbiamo sempre tendere. San Bernardo lo afferma chiaramente: «Amaritudo ecclesiae sub tyrannis est amara», l'amarezza della Chiesa è amara quando la Chiesa è perseguitata; «sub haereticis est amarior», l'amarezza della Chiesa è ancora più amara quando la Chiesa è divisa dall'eresia; «sed in pace est amarissima», ma l'amarezza della Chiesa tocca il suo culmine quando la Chiesa se ne sta soddisfatta e tranquilla in pace, pensando di aver salvato il mondo. Nulla è più pericoloso per la Chiesa che uno spirito di trionfalismo, un'estasi dell'adempimento, una seduzione del possesso: noi siamo pellegrini della pace perchè Cristo con la sua resurrezione ci indica sempre un altrove della pace, la patria di Dio tutto in tutti nello Shalom finale, escatologico.



          Rendere ragione oggi della nostra speranza

          Abbiamo considerato la Beth del mondo con i modelli della pace: la violenza dell'ideologia, la pace compromissoria del nichilismo post-moderno, l'aurora di una pace possibile-impossibile; abbiamo visto la Alef di Gesù Cristo con le sue tre trasgressioni, il suo triplice esodo, una pace che viene da altrove e che si costruisce nell'adorazione di Dio, nella carità, nell'esodo da sé, e che va verso altrove e quindi è sempre nel segno della provvisorietà e della speranza. Che cosa comporta l'incontro di questa Alef e di questa Beth, cioè qual è il progetto dei costruttori di pace secondo il vangelo? Come rendere ragione della nostra speranza di pace oggi, in questo contesto della post-modernità e dei suoi sviluppi alla luce della rivelazione cristiana? Presento tre indicazioni, in cui semplicemente rileggo i tre esodi di Gesù, applicandoli al costruttore di pace, alla Chiesa costruttrice di pace.



          Discepoli dell'Unico: contemplazione e pace

          Se Cristo è Colui che vive l'esodo dal Padre e resta sempre appeso a questo divino Silenzio, allora la prima dimensione del costruttore di pace, che viva nella sequela di Lui, non potrà che essere quella della contemplazione e dell'ascolto. Teologia della pace significa - non per un'urgenza parenetica, ma per un'esigenza teologica - ricordare che la pace viene da Dio e soltanto da Lui deve essere continuamente invocata. Il costruttore della pace o è un contemplativo di Dio o non è. La frase di André Malraux, ripresa da Karl Ranner, «il XXI secolo o sarà mistico o non sarà», si applica alla pace in maniera assoluta. La forza dei costruttori di pace secondo il vangelo è questo "venire da altrove". In questo senso, l'impegno cristiano della pace è tutt'altro che una forma di pacifismo, se per pacifismo si intende un'espressione dell'ideologia. L'ideologia non ha esattamente quello che invece è lo specifico dell' anima cristiana della pace, ciò che ha caratterizzato per esempio Giovanni XXIII - per fare un esempio che richiama la Pacem in terris - e cioè la dimensione dell'essere nascosti con Cristo in Dio, del venire da altrove, del ricevere in dono la pace. La dimensione contemplativa della costruzione della pace è quello che specifica, caratterizza, il cristiano: un'icona vivente ne è proprio Giovanni Paolo II, di cui è stato detto - a mio avviso giustamente - che è un mistico. E che sia proprio un mistico ad essere stato il più grande protagonista del "no" alla guerra in Iraq, la dice lunga: questa è la forza dei costruttori di pace secondo Gesù, non altra.



          Servi per amore: pagare il prezzo dell'impegno al servizio della pace

          Se Gesù vive l'esodo da sé fino alla fine, l'agòn come agonia della sua agape, la pace per il costruttore di pace secondo il vangelo non può costruirsi che per la via dell'amore crocifisso, della carità, della non violenza. Chi volesse costruire la pace secondo il vangelo e accettasse anche soltanto come metodo di lotta la violenza di qualunque genere, anche la violenza verbale, avrebbe tradito la causa della pace. La pace si costruisce in questo amore radicale dell'abbandono: fa molto di più per la pace una Madre Teresa che rinuncia alla logica del potere di questo mondo, che anzi quando si accorge che questa logica sta penetrando in chi le è vicina dice «prendiamone le distanze», che non un gioco di potere che possa far sembrare che la Chiesa abbia avuto chissà quale ruolo nella costruzione della pace. il ruolo dei costruttori di pace secondo il vangelo è di costruire la pace secondo la logica della carità, che non è mai una logica vincente agli occhi del mondo, ma è la logica di chi - lo dice Gesù nel vangelo, dunque la sua autorità basta per tutto - non resiste al malvagio, oppone a chi lo colpisce su una guancia l'altra guancia. È la carità indifesa, ma non per questo indiscreta, è una carità lucida, consapevole, carità intelligente quella che può costruire la pace che non delude, fondata sulla giustizia per tutti e sul reciproco perdono.



          Testimoni del senso: vivere la profezia della pace senza fermarsi

          Infine, se Gesù vive la terza trasgressione ritornando a Dio Padre, la terza direzione della costruzione della pace è la testimonianza della speranza. Essere testimoni di speranza in un mondo come il nostro, senza pace, è il dono d'amore più grande che noi possiamo fare all'umanità, continuando a credere in una possibilità impossibile, e cioè che la pace si costruisca attraverso la giustizia e il perdono. È questa la testimonianza che noi siamo chiamati a dare più di ogni altra cosa. E che questa testimonianza non sia semplice utopia, credo lo dimostrino anche dei segni della storia: sessant' anni fa di fronte all'Europa della seconda guerra mondiale e della Shoah, chi avrebbe potuto pensare per oggi a un'Europa unita? Dunque, è anche la storia che ci educa a dei salti, a delle rotture, a delle sorprese: laddove, poi, non bastasse la storia, dovrebbe bastare l'impossibile possibilità della fede. Che credente è il credente che crede solo nel possibile? Lo specifico del credente è credere nell'impossibile. La "akedàh" di Isacco (Genesi 22), figura di ogni fede, di cui Paolo parla implicitamente in Romani 8,32 dicendo «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha conse-gnato per tutti noi», che cos'è se non l'accettare la sfida dell'impossibile possibilità di Dio? E che cos'è la speranza se non un vivere nell'ottica dell'impossibile possibilità di Dio? Uomo di pace, secondo il vangelo, non è quello che crede nell'efficacia dell'ideologia e nella forza delle armi o dei pani secondo l'interesse del mondo, ma quello che crede in un Dio, che questa pace è venuto a costruirla con noi, abbandonandosi su una croce e aprendoci una speranza di resurrezione. Contemplativi della pace, nella carità, fino alla fine, nei metodi, nelle forme, finanche nella possibile resa e sconfitta agli occhi del mondo, ma testimoni di speranza sempre: questo mi sembra lo stile dei costruttori di pace, non in astratto, fuori tempo, ma oggi, davanti allo scenario di questo mondo segnato da eventi drammatici, ma che noi, come discepoli del Crocefisso Risorto, siamo chiamati ad amare e a servire, per edificarvi il regno di Dio, regno di amore, di giustizia e di pace.



          (Tratto da AA.VV., Pacem in terris, Saronno, 2004)


          Pubblicato in Dossier Pace
          Giovedì, 18 Novembre 2004 00:35

          Se vuoi la pace, offri il perdono

          di Enzo Bianchi


          A scorrere solo i titoli di questa monografia ci si rende conto di un'amara realtà: «guerra» è un sostantivo che si declina sempre al plurale; «pace» esiste solo al singolare (perfino il programma di scrittura con il quale sto redigendo questo pezzo mi segnala come errato «paci»!).

          Pubblicato in Dossier Pace
          Mercoledì, 25 Agosto 2004 23:11

          Esame di coscienza in tre punti

          di Raimon Panikkar

          La domanda a cui non riesco a sottrarmi è: ma se le religioni sono così buone, perché mai il mondo va come va? Sono cosciente che il problema è delicato e che non possiamo attribuire tutta la responsabilità alla religione. Credo tuttavia che attribuire tutto alla malvagità umana e accontentarsi di messianismi escatologici non sia sufficiente. Questo mi porta a fare un breve esame di coscienza, in tre punti: la prassi; la teoria; e infine l'appello dello Spirito (la conversione).

          Pubblicato in Dossier Pace
          Mercoledì, 25 Agosto 2004 23:08

          Ostinatamente pace

          di Tonio Dell'Oglio

          La globalizzazione è un processo nel senso che non siamo di fronte a un fenomeno statico, apparso per germinazione naturale, frutto del caso... ma a un meccanismo (economico, politico e culturale) che investe pervasivamente tutti gli aspetti della vita umana (personale e collettiva), al punto da trasformarli e unificarli in un unico modello.

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          Mercoledì, 25 Agosto 2004 23:06

          La pace, una scommessa per l'uomo d'oggi

          di Mons. Tonino Bello

          Sul terreno della pace non ci sarà mai un fischio finale che chiuda la partita: bisognerà sempre giocare ulteriori tempi supplementari.

          Un saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l'onnipotenza di Dio, l'unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario.

          Sì, perché oggi le parole sono diventate così "multiuso", che non puoi più giurare a occhi bendati sull'idea che esse sottendono. Anzi, è tutt'altro che rara la sorpresa di vedere accomunate accezioni diametralmente opposte sotto il mantello di un medesimo vocabolo. Guaio, del resto, che è capitato soprattutto ai termini più nobili; alle parole di serie A; a quelle, cioè, che esprimono i sentimenti più radicati nel cuore umano come pace, amore, libertà.

          Pubblicato in Dossier Pace

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