I Dossier

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La “violenza” della mitezza,
nuova sapienza dell'umanità

di Giovanni Nicolini



Il mondo è invaso da odio e inimicizia. Ma Dio lo ama così com’è. E tramite Gesù ci insegna “tecniche di pace” che anche oggi indicano una diversa prospettiva della storia, non sottomessa alla prepotenza della morte.

Ma a voi che ascoltate, io dico: (.. .)
A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra.
(Luca 6,27-38)

Il cristianesimo non è né ideologia né utopia né idealismo. È la grande avventura della Parola di Dio nella storia dell’umanità. È il precipitare di Dio nella nostra ferita, sino al farsi Carne del Verbo e sino alla Croce di nostro fratello, il Figlio di Dio. Non una vicenda asettica, ma l’immersione del Signore nella nostra povertà. Per la salvezza dell’umanità, che Dio ama così com’è. Un povero mondo malato, e prigioniero del Male e della Morte, un mondo che Egli salva e riempie della sua potenza di bene, potenza d’Amore più ;forte della morte stessa.

Ed ecco l’audacia delle parole del Salvatore: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano”. Perché questo è il mondo: invaso dall’inimicizia, dall’odio, dalla violenza dei pensieri e delle opere. Ma ecco la potenza divina liberata nella storia e donata agli uomini e alle donne di tutto il mondo: l’amore, la misericordia, la preghiera. Ecco le “terribili” armi di Dio! Ad esse niente e nessuno può resistere. Da qui il comando perentorio, rivolto al cristiani e alle chiese, di ripudiare ogni mondanità e ogni giustificazione del vecchio do ut des e di una legge del taglione che, essendo puramente vendicativa, moltiplica il male e non crea il bene.

Gesù ci regala anche qualche esempio, qualche “linea di comportamento”, qualche “tecnica di pace”: “A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra”. Ricordo sempre con gratitudine la grande lezione di Luciano Eusebi, valente studioso e cristiano limpido e geniale. Il “porgere l’altra guancia” ce lo indicava come il gesto forte, ben più forte del restituire la violenza subita. È il costringere l’altro ad assumersi la responsabilità della sua violenza, fino a indurlo a pensare se ripeterla. Il “pacifista assoluto” non reagirebbe, ma il cristiano reagisce con la “violenza” della sua mitezza. E lo fa perché la salvezza e il bene di chi lo ha colpito gli importano tanto quanto la propria verità e la propria pace.

Scoprire la perla preziosa

Tutto chiaro? SÌ! Però qui dentro c’è un problema enorme, che è impossibile ignorare. Veniamo da secoli in cui questi atteggiamenti, queste “risposte al male”, sono stati confinati nella sfera del comportamento individuale, della testimonianza profetica di individui superiori, di episodi isolati e, proprio per questo, non esemplari. Oggi però la vicenda storia delle chiese e dei popoli, dalle relazioni più intime e immediate ai grandi e sanguinari conflitti, ci appare troppo stringente e tumultuosa, sino al pericolo di una universale autodistruzione.

Proprio oggi è allora necessario intraprendere coraggiosamente un cammino di riflessione e preghiera, un contatto più continuo e serrato con il Testo Sacro, un impegno storico delle comunità cristiane più responsabile, per trarre dalle parole di Gesù una sapienza nuova, una prospettiva nuova della storia che faccia di queste perle evangeliche una provocazione a tutte le legislazioni, le istituzioni, i patti. Invece la storia sembra malinconicamente subire la prepotenza del Signore della morte, e si fa timida e restia fino a concedere l’etica veramente evangelica solo all’obiezione di coscienza del singolo. E, anche questo, non sempre! Aiutiamoci, dunque, a scoprire insieme la “perla preziosa” di una nuova sapienza dell’umanità, che faccia veramente del Vangelo la testimonianza concreta e collettiva delle comunità cristiane, come bene per il mondo intero.


(da Italia Caritas, febbraio 2007)


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Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

La fede… non è mai troppa

di Giovanni Genre


DOMANDA

Quella che avete presentato non è un’eccessiva demonizzazione della religione?
Ho enfatizzato la distinzione fra religione e fede, perché oggi la religione è troppo forte e la fede troppo debole; è necessario un maggior riequilibrio ma religione e identità non sono valori da abolire.

Il cristianesimo deve mantenere distinte fede e religione. In tutti i vangeli Gesù polemizza duramente con coloro che ne mescolano i piani. Con Karl Barth, andrei oltre la distinzione arrivando a contrapporle. Nella visione, assai «protestante», di questo importante teologo del xx secolo, «l’uomo religioso» diventa il peccatore per antonomasia. «Peccato» è proprio il «tentativo religioso» di raggiungere Dio: che Gesù denunzia come illusione e «giogo», al quale la religione (di scribi e farisei) vuole sottoporre la gente del suo tempo.

Una denunzia radicale da comprendere con intelligenza. Anche nella bibbia è sempre estremamente difficile, direi impossibile, distinguere fra la rivelazione di Dio e il modo in cui gli esseri umani l’hanno ricevuta.

Come cristiani dobbiamo vigilare sulle possibili confusioni tra fede e religione, pericolosissime e foriere di tragedie: le crociate, il colonialismo perpetrato nel nome di Dio, il «Dio è con noi» riportato sulle fibbie dei cinturoni dei soldati nazisti... Bisogna mantenere una netta discontinuità fra Dio e l’uomo, affinché neppure l’autorità della chiesa si sostituisca a quella del vangelo.

La fede, invece, non è mai «troppa», poiché è la condizione di chi è afferrato da Dio; non è mai una virtù, né un privilegio di qualcuno. È piuttosto una vocazione.

Oggi si assiste a una sindrome da ripiegamento identitario pericolosissima, in gran parte veicolata dalle religioni. In nome della distinzione fra religione e fede non dobbiamo lasciarci strumentalizzare da chi vuole terrorizzare gli altri evocando lo scontro fra cristianesimo ed islam.

Io non credo sia in atto uno scontro fra civiltà. A scontrarsi sono teocrazia e fondamentalismo da una parte; tolleranza e dialogo dall’altra. La posizione integralista e quella del dialogo sono presenti in tutte le religioni, bisogna lavorare perché si diffonda e affermi la seconda.

Mi pare inaccettabile, per esempio, la convinzione di chi, in Italia, pone il discorso dei diritti e della libertà (di coscienza, di fede, di espressione) sul piano della reciprocità. Concedere questi diritti solo nella misura in cui anche gli altri stati (Arabia Saudita, Sudan...) li concederanno, significa declassare il vangelo, che è gratuito, a merce di scambio. Dobbiamo invece favorire la convivenza pacifica di culture e religioni diverse, iniziando dal nostro paese e seguendo l’esempio di Gesù nel suo incontro con la samaritana (Giovanni 4).

Un incontro vietato: giudei e samaritani non si parlavano da generazioni; il disprezzo dei giudei per i samaritani era assoluto; e la donna, avendo avuto molti mariti e compagni, aveva una pessima reputazione. Ma Gesù parla e fa parlare. Questo dovrebbero essere le chiese «cristiane»: luoghi di un dialogo possibile con chi è diverso. Chiedendole poi da bere Gesù si pone in una condizione di dipendenza dalla donna. Ci dice che ognuno di noi ha bisogno degli altri. Viviamo tutti in una situazione di interdipendenza reciproca, che troppo spesso dimentichiamo. Il dialogo, la mutua comprensione e la convivenza sono possibili solo su queste basi.

Infine, Gesù pronunzia le famose parole: «L’ora viene che né su questo monte, né a Gerusalemme, adorerete il Padre. I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità». Non vi sono più luoghi sacri o templi, semplicemente una relazione diretta con Dio, che prescinde dalle istituzioni, dalle tradizioni, dalle norme religiose. È il superamento della religione, che porta con sé l’espressione di una fede libera e liberante.

(da MC, gennaio 2007)

Giovanni Genre, originario del Piemonte, laureato presso la Facoltà valdese di Roma, con studi in Scozia e Germania, nel 1984 è stato consacrato pastore della chiesa valdese e ha esercitato il suo ministero a Torino, in Calabria, Ivrea, Biella, Val Pellice. Eletto moderatore della Tavola nel 2000, dal settembre 2005 è pastore della chiesa valdese di Milano.

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Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

Troppa religione crea conflitti

di Giampiero Comolli

Per affrontare correttamente il tema proposto è indispensabile distinguere fra fede e religione che, pur strettamente implicate l’una all’altra, restano distinte e non sovrapponibili.

La religione rimanda a una dottrina, a un itinerario etico e ascetico da percorrere per raggiungere una meta: è un movimento dal basso verso l’alto, che ha come protagonista l’homo religiosus.

La fede implica invece l’annuncio di un evento da accogliere, un’iniziativa divina che ci precede e che suscita una risposta: è un movimento dall’alto verso il basso, di un Dio che viene.

Religione sono le opere messe in atto da un’istituzione ecclesiale. Fede è ascolto di una verità donata per grazia da Dio.

Questo significa che la religione è deputata alla gestione terrena di una verità trascendente. Come tale crea istituzioni, comportamenti, appartenenze. Dona identità individuale e collettiva: ci dice chi siamo noi, come credenti, rispetto ai non credenti o a chi crede in altro.

La fede, invece, come totale accoglimento di una Parola divina non in nostro possesso, può arrivare a cancellare la nostra identità, per farci donne e uomini nuovi, guidati dallo Spirito di Dio.

Oggi le religioni sono entrate come attori primari nel teatro di un mondo segnato dal pluralismo che, proprio in quanto incrocio di culture diverse, mette in crisi le identità acquisite. In assenza di ideologie laiche forti, oggi le religioni diventano veicoli di identità collettiva: forniscono simboli e categorie di pensiero per rappresentare se stessi, per differenziarsi dagli altri e dominarli.

Fondate sulla convinzione di detenere verità assolute, le religioni diventano fattori di identificazione culturale per grandi collettività umane; di conseguenza possono legittimare conflitti, contrapposizioni politiche e guerre.

In tutto il racconto biblico si ritrovano i guasti della religione e una sua forte critica condotta sulla base della fede (Cfr Michea 6,6-8). Nessuna religione è immune da questa deriva.

Le chiese protestanti storiche sono consapevoli dei problemi che possono derivare da un eccesso di religione. In Italia sono fautrici di una netta distinzione fra chiese e stato e critiche verso le nuove ideologie (atei devoti), che rivendicano un’identità cristiana europea e un’identità cattolica italiana come radice e fondamento di un’appartenenza collettiva in contrapposizione ad altre civiltà.

Negli Usa, al contrario, la destra religiosa (protestante ndr) costituisce un fronte politico e teologico conservatore, centrato su valori tradizionali che attribuiscono all’America cristiana un ruolo di guida nel mondo in campo etico, politico e militare.

Quanto alle chiese ortodosse, proprio per il fatto di essere autocefale (indipendenti per vita e organizzazione interna), sono storicamente divenute «etniche» e quindi deputate a preservare e difendere l’identità collettiva di un popolo. In quanto (letteralmente) «custodi della vera fede» sono anche tradizionaliste e critiche nei confronti di una netta separazione fra chiesa e stato.

In definitiva, dunque, l’intreccio fra religione e fede è inestricabile. Nelle attuali condizioni storiche non si può mirare a una fede pura che faccia a meno della religione. Ma è sempre possibile attuare una forte critica delle religioni a partire dalla fede. Non si può pretendere di essere gli unici custodi dell’unica fede vera, relegando tutti gli altri nell’errore. L’unica via che le religioni possono percorrere verso la pace è quella di un dialogo ecumenico e interreligioso, condividendo la consapevolezza che l’eccesso di religione è fonte di conflitti

(da MC, gennaio 2007)

* Giampiero Comolli, studioso dei mutamenti religiosi nel mondo contemporaneo, giornalista, saggista e scrittore, collabora con diverse testate per le quali scrive resoconti di viaggio e ha pubblicato diversi saggi, tra i quali: Buddisti d’Italia, viaggio tra i nuovi movimenti spirituali; I pellegrini dell’Assoluto, storie di fede e spiritualità raccolte tra Oriente e Occidente.

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La cooperazione del giorno prima
e della riconciliazione

di Massimo Toschi




Il tempo della guerra, i cui segni crescono ben oltre il dato puramente militare, pone una domanda radicale anche alla cooperazione. Quando la guerra in Iraq degenera in guerra civile e lo scontro di civiltà rischia di diventare una delle chiavi per leggere il nostro tempo, quando la povertà come guerra arriva a cifre indicibili, non ci possiamo accontentare di una qualunque cooperazione.

Se la cifra di questo tempo è la guerra, sia quella guerreggiata, sia quella esibita delle culture, sia quella invisibile delle grandi povertà, la cifra della cooperazione deve essere la riconciliazione, il ricomporre le società, il dialogo tra i Paesi, la piena assunzione del dolore dell'altro e dei suoi diritti.

C'è un volto dell'umanitarismo compassionevole che è entrato dentro di noi. Alla fine, di fronte alla tragedia della guerra e al dramma della povertà del Sud del mondo, ogni progetto va bene, perché porta risorse e cambia qualcosa. Questa è una logica minimalista che non tiene conto della complessità e della gravità della partita nella quale tutti siamo coinvolti.

LA COOPERAZIONE COME STRUMENTO

Forse varrebbe la pena prima o poi di fare una analisi della cooperazione italiana di questi anni, non solo quella promossa dal Ministero degli esteri, ma anche di quella decentrata, dei loro criteri di scelta, dei risultati ottenuti, dei partenariati promossi, dell'efficacia e dell'efficienza dei progetti, della loro capacità di impatto nelle situazioni. Penso che almeno dal Kossovo in qua il quadro ha molte luci ma anche molte ombre. Abbiamo inseguito gli eventi e non li abbiamo anticipati. È la cooperazione del giorno dopo che non ci convince, senza nulla togliere a quanto di bello abbiamo fatto di fronte a emergenze umanitarie, legate alla guerra o a grandi calamità naturali.

Si dovrebbe capire se è stata in grado di leggere i primi segni premonitori del tempo della guerra e di costruire programmi alternativi a esso o al contrario se si sono inseguiti gli eventi tappando buchi che sono rimasti sempre aperti. E si dovrebbe anche comprendere se la cooperazione legata alla lotta contro la povertà in tante parti del mondo si è accontentata di fare qualcosa oppure è stata capace di spezzare il grande nodo che unisce la povertà alla guerra. Fino a riconoscere nella povertà una dimensione costitutiva del tempo della guerra.

Se nel tempo della guerra, facciamo la scelta della cooperazione per la riconciliazione, affermiamo che la cooperazione è uno strumento per una grande politica, che pone al primo posto la pace, la giustizia, i diritti, la democrazia . La cooperazione non è il fine ma il mezzo, lo strumento non neutrale che è alternativo alla guerra per costruire un mondo più giusto. Cooperare significa lavorare insieme, Paesi, culture, continenti diversi, ad un comune disegno di pace e di riconciliazione. Lavoriamo insieme non per disegni di guerra ma per obiettivi di pace, senza i quali la giustizia è retorica, i diritti sono ideologia, la democrazia una vuota formula. La cooperazione ha inscritto nel suo Dna questa vocazione di pace. È vero che spesso questa parola è usata in modo neutro (si parla anche di cooperazione militare), ma in realtà la preposizione -con- indica un lavorare con gli altri che è l'alternativa alla cultura del nemico, contenendo in sé la cultura dell'incontro e non dello scontro. Sta qui il costruire ponti e l'abbattere muri, la formula lapiriana che meglio esprime la nuova cultura della cooperazione.

Essa contiene una pars destruens : la cooperazione come abbattimento dei muri culturali, politici, economici, spirituali che dividono i popoli. E una pars costruens : il costruire ponti di dialogo, di giustizia, di pace e di riconciliazione. Questo è l'esatto contrario del tempo della guerra, quando si innalzano i muri e si distruggono i ponti.

IL TEMPO DELLA GUERRA

Quando si parla di tempo della guerra si vuole indicare un tempo medio, non breve, di cui la guerra e la sua cultura sono la dominante. Questo non significa mettere al centro le guerre di cui quella dell'Iraq è la principale, ma non unica. La guerra diventa la chiave che attraversa tutti i rapporti: economico, militare, culturale e spirituale. Se davvero vogliamo combattere la povertà dobbiamo combattere la guerra, che uccide non solo perché uccide, ma uccide perché drena imponenti risorse, che potrebbero essere meglio utilizzate per fronteggiare pandemie, la siccità e la fame. Non si può lottare efficacemente contro la povertà senza avviare coraggiosi impegni nel campo del disarmo .

Ma in realtà il tempo della guerra impone il riarmo. La paura che ne è come l'anima spinge in questa direzione. Basterebbe confrontare la crescita esponenziale che è avvenuta in questi quattro anni dopo la distruzione delle due Torri. La paura ha reso possibile questa nuova corsa alle armi, che dopo la caduta del muro di Berlino si era progressivamente attenuata. Si combatte la guerra per sconfiggere la paura e in realtà la guerra stessa produce paura e a questa spirale corrisponde la spinta incessante agli armamenti come elemento insostituibile di sicurezza.

È singolare notare come la guerra inaugurata dal terrore sia una guerra tipicamente asimmetrica, nel senso che chi attacca usa mezzi radicalmente diversi da chi è attaccato, ma chi risponde usa i mezzi tipicamente tradizionali e usa questa guerra asimmetrica per giustificare enormi investimenti nei mezzi tradizionali della guerra.

E come se dovesse partecipare a una guerra tradizionale. Anzi più il nemico è oscuro e più cresce la domanda di una risposta tradizionale di mezzi militari.

In questo senso il terrorismo non solo uccide con il terrore ma anche imponendo questa corsa al riarmo, con il risultato di prosciugare molte risorse che potrebbero essere meglio utilizzate nella partita della vita e della giustizia per interi continenti.

Si potrebbe dire con una formula di Colin Powell: “ La guerra al terrore è legata a doppio filo a quella alla povertà” . Questo significa non solo che prosciugando i bacini della povertà si prosciuga il consenso al terrorismo, ma che nel medio periodo la lotta al terrorismo avviene combattendo la povertà e dunque investire contro il terrore significa non aumentare gli armamenti, ma ridurre gli armamenti per costruire progetti e programmi che diano futuro, sviluppo, diritti e democrazia a milioni di persone. Questa è la versione nel tempo della guerra della frase del profeta: trasformare le lance in falci e le spade in vomeri.

COOPERARE PER LA GUERRA, COOPERARE PER LA PACE

La cooperazione internazionale, che vuole essere strumento di riconciliazione, si deve misurare con questo orizzonte culturale e politico che attraversa popoli e conflitti. Non si può rimanere catturati solo in una logica economicistica o sviluppistica, che alla fine è la nuova faccia dell'umanitarismo compassionevole, che la destra proclama. Qualche aiuto purchessia. Oppure non si può rimanere prigionieri di una logica corporativa che ci spinge ad andare là dove ci sono fondi per progetti e dunque si inseguono i progetti per avere fondi. Basti ricordare in questi anni come le stesse guerre dal Kossovo all'Afghanistan sono diventate luogo di attività imponente di Ong, non per fare la pace ma per garantirsi il futuro. Solo pochissime hanno seguito una strada diversa e più feconda. Altre, addirittura, sono state parte della politica dei governi. Ricordiamo tutti a proposito dell'Afghanistan la polemica tra Emergency e il Ministero degli esteri.

La cooperazione per la riconciliazione è il nuovo orizzonte che fa della cooperazione il grande strumento per fare la pace e il fondamento di una nuova politica internazionale. È necessario attraverso la cooperazione costruire rapporti di partenariato non solo tra istituzioni locali ma anche tra governi nazionali in un disegno comune che valorizzi i popoli e le comunità come comuni protagonisti di un processo di pace, di stabilità, di sviluppo e di democrazia.

Nel tempo della guerra la cooperazione per la riconciliazione è l'unica che ha futuro , perché è capace di incidere e di operare a livello delle società, dei governi locali e nazionali, investendo sul futuro dei Paesi, perché ne accoglie la domanda più radicale che è quella di vivere nella pace.

Questa cooperazione mette al primo posto le persone e quelle più colpite, le vittime, piuttosto che un'astratta discussione sui modelli economici e sociali. La cooperazione per la riconciliazione nasce dalla domanda quotidiana di vita e di pace delle persone e delle comunità e a essa deve rispondere, altrimenti è un'operazione che parte e ritorna in occidente, da usare forse mediaticamente, ma incapace di costruire veri ponti di pace e di giustizia.

La cooperazione per la riconciliazione punta alla realizzazione del concreto riconoscimento dei diritti delle persone, in primo luogo delle vittime, come diritto alla vita, al futuro, che è fatta di scuola, di salute, come avvio e sostegno di un processo di autogoverno delle comunità locali e nazionali, che ha come suo punto di arrivo le forme della democrazia. Anche qui senza integralismi, rispettando le storie e le culture di popoli ed etnie. Basterebbe ricordare il peso che hanno nel continente africano i poteri tradizionali come punto di equilibrio per la prevenzione e il superamento dei conflitti tra le etnie e dentro le etnie.

Nell'orizzonte di una cooperazione per la riconciliazione è necessario scegliere i progetti di cooperazione, perché non è più possibile una qualsiasi cooperazione ma quella che prevenga i conflitti e li porti a un suo superamento. Il problema non è solo la grandezza di un progetto ma il suo valore aggiunto sul piano politico, il suo peso specifico in ordine all'ispirazione, la sua capacità di coinvolgere società e istituzioni.

LA SFIDA DEL PERDONO E DELLA RICONCILIAZIONE

Il perdono è una grande parola pubblica e politica. Essa si fonda sulla verità, cioè sul pieno riconoscimento delle responsabilità di ciascuno, di ciascun gruppo, di ciascun popolo verso il dolore dell'altro che è accanto a noi, dentro e fuori la comunità a cui apparteniamo. Questo riconoscimento di responsabilità, fatto in modo trasparente, crea le condizioni per il superamento dell'ingiustizia subita, permette di superare la cultura della paura e della diffidenza che anima sempre qualunque conflitto , crea le condizioni per una conversione profonda della politica, che ha generato e alimentato la violenza.

LA GUERRA VISIBILE E QUELLA INVISIBILE

A una lettura superficiale si potrebbe dire che tra la povertà di interi continenti e la guerra non c'è nessun rapporto diretto e significativo. Sembra che la guerra abbia precise responsabilità dirette da parte di governi e gruppi che la promuovono, mentre la povertà risale a cause di medio-lungo periodo non facilmente identificabili se non in termini generico ideologici. In realtà la situazione attuale è molto diversa. Ogni giorno muoiono ventimila persone a causa della povertà e delle malattie a essa connesse. Sette volte le vittime delle due torri. In un anno muoiono circa sei milioni di persone per lo stesso motivo. Nel 2004 sono stati investiti nel commercio delle armi 1.044 milioni di dollari, con un aumento del 20% in quattro anni. Nell'ultimo G8 dell'anno scorso è stato deciso di investire cinquanta miliardi in cinque anni per combattere le pandemie in Africa, dieci miliardi l'anno. Una cifra importante ma non commensurabile rispetto a quella impegnata nel commercio delle armi.

Queste cifre mostrano che tra la guerra visibile della guerra e la guerra invisibile della povertà certamente non c'è un rapporto automatico, ma un qualche rapporto c'è, nel momento in cui si investono enormi capitali nel mercato delle armi e si danno cifre poco più che simboliche per combattere la povertà. O per meglio dire si promettono cifre poco più che simboliche. Come sempre è accaduto, solamente una parte dei fondi promessi arriva concretamente a destinazione. Se poi si guarda agli impegni dei Paesi rispetto allo 0,70% del Pil stabilito dall'Onu e da tutti accettato, si rimane sgomenti con il nostro Paese all'ultimo posto della graduatoria con lo 0,11- 0,12%. Non si tratta solamente di violare gli standard Onu o di non rispettare delle statistiche: si tratta di percorrere la linea di una politica che uccide perché lascia andare alla deriva intere generazioni di Paesi e di continenti.

VITTIME E CARNEFICIL'esempio del Sudafrica mostra che l'esperienza della Commissione verità e riconciliazione ha innestato un percorso virtuoso, che ha evitato al Paese la guerra civile e il collasso sociale e ha promosso un nuovo tipo di convivenza. Il Sudafrica è diventato punto di riferimento dei Paesi attraversati da conflitti in tutta l'Africa. Un gruppo di intellettuali israeliani ha posto la medesima questione al governo israeliano, chiedendo un pieno e unilaterale riconoscimento delle sue responsabilità nel dolore e nella sofferenza del popolo palestinese. Questo aprirebbe spazi inediti e originali al processo di pace, perché sarebbe un contributo irrinunciabile al superamento della cultura della negazione dell'altro e della sua dignità.Il perdono rinvia sempre alle vittime, che hanno bisogno di perdonare, e ai carnefici, che hanno bisogno di essere perdonati. Questo tipo di giustizia riconciliativa cambia i rapporti all'interno dei popoli e tra i popoli e avvia processi di ricomposizione sociale e culturale del tutto imprevedibili. Quando la politica è violenta non basta il cambiamento della politica, è necessaria la conversione della politica. Cambiare politica non significa cambiare solamente i contenuti di superficie, ma lo stesso modo di pensare e di agire politicamente. La conversione della politica tocca il profondo delle scelte, gli abiti culturali attraverso cui leggere la realtà.Quando si dice che l'Europa investe di più su una mucca francese che su un bambino del Burkina Faso, si denuncia una grave stortura e si domanda un cambiamento, affermando innanzi tutto la violenza di una politica che uccide. Ma mettere al centro il bambino del Burkina significa rovesciare la politica, investire su uno sviluppo che abbia la misura del futuro di quel bambino, su una sanità che ne garantisca la vita contro tutte le pandemie, su istituzioni che producano una politica che metta al primo posto i suoi diritti al cibo, alla scuola, alla salute e alla pace, altrimenti non c'è futuro per lui. Questa è la conversione della politica e la politica come conversione da un passato che ha privilegiato gli interessi economici europei rispetto alla vita delle persone africane, in primo luogo i bambini. Questo crea le premesse per la riconciliazione tra gli Stati, tra i popoli e tra i continenti. È la vera alternativa alla guerra e al suo tempo. È possibile su queste basi costruire un nuovo partenariato euroafricano. La cooperazione è lo strumento di questa grande politica, che accetta la sfida del perdono per costruire riconciliazione. (da Missione oggi)

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Mercoledì, 20 Febbraio 2008 00:04

Guerra e mutamento (Rosalinda Gaudiano)

Guerra e mutamento

di Rosalinda Gaudiano


Il conflitto è un elemento costitutivo della dinamica sociale.

Quando esso costituisce operazione di scambio e di negoziazione e s'impone in positivo nei rapporti fra le persone e i gruppi, i mutamenti che ne derivano non sono causati da comportamenti violenti e sanguinari.

Il conflitto che invece da spazio a forme di violenza incontrollate, che sfociano in veri e propri atti di guerra o rappresaglia, è da attribuire ad un sentimento di deumanizzazione nei confronti dell'altro.

L'atto violento, sanguinario avviene, da parte di chi lo compie, in riferimento ad uno schema mentale che definisce la propria identità estendendo i fattori biologici fino a confonderli con quelli culturali [1]. Non vi è spazio per considerazioni d'appartenenza, non solo alla stessa cultura, ma anche alla stessa specie.

Processi umani caratterizzati da momenti di forte aggressività sanguinaria, non sono affatto frutto di tendenze naturali dell'uomo [2], essi scaturiscono solo da tendenze culturali che considerano la guerra l'unica soluzione a qualsiasi tipo di controversie.

Usare la guerra come strumento di "regolazione" di rapporti di potere è un'abitudine istituzionalizzata da parte di quegli Stati il cui popolo affonda le proprie radici in modelli culturali che giudicano l'aggressività bellica come forma di egemonia, supremazia verso chi si considera inferiore, non appartenente cioè alla stessa specie.

Purtroppo oggi assistiamo sempre più alla nascita di nuovi conflitti bellici che affliggono più parti del globo.

Ma ciò che è veramente preoccupante è l'autorizzazione alla violenza da parte di un organismo come l'O.N.U. nato per compiere ed agevolare azioni di Pace.

All'interno dello statuto dell'O.N.U., cap. 7, articolo 51, è menzionata la seguente dichiarazione: "Nessuna disposizione del presente statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la Pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da membri nell'esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quella azione che esso ritenga necessaria per mantenere e ristabilire la Pace e la sicurezza internazionale".

L'aggressione da parte degli U.S.A. alla periferia di Khartoum, dove è stata colpita e distrutta una fabbrica farmaceutica sospettata di produrre armi chimiche, è l'esempio di come uno Stato-Nazione usi la "violenza" in risposta ad un'eventuale violenza subita.

Forse nei prossimi giorni assisteremo ad un raid punitivo da parte delle forze Nato nel Kosovo.

Nonostante la Russia e la Cina abbiano obiettato all'ONU sull'uso della forza per risolvere la crisi nel Kosovo, gli Stati Uniti ribadiscono che l'intervento armato è previsto per metà ottobre. Il progettato attacco USA, conseguenza del rapporto di Annan che condanna le atrocità di Milosevic, le uccisioni a capriccio e tutti i possibili eccessi delle forze di sicurezza serba, servirebbe a scongiurare una gravissima catastrofe umanitaria.

Mi domando: possibile che l'O.N.U., organismo nato per garantire e costruire la Pace, legittimi interventi con la forza? In ogni conflitto le azioni più importanti non sono, forse, bloccare qualsiasi spargimento di sangue per comprendere le ragioni vere del conflitto siano esse di natura economica, di religione, o etniche?

Personalmente penso che la violenza, come azione umana, si è sempre dimostrata un fallimento. Tutti coloro che costituiscono forze di Pace devono convenire che ogni azione violenta genera momenti di disordine non governabile, dove il problema diventa proprio quella violenza che avrebbe dovuto esserne la soluzione.

Pace, da significato negativo che comunemente ha nell'accezione culturale: assenza di guerra, acquista significato positivo quando facciamo riferimento ad una politica costitutiva di modelli culturali riferiti a quei valori esclusivi al servizio dell'umanità [3].

Chi sostiene che politica e guerra fanno parte dello stesso continuum, commette un grande errore. E se questo modo di governare non sarà "rivisto", il nostro futuro come quello degli abitanti dell'isola di Pasqua [4], potrebbe appartenere agli uomini con le mani sporche di sangue [5].


Note

[1] Fabietti, Remotti, Dizionario di Antropologia Culturale, Zanichelli.

[2] Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Mondadori.

[3] Altan, Manuale di Antropologia culturale, Bompiani.

[4] Gli abitanti dell'isola di Pasqua, isolati nello spazio e nel tempo, se fossero stati capaci di articolare l'idea, avrebbero dovuto pensare che il mutamento delle circostanze esigeva una rivoluzione culturale.
La guerra non portò alcuna utilità alla gente di quell'isola della Polinesia. Quando in quel posto del Pacifico si adottò quel tipo di politica che predilesse soluzioni distruttive e incontrollabili, si rivelò essere la fine prima della politica, poi della cultura, ed infine della vita stessa. J. Keegan, La grande Storia della Guerra, Mondadori.

[5] Keegan J., La grande storia della Guerra, Mondadori.

Pubblicazioni Centro Studi per la Pace
Sito Internet - www.studiperlapace.it
Pubblicato in Dossier Pace
Religioni: sorelle, non nemiche

di André Chouraqui



Tutto è stato vissuto, detto e scritto sui conflitti che ancora oggi insanguinano il mondo. L'essenziale lo esprime la Bibbia nella descrizione del primo delitto, quello di Caino che uccide Abele (Genesi 4,8). Abele e Caino sono fratelli. Uno è pastore, l'altro agricoltore. Essi non accettano la loro diversità. Sono lacerati dalla gelosia fino al delitto. Data l'unità della razza umana, nata da un'unica coppia - Adamo ed Eva -, tutti gli umani sono necessariamente fratelli. Ogni omicidio è un fratricidio.
Si apre così la via al primo e al più difficile dovere dell'uomo o della donna: quello di accettare la propria differenza, origine di tutti i conflitti e di tutte le guerre. Il dialogo è possibile solo nell'accettazione primaria delle differenze dell'Altro. Io posso conoscere l'Altro e dialogare con lui solo nella misura in cui conosco e accetto la sua differenza, quella della sua persona, del colore della sua pelle, della sua razza, della sua lingua, della sua cultura, della sua religione, del suo carattere.
Il primo dovere dell'uomo nuovo sarà perciò di vincere l'infermità congenita che lo porta a rinchiudersi in se stesso nell'illusione di essere il centro e la misura unica dell'universo. Questa illusione ingenera tutti i conflitti tribali, nazionali, internazionali e, cosa forse ancor più grave, le guerre di religione che hanno insanguinato e seguitano a insanguinare il pianeta.
La loro estrema gravità deriva dal fatto che sono condotte nel nome di Dio. Si può venire a patti su interessi umani. Gli interessi di Dio non si contrattano. Di qui il carattere implacabile delle guerre di religione. Esse imperversano tuttora in ogni continente così come hanno imperversato in ogni secolo. Le peggiori sono probabilmente quelle che hanno contrapposto le religioni abramiche: giudaismo, cristianesimo e islam. Queste religioni adorano il medesimo Elohim. I loro testi sacri sono la Bibbia ebraica, il Nuovo Testamento e il Corano, che proclamano i medesimi valori di amore, giustizia e fratellanza universale annunciati dai medesimi profeti.
Ho sempre provato un senso di stupore e ribellione nei confronti dei conflitti nati dallo scontro di queste tre religioni, sorelle nemiche, che perpetuavano le loro guerre fratricide su qualunque frontiera e in qualunque secolo s'incontrassero. Ai loro occhi, i conflitti avevano cause tanto più irrefutabili quanto più erano inscindibili dalla loro identità. Per gli ebrei i conflitti, connaturati alla loro stessa identità, cominciano fin dai tempi più remoti e sono legati agli esili subiti.
Il regno d'Israele, distrutto dagli assiri nel 721 a.C., e il regno di Giudea, occupato dai babilonesi nel 586 a.C., costringono gli ebrei a imboccare la via senza fine dell'esilio, fino a quando i romani occupano il loro Paese nell'anno 63 prima dell'era cristiana e distruggono Gerusalemme nell'anno 70 della nostra era. In quell'occasione crocifiggono, secondo Tacito, circa 600 mila vittime e costringono i superstiti della guerra di Roma ad abbandonare il loro Paese conquistato per imboccare la via senza fine dell'esilio. Per salvaguardare le vestigia della propria identità perduta, gli ebrei non hanno altra scelta che quella di barricarsi nei loro ghetti. Lì riusciranno a salvaguardare la memoria della loro storia, i loro scritti, la loro lingua e i sogni dei loro profeti, tramandati nella Bibbia ebraica.
Il ritorno, pressoché contemporaneo, dei peggiori massacri della storia, quelli delle ultime due guerre mondiali, avviene nelle nostre generazioni, sotto i nostri occhi, nell'epoca dei mutamenti più radicali dell'umanità. Essa scopre con orrore i crimini, le omissioni e gli errori di cui si è resa colpevole e, contemporaneamente, la portata del suo genio che è in grado di penetrare i più reconditi segreti dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo.
Dipende dalla scelta di ognuno di noi se orientare il nostro futuro globale verso le distruzioni che minacciano il pianeta, oppure verso l'infinito di un nuovo futuro che il genio dell'uomo dischiude all'umanità. L'ostacolo più arduo su questa via d'innovazione consiste per l'uomo nel consentire il sacrificio della propria identità, senza il quale nessun futuro sarebbe per lui possibile sulla terra.
Paradossalmente le stesse religioni che sono all'origine dei peggiori conflitti della storia detengono anche, nei Dieci Comandamenti, la chiave del futuro. Esse sono unanimi nell'indicare questo testo come essenziale per il futuro dell'umanità, soprattutto in questo anno 2000, proclamato anno internazionale della pace dalle Nazioni Unite, che su iniziativa dell'Unesco hanno redatto un manifesto che sollecita tutti i Paesi del mondo ad aderire al Mouvement international pour la culture de la paix et de la non-violence, e ognuno di noi cittadini ad assumere nella vita quotidiana, nella famiglia, nel lavoro, nella nostra comunità, nel nostro Paese, l'impegno di: rispettare la vita, in particolare quella di qualunque persona senza discriminazioni né pregiudizi; respingere la violenza, fisica, sessuale e psicologica in particolare; liberare la nostra generosità; ascoltare per comprendere meglio; preservare il pianeta, difendendo l'equilibrio delle sue risorse naturali; reinventare la solidarietà.
A questi sei principi proclamati dal Manifesto dell'anno 2000 aggiungo una settima raccomandazione, invitando tutti coloro che si rifanno alla Torah, ai Vangeli o al Corano, a eliminare ogni reciproca barriera di misconoscimento e di odio. Cristiani, musulmani ed ebrei devono ritenersi particolarmente responsabili di questo Manifesto, che in ogni sua parte è implicito nel Decalogo.
Il nostro sogno, quello dei profeti di Israele, degli apostoli di Gesù Cristo, dei compagni di Muhammad, come pure dei fondatori delle Nazioni Unite, diventa ai giorni nostri un'esigenza politica. Essa condiziona non solo la sopravvivenza dell'umanità, ma anche quella del pianeta stesso, minacciato dalla corsa agli armamenti da parte di tutti i governi del mondo. In questo senso le religioni, che hanno agito da potente freno, potrebbero, con la loro riconciliazione e riunione, accelerare il cammino dell'umanità verso l'adempimento della sua unità originaria.
Un primo passo in questa direzione è stato compiuto durante lo storico pellegrinaggio di papa Giovanni Paolo II a Gerusalemme, in occasione della sua preghiera ai piedi del muro del pianto. L'ulivo della pace, piantato a Gerusalemme da un ebreo, un musulmano e dal Papa stesso, apre la prospettiva nuova di una sinergia fra le tre religioni un tempo concorrenti.

Pubblicato in Dossier Pace

Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

EBRAISMO

Più vicini a Dio, più luce ci sarà

di Rabbino David Sciunnach


DOMANDA

Dio è unico, le religioni sono tante, cosa sono ed a cosa servono?
La diversità fa anche la qualità, esistono tante vie per arrivare a Dio quante sono le persone.
Le religioni sono aspetti della realtà umana, tradizioni che Dio ha dato. Un racconto descrive le relazioni fra gli uomini, significativo anche per le religioni: «Se tutti stanno sulla tolda della nave non c’è problema; non è così se qualcuno viene lasciato senz’acqua da bere nella stiva. Per liberarsi non si preoccuperà di forare lo scafo, facendo affondare anche chi, sul ponte, si sente sicuro e vuole proteggere i propri privilegi».

L’ebraismo ha così tanti precetti, positivi e negativi, rivolti a Dio e al prossimo, che essere ebrei non è solamente una concezione religiosa, bensì un modo di vivere molto difficile. Suo fondamento è la Torah, già in sé un paradosso. È particolare, perché vi è scritta la storia del popolo ebraico, da Abramo fino alla morte di Mosè, e contiene i precetti; ma è universale, perché riguarda tutte le creature del mondo. Se Dio avesse voluto dare la bibbia solo a Israele, l’avrebbe iniziata con la sua storia e non con la creazione! Noè non era ebreo, eppure è scritto che un uomo giusto era nella sua generazione. Non è necessario essere ebrei per essere giusti e degni di entrare in paradiso vicino a Dio benedetto, ma bisogna essere persone rette.

I comandamenti che Dio ha dato all’umanità fondano la morale del mondo in cui ci riconosciamo. La morale ebraica viene dalla Torah, perciò è divina e immutabile. Dio sa dove l’uomo sbaglia, perché l’ha fatto lui, perciò gli ha posto degli argini. Esiste però anche la morale del mondo contemporaneo che cambia con le esigenze delle generazioni e dei popoli. Se fossimo veramente religiosi, cioè capaci di percepire la santità di Dio in ogni azione e creatura vicino a noi, il nostro rapporto con Dio e col prossimo sarebbe totalmente diverso. La pace sarebbe una conseguenza scontata.

Si guardano spesso i punti in comune tra le varie religioni, ed è davvero importante. Ma bisogna anche guardare le differenze, conoscendole si abbattono i pregiudizi. Sono la paura e la non conoscenza che ci fanno fare cose non giuste; quindi bisogna ampliare la conoscenza: è fondamentale.

A Milano abbiamo appena fondato il Forum delle religioni. Un traguardo enorme, con tutti i rappresentanti delle religioni: cristiani, ebrei, musulmani, buddisti, scintoisti. Ma è solo l’inizio di una reciproca conoscenza, da estendere alla base e non limitare ai vertici.

Il popolo di Israele è chiamato a essere popolo «eletto». Traduzione imprecisa. La radice della parola ebraica vuol dire «capace»... di distinguersi dagli altri popoli per l’osservanza dei precetti divini della Torah ed essere d’esempio.

Però siamo esseri umani e sbagliamo. In Israele si dice: la vita non è un pic-nic! Sarebbe bello se lo fosse, invece è spesso sofferenza. Che fa crescere e capire certe cose. Ci rendiamo conto dell’importanza di un bene o di una persona solo quando le perdiamo.

È così anche per la pace: dovremmo apprezzarla di più quando l’abbiamo, quando viviamo in un momento di pace. La pace biblica è una pace «completa». In ebraico le parole saluto, essere completi e Gerusalemme hanno la stessa radice, quindi c’è un legame fra di esse. Quando si incontra qualcuno in Israele il saluto, shalom, è augurio di poter essere completo, di non avere nessuna mancanza.

Tra gli esseri umani, quando due persone fanno pace, uno dei due ci rimette sempre. Nella bibbia non è così: nello shalom biblico entrambe sono complete e soddisfatte. Quindi l’augurio che bisogna farsi è quello di arrivare veramente a questo.

Riuscirci dipende da noi. Dio ha creato il mondo e poi ce l’ha dato, con le qualità per fare o distruggere. Il problema è che siamo sulla terra solo di passaggio, ma spesso ce ne dimentichiamo, pensando di essere eterni. Anche per chi vive a lungo la vita vola in un batter d’occhio. Non sta a noi finire il lavoro, sta a noi iniziarlo!

Il Talmud dice che chi salva una vita salva un mondo intero. È importante il contributo individuale: se accendiamo una luce, ciascuno ne accenderà altre e più vicini a Dio saremo, più luce ci sarà!

(da MC, gennaio 2007)

* Rabbino David Sciunnach, nato a Roma, si è trasferito in Israele, dove ha frequentato la scuola rabbinica. Nel 2000 è arrivato a Milano dove opera presso l’Ufficio rabbinico. Attualmente è assistente per il Tribunale rabbinico e per l’Assemblea Rabbinica Italiana. Ha pubblicato articoli e testi di preghiere ed è assistente dell’attuale rabbino capo di Milano, Arbib.


Il sentiero di Isaia

di Don Paolo Farinella *

Negli anni ‘50, Giorgio La Pira (sindaco di Firenze tra gli anni ‘60 e ‘70) girava il mondo avvertendo che tutte le guerre erano vecchi arnesi, perché il terzo millennio sarebbe stato il millennio dei bambini, dei monaci, dei poeti, dei poveri, degli artigiani... Lo diceva a tutti i potenti dell’epoca e proponeva la profezia del «sentiero di Isaia» (Is. 2,2-5). In essa Israele, per diritto e per grazia, ha il ruolo di guida dei popoli verso il monte del Signore: perché tutti imparino la Torah e disimparino l’arte della guerra, convertendosi a relazioni di pace.

In realtà tutto sembra andare al contrario. La guerra contro il terrorismo lo alimenta e ingrassa. Le elezioni, che avrebbero dovuto condurre i palestinesi alla democrazia, portano un estremista a esserne il capo. Si vuole la pace in Medio Oriente e Hamas ha nei suoi programmi la distruzione dello stato d’Israele che, per difendersi dagli attacchi, finisce per costruire un muro. Crescono violenza, illegalità e ingiustizia. La paura domina i giorni e le notti. Ma è solo la polvere che copre la superficie. Scendendo a un livello più intimo ci accorgeremo che i «segni dei tempi», i tempi di Dio che parla e ci chiede di essere segno visibile della sua immagine e somiglianza nel mondo, sono nell’ordine della profezia. Per capire come coglierli occorre intendersi sul significato delle parole che usiamo.

Il termine oggi più abusato e malinteso è «religione». La religione nasce dalla paura del limite umano, della morte: sentimento profondamente umano, che accomuna tutte le religioni. La divinità è percepita contemporaneamente come causa del proprio limite e come meta del proprio desiderio.

Spazi (templi/chiese) e tempi (sacrifici/liturgie) sacri sono il pedaggio che l’uomo paga in cambio della protezione divina. L’uomo religioso crede in un Dio, reale o immaginario, con cui viene a patti, pur di avere protezione, assistenza, sicurezza, garanzia. La forza della religione risiede nella tradizione, per sua natura ripetitiva, immobile, immodificabile e per questo rassicurante.

Fede è il contrario di religione. Nasce da un incontro personale e fisico con qualcuno con cui si instaura un rapporto di conoscenza e di sentimenti, che diventano comunione e scambio di vita. Non espressione di paura, ma atto di amore, la fede non è legata al tempo e allo spazio; quindi non ha bisogno di liturgie o di tradizioni e può essere vissuta ovunque, perché si fonda sull’esperienza personale. L’orizzonte dell’incontro non è più il cielo da scalare, ma la terra/umanità.

In questo senso ebraismo e cristianesimo si differenziano da ogni altra religione, perché presuppongono una fede in un Dio incarnato nella storia d’Israele e nella carne del Figlio di Maria.

Infatti, sul Monte Sinai Israele riceve non la legge, ma la Torah, cioè la persona stessa di Dio, che non si esaurisce nelle norme. Israele non riceve semplicemente una rivelazione, ma dialoga con Dio e la sua unicità consiste nell’identificazione del popolo con la propria religione. Risposero gli ebrei a una sola voce: «Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo». In questo sta la grandezza di Israele: si fida ciecamente di Dio; ed è questo Dio che deve annunciare al mondo, se questo mondo deve salvare.

Nel giorno dello Yom Kippur (giorno dell’espiazione), il sommo sacerdote entrava nel santo dei santi del tempio di Gerusalemme con gli abiti sacerdotali della solennità: sulla fronte portava la vite d’oro, simbolo dell’unità del popolo d’Israele; sul petto teneva l’efod, una stoffa rigida a forma di rettangolo su cui brillavano 12 pietre preziose, simbolo delle 12 tribù d'Israele; sulle spalle un mantello nel cui orlo inferiore erano cuciti 72 campanelli, simbolo dei popoli che abitavano la terra.

La liturgia nel tempio di Gerusalemme aveva queste tre caratteristiche: richiamava l’unità (vite d’oro), esprimeva la diversità (efod) e assumeva l’universalità, includendo anche i popoli pagani (campanelli). È tempo di riprendere questi temi e viverli nel nostro oggi.

(da MC, gennaio 2007)

* Paolo Farinella, biblista, giornalista e scrittore, ha esperienza dei rapporti fra le tre grandi religioni monoteiste e della realtà socio-politica nella quale sono inserite per aver vissuto a Gerusalemme dal 1998 al 2003.




Pubblicato in Dossier Pace
La pace fugge dal campo dei vincitori

di Raimon Panikkar




Intervista al filosofo,
chimico, teologo, figlio di madre spagnola e padre indiano. E' un misto
di varie culture e spiritualità. Una figura
agile ed elegante; il corpo lungo e sottile avvolto in una tunica
bianca. Il suo volto è abbronzato, ricco di un sorriso aperto e
immediatamente comunicativo.


Può darci una definizione di pace e guerra oggi?
“La nostra cultura tecnocratica, che attraverso il culto
dell’accelerazione ha trasgredito i ritmi naturali della natura e della
mente, ha prodotto una società che, oltre a non avere la pace, ne rende
difficile e urgente la realizzazione ai nostri giorni. Ciò non
significa che i tempi passati non avessero i loro problemi, dai quali
possiamo anche trarre lezione. Pace non vuole dire mantenere uno status
quo rivelatosi ingiusto. Non sto proponendo la guerra contro, ma
l’emancipazione dallo status quo e la sua trasformazione in un fluxus
quo, un muoversi verso un’armonia cosmica sempre nuova. Troppo spesso i
discorsi sulla pace tendono a diventare sogni idilliaci di un paradiso
ideale”.

I diversi nomi della pace
Lei parla di pace esterna e di pace interna e che è impossibile vivere senza entrambe. Può spiegarci il suo pensiero?
“È sconvolgente e pericoloso vivere in situazioni di guerra o di
conflitto di qualsiasi tipo. Il mondo è pieno di ingiustizie
istituzionalizzate e non, che distruggono la pace.
Dall’ultimo
conflitto mondiale, più di mille persone al giorno cadono vittime della
guerra, milioni sono i profughi nel mondo, i bambini che vivono
abbandonati sulla strada e la gente che muore di fame. Non dovremmo
minimizzare il dolore umano, ma se vi è pace interiore esiste ancora
qualche possibilità di sopravvivenza. Senza pace interiore la persona
si disgrega. Crimine, droga e molte altre piaghe individuali e sociali
derivano dalla mancanza di pace interiore. La pace è più che un’essenza
di conflitti armati. Se non c’è pace dentro di noi non vi può essere
nemmeno pace attorno a noi. La mancanza di pace interiore origina
competizioni che sfociano in sconfitte che innescano vendette di ogni
tipo dichiarate o meno. D’altra parte, non è possibile godere in
pienezza la pace interiore se il nostro ambiente umano ed ecologico
subisce violenza e ingiustizia. Viceversa, senza pace esteriore, la
pace interiore è solo apparente o superficiale o uno stato
esclusivamente psicologico di isolamento artificiale dal resto della
realtà”.

Lei afferma dunque che nessuna spiritualità autentica
può propugnare la fuga dal mondo reale e nessun saggio si può chiudere
nel proprio egoismo o nella proprio autosufficienza...

“Certo
occorre camminare nell’unità. La pace interiore produce la pace
esteriore e questa nutre la pace interiore. Analogamente, il disordine
interiore produce lotta esteriore e questa genera a sua volta la
degradazione interiore. La relazione è tuttavia sui generis. Non
abbiamo visto talvolta persone dotate di una misteriosa, affascinante
serenità in situazioni ingiuste e catastrofiche? Ma al contempo, non
siamo forse stati testimoni di depressioni inesplicabili in condizioni
di vita esternamente ottimali? Tutto l’universo è coinvolto nella
stessa avventura. La filosofia della vita intesa come “la sapienza
dell’amore” propria della vita stessa ci aiuta a superare la dicotomia
fra interiorità ed esteriorità e ci consente di godere della pace
interiore in mezzo a sofferenze esterne e di impegnarci ad alleviare le
ingiustizie senza perdere la nostra gioia interiore”.

La pace un dono, non una conquista
Lei dunque è favorevole alla lotta per la pace...
“Non si combatte per la pace; si combatte per i propri diritti o,
eventualmente, per la giustizia, ma mai per la pace. È una
contraddizione. I regimi che vengono imposti non rappresentano la pace
per chi li subisce, siano essi bambini, stranieri, poveri, famiglie o
nazioni. Noi accettiamo la pace come un dono, ma il dono della pace non
è un giocattolo. È una spinta, una aspirazione. La pace non è una
condizione pre-confezionata. Cristo voleva che noi ricevessimo la sua
pace, non voleva imporcela, né tantomeno voleva che noi la imponessimo
agli altri. La natura della pace è grazia, è dono. Noi scopriamo la
pace: è una scoperta, non una conquista. È frutto di una rivelazione:
possiamo sperimentarla come la rivelazione dell’amore, di Dio, della
bellezza della realtà, dell’esistenza della provvidenza, di un
significato nascosto, dell’armonia dell’essere o della bontà della
creazione, della speranza, della giustizia, o anche dell’amore puro di
chi ama…
La pace deve essere continuamente nutrita e persino
creata. Per raggiungerla non esiste ricetta né programma pre-costituito
possibile né tantomeno un ritorno allo stato primitivo, una volta che
l’innocenza è stata perduta. La pace la si ricrea ogni volta. È dono è
dovere”.

La vittoria non conduce alla pace
Nella sua relazione (...) lei ha affermato che la vittoria non conduce mai alla pace. Una provocazione?
"Ne sono testimoni gli ottomila e più trattati di pace (di cui siamo a
conoscenza) stipulati nel corso dei millenni della storia umana.
Nessuna vittoria ha mai portato una vera pace. Non si può ribattere
attribuendo la colpa di ciò alla natura umana, perché la maggior parte
delle guerre sono state fatte, e giustificate, come correzioni di
trattati di pace precedenti. Gli sconfitti, se non proprio i loro
figli, prima o poi emergeranno ed esigeranno ciò che era stato loro
negato. Nemmeno la repressione del male porterà a risultati permanenti.
La pace fugge dal campo dei vincitori, direi parafrasando Simone Weil.
La pace non è il ripristino di un ordine sovvertito: è costantemente un
nuovo ordine. È un fatto storico che la vittoria conduce alla vittoria,
non alla pace. Conosciamo bene gli effetti collaterali deleteri di
“vittorie” prolungate. Nonostante tutte le nostre distinzioni, la
vittoria è sempre quella di un popolo su un altro popolo o di una
persona su un’altra persona, e un popolo o un essere umano non è mai un
malvagio assoluto. A livello teorico non si può quindi dire che la
vittoria sia stata riportata sulle forze del male o gli errori o le
aberrazioni. Forse vorremmo solo distruggere il male, ma eliminiamo il
malfattore, vorremmo punire il crimine, ma puniamo il criminale”.

Disarmo militare e disarmo culturale

La guerra oggi la si combatte prima sui media poi sui campi di battaglia.

“Certo, dobbiamo disarmare le nostre rispettive culture insieme con (e
a volte anche prima) l’eliminazione delle armi. Le nostre culture sono
spesso bellicose, trattano gli altri come nemici, come barbari,
selvaggi, primitivi, pagani, non credenti, intolleranti e così via.
Inoltre in molte culture la ragione stessa è usata come arma: per
vincere e convincere.v Disarmo culturale non è solo una frase ad
effetto, ma, nella nostra attuale situazione, un requisito
indispensabile per garantire la pace e giungere a un disarmo duraturo.
Dobbiamo dire innanzitutto che non è puro caso se la civiltà
occidentale ha sviluppato oggi un arsenale di armi così terribile sia
per qualità che per quantità. È un qualcosa che inerente a questa
cultura che ha portato a una simile situazione: competitività, ricerca
di soluzioni “migliori” che non tengono conto della possibilità di
affrontare le cause e risolvere il problema alla base, e tutto ciò a
discapito delle arti, dei mestieri, della soggettività, noncuranza del
mondo dei sentimenti, senso di superiorità, universalità e così via. Un
esempio di questo atteggiamento è palese nel fatto che i discorsi dei
politici e degli intellettuali si concentrano esclusivamente sulla
riduzione degli armamenti trascurando questi temi più fondamentali. Il
disarmo culturale tuttavia è rischioso e difficile quanto quello
militare. Si diventa vulnerabili. È risaputo che la riduzione degli
armamenti è un problema fondamentalmente culturale. Il passaggio
dall’agricoltura, come modo di vita, all’agribusiness, come mezzo di
guadagno, potrebbe essere preso ad esempio di quanto vogliamo dire.
Disarmo culturale non significa voler ritornare alla vita primitiva, ma
presuppone una critica della cultura non solo alla luce di ciò che non
è andato bene in quella occidentale, ma anche nella prospettiva di un
approccio interculturale genuino”.

Religioni e pace

Le religione sono una via privilegiata verso la pace?

“La gente era disposta a lottare per la propria salvezza, prova ne sia
che molte delle guerre del mondo sono state guerre di religione.

Siamo testimoni oggi di una trasformazione della nozione stessa di
religione per cui si può affermare che le religioni sono modi diversi
di avvicinare e di acquisire quella pace che al giorno d’oggi è forse
uno dei pochi simboli universali. Summa nostrae religionis pax est et
unanimitas
(l’essenza della nostra religione è la pace e la concordia),
scrisse Erasmo in una lettera del 1522”.

Pubblicato in Dossier Pace
Martedì, 08 Gennaio 2008 00:48

La nonviolenza è lotta (Massimiliano Fortuna)

Antologia capitiniana

La nonviolenza è lotta

di Massimiliano Fortuna

Non ci si stancherà mai di ripetere che Capitini merita d’essere più letto, più diffuso. Contribuirvi costituisce un piccolo dovere filosofico, un comandamento laico che sono invitati a seguire quanti non vogliano arrestarsi alle contrapposte retoriche militariste e pacifiste, ma prender sul serio l’idea-azione di pace in tutte le sue scabrose complessità. Merito dunque a chi ci consegna oggi un nuovo strumento. Esce infatti per le edizioni Ets un’antologia di suoi scritti sulla nonviolenza, curata da Mario Martini, che nel corso di circa un decennio ha dedicato a Capitini numerosi interventi e dato alla luce non poche pagine divenute un riferimento critico imprescindibile.

Un’antologia che si va ad aggiungere a Il messaggio di Aldo Capitini (a cura di Giovanni Cacioppo, Lacaita, 1977), un tomo di grossa mole che tentava di accostare tutte le traiettorie seguite dal suo pensiero, ed a Opposizione e liberazione (a cura di Piergiorgio Giacché, Linea d’ombra, 1991, poi L’ancora del mediterraneo, 2003), imperniata sui risvolti autobiografici. Questo delle edizioni Ets è un volume agile, indubbiamente adatto a chi di Capitini intenda farsi una prima idea, che si propone di presentare le principali nervature della riflessione capitiniana sulla nonviolenza, la quale rimanda del resto all’interezza della sua biografia intellettuale, anzi proprio non può esserne scissa senza gravi fraintendimenti. E Martini cerca nell’introduzione (che appropriatamente si apre designando Capitini come il «massimo teorizzatore ed attuatore della nonviolenza in Italia, ma forse anche in ambito europeo») di richiamare sinteticamente tutti i cardini sui quali questa riflessione poggia, schizzando un panorama in cui le «premesse teoriche», già ben riconoscibili nel primo scritto del 1937, Elementi di un’esperienza religiosa, si saldano all’«impegno nonviolento», il cui vertice simbolico può ritenersi la Marcia della pace Perugia-Assisi, inauguratasi il 24 settembre 1961. Sarebbe però stato forse più opportuno fornire un apparato bibliografico delle opere (nelle indicazioni testuali all’inizio delle suddivisioni tematiche viene addirittura omesso il nome dell’editore), a maggior ragione considerando che, come anche il retro di copertina ci ricorda, i libri di Capitini sono oggi quasi introvabili. Ed, a questo proposito, verrebbe da chiedersi quanto occorrerà ancora aspettare prima di vedere una grossa casa editrice farsi carico della pubblicazione di almeno uno fra i suoi testi maggiori.

Che aggiungere su Capitini? Lo si legga, nient’altro. Si colga, se possibile, l’occasione di transitare dai brani selezionati in questa antologia all’interezza dei suoi libri (in una buona biblioteca qualcosa si trova, ma si contatti anche il Movimento Nonviolento di Verona), senza oltrepassarne con impazienza le insistite meditazioni filosofiche e religiose – quasi si riducessero ad un’appendice di scarsa rilevanza pratica, una vernice intellettuale di poca sostanza –, e il premio sarà l’accesso ad un universo denso di pensiero e di salutari “scosse” etico-politiche, l’incontro con parole capaci di ritagliarsi una luce purissima in mezzo agli automatismi bellici ed all’eccesso di pacifismo da centro sociale che attraversano i nostri giorni. Fra le tante queste: «La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto. La nonviolenza è guerra anch’essa, o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata. La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa. La nonviolenza fa bene a non promettere nulla del mondo, tranne la croce».



• Aldo Capitini, Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, a cura di Mario Martini, Ets, Pisa 2004, pp. 195, € 16 (www.edizioniets.com).

Pubblicato in Dossier Pace

Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

ISLAM

Il dialogo tra esperti non basta

di Camille Eid *

All’islam fanno riferimento 1 miliardo e 200 milioni di persone: un quinto della popolazione mondiale.

Islam deriva da una radice linguistica araba che indica sottomissione all’unico Dio (in arabo Allah): è il messaggio annunciato da tutti i profeti, da Abramo a Maometto. Al suo tempo (VI sec. d. C.), la penisola arabica era pagana e politeista e la Mecca ne era la capitale.

Il Corano, voce di Dio, raccoglie, non cronologicamente, i 24 anni della predicazione di Maometto. Per toni e contenuti, riferendosi a tempi e realtà diverse, le sure meccane sono decisamente contrapposte rispetto alle sure medinesi.

Nel primo periodo, predicando la giustizia sociale, Maometto forzatamente si scontra con la borghesia della Mecca, che lo perseguita. Quindi cerca alleati fra la «gente del libro», ebrei e cristiani, che lusinga con versetti del Corano pacifici e tolleranti sulla libertà religiosa.

Dopo l’Egira, la migrazione a Medina, città del Profeta, da perseguitato Maometto diventa potente guida politica e militare. Versetti a carattere giuridico e contradditori rispetto ai precedenti rispecchiano la nuova situazione di guerra ed espansione politica.

Poiché per un musulmano è peccato non citarlo alla lettera, qual è dunque il vero Corano? Quello spirituale o quello che è legge, sharia, e codifica tutte le sfere della vita? Problema di rilievo per gli stretti legami fra religione, stato e società nel mondo islamico: realtà ben diversa da quella del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».

Politicamente, fino al 1924, quando fu abrogato dal turco Kemal Ataturk, l’islam aveva il califfato (il califfo era il successore di Maometto), istituzione corrispondente al papato per i cattolici. Così oggi, in ogni stato, sono il grande mufti o l’ayatollah a emanare fatwa giuridiche sulle questioni poste dalla modernità: ad esempio, per chiarire se i kamikaze siano martiri o suicidi (l’islam vieta il suicidio). Mancando un’autorità centrale, la loro autorevolezza dipende dal seguito che raccolgono.

Negli ultimi 50 anni, i musulmani in Europa sono cresciuti da 800 mila a 19 milioni e pongono nuovi problemi. Se in Occidente un musulmano vede solo i vizi della società, pretende di imporvi l’islam, nato proprio per riportare l’umanità sulla retta via, dalla quale ebrei e cristiani si erano allontanati. Ecco perché la pace è possibile solo quando le identità sono chiare.

Le differenze dottrinali sembrano sottigliezze, ma non si può sottovalutarle. Teologicamente mai Maometto potrà essere un profeta per i cristiani. Lo è invece Gesù per i musulmani, che però non lo credono Figlio di Dio. Recedere da questa posizione sarebbe un tradimento, un’apostasia.

Poiché un musulmano fa parte della umma, la comunità islamica, il tradimento non riguarda un solo individuo, ma il gruppo e di conseguenza viene contrastato in modo molto forte.

Dunque l’Europa è un campo di addestramento alla convivenza. Il dialogo tra esperti, però, non porta da nessuna parte, se non è esteso a tutti i credenti.

Oggi non esiste un pericolo dell’islam, ma un pericolo nell’islam. La domanda che dobbiamo porci è quale sia la differenza tra religione e fondamentalismo.

Il mondo islamico è suddiviso in un 5% di moderati, un altro 5% di estremisti e un 80% di persone a metà fra queste due posizioni. Purtroppo è più facile si aggreghino al 5% di violenti!

Sono i musulmani che devono risolvere il problema. Possono riuscirci mantenendo distinte religione e politica e introducendo nelle loro società un maggiore rispetto dei diritti umani. È questo che dobbiamo chiedere loro.

(da MC Gennaio 2007)

* Camille Eid, giornalista e scrittore libanese, da anni in Italia, è un grande conoscitore del mondo arabo e islamico, particolarmente dei rapporti fra cristianesimo e islam. Collabora con varie testate cattoliche; è autore o co-autore di: Osama e i suoi fratelli, atlante mondiale dell’islam politico; Libano e Siria; Cento domande sull'islam; I cristiani venuti dall’islam.


DIFFONDERE L’ISLAM MODERATO

di Ali Schuet *

DOMANDA

Come si pone l’islam nei confronti di atei, agnostici, non praticanti? E cosa accadrebbe se in Europa i musulmani arrivassero al 51% della popolazione?
Il Corano dice che non c’è costrizione nella fede e la libertà deve essere garantita. Kafir, il termine che indica i miscredenti da combattere, ha un significato attivo. Si riferisce a coloro che operano per occultare la fede, mistificandola, e che attivamente contrastano chi la professa. Loro prototipo è l’Anticristo.
Non c’è una maggioranza musulmana che vuole governare in Europa in senso islamico. Una buona percentuale ne parla, ma è una posizione che sta cambiando, e su questi temi è in atto uno scontro durissimo nelle comunità islamiche.

In Europa i musulmani dovrebbero trovare ciò che l’Europa ha di positivo. Non è solo un problema d’identità e purezza, ma anche di spiritualità e cultura, che mancano sia in Occidente sia dove l’islam è dominante. Un tempo si costruivano con l’anima le cattedrali, ma anche le case. Si metteva l’anima in tutto quel che si faceva. In ogni ambito della vita si era in contatto con la dimensione cosmica, con Dio.

(...) Negli stati governati dall’islam, come anche in Europa, consideriamo più importante avere il cimitero separato, ma abbiamo perso il significato spirituale della nostra religione. La continua ripetizione: io, noi... è deleteria. Dimentichiamo che anche gli altri hanno gli stessi desideri.

Però quando si parla di scontro fra Oriente ed Occidente, mi chiedo: qual è l’Occidente? Dove comincia? Anche il cristianesimo è arrivato dall’Oriente ed è molto simile all’islam.

Nel Corano Gesù è osannato e definito «segno di Dio». È superiore a Maometto ed agli altri profeti, semplici mortali. L’islam non crede alla sua morte, e quindi neppure alla sua resurrezione, però lo crede asceso al cielo. Nel Corano si parla della seconda venuta di Gesù, che regnerà per 40 anni e guiderà contro l’Anticristo un esercito di musulmani, nel senso di sottomessi a Dio. Poi ci sarà il giudizio.

Gesù faceva miracoli: ridonava la salute, la vita... Maometto no: il suo vero miracolo è il Corano, visto che non sapeva né leggere né scrivere! Il Corano dice: trattatevi bene, non attaccate chiese, monasteri, scuole... Nella vita di Maometto diversi episodi testimoniano l’amicizia con i cristiani. Come il permesso di pregare nella sua moschea accordato dal profeta a ebrei e cristiani. Anche Giovanni Paolo II vi ha pregato a Damasco.

Nei testi c’è questo; poi nei fatti i comportamenti degli uomini purtroppo sono diversi e non sempre rispettano i precetti delle scritture.

La vera differenza col cattolicesimo è che l’islam non ha nulla di corrispondente al Vaticano. I mufti emettono verdetti giuridici (le fatwa) il cui valore dipende dal consenso che raccolgono e dal gruppo che le sostiene. Alla fine prevale l’opinione più diffusa, ma nessuno può mai dire che la propria è l’interpretazione giusta; e resta solo il Corano. Esistono quindi tanti diversi musulmani: arabi, turchi, marocchini, indonesiani... Anche in Italia ci si chiede: «Di quale moschea sei?».

Ed è vero che abbiamo problemi storico-politici. Le violente manifestazioni nei paesi islamici, in risposta all’offesa delle vignette su Maometto pubblicate in Danimarca, sono state evidentemente consentite, e volute, dai governi.

In Nigeria ci sono masse frustrate e ignoranti che non sanno neppure dove sia la Danimarca. In Siria non si può neppure parlare con un taxista senza che il governo lo sappia. È comunque un problema il fatto che i contrasti irrisolti interni agli stati trovino sfogo in questioni interreligiose. Si tratta di strumentalizzazioni politiche, finalizzate alla ricerca del consenso. È stato così anche a Timor Est e in Sudan.

Forse è proprio un vantaggio il fatto che non esista un solo islam, paradossalmente potrebbe essere un nemico pericoloso, soprattutto per la sua renitenza alle riforme!

Per chiudere devo però segnalare anche il disinteresse dei media a diffondere una cultura islamica moderata. Emarginato dall’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche d’Italia) perché critico sul terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre, quindi non fondamentalista, anche ai media non interesso più!

(da MC Gennaio 2007)

* Ali Schuetz, italo-svizzero, da tempo residente in Italia, di padre protestante, educato nel cattolicesimo, nel 1979 si è convertito all’islam. Per anni attivo nei centri islamici di Milano, già vicepresidente Ucoii, è responsabile dei rapporti col mondo cattolico, attivo nel dialogo interreligioso, pubblicista e consulente culturale.

Pubblicato in Dossier Pace

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