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Giovedì, 10 Novembre 2005 01:28

La pace dentro la guerra (Gad Lerner)

La pace dentro la guerra

di Gad Lerner

Da tempo non provavo una commozione così intensa. Quella donna che invoca Dio di maledire gli ebrei, fra le macerie della sua casa distrutta in Cisgiordania. E poi scura in volto come paralizzata dall'ansia durante il trasbordo al check point fra un'ambulanza con la mezzaluna rossa e l'altra con la stella di Davide. Infine, un dialogo sorridente, fra le tecnologie di un ospedale avveniristico di Tel Aviv, col medico israeliano felice di avere salvato la vita a un bambino palestinese. Quel fagotto dai grandi occhi neri, che la donna aveva disperatamente accudito con l'aiuto di pediatri della sua terra, coraggiosi e ironici anche nel dialogo con quegli "psicotici" degli israeliani.

E poi i volontari del centro Peres. Manuela Dviri, che si prodiga nel costruire relazioni di pace perché non riesce a star ferma, dopo che le hanno ammazzato un figlio soldato ventenne in Libano. Litigando con suo marito Avraham, incapace di far suoi l'ottimismo e la disponibilità al dialogo. Senza dimenticare l'angelo ispiratore di questo miracolo, il mio amico Massimo Toschi (ma lui obbietterebbe che l'angelo ispiratore è sua moglie Piera, dal cielo), che va e viene dalla Toscana, disposto perfino a sedersi su una sedia a rotelle pur di correre più in fretta.

Sto parlandovi del meraviglioso documentario realizzato da Unicoop sull'esperienza di un annodi "Saving childrens", molto semplice a dirsi, un po' meno a farsi: bambini palestinesi curati negli ospedali israeliani, dialogo permanente fra medici delle due sponde, famiglie che passano i posti di blocco e si riconoscono, umanità reciproca dentro la guerra, oltre l'odio.

Il documentario è un'avventura col cuore in gola. Anzi, è tutto suspense di operazioni a cuore aperto, merito di équipe scientifiche d'altissimo livello, messe in relazione con la miseria dei vicini-nemici. Tutto vero, niente fiction. Gli attori recitano sé stessi e narrano come si possa agire contro la guerra stando dentro la guerra. In questo primo anno di attività, finanziata dalla Regione Toscana e dalla fondazione Monte dei Paschi di Siena, fortemente voluta da Shimon Peres e dal suo Centro per la pace, dovevano essere curati 300 bambini palestinesi, fra gli ospedali di Gerusalemme e di Tel Aviv. In realtà, ne sono stati curati 700. Grazie all'impegno di altre regioni (Emilia Romagna, Umbria, (Calabria), dal 2005 in poi saranno mille all'anno.

Ci voleva una scintilla di fede e di speranza da fuori per accendere un'energia di pace già diffusa fra persone costrette assurdamente a odiarsi.

Ve ne parlo, con sincero entusiasmo, ben sapendo che l'azione umanitaria e l'impegno delle organizzazioni non governative in zone di guerra - e in particolare nell'inferno irakeno - oggi subiscono la battuta d'arresto del terrorismo e della militarizzazione del territorio.

Non dappertutto è ripetibile l'esperienza di "Saving childrens". Altrove bisogna ripensare il modo e il senso stesso della presenza volontaria dentro ai conflitti. Ci sono state inevitabili e dolorose ritirate. Ma la testimonianza di una cultura di pace, capace di coinvolgere direttamente la popolazione a partire dai bambini, resta l'unica via della speranza.

(da Nigrizia, dicembre, 2004, p. 74)

 
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Martedì, 08 Novembre 2005 00:22

La salvezza è la pace (Enrico Peyretti)

La salvezza è la pace
di Enrico Peyretti




«Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio ma da come parla delle cose terrestri, che si vede se la sua anima ha soggiornato in Dio», dice Simone Weil, citata dal teologo torinese Oreste Aime nel (...) convegno sulla salvezza nell’Ortodossia e nel Cristianesimo occidentale, indetto dal Centro di studi religiosi comparati Edoardo Agnelli. Sembra per lo più che i teologi ortodossi volino nei cieli, senza toccare terra. Sembra di ascoltare una spiritualità così unicamente concentrata in Dio da non vedere più il mondo amato da Dio. Ora, noi siamo in terra, e aspettiamo la Gerusalemme celeste che, nelle figure del libro dell’Apocalisse, scenderà sulla terra, e non saremo noi a salire dalla terra al cielo.

La salvezza che speriamo e attendiamo è oggetto di una speranza tutta formale, oppure comincia realmente e si può intravedere in parzialità e contraddizioni, ma in realtà incoativa, già in questo tempo? Soltanto la mistica e la liturgia sono profezia del mondo risanato, o non anche la vita quotidiana nell’amore per il prossimo, che certamente è parte essenziale del cristianesimo orientale?

Dio ci salva dal peccato. E il peccato in definitiva è ogni offesa al prossimo, ogni violazione della relazione umana, ogni atto di dominio e disprezzo, che oscurano il senso dell’esistenza e creano dolore e paura, cioè morte, non-vita. Il nostro stare col prossimo è la misura del nostro stare davanti a Dio. Il prossimo è il primo sacramento di Dio, che dunque è onorato oppure offeso in esso, e di esso Dio si fa difensore e vindice.

Non c’è storia della salvezza senza salvezza della storia, diceva Ellacuria. E per Sobrino non è solo nella vita dopo la morte, ma nelle opere del Gesù storico che si attua il regno di Dio. La salvezza si realizza e si fa conoscere nel mondo delle relazioni, ha detto nel convegno Yannaras: nelle buone relazioni. Se il peccato è inimicizia, offesa e violenza nella nostra relazione con l’altro, Cristo è l’uomo senza inimicizia, è l’uomo nuovo, nonviolento nell’umanità violenta, è lui la pace vissuta, che abbatte le divisioni, è l’uomo-per-gli-altri, è il Salvatore.

Salvezza nella storia, cammino fuori dal peccato, è ogni riduzione della violenza (in tutte le sue forme, dirette, strutturali, culturali, esterne ed interne), ogni passo di pace. La parte di pace che riusciamo a costruire, come «figli di Dio», con la sua azione in noi, che lo sappiamo o no, è la profezia nella storia della piena salvezza finale.

Poiché l’amore del prossimo è l’elemento comune e la misura di fedeltà in tutte le vive religioni umane, la pace è la salvezza che Dio (comunque lo conosciamo) costruisce in noi e con noi, su tutte le vie religiose e umane autentiche. Quando Aldo Capitini esprime il pensiero che la vita senza morte (la salvezza) comincia col non uccidere, dice questo. Per Panikkar la pace è il nuovo mito emergente (mito in senso positivo), è la nuova etica universale, quasi una religione comune, nel rispetto delle differenze (la pace è pluralismo, insiste Panikkar); la pace è un valore che giudica oggi tutte le etiche, filosofie, politiche e religioni. Ci sarà il compimento della vita umana, non ci saranno molte salvezze come molte sono le teorie della salvezza. La pace è il contrario del dominio, è la carità concreta, è rispettare e amare il valore dell’altro.

Bisogna che anche la salvezza cristiana impari ad esprimersi così. Ciò non toglie nulla a Dio. Non ci si salva senza Dio, ma neppure senza il mondo, e desiderarlo non è bene. Ci si salva nella pace, la quale va all’infinito, cominciando dai passi qui difficili ma possibili, passi profetici da riconoscere con venerazione.

La salvezza è la pace. E ciò non va capito come riduzione della salvezza a qualche buona e giusta azione politica umana, come se non ci fosse Dio nell’uomo che pratica la giustizia. Va inteso nel senso che la vita buona, fragile e preziosa, nostro compito quotidiano nel piccolo e nel grande, è segno nei nostri giorni della salvezza che, nonostante la forza del male, viene, verrà, e sarà pace piena.


(da
Il foglio, n. 294, settembre 2002)
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Un commento su Mt 22,15-22
Dio o Cesare?
 Il dovere della disobbedienza civile
di
François Vaillant



Se c'è una frase di Gesù citata per diritto e per rovescio nel corso dei secoli è la celeberrima: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Il più delle volte è stata interpretata come l'esistenza di una separazione fra due poteri: quello temporale e quello spirituale. «Date a Cesare quel che è di Cesare» dovrebbe implicate per ognuno l'obbedienza allo Stato, mentre «date a Dio ciò che è di Dio» dovrebbe consistere nella pratica religiosa senza alcuna interferenza che possa turbare l'integrità fra questi due poteri. Le parole di Gesù a proposito del tributo a Cesare assumono un significato completamente diverso se si ha l'onestà di non estrapolarle dal contesto in cui vennero pronunciate.

Siamo a Gerusalemme il lunedì successivo alla domenica delle Palme, Gesù ha appena scacciato i mercanti dal Tempio; … i farisei vanno e vengono in compagnia degli erodiani per tendere una nuova trappola al profeta di Galilea. Lo scopo dei farisei è sempre lo stesso: far cadere Gesù screditandolo agli occhi della folla. I partigiani della dinastia di Erode hanno come principale preoccupazione quella di adulare Cesare per poter vivere a loro agio in Palestina. I farisei superano qui la loro ripulsa nei confronti degli erodiani, il cui peccato di impurità è grande, perché sono dei collaboratori dell'occupante romano. Ma i farisei hanno un vantaggio immenso compromettendosi con questa gente una volta ogni tanto, perché se Gesù dicesse che non si deve pagare il tributo a Cesare, gli erodiani sarebbero nella posizione ideale per testimoniare davanti alle autorità romane sull'ostilità di Gesù nei confronti dell'imperatore. Se Gesù dice che bisogna pagare il tributo a Cesare i farisei sono ancora una volta vincenti, perché agli occhi del popolo Gesù apparirebbe come uno che accetta l'occupazione straniera e perderebbe ipso facto tutto il suo credito popolare. E ancora una volta la trappola tesa a Gesù sembra perfetta.

I farisei pongono a Gesù la seguente domanda: «Dicci il tuo parere. È lecito o no pagare il tributo a Cesare?» …. Gesù va dritto allo scopo per stabilire la verità: chiede di vedere il denaro del tributo, un fariseo si mette una mano in tasca e ne trae un denaro e presenta a Gesù questa moneta tenendola sul palmo della mano; Gesù la guarda senza toccarla … «Di chi è questa effigie e l’iscrizione?» chiede loro. «Di Cesare» rispondono in coro! Il denaro mostrato a Gesù reca l'effigie di Cesare con la seguente iscrizione: «Figlio del divino Augusto, pontefice massimo». Chi porta con sé questa moneta coopera di fatto al culto pagano reso al divino Cesare. …… Gesù non dice affatto ai farisei di pagare l'imposta, ma soltanto di rendere la moneta idolatra al legittimo proprietario. L'imposta è un contributo che si versa allo stato, non la restituzione di qualcosa … Gesù non prende posizione sul tributo da pagare o meno all'occupante romano; egli ordina soltanto ai farisei di smetterla di collaborare al culto del divino Cesare e il cessare questa collaborazione passa attraverso la restituzione di ciò che gli appartiene, vale a dire la sua moneta.

Avremmo torto se oggi interpretassimo quel «date a Cesare quel che è di Cesare» come un incitamento a pagare tutte le tasse, poiché aggiungendo nella medesima frase «date a Dio ciò che è di Dio» Gesù ci ordina di vivere compiendo azioni che onorano Dio. Poiché non è possibile onorare Dio compiendo degli atti che lo disonorano - a meno di essere ipocriti come gli scribi e i farisei -, il Vangelo costringe i cristiani a rompere certi legami con il mondo, e ciò vale soprattutto per il potere delle armi. I primi cristiani l'avevano capito perfettamente perché scelsero di essere obiettori di coscienza verso il servizio militare confermando in pieno la profezia di Isaia: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci: un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is 2, 4).

Ieri come oggi il Vangelo invita gli uomini di buona volontà a non collaborare con lo stato quando questo ordina di compiere atti contrari alle esigenze morali del Regno di Dio. Se alcuni teologi hanno abusato della frase «date a Cesare quel che è di Cesare» per obbligare la gente ad obbedire allo stato in qualunque circostanza, non si può fare a meno di constatare che essi citavano una frase di Gesù in modo parziale, senza tener conto né del contesto «né dei limiti che l'autentico bene comune fissa per l'esercizio di qualsiasi autorità, né del dovere di disobbedienza che può rendersi necessario in alcuni casi per motivi di coscienza». Citiamo qui una frase di P. Grelot che ha scritto pagine fondamentali sulla questione del tributo a Cesare.

(…) Se lo stato chiede ai cristiani di obbedire a leggi che, in coscienza, essi giudichino ingiuste in quanto contrarie all'etica nonviolenta del Vangelo, devono disobbedire a tali leggi. Come potrebbero infatti continuare ad onorare il Dio vivente se altrove accettassero di fare il male che viene loro richiesto? Non è certo perché l'espressione «disobbedienza civile» viene associata a Gandhi che si può pensare che tale concetto sia assente nel Vangelo. Al contrario, proprio come strategia di lotta la disobbedienza civile è ben presente. Quando non è possibile obbedire contemporaneamente alle istituzioni umane e a Dio, «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29).

(tratto da François Vaillant, La Nonviolenza nel Vangelo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1994, pp. 46-49)

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Martedì, 06 Settembre 2005 22:53

Guerra e pace nell' Ebraismo (Rav Roberto Della Rocca)

Guerra e pace nell'Ebraismo
di Roberto Della Rocca
rabbino capo di Venezia

Guerra e pace sono da sempre temi che assillano l’ebraismo.

Basta dare un’occhiata alla Bibbia per convincersi che di tanto in tanto ed anche con troppa frequenza siamo stati coinvolti in qualche guerra.

Lo stesso ingresso del nostro popolo nella Terra di Israele con Giosuè è stato contrassegnato da grandi e continue battaglie.

In verità le testimonianze bibliche della storia ebraica vedono come eccezionali i periodi di pace. Spesso la Bibbia ci racconta che la "terra è stata in pace per quarant’anni" (Giudici, 3:11, 5:31) oppure per ottant’anni (3:30) e questi intermezzi tra guerre furono evidentemente degni di essere registrati.

Quello che è vero per il popolo ebraico al tempo dei regni, è del resto vero per tutta l’umanità: ovunque la pace è sempre stata una parentesi fra molte guerre.

Tuttavia le norme ebraiche relative alla guerra presentano molte restrizioni e riserve. Nella sua opera "Mishnè Torah" nel trattato relativo all’istituto monarchico. Maimonide dedica diversi capitoli alle norme da osservare in guerra e alla guerra stessa. In sostanza Maimonide raccomanda che una guerra deve avere una sua giustificazione morale che però non può essere una giustificazione arbitraria ma deve essere sancita da una decisione del Sinedrio e non demandata alla esclusiva volontà del re; inoltre devono essere prese strettissime misure atte ad assicurare un trattamento umano al nemico anche allo scopo di preservare la stessa umanità e moralità ebraica.

Ed ancora secondo Maimonide non si deve muovere guerra contro alcuno al mondo prima che venga fatta un’offerta di pace conformemente a quanto è detto nel Deutoronomio (20:10): "Quando ti avvicinerai ad una città per combattere contro di essa, prima le rivolgerai un appello di pace".

Aggiunge Maimonide che quando si cinge una città d’assedio per conquistarla non si dovrà circondarla da tutti o da quattro lati ma solo in tre direzioni, lasciando la possibilità alla popolazione assediata di fuggire e, per chi lo desidera di salvarsi la vita … non si dovranno abbattere gli alberi da frutta nell’area adiacente, né si priverà la popolazione dei flussi d’acqua come è detto "non distruggere alcun albero" (Deuteronomio 20:19) e ciò si applica non solo per un assedio ma in ogni circostanza.

Secondo Maimonide il divieto include non solo gli alberi ma non si potranno rompere gli utensili, gli abiti, non si potrà gli edifici, chiudere i pozzi o distruggere il cibo (Hilchòt Melachim 6:7-10).

Queste norme, che vanno sotto il nome di "bal tashchìt", vietano appunto le distruzioni indiscriminate gli sprechi di risorse e l’inquinamento esse mostrano l’orientamento delle leggi ebraiche finalizzate ad evitare che la guerra ci svilisca e che quando siamo coinvolti nella violenza perdiamo la nostra umanità infliggendo ad altri forme di brutalità che nemmeno la guerra può giustificare.

Altra importante norma ebraica è quella che non bisogna mai godere della sconfitta dei nostri nemici. Nella celebrazione di Pesach quando ricordiamo la vittoria sui crudeli oppressori egiziani, in tutti i nostri canti non vi è una sola parola di gioia per la distruzione del nemico. Al contrario negli ultimi sei giorni della festività recitiamo solo metà Hallel (Salmi, 113-118) perché il Signore disse agli angeli: "… Le mie creature stanno annegando nel Mar Rosso e voi intonate canti di lode?"

Gli egiziani ci perseguitarono, essi furono nemici mortali eppure anche le loro vite erano preziose vite umane. Per quanto odioso sia un nemico, non si ha mai il diritto di gioire per la sua caduta. "Non gioire quando il tuo nemico cade" (Proverbi, 24:17). Per la stessa ragione quando nel Seder di Pesach enumeriamo le dieci piaghe inflitte agli egiziani, versiamo una goccia di vino fuori dai nostri bicchieri per mitigare la nostra allegria con la triste constatazione che la nostra liberazione è costata la sofferenza da altri esseri umani.

Il nostro bicchiere di felicità non può essere stracolmo, se la nostra libertà ha comportato una tragedia per altri, siano essi pure nostri acerrimi nemici.

Quindi la guerra non è mai stata vista come prima o desiderabile soluzione ai conflitti umani. A David, re di Israele, Dio non consentì la costruzione del Tempio, rimandata al figlio Salomone: "… Tu non costruirai il Mio Tempio, una Casa per il Mio Nome poiché tu sei un uomo di guerra e hai sparso sangue…" (Cronache, 22:8; 28:3). Le guerre condotte da David furono certo guerre giuste ma per quanto giusta sia una guerra chiunque vi sia rimasto coinvolto non è qualificato per costruire un tempio a Dio, poiché il Tempio è simbolo di pace.

La pace è il supremo ideale ebraico: nella visione profetica il centro focale di tutte le nostre speranze messianiche risiede nella pace universale.

In ebraico si dice "shalom". La parola si rifà alla radice "shalem" che dà l’idea di completezza e di interezza. Non vi è completezza in n mondo lacerato dalla guerra e dall’intolleranza.

Per la pace, dicono i Maestri (Trattato Derech Eretz Zutà cap. 9) si può anche mentire e secondo Rabban Shimon ben Gamliel, il mondo si regge su tre cose: la verità, il giudizio e la pace (Trattato di Avòt, 1:18). La verità e il giudizio sono i requisiti essenziali e la più sicura salvaguardia per il mantenimento della pace. La massima sopraccitata di Rabban Shimon ben Gamliel viene così commentata nel talmud: "…Le tre cose in realtà sono una sola: se il giudizio è eseguito, la verità è rivendicata e ne risulta la pace…".

Nessuna benedizione può essere tale se non vi è la pace che la completi e la attui pienamente.

Nella tradizione ebraica dunque la pace è un punto centrale dell’esistenza umana; ogni sforzo deve essere teso al suo raggiungimento, nulla va tralasciato per scongiurare la guerra. La guerra è il male più grande che può toccare l’uomo perché lo sminuisce e lo disumanizza, cancellando la sua componente divina. Ogni ebreo al termine della Amidà, parte principale delle tre preghiere quotidiane, recita la formula: "… Concedi una pace buona su di noi…". La pace non è tale se solamente tacciono i cannoni, perché sia completa dovrà essere buona. Se tacciono i cannoni è già un gran successo, ma è solo il punto di partenza verso la buona pace, che sarà prima di tutto rispetto per ogni persona.

Sempre presente dunque è nella mente dell’ebreo il concetto di pace come bene supremo, dono di Dio, emanazione diretta dell’Eterno tanto che la parola "shalom" pace è divenuta il saluto abituale dell’ebreo quale espressione di buon augurio, conformemente a quella massima rabbinica che cita: "… Sii tu il primo a porgere lo shalom a qualsiasi persona… " (Trattato di Avòt, 4:15).

Tratto dal sito www.morasha.it


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Siamo chiamati ad elaborare
una nuova cultura di pace
di Massimo Toschi




Noi sappiamo che nel secolo XX la guerra è radicalmente cambiata. Dalla guerra di Spagna non c'è più lo scontro tra eserciti, ma il vero e sempre più crescente obiettivo diventa l'uccisione deliberata dei civili. Nelle guerre combattute dal 1945 ad oggi sono stati uccisi 25 milioni di civili. Negli ultimi dieci anni, su 100 morti nelle decine di guerre in atto, 7 sono militari e 93 civili, di cui 34 bambini. Sempre più le guerre non finiscono con la firma di un trattato, perché le mine anti-uomo continuano a ferire e a uccidere ben oltre gli armistizi, e l'inquinamento ambientale prodotto dalle bombe ha effetti devastanti sulla vita della popolazione civile sopravvissuta, com'è avvenuto nel caso dell'Iraq, nel caso Kosovo e probabilmente nella stessa vicenda dell'Afghanistan ancora in atto.

Il magistero di Giovanni XXIII

È questo orizzonte che spinge Giovanni XXIII nel 1963, con la Pacem in terris, non solo a porre fine alla teologia della guerra giusta, ma anche a rifiutare in radice ogni futura possibilità di guerra. Dice Roncalli, in quello che appare il suo testamento, che, scritto due mesi prima di morire, è la pienezza della sua parola per la chiesa e per il mondo: "Riesce impossibile pensare (alienum est a ratione) che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia". Egli comprende con assoluta chiarezza che l'era atomica cambia totalmente la qualità della guerra, non solamente nel senso che viene aumentata in senso geometrico la sua potenzialità distruttiva, ma che a causa di questo i civili e la loro uccisione diventano l'obiettivo primario dell'azione militare. Questo è stato vero a Hiroshima, ma anche in tutte le guerre successive, dove pure non è stata usata direttamente la bomba atomica. Questa intuizione porta papa Giovanni a spezzare definitivamente il legame tra guerra e giustizia: la guerra senza aggettivi, dunque ogni guerra.

Egli non contrappone dottrina a dottrina, ma, leggendo in profondità la storia, assume e fa proprio il grido muto delle vittime innocenti che la guerra sempre produce. È da qui che viene la sua consapevolezza della pace come parola assoluta e indivisibile, che contiene in sé l'unità e la radicalità di tutto il Vangelo. Questo grido diventa come il segno dei tempi che domanda alle chiese di convertirsi, di chiedere perdono per aver giustificato la guerra, di comprendere meglio il Vangelo della pace.

Oltre la dottrina sociale

Il Concilio è stato l'evento per mezzo del quale Giovanni XXIII ha rimesso il Vangelo al cuore della storia e ha chiesto alla Chiesa di vivere il servizio all'Evangelo, condividendo la sorte e il patire dei popoli, in particolare di quelli più piccoli e più poveri. Perciò la pace ha abbandonato per sempre i capitoli della teologia morale e della logora dottrina sociale, per tornare ad essere luogo decisivo della confessione della fede.

La Parola di Dio deve essere assunta come sostanza viva e vitale di tutto quello che la chiesa e i cristiani sono chiamati a dire sulla pace. Questo avviene quando le vittime hanno autorità sulla chiesa che legge la Scrittura.

Così si comprende con assoluta chiarezza che la pace è al cuore della cristologia, la pace è una persona, è Gesù nella totalità del suo mistero. Dunque la pace evangelica è coestensiva alla presenza del Messia povero e pacifico in tutta la storia degli uomini. In questo senso la centralità assoluta della pace diventa coestensiva alla centralità assoluta dell'Eucarestia. E la pace e l'Eucarestia diventano coestensive nel mistero della Vittima, che nella storia si rivela nel volto concreto delle vittime della violenza. E la loro voce che la chiesa deve assumere, è a partire dal loro grido che essa è chiamata a comprendere meglio il Vangelo della pace e a testimoniarlo in debolezza, senza appoggi e sostegni umani.

Nasce da qui il drammatico senso di responsabilità e di coerenza spirituale che non fa indietreggiare la chiesa e il credente di fronte alle conseguenze della fedeltà all'Evangelo, riletto dentro i conflitti della storia.

Se la guerra, ogni guerra è l’antivangelo, nessuna guerra può essere più giustificata dal punto di vista della fede, né quelle compiute contro il diritto internazionale, né quelle avvallate dalle organizzazioni internazionali, neanche quelle costruite con l'avvallo di una mozione dell'Onu. Questo significa percorrere altre vie per risolvere i conflitti internazionali, per piegare dittature e regimi violenti, per combattere il terrorismo. Arrendersi alla cultura della guerra come extrema ratio, significa fare della guerra la ratio di ogni politica. A maggior ragione con la guerra preventiva, quando essa diventa la prima ratio di ogni politica, e dunque il fallimento e la sconfitta della politica.

A tutto questo la chiesa e i cristiani partecipano, testimoniando l’alterità del Vangelo ad ogni guerra e ad ogni sua giustificazione. [……]

Uuna nuova cultura della pace

Elaborare una nuova cultura di pace è compito di molti. Ciascuno è chiamato a portare l'originalità del suo pensiero, la ricchezza della sua tradizione culturale e spirituale. Anche le chiese e i cristiani non possono sottrarsi a questa fatica. Ecco alcuni punti essenziali da cui partire:

1) il non uccidere

La parola biblica deve di nuovo assumere tutta la sua forza profetica. Si spezza davvero il circolo della violenza quando si decide di dare la vita per i nemici. Dunque il non uccidere i nemici ha il suo punto d'arrivo nel dare la vita per essi. Solo così la violenza non diventa più padrona della nostra vita. Quando si uccide, anche se questo avvenisse per un motivo giusto e nobile, si moltiplica l'odio e l'inimicizia nel mondo e dunque si rilancia la causa della violenza, di quella violenza che vorremmo colpire e reprimere.

2) il fare la pace con mezzi pacifici

Sta qui la grande questione della nonviolenza attiva. La pace non può essere costruita con qualunque mezzo: dev'essere costruita con mezzi coerenti con il suo fine. Tutto questo porta a rifiutare i mezzi violenti, le armi, a maggior ragione le armi con devastante potere distruttivo. Oggi, rispetto a cinquant’anni fa, si può dire che il regime sovietico, come diversi regimi autoritari in Asia e America latina sono caduti, senza uso delle armi o della guerra. Lo stesso muro di Berlino, che è stato il simbolo dell'inimicizia e del mondo diviso in due, è caduto a partire dalle manifestazioni nonviolente dei giovani evangelici della Germania Est. Il regime dell'apartheid in Sud Africa si è frantumato quando Mandela ha scelto la nonviolenza.

Tutto questo ci dice che sono possibili altre vie rispetto all’azione militare, alla violenza e alle armi. I regimi autoritari spesso sono rafforzati dalla guerra, mentre sono sempre destabilizzati dal dialogo della nonviolenza, che punta non a distruggere, ma a cambiare le coscienze. Se pensiamo per un attimo alla Palestina, è sempre più chiaro oggi che l'affermazione dei diritti dei palestinesi non passa attraverso il terrorismo o l'insurrezione militare. Il terreno delle armi e delle azioni militari sta sfigurando l'anima e il cuore d'Israele, ma la lotta violenta, promossa da molte organizzazioni politiche dei palestinesi, ha ottenuto l'unico risultato di distruggere la vita e la speranza di un popolo. …

3) stare nella storia dalla parte delle vittime

Quando si legge e interpreta la guerra dalla parte di un computer o di una sala ovale o dalla stanza dei bottoni o di una facoltà di teologia o di un palazzo di curia, è facile dimenticare che oggi la guerra significa, prima di tutto e innanzitutto, uccidere delle vittime innocenti, che sono l'obiettivo deliberato di ogni azione militare.

La guerra diventa impossibile se siamo capaci di guardare il volto dei bambini delle donne, degli anziani iracheni o afgani o di qualunque altra parte del mondo. Il loro volto e la loro sofferenza invocano pace non guerra. Il loro patire diventa il discernimento più grande sulla guerra e sulle sue apparenti e sofisticate ragioni.

4) il perdono e la riconciliazione

Solo una cultura del perdono e della riconciliazione può sanare le ferite dell'inimicizia e dell'odio. L'esperienza del Sudafrica con la “Commissione sulla verità e la riconciliazione” ha indicato una strada decisiva per fare la pace. Non la via della vendetta, che mai costruisce, ma quella del riconoscimento del dolore dell'altro, il confessare la propria colpa rispetto ad esso. Allora ci si accorge che la divisione non passa più tra bianchi e neri, ma all’interno del cuore di chiunque abbia condiviso la violenza contro il fratello. Questo apre un processo profondo dì ricomposizione del tessuto della vita comune, senza il quale l'odio non è sconfitto.

Una strada analoga dovrebbe essere con coraggio intrapresa nei Balcani, per spezzare il muro di separazione delle coscienze, ancora oggi molto evidente. Lo stesso accadrà tra israeliani e palestinesi, se davvero avranno il coraggio di scommettere sulla pace, che nasce dalla fiducia e non dal potere delle armi.

Sono quattro punti. Indicano la ”via stretta della pace” senza la quale non c'è futuro. Si legge nell'introduzione della Leggenda Maggiore, a proposito di Francesco d'Assisi: "Angelo della vera pace, anch'egli a imitazione del Precursore, fu predestinato da Dio a preparargli la strada nel deserto dell'altissima povertà e a predicare la penitenza con l'esempio e la parola".

Le chiese oggi sono chiamate ad essere angeli della vera pace, facendosi povere, ponendo la parola della conversione e imparando dalle vittime. Ci sono già cristiani che indicano, con la loro vita e con la loro morte martiriale, questa strada.

(in L’Angelo della Pace, Il Vangelo nel tempo della guerra, Brescia, Quaderni di Missione Oggi, Ottobre 2002, pp. 2-7)


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Disarmare il terrorismo. Ma come?
di Giuseppe Scattolin


 



La questione "terrorismo" è complessa e nessuno ha in mano la soluzione pronta. Su questo non ci piove. Occorre, quindi, diffidare di tutti coloro che si presentano come "i risolutori del problema", di qualunque estrazione politica essi siano. Spero di non aver dato, nei miei interventi passati, l'impressione di avere la soluzione in tasca. Non è stata questa la mia intenzione.

Credo, però, che la violenza non faccia che esasperare le situazioni, e sono convinto che, se si vuole una soluzione a lungo termine, occorre operare in profondità per cambiare la mentalità delle persone e prevenire lo scatenarsi della violenza stessa.

Hitler, in ultima analisi, ha rappresentato un fenomeno molto limitato di esasperazione del nazionalismo tedesco... e che danni ha prodotto! Noi, oggi, abbiamo a che fare con un mondo islamico di più di un miliardo di persone e in grande espansione. Gli interventi vanno ben calcolati e non fatti all'avventura, come in Iraq, esasperando le situazioni.

Il problema di fondo è come fare perché il mondo islamico divenga parte positiva del mondo globalizzato, e non rimanga invece ostaggio delle correnti più chiuse ed estremiste. È a questo livello che va impostato un discorso culturale serio, soprattutto con i responsabili di quel mondo. Sono questi, infatti, che formano le coscienze della gente e possono, pertanto, contribuire a creare una visione nuova all'interno dell'universo musulmano, aprendolo positivamente alla collaborazione con il resto dell'umanità.

È proprio a livello di discorso culturale che noto una grande e grave mancanza da parte sia delle nostre società occidentali sia dei responsabili del mondo islamico, intellettuali in primo piano. Per evidenti interessi economici, la politica delle nostre società occidentali ha favorito i regimi e le correnti più fondamentaliste islamiche, lasciando il mondo musulmano in balia di una propaganda sempre più militante e ostile al resto del mondo. Pochi poi sono stati gli intellettuali musulmani che si sono impegnati seriamente a liberare le loro società dalla presa di tali correnti fondamentaliste (ben manovrate politicamente), disposti anche a pagare con la propria vita questo impegno per la libertà della persona umana, diventando così non "martiri di Dio" (i shuhada' di una certa tradizione islamica, in realtà martiri di un Dio assai tribale), ma "martiri per la libertà della persona umana" (salvando, in tal modo, l'immagine di Dio impressa in essa e rendendo il vero culto al Dio unico, che è il Dio di tutti).

Il dialogo interreligioso e interculturale va sviluppato a tutti i livelli: dall'impegno pratico per opere di cooperazione fra popoli e società (in questo campo esistono molte iniziative valide) fino a uno scambio culturale più profondo, in cui si è pronti a mutare la visione che si ha di se stessi e degli altri. Si deve essere pronti a fare un'autocritica della propria storia e a vedere il positivo che c'è negli altri, a comprenderli e rispettarli nella loro differenza. Solo così si potranno trovare campi di collaborazione e convivenza, basati su una nuova coscienza della persona umana, dei suoi diritti e dei suoi doveri - diritti e doveri che devono essere universali e eguali per tutti.

Dopo una storia di guerre e stragi immani, il mondo occidentale sembra essersi definitivamente avviato su una strada diversa (anche se non mancano problemi e riflussi). Oggi, esso dovrebbe (e potrebbe) aiutare gli altri popoli a porsi nella medesima direzione, per evitare gli errori da noi commessi e per dare vita, insieme, a un vero umanesimo universale.

Questa è la grande sfida del nostro secolo. Spetta a tutti raccoglierla. Soprattutto ai credenti in un Dio che è Amore e, quindi, un Dio di tutti.

(da Nigrizia, novembre 2004)
Pubblicato in Dossier Pace

Francesco e le vie della pace
di p. Hermann Schalück OFM


La riflessione che vogliamo fare si situa in un contesto storico particolare, segnato da forti tensioni da intensi bagliori di guerra. (…) La situazione irrisolta nell'Afghanistan e la minaccia della nuova guerra contro l'Iraq interrogano, in maniera inquietante, sulla volontà che muove gli uni e gli altri a non proporre nessun altra possibilità che lo scontro tra le culture e l'uso delle armi. (…) La nostra fede nel Dio della bontà e della pace, creatore di tutti, ci scuote dal torpore della violenza inevitabile (o meglio, presentata tale) e ci pone di fronte alla necessità di camminare insieme. (…) L'altro, chiunque egli sia, è figlio del Padre celeste, è uno per il quale Gesù Cristo ha dato se stesso; quindi è un fratello. (…)

In un eremitaggio situato sopra Borgo San Sepolcro, venivano di tanto in tanto certi ladroni a domandare del pane. Costoro stavano appiattati nelle folte selve di quella contrada e talora ne uscivano, e si appostavano lungo le strade per derubare i passanti.

Per questo motivo, alcuni frati dell'eremo dicevano: «Non è bene dare l'elemosina a costoro, che sono dei ladroni e fanno tanto male alla gente». Altri, considerando che i briganti venivano a elemosinare umilmente, sospinti da grave necessità, davano loro qualche volta del pane, sempre esortandoli a cambiar vita e fare penitenza.

La situazione descritta è emblematica, comunque traducibile nel mondo globalizzato. Uomini rintanati nel bosco si procurano da mangiare facendo del male ad altri. Le reazioni suscitate sono diverse: c'è chi si oppone loro, forte del principio (rubare è male), c'è chi talvolta condiscende, considerando che sono persone nel bisogno (hanno fame e domandano umilmente). Oggi forse si potrebbe pensare a una terza reazione: cercare di eliminare i ladri, cosicché non facciano più del male. (…)

Ed ecco giungere in quel romitorio Francesco. I frati gli esposero il loro dilemma: dovevano oppure no donare il pane a quei malviventi? Rispose il santo: «Se farete quello che vi suggerisco, ho fiducia nel Signore che riuscirete a conquistare quelle anime». E seguitò: «Andate, acquistate del buon pane e del buon vino, portate le provviste ai briganti nella selva dove stanno rintanati, e gridate: “Fratelli ladroni, venite da noi! Siamo i frati, e vi portiamo del buon pane e del buon vino” Quelli accorreranno all'istante. Voi allora stendete una tovaglia per terra, disponete sopra i pani e il vino, e serviteli con rispetto e buon umore. Finito che abbiano di mangiare, proporrete loro le parole del Signore.

Chiuderete l'esortazione chiedendo loro per amore di Dio, un primo piacere, e cioè che vi promettano di non percuotere o comunque maltrattare le persone. Giacche, se esigete da loro tutto in una volta, non vi starebbero a sentire. Ma così, toccati dal rispetto e affetto che dimostrate, ve lo prometteranno senz'altro.

E il giorno successivo tornate da loro e, in premio della buona promessa fattavi, aggiungete al pane e al vino delle uova e del cacio: portate ogni cosa ai briganti e serviteli. Dopo il pasto direte: “Perché starvene qui tutto il giorno, a morire di fame e a patire stenti, a ordire tanti danni nell'intenzione e nel fatto, a causa dei quali rischiate la perdizione dell'anima, se non vi ravvedete? Meglio è servire il Signore, e lui in questa vita vi provvederà del necessario e alla fine salverà le vostre anime”. E il Signore, nella sua misericordia, ispirerà i ladroni a mutar vita, commossi dal vostro rispetto ed affetto».

Francesco suggerisce ai frati di entrare in dialogo con i "ladroni" con passi successivi: andare incontro a loro là dove si trovano, portare loro ciò di cui hanno bisogno, rivolgere loro la parola. In altre parole, occorre escludere ogni pregiudizio, ogni precomprensione negativa, così da proporsi in modo amabile, rispettoso, "cortese", non aggressivo. (…)

Il nostro mondo globalizzato conosce contrapposizioni pianificate, con un'estensione e una virulenza pari a quella dell'accresciuto avanzamento della tecnologia. Lo stabilizzarsi di logiche di conflitto e l'aprirsi di sempre nuovi scenari di guerra ci dicono come sia faticoso, e possa apparire arduo se non talvolta utopistico, lo sviluppo di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità. (…) Si tratta di avere uno sguardo pieno di amore e contemplativo sulla realtà, sulle speranze e paure e minacce che segnano il cuore dei nostri contemporanei; di camminare verso e con loro, verso e con i poveri e i deboli; di avere il coraggio di riflettere radicalmente sui modelli di pensiero esistenti, istituzioni, opere e strutture nella Chiesa e nella nostra famiglia religiosa, poiché non è sempre così chiaro se siano coerenti con le esigenze radicali del vangelo delle beatitudini. (…) Siamo - e quindi dobbiamo essere - i portatori di una nuova cultura della solidarietà. Una tale cultura nasce dalla convinzione che lo Spirito di Dio opera in ogni essere umano; dalla convinzione che ogni fratello è un dono. (…) Francesco ci invita a liberare i nostri gesti e le nostre parole dalla paura, e quindi a non difenderci, a non minacciare l'altro, a non esprimerci in termini di (presunta) superiorità. (…) Siamo persone di dialogo se sviluppiamo la disponibilità ad ascoltare le ragioni dell'altro e a non darne un'interpretazione previa, nella convinzione che non esiste chi abbia il monopolio della verità, a meno che non ci si voglia ergere a detentori e arbitri del potere e delle ricchezze. Ma in tal caso, la pace è esclusa a priori.

L'alterità è elemento di cruciale importanza, che ci porta a riconoscere l'altro al di là della nostra identità, senza ridurlo a noi stessi, ai nostri interessi, ai nostri sogni, alla nostra cultura. (…) Rinunciamo a essere padroni assoluti della verità. Rinunciamo a inquadrare tutto e tutti in ciò che è solamente relativo nel mio o nel nostro mondo culturale. Ritengo che siamo tenuti a formarci non solo al dialogo, ma ad una esistenza che sia essa stessa dialogica. (…) Gli altri hanno il diritto di voler vedere in noi una parabola di dialogicità, e quindi di riconciliazione, di accoglienza reciproca.

(…) Il cammino verso la pace consiste nel realizzarla dentro se stessi, attingendovi la forza per prendere l'iniziativa e perseverare nell'andare incontro all'altro per primi; poiché nelle situazioni di stallo, il cammino verso il dialogo consiste nell'offrirlo senza porre condizioni. Troppi conflitti oggi stanno incancrenendosi perché si pretende solo dagli altri il primo gesto di pace, o meglio di non offesa, e non ci si preoccupa dì creare le condizioni affinché ciò sia possibile. Oppure si segue la logica dell'attacco preventivo quale deterrente di un possibile attacco offensivo.  (…)

I fatti dell'11 settembre 2001 e ciò che ne è seguito ha creato un clima in cui le sensazioni prevalgono sulla conoscenza, e ne derivano giudizi superficiali e semplicistici riguardo alla cultura e alla religione altrui, in particolare nei confronti dell'Islam. (…) Ogni persona, ogni religione partecipa in qualche modo, all'unica missione dell'unico Dio nella storia. L'incontro e il dialogo aiutano ciascuno a vedere e riconoscere nell'altro le vestigia Dei, ad ascoltare i semina Verbi nelle parole che esprimono la fede dell'altro: siamo, tutti, immagine del creatore. A noi, che crediamo nel Dio della vita che ha mandato il suo Figlio per noi morto e risorto, tocca il compito - ed è urgente - di promuovere luoghi comuni di vita, di preghiera, di solidarietà, dove si instaurino e si apprenda a instaurare relazioni basate sulla reciprocità, sul dialogo, sul rispetto, sull'ascolto. (…)

Non prevalgano stili di vita e di pensiero che avvalorano i concetti di guerra santa e di guerra giusta, poiché l'unica giustizia e santità è quella della pace. Occorre essere attenti e forse anche aiutare gli altri a smascherare intenti di soppressione dell'altro nascosti sotto proclami dal sapore biblico e in generate religioso, che strumentalizzano il nome di Dio asservendolo ad una religione laica che cerca solo l'affermazione di chi la professa su tutti gli altri. È quanto sta accadendo in occidente (vedi le dichiarazioni di Bush nel promuovere la guerra al terrorismo), che così ricopia ideologicamente gli atteggiamenti del fanatismo islamico. Il dialogo al contrario, e quello interreligioso in particolare, facilita l'emergere delle forze positive che ciascuno ha al suo interno. (…) Francesco suggerisce ai frati di portare del cibo ai ladroni. La loro concreta necessità era quella di sfamarsi, e i frati sono invitati a provvedervi con dignità, non dando gli avanzi: buon pane, buon vino, uova, formaggio, serviti su una tovaglia. I frati devono mettere sulla mensa dei "ladroni" più di quanto non ci fosse sulla loro stessa mensa!

(…) Essere uomini di pace non è diverso da essere uomini che hanno a cuore l'integrità e la qualità della vita, e quindi che si impegnano affinché sia eliminato lo spettro degli attentati alla vita. Oggi questo si diffonde attraverso l'esclusione dei più poveri, la dominazione sui più deboli e si radicalizza nella pratica del terrorismo, dei fondamentalismi radicali e in molteplici forme di violenza, sia personali che strutturali. Ed è la violenza il contrario della pace. Siamo chiamati a contrapporci ad ogni forma di ingiustizia. prendendo coscienza dei sistemi di esclusione e dell'attuale ordine internazionale, che sacrifica vie umane secondo una logica propria.

Occorre che siamo disposti ad aprire gli occhi, a conoscere la realtà così com'è nella sua complessità, a non accontentarci di informazioni superficiali e, tutto sommato, innocue per la nostra tranquilla routine, anche religiosa. (…) Disinformazione e informazione parziale o falsata è violenza che si subisce in misura crescente, se non si opera un discernimento, una lettura attenta e critica. Il mondo globalizzato ha nello scambio rapido di informazioni un punto essenziale di forza e i mezzi di informazione sono un centro di potere il cui controllo diviene determinante per la tutela o la limitazione della libertà e della democrazia.

(…) Albert Einstein aveva detto: «Il mondo sarebbe differente se finalmente si facessero tanti investimenti in favore della pedagogia e della ricerca della pace e della non-violenza, quanti finora ne sono stati fatti per preparare e per condurre le guerre».  (…)

Senza sminuire il valore della presenza pacifica e pacificatrice delle nostre fraternità maschili e femminili, contemplative e apostoliche, vive e operanti nelle diverse culture, mi pare che il nostro tempo ci provochi e ci stimoli ad acquisire competenze adeguate così che il carisma e la spiritualità di cui viviamo possano dare un impulso positivo ai desideri e alle grida di pace che si levano dai Balcani, dal Congo, dal Rwanda, dall'Afghanistan, dal Medio Oriente, (…) dalle nostre città impaurite.

Il mio sogno, o meglio la mia proposta, è che tutti i membri della famiglia francescano-clariana si compromettano in maniera visibile, pubblica - con una sorta di promessa solenne, o forme analoghe - in favore della non-violenza attiva come è stata vissuta da Gesù e anche da Francesco. Dobbiamo comprometterci divenendo strumenti effettivi di giustizia, dì pace. di dialogo: e questo prima e più con lo stile di vita che con le parole: poiché l'opzione fondamentale per la giustizia e la pace, unita alla tutela del creato e alla promozione della vita in ogni sua manifestazione, non è un elemento accessorio, bensì costitutivo della nostra risposta di fede all'amore donatoci dal Padre in Cristo. Non possiamo mettere tra parentesi ciò che è parte della nostra promessa essenziale: osservare il santo vangelo del Signore Gesù.

Non si può dimenticare che la pace è frutto della giustizia e che «per costruire la pace si richiede anzitutto che vengano sradicate le cause di discordia tra gli uomini e in modo speciale le ingiustizie» (Gaudium et Spes, 3). L’economia globalizzata ha già offerto chiari segnali di ingiustizie globalizzate... Le risorse ci sono, ma sono mal distribuite, e il meccanismo del cosiddetto neo-liberismo è tale per cui i ricchi si arricchiscono e i poveri sono sempre più poveri e in numero crescente. (…) Le discussioni sulla riduzione del debito internazionale o la sua cancellazione per i paesi più poveri non hanno ancora offerto soluzioni e azioni determinanti. Spesso le oligarchie al potere nei paesi del sud tutelano gli interessi dei paesi ricchi, dai quali sono sostenute. Come percorrere una strada comune se non si parte dalla consapevolezza che i beni della creazione sono a disposizione di tutti e non appannaggio di alcuni?  (…)

Come figli di Francesco abbiamo qualcosa da dire e da proporre. Francesco ci ricorda che ogni bene viene dal Signore Iddio e che a lui va restituito con rendimento di grazie. Il rapporto con i beni è un rapporto di gratuità e di gratitudine, aperto perciò alla condivisione. (…)

Non ci può essere nei confronti del consumismo, da parte nostra, altro atteggiamento che il contro-segno, una vera specie di controcultura evangelica frutto dell'ascolto della Parola e della sequela del Signore Gesù, il quale per noi si fece povero per farci ricchi per mezzo della sua povertà. (…) Il voto di povertà è anche o forse soprattutto un processo doloroso di continua formazione alla solidarietà e alla compassione verso coloro che sono i veri poveri: sono loro i nostri maestri, e non viceversa, Di fatto, possiamo chiederci: siamo disposti a mettere le nostre risorse a disposizione delle grandi sfide del mondo di oggi: i diritti delle minoranze etniche- culturali-religiose (e non solo di quelle cristiane), la distribuzione più equa dei beni della creazione e la tutela del creato, l'impostazione di un ordine mondiale più umano, in cui il processo di globalizzazione sia realmente a servizio dell'uomo, e in particolare di coloro che non contano?

In sintesi, credo che il nostro servizio alla pace, alla giustizia, alla salvaguardia del creato rappresenti un aspetto vitale del nostro essere una fraternità chiamata a vivere ed annunciare il Vangelo nella nostra epoca. (…)

La prima delle priorità francescane consiste, biblicamente parlando, nel cercare il regno di Dio. E secondo le parole di Francesco, la cosa più importante che noi dobbiamo fare è quella di possedere «lo Spirito del Signore e le sue opere». Ciò include l'esperienza di Dio, così come ci si manifesta nella Scrittura, nella preghiera, nei sacramenti e nella storia. E include anche, e fin dall'inizio, la guarigione dei malati, la liberazione della pienezza di vita per tutti, così come il Signore stesso l'ha promessa. Sono indicazioni chiare per una spiritualità globale e per un servizio globale. Come Francesco, dobbiamo incominciare a servire il Signore andando incontro a Gesù povero e oppresso nella nostra storia, ai "ladroni" del nostro mondo. Allora il nostro servizio alla pace sarà realmente espressione della relazione vitale con Dio, che ci educa quotidianamente a una spiritualità incarnata, in cui l'aspetto interiore e quello socio-politico sono i due volti dell'amore. (…)

(da una conferenza tenuta presso l'Istituto Teologico Sant'Antonio di Padova il 23 novembre 2002.  Una versione più ampia - non integrale - in: Testimoni, Bologna, EDB, n. 1, 2003).


Pubblicato in Dossier Pace

La pace, gli slogan e il cuore nuovo
di Gerolamo Fazzini





Va forte, di questi tempi, la pubblicità di una nota azienda di telecomunicazioni: come sarebbe oggi il mondo - questo il senso del messaggio - se Gandhi avesse potuto lanciare i suoi appelli alla non violenza dagli schermi di Times Square o toccare i cuori dei giovani raggiungendoli sul video del cellulare?

La domanda è suggestiva. ma fuorviante. Se l'educazione al perdono e alla riconciliazione chiedesse soltanto sistemi più evoluti di comunicazione, la questione sarebbe (relativamente) semplice. In realtà, l'adesione a opzioni etiche di fondo - come nel caso della pace - chiama in causa le ragioni profonde per cui l'uomo vive.
La lezione più impressionante che ho colto dal viaggio in Colombia (...) va in questa direzione. Incontrando tante persone della Chiesa e della società civile, in quel contesto così difficile, ho percepito chiaramente che la pace non chiede in primo luogo slogan efficaci o tecnologie sofisticate. Bensì esige di pagare un prezzo per essa.

Difficilmente potrò dimenticare le parole di padre Francisco De Roux, che davanti alla delegazione europea che sostiene i suoi progetti, disse: «Voglio chiedervi di non fermare il Laboratorio de Paz quando ci saranno dei morti, perché questo è inevitabile. Noi sappiamo di dover correre dei rischi per avere pace in questo Paese».
Da lui, da tanti altri missionari e da numerosi esponenti delle organizzazioni di base che ho incontrato mi aspettavo analisi socio-politiche, denunce contro il governo colombiano e la sua politica «militare», strali contro gli Stati Uniti (condivisibili, visto che appoggiano il famigerato Plan Colombia cui si deve la piaga delle fumigazioni delle coltivazioni illecite). Ebbene: nessuno dei miei interlocutori si è mostrato tenero nei confronti del presidente Alvaro Uribe. Nessuno di loro si sogna di negare che per arrivare a una pace vera sia necessario rimuovere ostacoli di ordine sociale, economico e politico, che per sciogliere il rebus-Colombia serva il contributo della comunità internazionale e che la lotta al narcotraffico debba essere una priorità... Ma nessuno di costoro si trincera dietro l'alibi di un contesto avverso per evitare di compiere fino in fondo il suo dovere di testimonianza. Chi operando sul fronte della lotta alla miseria e all'ingiustizia; chi impegnato direttamente nelle trattative con le varie fazioni armate; chi condividendo la sorte dei più vulnerabili. Ad accomunare tutte queste scelte è la convinzione che la guerra nasce prima nei cuori che sui campi di battaglia. Ed è da lì, dal cuore dell'uomo che bisogna ripartire. Come insegna il formidabile tentativo della «Scuola di perdono e riconciliazione».

Un altro motivo di riflessione nasce dall'aver constatato come per la Chiesa, dal vescovo al catechista più umile, l'educazione alla pace non si «aggiunge» alla vita cristiana, ma vi appartiene per così dire strutturalmente. Se si lavora per annunciare il Vangelo e costruire la comunità, insegnando a guardare l'altro non come un nemico, stando vicino a chi soffre, già si sta facendo... guerra alla guerra. In altri termini: la pace non è un valore per il quale i credenti debbano prevedere chissà quale corsia preferenziale, in obbedienza a una moda o al «politicamente corretto». Piuttosto, proprio perché tesi a dare carne alla Buona Notizia, i cristiani non possono non fare i conti con una situazione segnata dalla violenza e provare a rispondervi con la forza del Vangelo. La pace, insomma, non dipende da spot più o meno riusciti, bensì da coscienze che si convertono, da intelligenze che sanno leggere la storia, da persone che si mettono in gioco. Un messaggio esigente e attualissimo anche alle nostre latitudini.


(da Mondo e Missione, Novembre 2004)
Pubblicato in Dossier Pace
Domenica, 19 Giugno 2005 21:23

Lettera per la pace (Ernesto Sábato)

Lettera per la pace
di Ernesto Sábato


 



Cari bambini:

Vi siete già resi conto di come il potere vince, di come gli uomini uccidono per il potere.
Vi siete già resi conto, l'avete visto in televisione, delle atrocità dei bombardamenti, dei massacri, della miseria, dell'orrore che la guerra reca a chi la subisce.
Sapete anche che altri bambini come voi vedranno morire di dolore i loro genitori, i loro fratellini. Ma questo al potere non interessa.
Sapete anche che milioni e milioni di uomini e donne hanno manifestato per le strade di tutto il mondo il loro desiderio di pace, la loro opposizione a questa guerra. E anche questo sembra non interessare al potere.

Allora, davanti alla gravità della situazione in cui viviamo, il messaggio che voglio comunicarvi è il seguente: dobbiamo rimanere saldi nella convinzione di non accettare e di non rassegnarci alla guerra.
Dobbiamo mantenere accesa nell'anima, cari bambini, la fiammella di questo dolore dell'umanità, ed esservi fedeli.
Se sapremo tener ferma questa determinazione, sarà incrollabile.
Potranno fare la guerra, ma dovranno sapere che sono assassini, che così li chiameranno i bambini di tutto il mondo.

L'amaro presente col quale ci dobbiamo confrontare esige che le nostre parole, i nostri gesti, la nostra opera si consacrino, come autentico compimento della nostra più alta vocazione, a manifestare l'angoscia, il pericolo, l'orrore, ma anche la speranza, il coraggio e la solidarietà degli uomini.
In questa terribile situazione, ogni uomo e ogni donna, ma anche voi, bambini, siete chiamati a farvi portavoce del grido di dolore di migliaia di persone, le cui vite stanno per essere ridotte al silenzio attraverso la violenza delle armi.

E' ormai evidente che coloro che detengono il potere prendono decisioni diverse dal sentire dell'umanità, scatenando guerre atroci - con macabra ironia definite umanitarie - contro popoli abbandonati a se stessi.
Davanti a questi fatti, davanti alla violenza e alla morte dei nostri fratelli, dobbiamo resistere per proteggere quella dimensione assoluta in cui la vita e i valori sono elementi insostituibili, l'unica che dà la misura della grandezza umana.

In tutte le lingue, 'pace' è una parola suprema e sacra, espressione del desiderio di Dio per gli uomini. Il desiderio di un regno di pace e giustizia; pace e giustizia che siamo qui a chiedere e testimoniare.


Testo letto il 25 marzo 2003 da Ernesto Sábato davanti a 2000 bambini delle scuole pubbliche di Buenos Aires, riuniti nello Stadio de Obras Sanitarias per manifestare a favore della pace.

Traduzione dallo spagnolo a cura di Luciana Barcina/Andrea Grechi (Traduttori per la pace)

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Quando la violenza
comincia dalla teologia
di Carlo Molari




C'è un modo di insegnare religione che rende difficile o impedisce l'educazione alla pace. Non mi riferisco tanto agli insegnamenti morali, relativi ad es. alla guerra giusta o all'uccisione del tiranno (dottrine che devono essere certamente riviste), ma alle concezioni più generali che riguardano la funzione del cristianesimo nella storia, la missione della chiesa e la stessa concezione di Dio.
Tutta la teologia cattolica e quindi anche l'insegnamento della religione può ancora essere percorsa da dinamiche violente e discriminatorie. Spesso perciò con l'insegnamento della religione noi contribuiamo all'educazione di uomini violenti pur difendendo ideali di pace e proclamando il vangelo della fratellanza universale. È necessario rendersi conto di queste dinamiche per evitare ogni contraddizione che risulterebbe deleteria.
La pace è prima di tutto un processo culturale che richiede la revisione radicale dei modelli interpretativi e degli atteggiamenti spirituali che nel passato, spesso inconsapevolmente, hanno suscitato movimenti violenti. Vorrei portare alcuni esempi di insegnamenti correnti della teologia che contrastano con una educazione alla pace.


1. Concezione di Dio.

C'è molto infantilismo e antropomorfismo in formule relative a Dio usate abitualmente, ma soprattutto esse spesso rendono difficile una vera educazione alla pace.
Il Dio onnipotente, il Dio degli eserciti, il Dio che sconfigge i nemici, che ci può far prevalere su gli altri è un Dio violento e guerriero. Questa immagine di Dio riflette esperienze e culture di altri secoli, ma ha lasciato traccia in molte espressioni popolari.
Il Dio salvatore che il vangelo ci presenta non è colui che ci fa vincere, che è più forte dei nemici, ma colui che ci concede di vivere tutte le situazioni, anche la morte, in modo salvifico. È il Dio che anche quando siamo sconfitti ci offre di poter amare e perdonare.
Il Dio rivelato da Cristo è il Dio della pace e della fraternità, il Dio della resurrezione non della vittoria.

2. Teologia della forza fisica.

La forza fisica nella fase infantile e adolescenziale costituisce un ideale assoluto. È la reazione alla condizione di debolezza in cui l'uomo nasce. Per questo nella fase infantile dell'umanità la forza fisica venne sacralizzata: fu spesso considerata come espressione della benevolenza divina, comunicazione della energia della Natura, partecipazione della forza cosmica.
Una teologia della potenza o della forza fisica si esprimeva nella esaltazione degli eroi come incarnazione di Dio, nei miti della vittoria in guerra come decisione degli Dei ed espressione dei loro favori nel cosiddetto giudizio di Dio, secondo il quale chi superava una prova era dalla parte della giustizia.
La debolezza fisica, la malattia o la sconfitta in guerra venivano considerate come conseguenze dei peccati che avevano irritato Dio.
Questo modo di interpretare l'esistenza e la storia non è più corrente ma rimangono residui notevoli di questa fase culturale in espressioni, preghiere, formule di fede tradizionali.

3. Stato originale.

Anche nei racconto delle origini esistono elementi che possono favorire la violenza e la discriminazione. In primo luogo occorre superare la convinzione che la violenza del mondo sia esclusivamente la conseguenza del peccato. C'è una violenza legata alla stessa condizione imperfetta di creatura e alla necessità di crescita personale.
La concezione idilliaca della natura primitiva o dell'uomo uscito perfetto dalle mani di Dio è un mito da intendersi come simbolo della chiamata divina ad un futuro diverso, non come descrizione di una condizione del passato.
La pace non è mai esistita: è una vocazione per il futuro dell'uomo. Il progetto di pace che avvertiamo urgente non è un ritorno a forme primordiali di esistenza umana, ma è una novità assoluta che ci è affidata come sfida dalla storia.

4. Azione di Dio nella storia.


Molte di queste formule inadeguate dipendono da un errato concetto dell'azione di Dio. Ci sono diversi modelli con cui viene abitualmente interpretata l'azione di Dio nella creazione e nella storia.
C'è chi pensa a Dio secondo categorie magiche, come se la sua energia sia concentrata in parole, cose o persone particolari. C'è chi pensa a Dio come una creatura potentissima che può intervenire nella creazione e modificare le cose sostituirsi ad esse, introdurre energie nuove. Egli agirebbe come un buon artigiano che modifica gli oggetti sbagliati o come una madre che sorregge il figlio quando sta per cadere. Questi modi di pensare all'azione di Dio sono molto imperfetti e peccano di antropomorfismo: proiettano cioè in Dio atteggiamenti umani.
La teologia in questi ultimi decenni ha purificato i modelli per esprimere l'azione di Dio. Lo stimolo le è venuto dal confronto con le scienze della natura e in particolare con le ipotesi evoluzioniste.
Già il domenicano A. D. Sertillanges (1863-1948) lungo tutta la sua vita aveva messo a punto un concetto di creazione purificato da tutte le sovrastrutture predicamentali (1). Egli giustificava coerentemente l'affermazione di S. Tommaso: «La creazione non è un cambiamento. È la dipendenza stessa dell'essere creato in rapporto al suo principio» (2).
Anche Teilhard de Chardin (1881-1955) dagli anni successivi alla prima guerra mondiale fino alla sua morte ha riflettuto spesso sulle categorie scolastiche dell'azione di Dio nel mondo, per pervenire a formule che potessero esprimere in modo adeguato le conquiste della scienza o le diverse teorie scientifiche. A proposito della creazione scriveva: «La creazione così compresa non è una intrusione periodica della Causa prima: è un atto coestensivo a tutta la durata dell'universo» (3). «Là dove Dio opera, a noi è sempre possibile (restando a un certo livello) di non cogliere se non l'opera della natura... La causa prima non si mescola agli effetti: egli opera sulle nature individuali e sul movimento d'insieme. Dio propriamente parlando non fa: egli fa che le cose si facciano» (4).
La stessa affermazione viene fatta più tardi da K. Rahner (1904-1984) in un medesimo contesto culturale: «Sembra che dovunque si riscontra nel mondo un effetto, se ne debba postulare la causa nel mondo stesso e la si possa e debba cercare, appunto perché Dio, rettamente concepito, opera tutto mediante le cause seconde... (altrimenti) ... l'agire divino viene a collocarsi nel mondo accanto a quello delle creature, invece di essere il fondamento trascendente di tutto l'agire delle creature» (5). Dio, perciò «non opera qualcosa non operata dalla creatura, né si affianca all'agire della creatura: rende solo possibile alla creatura superare e trascendere il proprio agire» (6).
Utilizzando questo concetto di azione Dio appaiono in una luce diversa la preghiera dell'uomo, il valore della sua azione per la pace e l'influsso negativo della sua aggressività.
Pregare per la pace non serve per far intervenire Dio al nostro posto, ma per farci assumere atteggiamenti che ci consentano di realizzare la sua volontà. La preghiera non serve per far cambiare l'opinione di Dio nei nostri confronti o per farlo agire diversamente ma per modificare il cuore degli uomini.
Il futuro dell'uomo non cade dal cielo, non è un'irruzione improvvisa per un intervento di Dio, ma è la costruzione donata all'uomo dalla sua misericordia lungo tutta la storia.
D'altra parte il futuro, per il credente, non è semplice sviluppo del già dato ma è l'avvento di un presente non ancora accolto, di un Bene non amato, di una Verità non ancora conosciuta, di un Vita non ancora tradotta in umanità. Per questo è assolutamente necessario un atteggiamento di accoglienza che la preghiera rende possibile e sviluppa.
Non si richiede che l'uomo pregando ottenga una azione di Dio, ma che diventi capace di una fedeltà alla vita che conduce alla pace. La pace di Dio non può entrare nella storia degli uomini se questi non compiono scelte di pace.

5. Natura e soprannatura.

Anche la dottrina relativa all'ordine soprannaturale si è spesso prestata a concezioni discriminatorie. Si pensava che solo i cristiani, anzi solo coloro che erano in grazia potevano operare il bene e costruire il regno di Dio. Le altre azioni, anche se buone, erano prive di quelle carica vitale che veniva solamente dall'inserimento nell'ordine della grazia. Ciò conduceva al disprezzo di tutte le altre forme di religione, che spesso venivano anzi considerate frutto dell'azione demoniaca nella storia.
Il problema che alla teologia medioevale e alla teologia scolastica veniva posto dall'uso della categoria aristotelica di «natura», ora è praticamente scomparso. Non vi è alcuna necessità di parlare di due chiamate e di due fini proposti all'uomo: uno naturale ed uno soprannaturale. Non vi è alcun bisogno di ricorrere ad un ordine «superiore» per spiegare le azioni che consentono all'uomo di pervenire alla pienezza di vita.
Utilizzando la prospettiva dinamica (l'uomo diventa), storica (attraverso gli eventi) e sociale (nell'intreccio dei rapporti) non è difficile liberarsi da queste contrapposizioni.
L'azione di Dio fin dall'inizio ha una intenzionalità eterna ed una carica vitale trascendente. La creatura, tuttavia, non è in grado di cogliere tale offerta se non progressivamente, a frammenti, attraverso eventi storici successivi.
Per questo la storia di ogni persona come la storia umana registra una progressione di offerte divine fino ad una pienezza alla quale ogni uomo è chiamato.
Ciò non significa che la storia svolgendosi possa pervenire alla sua pienezza. Il passato infatti, non contiene i principi sufficienti per il futuro. Ogni giorno l'offerta creatrice di Dio diventa più ricca perché può essere accolta in modo sempre più perfetto. La stessa capacità di accoglienza è dono, frutto cioè dell'azione gratuita di Dio che sollecita la libertà e offre capacità di risposta.
Ma in questa avventura storica tutti gli uomini sì ritrovano fratelli e tutti i popoli contribuiscono con l'apporto della loro storia alla realizzazione di un'unica comunità umana.
Le differenze che esistono tra i vari popoli caratterizzano i diversi doni che essi devono offrire alla realizzazione dell'unità umana.

6. Rivelazione e segni dei tempi.

Anche la dottrina della rivelazione non deve essere presentata in modo esclusivo e discriminante. La rivelazione storica è unica e riguarda l'umanità intera. Certo, i profeti nelle diverse culture hanno avuto funzioni non identiche ed i loro apporti hanno segnato in modo differenziato la storia umana. Ma non si deve limitare l'ambito della rivelazione a un popolo solo, se essa è cominciata con la creazione ed ha avuto come spazio la storia umana (ricorda Gen 1-11).
Se la rivelazione, come chiarisce la Dei Verbum (n. 2), è una serie di eventi accompagnati da parole, non vi possono essere esclusioni di sorta nel possesso della rivelazione e nella sua interpretazione. La storia umana, infatti, è fatta da tutti, è aperta a tutti e la sua interpretazione dipende dagli sviluppi che la storia avrà nel futuro.
Per questo il concilio ha insistito sulla necessità di leggere i segni dei tempi (Gaudium et Spes 4), di ascoltare il linguaggio di tutti gli uomini e di ricorrere agli esperti del mondo «siano essi credenti che non credenti» per capire la verità rivelata ed approfondirla (cf GS 44). Non si tratta di attendere eventi speciali, che esprimano un'azione straordinaria di Dio o una sua nuova rivelazione. Tutti gli eventi storici, vissuti in fedeltà alle leggi della vita, contengono elementi che possono chiarire la rivelazione perché sono il tentativo che la vita fa per manifestarsi e quindi per tradurre in espressioni concrete le sue virtualità profonde.
Avvertire i segni dei tempi significa appunto cogliere «i segni della presenza è del disegno di Dio» (GS 11) negli eventi della storia. Ma siccome l'azione di Dio è trascendente e non «predicamentale», gli eventi debbono essere letti secondo le loro leggi intrinseche, secondo quindi i dati della scienza. Solo a questa condizione è possibile scorgere alla luce dell'esperienza di fede, le tensioni salvifiche che essi contengono. Se si scavalca la realtà per imporre un'interpretazione che si presume essere di fede, di fatto non si farà altro che imporre agli eventi la lettura che la comunità cristiana ha dato nel passato.
Leggere quindi i segni dei tempi significa cogliere il messaggio che tutti gli eventi della storia, interpretati secondo le loro dinamiche interne, contengono e manifestano a coloro che hanno gli occhi aperti dalla fede.

7. Storia e regno.


Allo stesso modo deve essere chiarito il rapporto tra impegno storico e realizzazione del regno di Dio. La costruzione del regno non è esclusiva di un popolo, ma richiede il contributo di tutti. Dio non può manifestare la sua misericordia e il suo amore nella storia se non quando essi diventano gesti di creatura. Costruire il regno perciò non significa sostituirsi a Dio o avere capacità autonome di vita eterna. Ma significa aprirsi completamente all'azione dello Spirito così da consentirgli di tradurre in forme umane l'amore misericordioso del Padre secondo le indicazioni che Cristo ci ha lasciato.
Le dimensioni eterne dell'esistenza umana non possono essere costruite dall'uomo. Ma neppure possono essere accolte improvvisamente alla fine della vita. L'uomo può solo accoglierle progressivamente attraverso i numerosi eventi storici che la misericordia di Dio gli consente di vivere e nell'intreccio dei rapporti che gli è possibile realizzare.
Nessun popolo perciò può presumere di potere costruire il regno, ma neppure può abbandonarsi a forme di passiva attesa, dato che la vita eterna gli è offerta ogni giorno attraverso la molteplicità dei rapporti che egli vive, e gli avvenimenti piccoli o grandi del suo percorso nella storia. Chi trascura queste offerte quotidiane, non potrà mai accogliere il dono definitivo del Padre, o il compimento della sua perfezione. Non si dà infatti compimento che di un'opera progressivamente maturata fino alla pienezza.
Se si è convinti che la pace si costruisce nella storia con esigenze sempre nuove, è urgente un ampio processo di conversione. Occorre cominciare dai bambini piccoli, e dagli adolescenti. Occorre presentare le guerre come gli errori umani più gravi. Occorre demitizzare gli eroi violenti (Cesare, Napoleone, Garibaldi), occorre allargare l'orizzonte delle conoscenze a tutti gli ambiti della storia umana, come l'unico tentativo dell'umanità di pervenire tra errori e barbarie ad una forma unitaria di esistenza.
La fraternità umana oggi passa attraverso l'abbattimento dei muri divisori che la presunzione dei popoli ha creato fra gli uni e gli altri. Anche la chiesa deve essere testimone di questa conversione che l'intera umanità sente l'urgenza di operare.

8. Qualità della pace.

La pace non deve essere perciò richiesta come urgenza per i disastri che potrebbe provocare una guerra atomica, ma come salto qualitativo dell'esistenza umana, come la dimensione spirituale delle attuali strutture di comunicazione, di industria, di commercio.
La sconfitta della violenza passa attraverso cambiamenti molto più radicali che la semplice distruzione delle armi. È un atteggiamento nuovo dello spirito: l'incontro fraterno con gli altri, l'uso maturo della sessualità, la considerazione sincera degli anziani, la vicinanza premurosa agli ammalati, la solidarietà con gli emarginati, la condivisione con i più poveri.

9. Conclusione.

Per il cammino futuro della pace è necessaria una presentazione della religione e dei contenuti della fede in Dio, purificata da tutti gli elementi di violenza e di assolutismo che spesso le sono collegati.
In particolare è necessario evitare ogni dualismo e contrapposizione: azione di Dio-azione dell'uomo, grazia-natura, storia-regno.
Così è necessario evitare l'assolutismo della religione e le rivendicazioni di superiorità nei confronti degli altri.
Dio è uno solo, e la forza della vita è consegnata a tutti. Ogni religione deve liberarsi dalla presunzione di essere la risposta unica e definitiva di Dio agli uomini.
Ciò richiede da parte degli insegnanti una particolare sensibilità nella presentazione della dottrina relativa:
- alla rivelazione
- alla salvezza
- alla grazia
- all'azione di Dio nella storia.
L'insegnamento religioso del passato non è sufficiente alla attuale richiesta di pace. Esso riflette una teologia percorsa da dinamiche violente e discriminatorie. L'educazione alla pace non può essere costruita senza il rinnovamento dell'intero insegnamento della religione.


1. A. D. Sertillange, L'idée de création et ses retentissements en philosophie, Aubier, Paris 1945.
2. Il Contra Gentiles, c. 18
3. P. Teilhard de Chardin, La transformation créatrice, in Comment je crois, Seuil, Paris 1969, p 31.
4. Id., Note sur les modes de l'action divine dans l'univers, in ib. p. 38. Cf un'affermazione analoga in Comment se pose aujourd'hui la question du transformisme, in «Etudes», 5-12 juin 1921, ora in La vision du passé, Seuil, Paris 1957, p. 39.
5. K. Rahner, Il problema dell'ominizzazione, Morcelliana, Brescia 1969, p. 96.
6. Id., ib., p. 99.


(da Religione e scuola, XIII (1984), n. 6, pp. 271-275).
Pubblicato in Dossier Pace

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