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Ortodossi Russi in Italia
Pane, fede e nostalgia
di Laura Facchi


Ogni domenica mattina, a Milano, la grande "Madre Russia" sembra rivive, almeno nella nostalgia di un gruppo di uomini e donne delle ex Repubbliche sovietiche, che si incontrano con la sensazione di appartenere a una stessa patria. Li unisce la fede ortodossa e il comune destino di emigrati in un Paese straniero, dove fatica, umiliazione e povertà sono il pane quotidiano da mandar giù. Succede accanto a una via del centro, via Dante. Dietro l'angolo, le luci delle vetrine abbagliano i passanti. Qui, in questa piccola chiesa, decine di persone si inchinano a terra, sfiorando il pavimento con le mani dopo essersele passate sulla fronte e sul cuore. E una piccola chiesa che porta il nome di tre santi - san Vincenzo, san Sergio e san Serafino -, dalle grandi vetrate smerigliate attraverso le quali si scorgono i fedeli in piedi, con il volto rivolto all'altare e a padre Dimitri, il sacerdote italiano che ha fondato questa comunità.

Dimitri è un uomo speciale, un ex dottore specializzato in dermatologia, che per anni ha ricercato la fede e dopo un viaggio compiuto attraverso la Chiesa cattolica prima e quella protestante poi, l'ha trovata in quella ortodossa. “La semplicità e l'umiltà sono le cose che più mi hanno colpito della Chiesa russa, soprattutto venendo da una istituzione cattolica dove avvertivo superbia e violenza psicologica”, racconta. “Qui mi sono trovato di fronte a una Chiesa dove si metteva in risalto la preghiera, l'umiltà, la bellezza delle icone, del culto e del canto, cose che producono nell'animo un’atmosfera positiva, piacevole, bella, esaltante”.

Padre Dimitri lavorava in un ospedale di Bergamo quando ha deciso di prendere l'abito monastico. “Nella Chiesa ortodossa tutti i vescovi sono monaci e questo ha un significato profondo, diversamente dalla Chiesa cattolica dove i monaci sono pochissimi tra i vescovi. I monaci hanno la regola della preghiera e dell'ascesi e questo li spinge a un'intensa vita spirituale. Una caratteristica del monaco è l'umiltà. Il vescovo che mi ha ordinato, quando gli ho chiesto: mandami in un monastero, lui mi ha detto, no, tu sei medico e il tuo monastero è l'ospedale, i tuoi fratelli sono i malati. Mi ha dato proprio l'indicazione di restare dov'ero ma con una intensità diversa, una prospettiva diversa e io così ho fatto”.

Nel 1985 padre Dimitri aprì una chiesa in un appartamento di piazza Napoli. Erano in 4 al principio, lui e tre parrocchiani. Non era ancora cominciata la grande emigrazione dai Paesi dell'Est e quando, piano piano, la comunità è andata ingrandendosi, si sono spostati qui. Prese in affitto questa chiesa con un contratto di comodato nel 1996 e negli anni successivi cominciarono ad arrivare a centinaia dalle ex Repubbliche sovietiche, in cerca di un lavoro: “Le persone qui hanno tantissimi problemi, di vario tipo, e il sacerdote non è quello che si fa mantenere ma quello che aiuta, come il padre in una famiglia”.

Quantificare i fedeli di questa comunità è praticamente impossibile: c'è un continuo via vai, chi trova lavoro in un'altra città lascia Milano e a malincuore dice addio ai suoi amici. Sì, perché la chiesa è diventata un luogo di incontro per amici: dopo la funzione della domenica, il sotterraneo della chiesa diventa un refettorio e grandi tavolate vengono imbandite con cibi preparati dalle donne. Cibi originari dei loro Paesi, sapori lontani che ricordano casa. Spesso c'è un compleanno da festeggiare o un matrimonio o un battesimo e la festa si fa ancora più bella. La domenica è il giorno in cui le angosce di una vita combattuta tra problemi pratici, economici e burocratici, vengono dimenticate per un istante.

La dignità di questi uomini e donne è sorprendente. Donne, in prevalenza, perché per loro è più facile trovare un impiego come badanti o baby sitter. Gli uomini ci sono e anche loro pregano e si genuflettono: ucraini, moldavi, russi, bielorussi; uomini di mare o dei Carpazi, donne laureate e contadine. Tutti accomunati dal medesimo destino: la ricerca di un lavoro per spedire soldi alla famiglia rimasta in patria. “Questa chiesa è la salvezza. Ogni domenica vengo qui ed è come essere a casa”, racconta Raissa, che proviene dall'Ucraina. “Lavoro tutta la settimana aspettando solo il momento di tornarci. Qui preghiamo per la salvezza della cristianità. La nostra politica comunista non ci permetteva di essere religiosi ma poi è arrivato Gorbaciov, che ha fatto riaprire le chiese. Nel mio paese, a Cernouz, la chiesa era rimasta chiusa per 45 anni e hanno dovuto restaurarla per farla tornare agibile”.

Raissa, come la grande maggioranza delle persone che frequentano la chiesa ortodossa del patriarcato russo a Milano, è qui in Italia per lavorare: “Era meglio prima, quando tutte le Repubbliche erano unite”, dice. Dopo l'indipendenza, tutto è andato a rotoli. Vorremmo tornare a essere uniti e io prego ogni giorno per questo. Lavoravo in una fabbrica di elettronica e da un giorno all'altro hanno chiuso. Via, tutti a casa! Le nostre donne vendono i loro bambini per salvare la casa o qualche altro figlio. È vero! Ho conosciuto una donna a Napoli che ha venduto due bambini per salvarne un altro. Questa è guerra! È una guerra senza bombe”.

Raissa apparecchia la lunga tavola che ingombra il sotterraneo della chiesa. Si mangia tra le chiacchiere in russo. “Assaggia questo formaggio, viene da casa. Me lo hanno mandato i miei figli”, dice Tatiana porgendo un piatto colmo di formaggio bianco. Ogni settimana un pulmino fa avanti e in dietro da Cernouz all'Italia. Porta cibi, lettere, pacchi e denaro ed è atteso come una manna. Cernouz si trova sul confine con la Romania e molti ucraini arrivati in Italia provengono da quella città o dai suoi dintorni. “Ogni città ha il suo pulmino, quello è il nostro e io l'ho preso per venire qui”, spiega Sveta.

La Chiesa si autofinanzia, tutti danno quel poco che possono offrire, i soldi sono stati separati in diversi fondi di amministrazione e uno di questi è il fondo per il sostentamento di chi ha più bisogno di aiuto. Per molte di queste persone, venire in Italia ha significato lasciare la famiglia. “Non vedo mio figlio da un anno”, racconta Ludmila. “Ho fatto tutte le pratiche per essere messa in regola. Ho pagato tutto io, perché la signora dove lavoro ha detto di non avere i soldi. Lei non ha soldi e quindi figuriamoci io. Comunque... se me ne andassi farei molta fatica a rientrare perché non è semplice avere un visto. Ci sono agenzie che si fanno pagare molto denaro per procurare i visti”.

Sergio ha 29 anni ed è in Italia già da due: “Avevo un lavoro in Moldavia ma non mi pagavano abbastanza, con quei soldi non potevo vivere. I prezzi delle case sono più o meno come quelli di Milano ma gli stipendi no, quelli sono molto più bassi. Ho due figli piccoli e una moglie alla quale mando il denaro che guadagno. Appena arrivato in Italia, mi sono messo a cercare una chiesa come questa e alla fine sono approdato qui. Questa chiesa è come una barca. Dove può andare uno straniero qui a Milano? In Stazione centrale forse? Se crediamo in un'anima, dobbiamo anche nutrirla, e qui trovo cibo per lo spirito. Tanta gente in difficoltà come me ha cominciato a credere”.

La storia di Sergio è uguale a quella di tanti altri. Arrivato a Milano, ha trovato lavoro in un cantiere e quel cantiere è diventato anche la sua casa. Una laurea in tasca che gli permetteva di essere chiamato dottore in Moldavia e qui l'unico lavoro che si riesce a trovare è quello di muratore, che a malapena permette di vivere a chi non ha i documenti in regola. “Me ne sono andato dal cantiere dove lavoravo perché non mi pagavano da tre mesi. Sono stati anni duri. Dopo aver dormito in cantiere ho trovato un appartamento nel quale abitavamo in 24 per 170 euro a testa. Denunciarlo? No, no, io in quel modo avevo un posto caldo dove stare. Anche se dormivo sul pavimento non ero in mezzo alla strada e c'era un bagno. Bisognava fare un po' di coda ma potevamo lavarci. Per me è stata una salvezza. Tutte queste esperienze mettono alla prova il carattere e sono certo che se Dio ha voluto questo, una ragione deve esserci”.

Il giovedì sera si fanno le prove del coro: la liturgia ortodossa è un bellissimo canto dall'inizio alla fine della funzione religiosa, ma la chiesa è aperta sempre, tutti i giorni perché in tanti avvertono il bisogno di pregare o di chiedere un consiglio a padre Dimitri: “I miei parrocchiani”, dice, “provengono quasi sempre dal mondo contadino, ho sentito raccontare storie allucinanti, molti vengono trattati come schiavi e altri parroci che prestano servizio nei centri di aiuto mi hanno raccontato storie altrettanto drammatiche. Facciamo quello che possiamo, qui ci mancano un sacco di cose ma tutti insieme riusciamo a fare molto. Ogni anno andiamo a Bari per celebrare san Nicola, un santo molto importante per i russi e sono momenti indimenticabili. Vengono scattate foto da spedire alla famiglia e tutti ridono e stanno bene”.

Il tempo per le lacrime, però, spesso prevale. Durante la funzione della domenica mattina i volti delle donne dal capo coperto da un fazzoletto colorato, sono spesso rigati di pianto. Nel pomeriggio tutti tornano a casa, una capatina nel bagno del McDonald's di via Dante e poi di corsa verso autobus o treni per tornare a casa, in un centro di accoglienza o dalla signora anziana che ha bisogno di essere accudita. Si è consumata un'altra giornata speciale, che servirà da carburante per tutte quelle a seguire.

(da Jesus, giugno 2004)

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Italia
cristiana plurale
di Anna Chiara Valle e Giovanni Ferrò



Una sera d'inverno a Roma, in piazza Cavour. Un tonfo sordo. Calcinacci sull'asfalto Qualcuno avverte il commissariato di polizia dall'altra parte dello spiazzo: «Sta cadendo un cornicione dalla facciata della chiesa valdese». La risposta è secca: «Valdese? Che cos’è una chiesa valdese? E in che via si trova?». Pur "abitando" fianco a fianco, i giovani poliziotti non avevano mai pensato che l'edificio di culto bianco davanti al quale passavano quasi tutti i giorni potesse non essere cattolico. Una confusione non rara, un esempio di ordinaria invisibilità, in un Paese dove non si è abituati a confrontarsi con le Chiese sorelle. Un Paese ancora "cattolicocentrico", come dimostra anche la ricerca commissionata all’Eurisko dall'Unione delle Chiese metodiste e valdesi (...). Secondo quei dati, gli italiani, quando non conoscono l’appartenenza religiosa di personaggi noti, presumono che si tratti di cattolici, fossero pure la regina Elisabetta o Martin Luther King.

Eppure il cristianesimo in Italia sta diventando sempre più "plurale". L'incrementarsi del fenomeno migratorio sta evidenziando - e lo farà sempre di più in futuro - questa caratteristica, e spingerà inevitabilmente all'incontro e al confronto. Un confronto delicato, che parte da numeri e modi di strutturarsi assai diversi. La "forma parrocchia" della Chiesa cattolica, per esempio, ha in Italia una ramificazione talmente generalizzata e intensa da costituire un elemento essenziale del territorio. Non così avviene per le altre Chiese cristiane che, più che agganciarsi alla dimensione locale, si strutturano per gruppi etnici e linguistici.

A parte alcune presenze storiche (come, per gli evangelici, quelle nelle valli valdesi, vicino a Pinerolo, e, per il mondo ortodosso, Trieste, Bari, Venezia), le "nuove parrocchie" sorgono - sulla spinta dell'immigrazione - soprattutto nelle grandi e medie città. Una presenza a macchia di leopardo, che si aggiunge alle altre senza quasi mai integrarsi. Nigeriani, ghanesi, polacchi, rumeni, latinoamericani hanno più facilità a organizzarsi "in proprio" piuttosto che a inserirsi nelle comunità e a medesima denominazione cristiana già esistenti. E questo vale sia per il mondo protestante sia per quello ortodosso. Le divisioni interne, insomma, sono forti. Per questioni di lingua, in certa misura, ma anche per problemi culturali. Tra un valdese di Torre Pellice, per esempio, e un protestante coreano la precomprensione dell'evangelismo è assai diversa e non rende affatto automatica l'integrazione. Lo stesso accade per le Chiese ortodosse, forse ancora più centrate sul dato etnico e nazionale.

Diventa allora naturale, pur appartenendo alla stessa confessione religiosa, che sorgano "comunità accanto alle altre" piuttosto che "comunità miste". Esempi di integrazione, certo, non mancano. Una delle più riuscite è quella della parrocchia di Tutti i Santi a Modena. Nella comunità ortodossa che fa riferimento al Patriarcato di Mosca, si respira una dimensione ecumenica molto forte. Attorno al pope Giorgio Arletti si ritrovano non solo ortodossi provenienti dal mondo russo, ma anche greci e rumeni. Le stesse liturgie non sono ingessate su un modello, ma tengono conto delle diverse provenienze. E anche delle diverse lingue, dallo slavo al greco.

Quello di Modena potrebbe essere un esempio modello, per far sì che in futuro le presenze straniere possano integrarsi al meglio nel tessuto religioso. Quello cui, però, più normalmente si assiste è il proliferare di gruppi, comunità, aggregazioni. In un contesto che va rapidamente mutando, e che subirà ulteriori spinte di cambiamento con l'allargamento dell'Europa a Est, occorrerà capire se (e come) queste "parrocchie" si ramificheranno e metteranno radici, oppure se resteranno semplici meteore dalla vita incerta.

Per le comunità della stessa confessione si fa stringente, dunque, la sfida dell'integrazione. Per la Chiesa cattolica, invece, diventa attuale - molto più che in passato - la prova dell'accoglienza e del dialogo. Che significa, innanzitutto, mettere in discussione i propri modelli pastorali di evangelizzazione, ridisegnare la propria missione, confrontandola con lingue, culture e modi di vivere il cristianesimo diversi dal proprio.

Alcune esperienze su questa nuova frontiera sono state già avviate da diverso tempo, soprattutto nelle grandi città. A Roma, Venezia, Bari, Milano, recente mente anche Parma, sono nati dei Consigli locali delle Chiese cristiane: organismi ecumenici che hanno una veste istituzionale, il cui obiettivo è principalmente di coordinare le esperienze e l'impegno di dialogo che si fa sul territorio. «È un lavoro importante, ma ancora limitato», precisa Brunetto Salvarani, esperto di dialogo ecumenico e interreligioso. «L'opera di coordinamento dovrebbe essere attuata in modo più strategico. C'è da lavorare parecchio, anche perché l'Italia non ha una tradizione di attenzione e di sensibilità particolare in campo ecumenico, eccettuate alcune figure particolari».

Una certa spinta all'apertura la dà il Vaticano. L'istruzione Erga migrantes caritas Christi, presentata lo scorso 14 maggio dal Pontificio consiglio per la pastorale per i migranti e gli itineranti, dice esplicitamente, al numero 56, che «la presenza sempre più numerosa, anche di immigrati cristiani non in piena comunione con la Chiesa cattolica, offre alle Chiese particolari nuove possibilità di vivere la fraternità ecumenica nella concretezza della vita quotidiana e di realizzare, lontani da facili irenismi e dal proselitismo, una maggiore comprensione reciproca fra Chiese e Comunità ecclesiali». Più avanti, allo stesso numero, si precisa: «I fedeli cattolici non devono dimenticare che è anche servizio e segno di grande amore, quello di accogliere i fratelli nella piena comunione con la Chiesa». E si raccomanda: «Se sacerdoti, ministri o comunità che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica non hanno un luogo, né oggetti liturgici necessari per celebrare degnamente le loro cerimonie religiose, il vescovo diocesano può loro permettere di usare una chiesa o un edificio cattolico e anche prestar loro gli oggetti necessari per il loro culto». Il documento si spinge fino a ricordare «la legittimità, in determinate circostanze, per i non cattolici, di ricevere ltEucaristia assieme ai cattolici». Un'apertura importante, che evidenzia come anche fenomeni sociali, dettati ad esempio dagli squilibri economici mondiali (l’emigrazione), sono - per chi crede al Vangelo - dei kairòs, dei segni dello Spirito, "momenti opportuni" che incoraggiano le piccole esperienze ecumeniche già avviate e stimolano tutti a prenderne esempio.

Oltre all'integrazione tra medesime comunità ecclesiali, al dialogo e all'accoglienza vicendevole, l'altro nodo da affrontare è quello del radicamento sul territorio. Il rischio, infatti, è che nascano comunità di «grande intensità emotiva», come dicono i sociologi, anche molto forti sul piano dell'aggregazione, ma sganciate da qualsiasi riferimento locale e dimensione di servizio al territorio. Quasi dei piccoli ghetti, in cui rafforzare la propria identità piuttosto che provare a misurarsi con la varietà e diversità del mondo esterno.

L'Italia, insomma, si trova - che questo piaccia o meno - in una nuova fase del suo "essere religiosa". Una fase in cui l'ecumenicità del cristianesimo non sarà più un sogno (o un incubo, a seconda dei punti di vista) di là da venire, ma un dato di fatto sempre più visibile, di cui prendere atto. Il che comporta nuovi modi di pensare e di costruire relazioni fraterne. È una fase in cui, come mostrano le storie che raccontiamo nelle pagine che seguono, si può trovare un po' di tutto e in cui la strada non è ancora ben segnata: ci sono, infatti, comunità antiche e comunità nuove; cristiani non cattolici italianissimi e cristiani di mondi e culture lontani dalla nostra; Chiese mainstream e Chiese che invece appartengono a quella nuova esplosione del protestantesimo mondiale; che va sotto il nome di pentecostalismo o di Chiese evangelical. Cammini paralleli, lingue diverse, teologie talvolta opposte, sensibilità ed esigenze differenti.

La sfida - per tutti - è di trovare il bandolo di questa complicata matassa e inventare delle strade per camminare insieme. Il nodo delle nazionalità, ad esempio, diventa centrale: creare gruppi etnici isolati e "paralleli", che si ritrovano attorno a un pope, a un pastore o a un sacerdote che parla la propria lingua madre, può essere un primo segnale iniziale di accoglienza. Ma una vera ospitalità non può non fare i conti con l'integrazione e, dunque, con l'esperienza della mescolanza e della multiculturalità,

Il bisogno di conservare le proprie radici religiose, dunque, si mischia con la scoperta di "mondi" religiosi diversi dal proprio. Il desiderio di identità con la necessità di un radicamento nel nuovo contesto sociale. La voglia di ritrovare intatti i propri riti e le proprie liturgie con l'inevitabilità dell'incontro e del dialogo con le altre comunità sorelle.

Nell'Italia che si apre al mondo, il cristianesimo sarà sempre più un fenomeno pluriforme e globalizzato. Le Chiese più importanti e più forti, a cominciare da quella cattolica, hanno quindi una responsabilità fondamentale in questa fase: quella di assumersi - con umiltà e profondo rispetto - il ruolo di ''traino'' ecumenico, affinché nella ricca presenza che stiamo appena cominciando a sperimentare diventi una feconda Pentecoste e non una Babele delle lingue.



Chiese non cattoliche, il Vangelo dei cento fiori

di Laura Badaracchi


Segnali di crescita, grazie anche all'apporto degli immigrati, caratterizzano il variegato arcipelago delle confessioni cristiane non cattoliche presenti in Italia. Se i fedeli stranieri risultano i più numerosi, non mancano i casi di coppie e famiglie miste (sia dal punto di vista etnico che religioso), ai quali vanno aggiunti gli italiani. Difficile stilare un computo preciso, anche per i continui mutamenti causati dai flussi migratori. Secondo una stima della Federazione delle Chiese evangeliche, la popolazione protestante italiana oscilla tra le 350 e 430 mila persone, a cui vanno aggiunti circa 140 mila stranieri. Di questi, valdesi e metodisti sono circa 35 mila; i membri delle "Chiese cristiane dei fratelli" sono 20 mila, così come gli avventisti e i membri delle Chiese e movimenti evangelici liberi; intorno ai 10 mila i battisti e 7 mila i. luterani. Una parte dei pentecostali (circa 120 mila) è organizzata nelle "Assemblee di Dio", quelli indipendenti potrebbero essere intorno ai 260 mila, mentre la Federazione delle Chiese pentecostali rappresenta oltre 300 comunità, per un totale di circa 35 mila persone. Gli ortodossi in Italia, invece, sono intorno ai 700 mila. Un censimento preciso dei fedeli non è stato ancora fatto, come spiega l'archimandrita Policarpos, dell'arcidiocesi ortodossa d'Italia (costituita nel '91). E la cosa è resa più complicata dal fatto che gli ortodossi appartengono a diverse Chiese: al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, di Mosca, di Serbia, Romania, Bulgaria e Polonia. Per il momento sono stati censiti 115 nuclei parrocchiali (comunità in cui manca la presenza stabile di un sacerdote, ma anche parrocchie regolarmente erette, e monasteri), che sono concentrati soprattutto al nord e al centro della penisola I fedeli sono in prevalenza romeni (oltre 250 mila). Numerosi anche gli ucraini, i moldavi, i russi, i bielorussi e i greci; in minoranza. gli albanesi, i palestinesi e gli africani. Poco più di un migliaio i fedeli di nazionalità italiana.

A parte, vanno calcolati gli ortodossi malankaresi, i siri e gli armeni apostolici, con sede a Milano. I copti ortodossi (quasi 12 mila, 7 mila dei quali residenti a Milano e dintorni, Bergamo, Saronno) provengono soprattutto da Egitto, Etiopia ed Eritrea; celebrano in arabo, amarico (la lingua etiope) e italiano. Padre Bimen (che significa "pastore"), alla guida della chiesa di Milano, riferisce; "La maggior parte dei fedeli appartengono a famiglie egiziane emigrate».

Il "papa" copto-ortodosso, Shenouda III, ha nominato due responsabili per le diocesi italiane: Barnaba El-Soryany, vescovo di Roma, Torino e Firenze; e il vescovo Kirlos, di Milano.

(da Jesus, giugno 2004)

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Consiglio Ecumenico delle Chiese
Atene, lo Spirito Santo
e la missione del terzo millennio

di Giuseppe Caffulli

Parola d'ordine: synaxeis. Ovvero condivisione, dialogo, incontro. È stata questa la novità e la caratteristica principale della tredicesima Conferenza mondiale sulla missione, organizzata dalla Commissione per la missione e l'evangelizzazione del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) sul tema: «Vieni, Santo Spirito, guarisci e riconcilia! Chiamati in Cristo ad essere comunità di riconciliazione e guarigione». Svoltosi ad Atene dal 10 al 16 maggio, l’evento ha visto la partecipazione di oltre 600 delegati in rappresentanza di Chiese e organismi missionari, che in una settimana intensissima di incontri e confronti hanno dibattuto sulla delicata questione della missione comune. Per la prima volta l'iniziativa è stata ospitata da un Paese a maggioranza ortodossa e ha visto la partecipazione anche degli evangelici pentecostali (spesso in dissidio con le stesse Chiese protestanti tradizionali).

Cuore delle giornate di Atene sono stati appunto i gruppi di lavoro, le synaxeis una sorta di laboratorio interconfessionale che ha condiviso riflessioni ed esperienze sui temi della riconciliazione e della guarigione. Filo rosso delle varie sessioni, l'ascolto orante della Parola di Dio e l'invocazione dello Spirito Santo come ispiratore e guida della missione comune della Chiesa. Numerose le testimonianze dal Sud del mondo e dai contesti di violenza ed emarginazione, dove più urgente è intraprendere cammini di perdono e di «purificazione della memoria».

Il contesto nel quale si è svolta la Conferenza (conclusasi la giornata di Pentecoste con una significativa celebrazione ecumenica sull'Areopago di Atene, dove Paolo predicò agli ateniesi), ha finito per mettere l'accento sul mondo ortodosso e sui rapporti delle Chiese orientali con le altre confessioni cristiane (uno dei temi dibattuti è stato - e non poteva essere altrimenti - quello del proselitismo). Don Gianni Colzani, missiologo, docente presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma, più che i problemi, crede sia invece opportuno mettere in evidenza le novità, tra cui la rinnovata attenzione del mondo ortodosso per il tema della missione: «Credo che sia in atto una rinascita dell'annuncio in seno alle Chiese ortodosse, anche se la loro idea si richiama più all'opera dello Spirito che all'operosità dei missionari».

Monsignor Brian Farrel, segretario del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani che ha guidato la delegazione cattolica ad Atene, non nasconde le sue speranze per la valenza anche simbolica che l'evento ha avuto: «il fatto che la Conferenza missionaria mondiale si sia svolta in un Paese di tradizione ortodossa non è un semplice dato geografico, ma un evento potenzialmente carico di sviluppi sul versante del dialogo con le Chiese ortodosse».

(da Mondo e Missione, giugno / luglio 2005, p. 24)

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Martedì, 08 Novembre 2005 00:11

In cammino verso l'unità (Ordine dei Frati Minori)

In cammino verso l'unità
(Ordine dei Frati Minori)

L'ecumenismo, e il movimento che ne attualizza le esigenze, è frutto di un lungo processo di maturazione, favorito da nuove situazioni sociali, culturali ed ecclesiali, verificatesi soprattutto a partire dal XIX secolo. Questo processo coinvolse inizialmente le chiese nate dalla Riforma protestante e progressivamente il mondo ortodosso e quello cattolico.


1.
Il mondo protestante

Diversi fattori, tra il XVIII e il XIX secolo, vennero a provocare in modo nuovo il variegato mondo della Riforma. L’illuminismo e il romanticismo, con il loro 'relativismo' dogmatico, preparano un terreno favorevole all'affermarsi dell'idea di libertà e di tolleranza religiosa. Un espansionismo coloniale dell'occidente permise a varie chiese di allargare il loro raggio di azione e di percepire in modo nuovo il problema dell'evangelizzazione. Il miglioramento delle comunicazioni rese possibile un più rapido contatto fra le chiese e un maggiore scambio di idee e di esperienze. Lo spostamento di masse dalle campagne verso le città o verso nuove nazioni spinsero i cristiani a porsi il problema dell'identità confessionale e della convivenza reciproca. I grandi cambiamenti politici in atto portarono a sviluppare una più chiara coscienza sociale e una maggiore attenzione ai problemi sociali. Non vanno dimenticate, infine, le varie correnti di 'risveglio' che posero l'accento sulla rinascita operata dall'adesione di fede a Cristo e sulla necessità di una incisiva testimonianza di vita cristiana.

Tutti questi avvenimenti si ripercuotono inevitabilmente nella vita delle chiese e danno origine a iniziative che in modo diversificato preparano un terreno favorevole al formarsi di una sensibilità attenta al problema dell'unità delle chiese. Infatti, in questo arco di tempo si assiste al sorgere di numerose Federazioni di Società missionarie, che favoriranno il coordinamento e la collaborazione fra missionari di confessioni diverse. Si formeranno anche varie Alleanze mondiali di chiese, allo scopo di realizzare una maggiore unità fra le chiese di una stessa confessione e una loro collaborazione sul piano internazionale. Si darà vita a nuove forme associative giovanili, come anche alla Federazione mondiale degli studenti cristiani, che voleva essere luogo di incontro e di reciproco arricchimento, attraverso il confronto, la condivisione delle ricchezze delle rispettive tradizioni confessionali, l'impegno comune a una vita cristiana più impegnata. Si formeranno inoltre gruppi e associazioni interconfessionali di cristiani che in nome della comune fede in Cristo si interessano ai problemi sociali dell'epoca. Similmente, si assisterà alla nascita di vari movimenti di preghiera che si propongono come loro fine specifico quello di invocare da Dio l'unità di tutti i cristiani. Grazie a queste iniziative, cristiani di confessioni diverse si danno degli strumenti per un maggiore contatto, per una conoscenza reciproca, per una qualche collaborazione in settori di azione comune.

In questo variegato contesto, spesso caratterizzato dalla convinzione che il confessionalismo, e dunque l'appartenenza ecclesiale, è una realtà Superata o da superare in nome della comune fede in Cristo, emergono quelle spinte che porteranno dapprima alla formazione del Consiglio Missionario Internazionale e successivamente dei movimenti di Fede e Costituzione e di Vita e Azione. Tappa fondamentale in questo cammino è la Conferenza Missionaria Mondiale di Edimburgo (1910). Infatti, durante questa conferenza di delegati di Società missionarie si perviene a una chiara presa di coscienza che le divisioni ecclesiali contraddicono il volere di Cristo e sono di ostacolo all'annuncio del Vangelo. Conseguentemente, l'ideale dell'unità sarà un tema ricorrente nei lavori dell'assemblea e si vedrà in essa la meta alla quale dovrebbe tendere il lavoro dei missionari. Questo intento rimarrà presente anche nel successivo lavoro del Consiglio Missionario (1921), caratterizzato dalla volontà di coordinare le attività delle varie Società missionarie, di promuovere la riflessione sui problemi missionari e di unire i cristiani nell'impegno per la giustizia e la pace. Per cui non è fuori luogo affermare che il moderno movimento ecumenico, almeno per quegli aspetti che sono propri al protestantesimo, affonda le sue radici nel movimento missionario.

Dal 1948 ad oggi tale organismo ha portato avanti, non senza difficoltà, una mole enorme di lavoro sul piano della riflessione e della concreta azione ecumenica. Ad esempio, è riuscito a coinvolgere sempre più le chiese nel suo organismo: dalle 161 chiese che hanno partecipato alla prima assemblea ad Amsterdam, si è arrivati alle 335 presenti all'ultima assemblea mondiale, Harare 1998, un numero in progressivo aumento (la chiesa cattolica non è affiliata al Consiglio Ecumenico, tuttavia è presente alle sue assemblee mediante osservatori ufficiali). Lo stesso Consiglio Missionario, nel 1961, ha aderito al Consiglio Ecumenico delle Chiese. Nel corso degli anni, infatti, si sono resi evidenti tutta una serie di sovrapposizioni e di doppioni fra i due organismi, per cui alla fine si è optato per la fusione, che ha impresso al Consiglio Ecumenico una più chiara attenzione ai problemi dell'evangelizzazione e della missione. Nel 1971, poi, c'è stata l'integrazione del Consigliò mondiale per l'educazione cristiana; cosa, questa, che ha portato a dare nuova vitalità a un settore già esistente nel Consiglio Ecumenico e che si articolava in varie iniziative: dalla formazione teologica, alla educazione religiosa di base, alla più generale formazione culturale umana.

In questi anni, inoltre, il Consiglio Ecumenico si è fatto promotore di diversi progetti che si pongono sui piano socio-politico. Il più famoso di tutti è il 'Programma di lotta contro il razzismo', al quale si affianca l'impegno per il rispetto dei diritti umani e per il diritto alla terra. Al tempo stesso il Consiglio si è preoccupato di promuovere una comprensione dell'economia mondiale più giusta, più solidale e più distributiva. Oltre a questo ha dato vita anche al progetto 'Giustizia, pace e salvaguardia del creato' (cf. Setil 1990), attirando così l'attenzione mondiale su un grave problema che minaccia la nostra società. È dunque evidente che il Consiglio Ecumenico in questi anni ha dato particolare rilevanza ai problemi sociali, economici e politici. Di questi problemi si è fatto portavoce e ha cercato di dare una risposta unitaria a nome di tutte le chiese.

Questo non significa che il Consiglio Ecumenico abbia trascurato del tutto i problemi teologici. É sufficiente prendere in considerazione i rapporti conclusivi delle varie Assemblee generali per rendersi conto che i temi teologici hanno avuto una certa rilevanza, come ad esempio il problema dell'unità che ritorna in tutti i rapporti delle varie Assemblee mondiali. A questo si deve aggiungere tutta la riflessione teologica che Fede e Costituzione ha sviluppato, in quanto dipartimento dottrinale del Consiglio, in particolare nell'ambito dell'unità della chiesa, della comunione nella fede, nei sacramenti, nel ministero e del servizio comune al mondo (in questo organismo la chiesa cattolica è presente a pieno titolo con i suoi delegati ufficiali).

Per quanto riguarda il tema dell'unità, negli anni '60 e '70, la riflessione si è concentrata soprattutto sui 'modelli di unità'. I risultati sono confluiti nella dichiarazione sull'unità dell'Assemblea di Nairobi (1975), dove si definì la chiesa come 'comunità conciliare' (dunque come comunione di chiese locali che vivono e manifestano la loro unità soprattutto mediante strutture conciliari, mediante concili). Recentemente, poi, la riflessione sull'unità ha portato alla formulazione di testi particolarmente significativi quali L’unità della chiesa come koinonia: dono e votazione (1991) e La natura e lo scopo della chiesa (1998).

Per quanto riguarda, invece, il problema della comunione nella fede, la riflessione si è concentrata soprattutto sul credo niceno-costantinopolitano. Su questo testo c'è stato un lavoro di riflessione comune che passando attraverso diverse redazioni, ha condotto alla pubblicazione del documento Confessare una sola fede.

Il terzo filone di riflessione riguarda il problema dei sacramenti e del ministero. In questo contesto è nato un documento che certamente è il più significativo dei documenti prodotti dal dialogo ecumenico multilaterale. E questo sia per il lungo tempo adoperato per l'elaborazione del testo, sia per la quantità di persone e di chiese ripetutamente consultate, sia per l'ampia riflessione di cui è stato oggetto. Si tratta del così detto BEM, cioè Battesimo, Eucaristia, Ministero (1982).

Il quarto filone, infine, riguarda il rapporto fra unità della chiesa e unità del genere umano. L'approfondimento di questa problematica ha portato alla formulazione, dapprima, del documento L'unità del mondo oggi e poi del testo Chiesa e mondo del 1991.

2. Nel mondo ortodosso

Fino alla prima guerra mondiale domina fra gli ortodossi un generale senso di diffidenza verso l'occidente, a causa anche dell'atteggiamento missionario che cattolici e protestanti avevano tenuto nei confronti dei fedeli ortodossi. La svolta decisiva avvenne dopo la prima guerra mondiale. Ne è segno l'accoglienza positiva che i capi delle chiese ortodosse riservarono alla delegazione episcopaliana statunitense, che nel 1919 visitò l'Europa per invitare le chiese a una futura conferenza mondiale a Fede e Costituzione. A questo farà poi seguito anche una lettera del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli destinata a tutte le chiese di Cristo, dovunque esse si trovano (1920). Questa iniziale 'apertura' del mondo ortodosso trova la sua concretizzazione nell'invio di rappresentanti ortodossi alle varie conferenze mondiali di Fede e Costituzione e di Vita e Azione. Tuttavia rimanevano delle perplessità. Molti, infatti, erano persuasi che il 'movimento ecumenico' fosse un'espressione e un mezzo per realizzare le mire espansionistiche e coloniali dei paesi occidentali. Ovviamente, l'obiezione più seria era di carattere dottrinale e si fondava sul fatto che le chiese orientali possiedono la pienezza di verità. Mettersi in dialogo con gli eretici, dunque, sarebbe stato uno sminuire l'autorità della chiesa ortodossa. Gli intenti non erano poi così chiari ed univoci neanche fra i sostenitori dell'apertura ecumenica. Per alcuni, infatti, questo non era altro che un modo per estendere l'influenza dell'ortodossia fra gli occidentali.

Spesso si critica la lentezza dei progressi ecumenici compiuti nell'ambito del Consiglio Ecumenico. Si tratta di una critica che non tiene adeguatamente in considerazione la natura stessa di questo organismo. Il Consiglio Ecumenico, infatti, è 'una fraterna associazione di chiese' che conservano la loro autonomia e il loro diritto di ratifica delle scelte compiute dall'Assemblea. La considerevole varietà di chiese che lo formano, la Molteplicità delle posizioni teologiche ed ecclesiologiche, le diverse sensibilità culturali proprie ai contesti nei quali operano le chiese, necessariamente si ripercuotono nel cammino ecumenico del Consiglio rendendolo lento, variegato, complesso.

In seguito alla seconda guerra mondiale, i rapporti delle chiese ortodosse con il mondo ecumenico della Riforma attraversarono una certa crisi, a causa anche della nuova situazione politica venutasi a creare. Infatti, la creazione del blocco di stati controllati dai comunisti condizionerà significativamente i rapporti tra i cristiani d'oriente e d'occidente. Espressione di queste difficoltà sono le decisioni prese durante la consultazione dei rappresentanti delle chiese autocefale che si tenne a Mosca nel luglio del 1948, in occasione del 500° anniversario della proclamazione dell'autocefalia della chiesa Russa.

Fra l'altro, tale consultazione espresse giudizi molto entici nei confronti del nascente movimento ecumenico. Oltre all'accusa di essere 'uno strumento dell'imperialismo americano' si criticava il Consiglio Ecumenico delle Chiese perché intenderebbe dar vita a una nuova chiesa ecumenica; perché svolgerebbe attività sociali e politiche che non competono alle chiese; perché si farebbe promotore di una radicale sfiducia verso la possibilità di giungere all'unità nella chiesa una santa cattolica e apostolica che è la chiesa ortodossa; perché la base dottrinale, con il suo richiamo unicamente alla fede in Cristo, svuoterebbe di contenuto la fede cristiana, che è trinitaria. In forza di tale giudizio solo gli ortodossi saranno presenti, in qualità di delegati delle loro chiese, alla prima conferenza mondiale di Amsterdam (1948).

Tuttavia le cose erano destinate a cambiare progressivamente. Nel 1952 abbiamo una lettera enciclica del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, dove si parla della partecipazione della chiesa ortodossa al Consiglio Ecumenico delle Chiese come una realtà 'necessaria' in quanto offre la possibilità di affrontare insieme agli altri cristiani i grandi problemi che affliggono l'umanità, come anche la possibilità di far conoscere agli eterodossi il tesoro della fede ortodossa,

Dopo la conferenza di Evanston (1954), alla quale parteciparono una trentina di ortodossi, vennero avviati contatti epistolari e personali fra il Consiglio Ecumenico e il Patriarcato di Mosca. Questo porterà nel 1961 all'ingresso della chiesa russa nel Consiglio Ecumenico, in seguito a tale passo, poi, progressivamente (tra il 1961 e 1965) anche le altre chiese ortodosse aderiranno al Consiglio.

Da allora il contributo che le chiese ortodosse hanno offerto al Consiglio Ecumenico è stato considerevole, sia in termini di persone che hanno collaborato alle varie strutture, sia in termini di riflessione e di stimoli teologici. Va detto però che la presenza degli ortodossi nel Consiglio Ecumenico delle Chiese spesso è stata anche problematica sia per gli uni che per gli altri. Emblematica a questo riguardo la dichiarazione dei delegati ortodossi presentata all'assemblea di Canberra, dove si esprimono chiare preoccupazioni circa la finalità, i mezzi, i contenuti dell'azione ecumenica perseguita dal Consiglio.

Negli anni '90 la tensione crebbe ulteriormente (anche a motivo della nuova situazione politica ed ecclesiale venutasi a creare nell'Est Europa.- caduta del muro di Berlino, libertà di culto riconosciuta anche alle chiese greco-cattoliche, arrivo massiccio di nuove chiese e di sètte, crescita dei nazionalismi, chiese locali in difficoltà ...), portando progressivamente a creare un forte sentimento antioccidentale e antiecumemeo (in questo contesto progressivamente maturerà, anche per tensioni interne, la decisione della chiesa ortodossa di Georgia di ritirare la sua adesione al Consiglio Ecumenico).

Conseguentemente, ad Harare, il tema della partecipazione e della collaborazione delle chiese ortodosse con il Consiglio Ecumenico delle Chiese ha avuto un peso rilevante. Tagliente l'intervento del capo della delegazione russa, Hilarion Alfeyev: «Dopo tanti anni di impegno ecumenico da parte nostra appare chiaro che la chiesa ortodossa e le chiese di tradizione protestante hanno camminato in direzioni diverse. Gli ortodossi non possono influenzare il programma di lavoro perché sono sempre in minoranza. Non abbiamo mai discusso temi che sono importanti per noi, come la venérazione della vergine Maria, la venerazione delle icone, la venerazione dei santi perché tali temi sono ritenuti divisivi. Ma che dire del linguaggio inclusivo e del sacerdozio delle donne: non sono questi divisivi?... Ci sentiamo sempre meno a casa nostra qui... Gli ortodossi non sono più soddisfatti del programma di lavoro e della struttura del CEC.... Alcuni, in questa sala, dicono: 'Se non siete soddisfatti, andatevene'. Noi non vogliamo andarcene; vogliamo restare, vogliamo continuare il nostro viaggio insieme. Ma vogliamo che il CEC sia radicalmente trasformato, perché possa essere davvero una casa per gli ortodossi nel secolo a venire».

3. Nel mondo cattolico

Di fronte alle iniziative ecumeniche sorte nel mondo della Riforma la gerarchia della chiesa cattolica mantenne un atteggiamento sostanzialmente negativo fino al Vaticano II. Il rifiuto cattolico aveva un chiaro fondamento ecclesiologico; si fondava sulla persuasione che nonostante le divisioni, la chiesa di Cristo è presente m modo esclusivo nella chiesa cattolica romana, fondata ed edificata sull'unico Pietro, dotata di un magistero autorevole perché sia indefettibile il suo credo. Per questa sua unità e per questa sua struttura, la chiesa cattolica romana è la chiesa voluta da Cristo, dalla quale tutte le altre comunità cristiane si sono staccate perdendo il loro carattere ecclesiale.

Fondandosi su tali principi, la chiesa cattolica non poteva sostenere altro ecumenismo che non fosse quello del ritorno alla chiesa lasciata. Dunque le varie iniziative ecumeniche sorte all'interno delle chiese della Riforma, non potevano riguardare direttamente la chiesa cattolica: questa possiede già l'unità che Cristo ha voluto per la sua chiesa. Le varie iniziative ecumeniche, se mai, riguarderanno il mondo della Riforma e dovrebbero mirare a creare una maggiore unità fra queste chiese e a favorire il ritorno alla chiesa cattolica (cf. l'enciclica Mortalium Animos (1928) di Pio XI; l'enciclica Mystici Corporis (1943) di Pio XII; l'Istruzione Ecclesia Catholica (20.12.1949) del S. Ufficio)

All'atteggiamento chiuso e diffidente della gerarchia cattolica corrisponde un interessamento crescente da parte di singoli teologi e di gruppi di fedeli al problema dell'unità e alle iniziative ecumeniche fra i non cattolici. Fra gli anni '20 e '50 la chiesa cattolica è percorsa a livello di base da correnti che in forme diverse si interessano al problema dell'unità e che sensibilizzano il mondo cattolico al problema ecumenico; correnti che privilegiano ora l'aspetto spirituale (cf. Couturier e altri che si interessano alla diffusione della preghiera per l'unità dei cristiani; oppure le abbazie di Chevetogne e di Niederalteich che accanto a una seria produzione teologica, danno un grande risalto all'azione liturgica e alla vita spirituale); ora l'aspetto pastorale (cf. il movimento di Una Sancta Bruderschaft), ora l'aspetto storico e teologico (cf. J. Lortz, Y Congar, H. de Lubac, K. Rahner, M. D. Chenu, P Y Frére...). Un grande contributo alla maturazione della sensibilità ecumenica in ambito cattolico è venuto, infine, da quei movimenti di rinnovamento che precedettero il Concilio: il rinnovamento biblico, patristico, liturgico, teologico ... Tutti questi sviluppi, progressivamente, prepareranno la svolta ecumenica del Vaticano II (cf Unitatis Redintegratio).

Terminato il Concilio, la chiesa cattolica si è realmente impegnata a porre in atto quanto espresso nei vari documenti, non senza difficoltà e tentennamenti. Fra le iniziative postconciliari va ricordato: a) il sorgere a livello di chiese locali di commissioni per l'ecumenismo; b) l'attenzione al problema ecumenico nell'ambito della formazione teologica; c) la diffusione della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani; d) l'istituzione di centri di studio con una chiara finalità ecumenica; e) l'avvio di dialoghi bilaterali con le altre confessioni cristiane sia a livello mondiale che locale.

In questo contesto, in particolare, va ricordata l'attività del Segretariato per l'unità dei cristiani (oggi Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani), il quale ha prodotto diversi documenti di carattere ecumenico, fra i quali occorre ricordare il nuovo direttorio ecumenico (1993). Si tratta di un testo che vuole essere punto di riferimento per tutta l'azione ecumenica della chiesa cattolica. Per cui in esso si offrono chiare indicazioni dottrinali e comportamentali per tutti i fedeli e specialmente per coloro che sono direttamente impegnati nella causa dell'unità, raccogliendo tutte le norme già fissate per applicare e sviluppare il concilio e per adattarle alla realtà attuale.

Anche i pontefici, dopo il Vaticano II, in moltissime occasioni e in diversi modi hanno testimoniato l'impegno della chiesa cattolica per la causa dell'unità. Molti sono i gesti compiuti è le parole dette. Qui ci limitiamo a menzionare due recenti documenti pontifici. Il primo documento da ricordare è l'enciclica Orientale Lumen (2 maggio 1995). Si tratta di una lettera che non presenta, in realtà, novità di rilievo. Tuttavia riveste un ruolo importante per il cammino ecumenico, perché è apparsa in un periodo di particolare difficoltà nei rapporti fra oriente e occidente; difficoltà sorte a causa della concreta situazione determinatasi nei paesi dell'ex blocco comunista, dove l'azione della chiesa cattolica e delle chiese greco-cattoliche è vista come un'intrusione nella vita di chiese ortodosse.

Il secondo testo da ricordare è l'enciclica Ut Unum Sint (25 maggio 1995). Questa enciclica nasce dal desiderio di unità che anima l'impegno pastorale dell'attuale pontefice e vuole essere un invito rivolto a tutta la chiesa cattolica ad operare per l'unità della chiesa. In essa l'impegno ecumenico della chiesa cattolica viene definito 'irreversibile'.

4. dialoghi bilaterali

Il coinvolgimento della chiesa cattolica nel movimento ecumenico si è concretizzato fra l'altro nell'avvio di dialoghi bilaterali con varie confessioni cristiane. La forma bilaterale di dialogo è una novità in ambito ecumenico (il Consiglio Ecumenico delle Chiese privilegia il dialogo multilaterale) e coinvolge un diverso soggetto, cioè le Federazioni/Alleanze di chiese (il Consiglio Ecumenico è invece formato da chiese territoriali).

Il dialogo bilaterale consente ai partners di elaborare un adeguato piano di lavoro, una specifica metodologia; di individuare problematiche specifiche, di precisare con maggiore chiarezza il fine a cui tendere. Per questi suoi aspetti positivi il dialogo bilaterale si è largamente diffuso (vedi dialoghi della Chiesa cattolica con altre confessioni, sia a livello mondiale che locale; ma anche dialoghi fra le stesse confessioni separate da Roma).

Questa fitta rete di dialoghi ha prodotto un enorme numero di testi di convergenza teologica (ovviamente, i documenti prodotti da tali commissioni non hanno valore vincolante per le chiese: sono proposti alla riflessione e alla ricezione delle chiese) nei quali si precisano le posizioni dottrinali reciproche; si determinano convergenze teologiche; si favoriscono migliori relazioni reciproche.

I molti temi affrontati in questi dialoghi si possono riassumere attorno ad alcuni nuclei: a) autorità nella chiesa (la Sacra Scrittura, la Tradizione, le professioni di fede, le decisioni conciliari, il magistero); b) giustificazione; c) ministero ordinato (natura, funzioni, struttura del ministero); d) teologia sacramentaria; nozione di sacramento, eucaristia e battesimo; e) i matrimoni interconfessionali; f) chiesa (un tema che sta diventando sempre più rilevante e centrale nei vari dialoghi).

In questo contesto va ricordato anche il Gruppo Misto di lavoro tra la Chiesa cattolica e il Consiglio Ecumenico delle Chiese, istituito nel 1965. Il gruppo ha prodotto diversi rapporti ufficiali nei quali troviamo un'attenta analisi della situazione ecumenica. Ha promosso anche studi su temi che riteneva di particolare importanza ecumenica: sulla cattolicità e apostolicità, sul proselitismo, sulla professione di fede comune, sulla testimonianza comune, sulla gerarchia delle verità, sulla chiesa locale e universale e sulla formazione ecumenica

Volendo concludere queste brevi indicazioni, ci sembra significativo ricordare le parole dell'ex segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, Ph. A. Potter, il quale in un'occasione ebbe a dire: «È assai ironico notare che i rapporti del CEC con la più importante delle chiese non affiliate, quella cattolico romana, siano stati più intensi che non con molte delle chiese membri».

(Tratto da Ordine dei Frati Minori, La vocazione ecumenica del francescano, ISE Venezia - Roma, 2001, pp. 78-92)

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Papa Ratzinger e chiese ortodosse:prove tecniche di unità

 

Una forte affermazione del "servizio petrino", senza menzionare esplicitamente la possibilità del cambiamento delle sue "forme di esercizio" attraverso una effettiva "collegialità episcopale": è il filo conduttore di alcuni recenti discorsi del papa, di particolare importanza ecumenica, dato che avevano come sfondo i rapporti con la Chiesa ortodossa russa e con il patriarcato di Costantinopoli.

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Ecumenismo
e rinascita spirituale
di Luca Maria Negro


Quarant'anni fa nasceva il Gruppo misto di lavoro (Gml) tra la Chiesa cattolica e il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Per celebrare questo anniversario, così come i quarant'anni del decreto sull'ecumenismo del concilio Vaticano II (Unitatis redintegratio), il Cec e il Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani hanno organizzato una consultazione a Ginevra dal 17 al 19 novembre. Tema dell'incontro sarà una riflessione sul contributo del Gml al rinnovamento dell'ecumenismo nel XXI secolo. La consultazione si aprirà con un evento pubblico al Centro ecumenico di Ginevra (presenti fra gli altri il cardinal Walter Kasper e il moderatore del Comitato Centrale del Cec, il Catholicos Aram I), per poi proseguire all'istituto ecumenico di Bossey (Ginevra), dove si svolse la prima riunione dei Gml, nel maggio 1965.

Il Gruppo misto di lavoro è un forum consultivo che ha il compito di avviare, di valutare e di sostenere la collaborazione fra Cec e Chiesa cattolica, rispondendo del suo lavoro alle rispettive autorità, che sono l'Assemblea e il Comitato centrale del Cec e il pontificio consiglio per l'unità.

Il Gml ha appena pubblicato il suo ottavo rapporto. Si tratta di un utile strumento non solo per conoscere il Gruppo e le sue attività, ma anche per «sentire il polso» del movimento ecumenico ed in particolare per osservare l'impegno cattolico negli organismi ecumenici. In un momento di apparente stagnazione è incoraggiante scoprire la miriade di iniziative ecumeniche in cui la Chiesa cattolica è impegnata. Per esempio, anche se formalmente non fanno parte del Cec, i cattolici sono ufficialmente rappresentati in tutte le aree dl attività programmatica del Consiglio ecumenico: dalla Commissione teologica «Fede e Costituzione», ai programmi relativi a missione ed evangelizzazione, formazione ecumenica, dialogo interreligioso.

Anche se molto del lavoro teologico è passato a «Fede e Costituzione», il Gml continua a produrre propri studi su temi specifici. Tre documenti sono stati pubblicati nel corso dell'attuale mandato (1999-2005). Il primo studio riguarda le implicazioni ecclesiologiche ed ecumeniche del battesimo comune. Il secondo affronta la natura e gli obiettivi del movimento ecumenico, soffermandosi in particolare sulle recenti difficoltà (il risorgere dei confessionalismi, la difficoltà nella ricezione dei dialoghi teologici). Il terzo studio, intitolato «ispirati dalla stessa visione», riguarda la partecipazione cattolica nei consigli nazionali e regionali di Chiese. Vale la pena di notare che la Chiesa cattolica è membro di tre Consigli regionali (Conferenza delle Chiese dei Caraibi, Consiglio delle Chiese del Medio Oriente e Conferenza delle Chiese del Pacifico) e di ben 70 Consigli nazionalI di Chiese. L'Italia, purtroppo, non fa ancora parte di questa lista...

Infine, è interessante soffermarsi sulla raccomandazioni che l'attuale Gml, alla conclusione del proprio mandato, formula per il futuro. Il Gruppo individua tre aree che richiedono una speciale attenzione per il lavoro comune di Chiesa cattolica e Cec. La prima area riguarda la necessità di tornare alle «radici spirituali» dell'ecumenismo. La seconda area critica è quella della formazione ecumenica per laici e clero, visto che «una nuova generazione di cristiani a volte non è cosciente di come stessero le cose e di come siano cambiate» negli ultimi decenni. La terza area è quella delle difficoltà che, in misura crescente, le Chiese incontrano nel dare una testimonianza comune nel campo dell'etica personale e sociale. Il Gml si riferisce a temi quali la bioetica, i diritti umani, civili e religiosi, la pace e la giustizia sociale, la «guarigione delle memorie», la sessualità umana e la riproduzione. L'area dell'etica sembra dunque essere la più problematica. Per superare l'attuale impasse, il Gml propone di sviluppare una «esplorazione congiunta dei fondamenti filosofici e teologici della antropologia cristiana». Ma forse - è il mio commento - sarà proprio la prima raccomandazione del Gml, cioè lo sviluppo di un «ecumenismo spirituale» che valorizzi la ricchezza di ciascuno, a consentirci di superare questa e altre difficoltà del cammino ecumenico.


(da Mondo e Missione, ottobre 2005 p. 27)
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Centralità della prospettiva ecumenica
nei documenti del concilio
di Lorenzo Cappelletti




Il Simposio annuale che il COP organizza assieme all'Istituto teologico leoniano è giunto alla sua VII edizione e dunque comincia ad assurgere ormai alla dignità di un appuntamento tradizionale in questo mese di gennaio. Il tema scelto quest'anno, «Parrocchia, comunità di vita ecumenica. Esperienze di ecumenismo in parrocchia», oltreché stimolante è, per molteplici ragioni, legato alla natura e al compito tanto del COP quanto dell'Istituto teologico.

Lascio ad altri autorevoli interventi di rappresentanti del COP, in primis quello di mons. Bonicelli per tanti anni suo presidente, di introdurre i lavori, situando nell'attualità pastorale tale tema. Per conto mio vorrei solo ricordare innanzitutto la centralità della prospettiva ecumenica nei documenti del concilio ecumenico Vaticano II. A cominciare dal discorso d'apertura della seconda sessione del concilio, il 29 settembre 1963, quando Paolo VI disse che, insieme a una più meditata definizione che la Chiesa doveva dare di sé e al suo rinnovamento, «terzo scopo che interessa questo concilio e ne costituisce, in un certo senso, il suo dramma spirituale è quello che riguarda gli altri cristiani, coloro, cioè, che credono in Cristo ma che noi - diceva il papa con la sua prosa accurata - non abbiamo la fortuna di annoverare con noi compaginati nella perfetta unità di Cristo».

D'altra parte, tanto in apertura che in chiusura dei lavori di quel concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI ne affermavano all'unisono la natura tipicamente pastorale: «Si dovrà ricorrere a un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale», diceva papa Giovanni l'11 ottobre 1962; gli facevano eco le parole di Paolo VI nella omelia di chiusura del 7 dicembre 1965, quando diceva che «il concilio aveva scelto la sollecitudine pastorale come nota specifica dei suoi lavori».

Se si uniscono le due prospettive, si vede che niente è più congruo al mandato del concilio di un simposio che metta a tema l'ecumenismo in chiave pastorale. E specificamente all'interno delle attività di una realtà impegnata nella pastorale come il COP e delle attività di un centro di studi come l'Istituto teologico leoniano. Si legge infatti in Unitatis redintegratio 5 che «la cura di ristabilire l'unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e tocca a ognuno secondo le proprie capacità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici e storici». E ancora al n. 10 che «l'insegnamento della sacra teologia e delle altre discipline specialmente storiche [questo, in quanto storico, mi riguarda anche più personalmente] deve essere fatto anche sotto l'aspetto ecumenico».

Altri documenti usciti recentemente fra cui il Direttorio per l'applicazione dei principi e delle norme sull'ecumenismo del 1993, a cura del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, o l'enciclica Ut unum sint del 1995, sono venuti non solo a ribadire che «tutti i fedeli sono chiamati ad impegnarsi per realizzare una comunione crescente con gli altri cristiani» (Direttorio § 55), ma a dettagliare le modalità di tale impegno. Affermando che ambiti privilegiati della formazione ecumenica debbano essere la parrocchia (cf. § 67), gruppi, associazioni e movimenti ecclesiali (§ 69) e le Facoltà ecclesiastiche, tanto che, «nell'insegnamento e nella ricerca teologica non deve mai mancare la dimensione ecumenica» (§ 88). Ma è anche in ragione della sua origine da Leone XIII che l'Istituto teologico leoniano deve mantenere viva una particolare attenzione alla riunificazione dei cristiani, a cui il suo fondatore dedicò ben 6 encicliche, 7 lettere apostoliche, 14 allocuzioni e 5 discorsi. Scrive Bernard Stasiewski: «Con il pontificato di Leone XIII, che, oltre alla sua generosa politica di comprensione nel campo politico e sociale,intendeva perseguire una riconciliazione con gli anglicani e con le Chiese orientali autonome, cominciò una nuova fase dei rapporti fra Roma e la cristianità dell'Oriente».

Eppure quel papa proveniva da una terra che non aveva conosciuto per esperienza diretta i problemi e le opportunità legate alla compresenza di differenti confessioni cristiane.

Ora questa terra è diventata, come tutta l'Italia, luogo di immigrazione di uomini provenienti da tanti Paesi dell'Europa, dell' Asia, dell' Africa, parte dei quali appartenenti a comunità non in piena comunione o anche soltanto con usi diversi da quelli latini. E dunque il dramma spirituale del concilio (il concilio, ricordiamolo, non solo di Unitatis redintegratio ma anche di Gaudium et spes e di Dignitatis humanae) è diventato obiettivamente il dramma di ogni singolo cristiano anche delle nostre parrocchie. Ma con ciò è diventato più nostro un aspetto del disegno provvidenziale di Dio che magari fin qui risultava incomprensibile: il movimento degli uomini, popoli e nazioni rende presente il senso provvidenziale che tutto governa, come si legge nel discorso di Paolo all'Areopago: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché cercassero Dio se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui, infatti, viviamo ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto "Perché di lui stirpe noi siamo"» (At 17,26-28).

Come già riconosceva al suo esordio Unitatis redintegratio è «il Signore dei secoli che con sapienza e pazienza persegue il disegno della sua grazia verso di noi peccatori» (n.1) l'autore primo di «questo movimento per l'unità chiamato ecumenico» (ivi). Non solo perché ha cominciato a effondere con maggiore abbondanza nei cristiani tra loro separati l'interiore ravvedimento e il desiderio dell'unione, ma forse anche attraverso proprio quel grande muoversi di uomini e popoli che caratterizza la nostra epoca.

(da Orientamenti pastorali, 4, 2005)

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La domenica,
giorno della riconciliazione dei cristiani
Card. Walter Kasper
Presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani

crismon


"La domenica, giorno della riconciliazione dei cristiani" – mi sembra che non ci sia un altro luogo dove sia più appropriato parlare su questo tema talmente fondamentale ed urgente che qui a Bari, città ponte fra Occidente e Oriente, luogo della tomba di San Nicola, il santo della carità riconciliante venerato sia in Oriente che in Occidente; Bari, luogo dove nel 1098 durante il pontificato di Papa Urbano II ha avuto luogo un sinodo di vescovi greci e latini; Bari, luogo di pellegrinaggio di fedeli ortodossi e cattolici, luogo di impegno ecumenico e di fervida nostalgia per la riconciliazione e l’unione fra le due parti della cristianità divise da mille anni.

Perché non sperare che qui a Bari, 1.000 anni dopo il sinodo del 1098 nel 2098 [e perché non prima?], possiamo celebrare nuovamente un sinodo di vescovi greci e latini, un sinodo di riconciliazione? Il nuovo pontificato ci ha dato la speranza che tali attese non sono pure utopie. Speriamo di cuore, ed io ne sono profondamente convinto, che dopo i grandi sforzi e gli importanti passi di Papa Giovanni Paolo II, il nuovo Papa Benedetto XVI spiani ed apra la strada per una tale prospettiva. Ciò sarà possibile se combiniamo l’entusiasmo e lo slancio ecumenico con uno sguardo realistico sull’attuale situazione ecumenica e se nella scena ecumenica in rapido cambiamento percepiamo sia le difficoltà, che non sono da sottovalutare, che le nuove chance.

crismon


I. La domenica – segno ecumenico d’identità cristiana

Cominciamo con ciò che i cristiani hanno in comune, che è la solida base di ogni impegno ecumenico, e la speranza che abbiamo per il futuro cammino ecumenico. Questa base comune, che oggi già esiste fra ortodossi, cattolici e protestanti, viene espressa proprio nel tema di questo giorno: "La domenica, giorno per la riconciliazione dei cristiani". Questo tema ci ricorda che – malgrado tutte le differenze – ciò che abbiamo in comune è molto più di ciò che ci divide. Abbiamo in comune la celebrazione della domenica, che dagli inizi del cristianesimo è stata il segno che distingueva i cristiani dagli ebrei e dal loro shabbat e che ci distingueva ancor di più dai pagani, anche dai pagani odierni, per i quali la domenica è divenuta semplicemente un ‘fine settimana’. La domenica è un segno distintivo e un segno ecumenico d’identità cristiana.

Già per i primi cristiani la domenica era il primo giorno della settimana (cf. 1 Cor 16,2), che essi celebravano come il giorno del Signore (kyriake hemera) (cf. Atti 1,10), come una piccola Pasqua del Signore, come "sacramento pasquale" secondo le parole di Agostino (Commento a Giovanni 20,20,2). Nelle chiese orientali, la domenica è tuttora il giorno della Resurrezione (anastasimos hemera). Così la domenica per tutti cristiani è significativa per il centro e il fondamento della fede cristiana, cioè la fede in Gesù Cristo nostro Signore, la fede nella resurrezione e la speranza nella vita, che non finisce con la morte, che con la morte non è tolta ma soltanto trasformata. Ogni volta che celebriamo l’eucaristia diciamo: "Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione nell’attesa della tua venuta."

I cristiani sono coloro che celebrano la domenica come giorno del Signore. Devo aggiungere: I cristiani sono coloro, che non solo celebrano la domenica, ma anche vivono secondo la domenica, cioè vivono come uomini della domenica. Questa affermazione ci viene fornita da un Padre comune della Chiesa indivisa, un grande vescovo dei primi tempi della Chiesa che ha dato testimonianza del suo essere cristiano con la propria vita, che dunque sapeva quale fosse la ragione ed il fine dell’esistenza cristiana e che non ha esitato ad affrontare a Roma le fiere, che non ha eluso la morte. Si tratta del vescovo martire Ignazio di Antiochia. In una lettera scritta durante la sua prigionia mentre lo stavano conducendo a Roma come condannato a morte, egli dice: Essere cristiani significa "vivere secondo la domenica" (Ad Magn 9,1) Una formulazione veramente geniale!

Nello stesso senso una delle martiri della Chiesa primitiva confessò: "Sì, sono andata all'assemblea e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana" (cit. Enciclica "Dies Domini", 46). Capiamo allora perché i martiri di Abitana proclamarono davanti al giudice pagano: "Non possiamo vivere senza la domenica". Se rinunciassimo all’assemblea domenicale, rinunceremmo a noi stessi, negheremmo la nostra stessa identità.

Papa Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica, Dies Domini (1995) ha scritto lo stesso per il nostro tempo: "Alle soglie del terzo millennio, la celebrazione della domenica cristiana, per i significati che evoca e le dimensioni che implica, in rapporto ai fondamenti stessi della fede, rimane un elemento qualificante dell'identità cristiana" (n. 30). "È importante perciò che [i cristiani] si radunino, per esprimere pienamente l'identità stessa della Chiesa, la ekklesía, l'assemblea convocata dal Signore risorto" (Dies Domini, 31). E giustamente il Papa ha aggiunto indicando il pericolo di perdere questa identità cristiana: "Quando la domenica perde il significato originario e si riduce a puro ‘fine settimana’, può capitare che l'uomo rimanga chiuso in un orizzonte tanto ristretto che non gli consente più di vedere il ‘cielo’"(Dies Domini, 4).

Si, senza la celebrazione della domenica non siamo più identificabili, riconoscibili, distinguibili dagli altri, non siamo più trasparenti come cristiani, e senza identità visibile corriamo il rischio di non essere più presi in considerazione, di diventare una realtà insignificante. Ma non dobbiamo forse domandarci, se questo non sia veramente successo nel nostro tempo in larga misura secolarizzato? A molti l’orizzonte sembra chiuso e il cielo offuscato; la speranza è diventata una ‘merce’ rara, e molti non sanno più cos’è il significato della vita e cos’è il significato della morte. Un enorme comune compito ecumenico, persino una vera sfida ecumenica si apre con tale constatazione!

crismon


II. Lo scandalo della divisione, che diamo ogni domenica

Lo scandalo che la cristianità dà al mondo ogni domenica consiste nel doloroso e deplorevole fatto che, sebbene abbiamo la domenica insieme, tuttavia non celebriamo la domenica insieme; invece di dare una testimonianza comune, diamo un segno di divisione perché andiamo ogni domenica in diverse chiese. Questo scandalo è ancora più sentito in situazioni – come per esempio nella mia patria – nelle quali esistono molti matrimoni e famiglie misti, che non possono celebrare la domenica in comune perché non possono partecipare alla comune mensa del Signore.

Negli ultimi decenni, sin dal Concilio Vaticano II, abbiamo preso coscienza che questa situazione è contro la volontà di Gesù Cristo, che ha voluto una sola Chiesa e che alla vigilia della sua morte ha pregato affinché tutti i suoi discepoli siano una sola cosa (Gv 17,21). In ogni celebrazione eucaristica domenicale confessiamo la nostra fede nell’ "una, santa Chiesa". Dunque non dobbiamo abituarci alla situazione della divisione; essa è peccato davanti a Dio e scandalo davanti al mondo. Le nostre divisioni hanno – come dice l’apostolo Paolo – diviso Cristo (cf. 1 Cor 1,13).

Perciò l’impegno e il dialogo ecumenico non sono un qualsiasi liberalismo, anzi, sono la fede ecclesiale presa sul serio e realizzata nella prassi. Essi non sono radicati in un relativismo o indifferentismo dogmatico, che non prende più sul serio i dogmi della Chiesa. Anzi, soltanto uno, che ha la sua propria identità, può essere un serio partner nel dialogo ecumenico. Due lembi di nebbia, che sfumano l’uno nell’altro, non possono veramente incontrarsi ed avere dialogo. L’impegno ecumenico prende sul serio ciò che ci dice la Sacra Scrittura e tutta la tradizione della Chiesa, cioè che c’è soltanto un Dio, un Signore Gesù Cristo, un battesimo, un corpo ed uno spirito (cf. Ef 4,4 s).

Come la situazione della divisione è in contraddizione con la nostra fede, così questa situazione è anche in contraddizione con la stessa celebrazione domenicale, la celebrazione dell’eucaristia. Ogni volta che leggiamo il Nuovo Testamento, che è il testo di riferimento fondamentale per tutti i cristiani, troviamo sempre la frase: "quando vi radunate in assemblea" (1 Cor 11,18.20, cf. 14,23.26). La domenica prevede dunque che i cristiani si radunino, si riuniscano, facciano l’esperienza della comunità. Il Nuovo Testamento è ancora più preciso. Parlando degli apostoli, dice: "si trovavano tutti insieme nello stesso luogo" (Atti 2,1) e della prima comunità racconta: "tutti insieme frequentavano il tempio" (Atti 2,46). Non si dice: che i cristiani vengano in gruppi e gruppetti distinti. No. Si dice: che essi si riuniscano tutti in un luogo, come un’unica comunità di Dio, come un unico popolo di Dio.

[Questa idea del "radunarsi insieme" è talmente fondamentale, che è potuta diventare la definizione stessa della Chiesa. La Bibbia ha descritto la "Chiesa" con un termine che in ebraico significa assemblea (qahal). I Padri della Chiesa intendono con la parola greca ekklesia coloro che sono stati convocati. Cirillo di Gerusalemme ha affermato: "la parola Chiesa si spiega con il fatto che, per il suo tramite, tutti gli uomini vengono chiamati e riuniti". Isidoro di Siviglia, che nel Medioevo ha tramandato il patrimonio dei Padri della Chiesa, ha ripreso tale definizione: "Ekklesia è definita la Chiesa, poiché essa chiama tutti a sé e riunisce tutti". Una delle più antiche e maggiormente diffuse definizioni di Chiesa è dunque quella di congregatio fidelium, assemblea dei fedeli.]

L’assemblea domenicale ha il suo fulcro ed il suo apice nella celebrazione comune dell’Eucaristia, che è sacramento dell’unità. Una delle più antiche definizioni dell’Eucaristia è synaxis, raduno, riunione. Tale concetto ha il suo fondamento nell’insegnamento dell’apostolo Paolo. Nella prima lettera ai Corinzi egli scrive: "Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane" (1 Cor 10,17). Un pane, un corpo. In un documento della prima metà del secondo secolo, appartenente dunque al tempo immediatamente post-apostolico, leggiamo: "Nel modo in cui questo pane spezzato era sparso qua e là sopra i colli e raccolto divenne una sola cosa, così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno dai confini della terra" (Did 9,4).

Sant’Agostino si rifà a quest’immagine delle molteplici spighe riunite in un solo pane e descrive l’Eucaristia come "sacramento dell’unità e vincolo dell’amore" (Commento a Giovanni 26,6,13) (cf. SC 47; LG 3; 11; 26 ecc.). Di fatti, attraverso la comune partecipazione all’unico Corpo eucaristico di Cristo, noi diventiamo l’unico Corpo di Cristo, diventiamo cioè Chiesa. Ci raduniamo la domenica per diventare una cosa sola in Cristo, tramite l’Eucaristia. Pertanto, possiamo dire riassumendo: l’Eucaristia "è per sua natura una epifania della Chiesa" (Dies Domini, 34). La Chiesa, come pure ogni comunità locale, vive dell’Eucaristia, va edificata e cresce tramite l’Eucaristia (UR 15; cf. Enciclica "Ecclesia de eucharistia", 2003).

Con tali parole l’ecclesiologia eucaristica, tanto cara ai nostri fratelli ortodossi, ha trovato una ricezione ufficiale nella Chiesa cattolica. Ma con le nostre divisioni abbiamo messo altare contro altare e profondamente ferito l’una ed unica Chiesa di Cristo. Come è potuto succedere questo?

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III. Cause e conseguenze della divisione

La divisione tra Oriente e Occidente ha una lunga storia, che è iniziata ben prima delle scomuniche del 1054 e del vergognoso sacco di Costantinopoli del 1254. L’Oriente e l’Occidente hanno accolto fin dall’inizio lo stesso Vangelo in forme diverse, influenzate dalla rispettiva specifica cultura e mentalità. Questo ha condotto già nel primo millennio a tensioni e scismi, che – oltre alle cause estranee anche per mancanza di mutua comprensione e carità – si sono acuite e consolidate nel secondo millennio (cf. UR 14).

Tuttavia, malgrado talvolta delle dure polemiche, nel Medio Evo permaneva la consapevolezza di essere una sola Chiesa ed esistevano fino al tempo del Concilio di Trento singoli casi di una communicatio in sacris. Un – per così dire – totale scisma lo troviamo soltanto nei tempi moderni a causa di una ecclesiologia esclusivista dalle due parti, che dal Concilio Vaticano II fortunatamente abbiamo superato di nuovo. Nondimeno, finora non siamo stati capaci di superare la differenza più ovvia e la pietra d’inciampo: il ministero Petrino del vescovo di Roma come definito dai dogmi del Concilio Vaticano I sulla giurisdizione e sull’infallibilità del Papa. Le differenze risalgono già al primo millennio, dove Occidente e Oriente malgrado differenti concezioni vivevano in piena comunione.

Non si tratta dunque di uno scisma che può essere fatto risalire ad una data precisa; tutte le date di riferimento come il 1054 e il 1254 hanno più o meno un significato simbolico. Come il famoso ecumenista Yves Congar ha affermato si tratta piuttosto di un processo di reciproca estraniazione e alienamento, che oggi deve essere invertito tramite un processo di avvicinamento e di riconciliazione, che ci auguriamo non debba durare anch’esso 1.000 anni.

Come il processo dell’estraniazione e dell’alienamento era stato condizionato non soltanto da conflitti dottrinali ma anche da cause culturali e da una mentalità diversa, da eventi storici e politici deplorevoli, anche il processo inverso del ravvicinamento implica, accanto al dialogo teologico che è e rimane fondamentale, anche il dialogo della carità, la purificazione della memoria, il superamento dei pregiudizi, un’approfondita mutua conoscenza, la cooperazione pratica nel campo pastorale, culturale, sociale e politico, incontri e visite amichevoli, ospitalità e non ultimo amicizie personali. In tale modo speriamo di poter raggiungere un complemento, una osmosi e una pericoresi del principio Petrino della Chiesa latina e del principio sinodale e collegiale tanto caro alle chiese orientali.

La separazione fra Oriente e Occidente ha offuscato la testimonianza cristiana e ha indebolito le due parti dell’unica cristianità. Essa ha lasciato da sola la Chiesa orientale nella sua difesa contro l’Islam, mentre la cristianità latina si è sviluppata unilateralmente; essa ha, per così dire, respirato con un solo polmone e si è impoverita. Un tale impoverimento è stato una delle cause, tra le altre, della seria crisi della Chiesa nel tardo Medio Evo, che ha condotto alla tragica divisione del XVI secolo fra il mondo cattolico e quello protestante, una divisione che è stata molto più profonda di quella con le chiese orientali; della divisione occidentale dobbiamo deplorare importanti divergenze non solo d’indole storica, sociologica, psicologica e culturale, ma sopratutto d’interpretazione della verità rivelata (UR 19).

Paradossalmente proprio il sacramento dell’unità è divenuto una pietra d’inciampo e un punto di acerbe polemiche e profonde differenze con le comunità protestanti. La questione non è soltanto la reale presenza di Cristo nell’eucaristia ma anche il carattere sacrificale della celebrazione eucaristica. Il terzo punto della controversia, che finora non siamo stati capaci di risolvere è la questione del ministro dell’eucaristia, cioè la sacramentalità e validità del ministero ecclesiale e la comprensione della successione apostolica (cf. UR 22). In tutte le tre questioni, soprattutto con gli Anglicani e i Luterani, abbiamo raggiunto convergenze, ma tuttora non c’è un consenso sufficiente e stabile.

Mentre nello scisma fra Oriente e Occidente il tipo fondamentale e la struttura sacramentale e episcopale della Chiesa sono stati conservati, lo scisma occidentale (forse tranne l’alto-anglicanesimo e la Scandinavia) ha prodotto un altro tipo di chiesa che poi si è dissolto in una molteplicità di comunità ecclesiali. Purtroppo questo processo di frammentazione perdura tuttora. Nuove comunità cosiddette carismatiche e evangeliche emergono e aumentano rapidamente. Così la carta geografica ecclesiale rassomiglia ancora oggi alla pelle di un leopardo.

La triste conseguenza della divisione occidentale è stata la secolarizzazione della società occidentale, che dopo il crollo del muro di Berlino invade anche l’Europa orientale, e tramite la globalizazzione, influisce su tutto il mondo. Nei duri conflitti e nelle sanguinose guerre confessionali che seguirono la Riforma, nel Settecento è divenuto ovvio che la società europea aveva perso i suoi ormai comuni fondamenti per la convivenza e la pace; per raggiungere e mantener la pace non c’era un’altra soluzione se non quella di trovare tali fondamenti, non più nella fede ma in ciò che è comune a tutti gli uomini, la ragione umana. Essa è divenuta la base della vita pubblica, mentre le fede cristiana è stata ridotta e limitata alla sfera individuale. Così la fede cristiana è stata marginalizzata e ha perso il suo influsso sulla vita pubblica.

Ecco l’importanza e l’urgenza dell’impegno ecumenico. Esso non è soltanto un affare intra ecclesiale. Una nuova evangelizzazione dell’Europa e una nuova inculturazione della fede cristiana in Europa non sarà possibile senza un nuovo avvicinamento delle chiese e comunità ecclesiali in Europa. Solo ecumenicamente saremo in grado di raggiungere una nuova cultura domenicale.

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IV. Luci e ombre della situazione ecumenica

Il movimento ecumenico del XX secolo è uno dei rari sviluppi positivi e pieni di speranza in un secolo buio e sanguinoso. Sotto l’impulso dello Spirito di Dio (come ha costatato il Concilio Vaticano II), l’ecumenismo ha intrapreso d’invertire la rotta delle divisioni e d’iniziare un processo inverso di avvicinamento fino al ristabilimento della piena comunione (UR 1; 4). Papa Giovanni Paolo II ha ribadito spesso che la scelta ecumenica del Concilio Vaticano II è irreversibile; e siamo lieti e grati che il nuovo Papa Benedetto XVI già nel primo giorno del suo pontificato abbia dichiarato che, sulla scia del suo predecessore, l’unità della Chiesa è una sua priorità.

Nelle ultimi decenni Dio ci ha regalato enormi progressi. Nella comprensione dell’eucaristia abbiamo riscoperto la nostra comune tradizione con le chiese ortodosse (UR 15); con le comunità dalla tradizione della Riforma finora non abbiamo raggiunto un consenso, ma abbiamo superato molti malintesi e scoperto consensi parziali e convergenze importanti. Tali consensi abbiamo raggiunto soprattutto nella dottrina della giustificazione, che nel XVI. secolo era il centro e il fulcro della controversia.

Ma parlando delle luci del movimento ecumenico non penso soltanto ai documenti del dialogo teologico, per quanto importanti essi siano, penso anche a ciò che è avvenuto nella stessa vita della Chiesa. Durante l’ultimo giorno del Concilio abbiamo tolto dalla memoria della Chiesa gli anatemi del 1054, nel frattempo abbiamo superato molti pregiudizi, purificato la memoria, raggiunto una migliore mutua conoscenza; penso anche alle molte visite reciproche, alla mutua cooperazione a tutti i livelli della vita ecclesiale e in generale ad una fraternità riscoperta ed accresciuta.

La presenza di importanti delegazioni di quasi tutte le chiese e comunità ecclesiali ai funerali di Papa Giovanni Paolo II e alla solenne inaugurazione del nuovo Pontefice, ne era un segno, che alcuni decenni fa sarebbe stato del tutto inimmaginabile. Questi due eventi hanno mostrato la nuova realtà ecumenica a tutto il mondo visibile, e sono stati una chiara smentita alla stupida parola di un inverno ecumenico e persino di un’epoca glaciale ecumenica. I due eventi hanno mostrato che l’espressione ‘chiese sorelle’ non è soltanto un concetto astratto ed una parola a buon mercato; è una realtà. La Santa Sede, ed in particolare il Pontificio Consiglio per la promozione dell’ unità dei cristiani sono grati di questi segni di fraternità e insieme con il nuovo Papa si sentono impegnati ad andare avanti sulla scia del Concilio Vaticano II e della ricca eredità che Papa Giovanni Paolo II ci ha lasciato.

Infatti, i dialoghi ecumenici con i nostri fratelli protestanti continuano e persino portano talvolta buoni e sorprendenti frutti, come il nuovo documento cattolico-anglicano, molto costruttivo, su Maria e il suo ruolo nell’opera di redenzione, che malgrado tutte le ben note difficoltà nella Comunione Anglicana e con la Comunione Anglicana è stato pubblicato proprio in questi giorni.

Con i nostri fratelli ortodossi negli anni scorsi, malgrado tutte le difficoltà per il dialogo internazionale, siamo stati in grado di migliorare considerevolmente i nostri rapporti con singole chiese, per esempio con la chiesa di Grecia, di Serbia, di Bulgaria. Le difficoltà con la più grande chiesa ortodossa, la chiesa russo-ortodossa, sono conosciute e molti hanno letto con tristezza le aspre polemiche che si sono fatte sentire dopo la morte di Papa Giovanni Paolo II ancora prima che fosse sotterrato. Nondimeno, tramite contatti pazienti, sono stati possibili dei miglioramenti, resi evidenti dalla presenza ripetuta due volte di un’alta delegazione russo-ortodossa a Roma durante gli eventi summenzionati. Inoltre abbiamo la fondata speranza che quest’autunno ci sarà la ripresa del dialogo internazionale, come già due anni fa con successo abbiamo ripreso il dialogo con la famiglia delle chiese orientali ortodosse.

Tuttavia, non sarebbe né onesto né realistico non vedere anche i segni di una crisi; il dialogo ufficiale è diventato faticoso e spesso segna il passo. Talvolta ci sono ancora sospetti e paura, mancanza di fiducia a causa di ricordi negativi di ingiustizia sofferta nel passato, delusioni recenti e così via. C’è ancora molto da fare con la riconciliazione dei cuori. Ogni chiesa ha la sua lista di lamentele, ma d’altra parte nessuna chiesa è una comunità di angeli, senza errori e peccati; ognuna ha ragione per penitenza e un "mea culpa", come Papa Giovanni Paolo II lo ha espresso da parte della Chiesa cattolica. Non c’è ecumenismo senza conversione, ha detto il Concilio Vaticano II (UR 7), ed aggiungo: Non c’è ecumenismo senza perdono e riconciliazione. Non aiuta chiamare solo gli altri a cambiare la rotta, a convertirsi e pentirsi e ripetere tale richiesta in interviste come in un ritornello. La conversione e il rinnovamento deve cominciare da noi stessi, da ognuno di noi; sono sicuro che se ogni comunità comincia da se stessa, faremo tutti insieme progressi più rapidi e significativi.

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V. Il prossimo passo nel rapporto con le chiese orientali

Però, non c’è soltanto la questione di buona o cattiva volontà degli uni o degli altri.. Il problema di fondo è il problema teologico della Chiesa e la diversa concezione dell’unità e dello stesso scopo del cammino ecumenico. Il conflitto ecumenico è un conflitto sullo scopo ecumenico.

La concezione cattolica è nota. La Chiesa cattolica si comprende come Chiesa universale, inviata dal nostro Signore a tutte le nazioni (Mt 28,19). Non siamo una Chiesa nazionale, etnica o tribale; la Chiesa di Cristo è universale. Ma il Concilio Vaticano II ha anche riscoperto la dignità teologica della chiesa locale, che secondo l’antichissima tradizione del primo millennio non è solo una provincia e una parte, ma una porzione della Chiesa di Cristo, nella quale la Chiesa di Cristo è veramente presente (LG 26; CD 11), cosicché la Chiesa universale esiste solamente in e a partire dalle chiese locali (LG 23). Intanto l’unità della Chiesa cattolica esiste in una ricca molteplicità e la molteplicità nell’unità.

L’unità visibile è necessaria nella fede, negli sacramenti e nel ministero apostolico istituito da Cristo, e ciò vuole dire anche nel ministero Petrino che per noi è un vero dono del Signore per la sua Chiesa. Ma tale unità non significa affatto uniformità. Nell’ "una, santa Chiesa" una grande molteplicità di riti, di spiritualità, di teologie, di discipline canoniche non soltanto è possibile, ma persino auspicabile; tale pluralità non è una debolezza ma una ricchezza. Lo Spirito di Dio non è noioso, ma regala alla Chiesa una sovrabbondante ricca molteplicità di doni (1 Cor 12, 4—11).

Il riconoscimento della molteplicità ha conseguenze importanti per l’avvicinamento con le chiese orientali. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto che le chiese orientali sono vere chiese che "hanno facoltà di regolarsi secondo le proprie discipline" (UR 16). Il Concilio ha ricordato la regola del Concilio degli apostoli: "non imporre altro peso fuorché le cose necessarie" (Atti 15,28; cf. UR 18). Lo stesso Papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita qui a Bari ha proposto un’unità "che non è assorbimento e neppure fusione" (cit. Slavorum apostoli, 27). Poi ha invitato a un dialogo fraterno su come esercitare il ministero Petrino oggi e nel futuro cosicché possa essere accettabile per le altre chiese (Ut unum sint, 95). Cosa impedisce di incominciare già oggi qui a Bari a discutere questa proposta? Perché non riflettere insieme su una osmosi fra il principio di sinodalità e collegialità e il principio Petrino, che proprio nelle settimane passate ha mostrato la sua forza spirituale?

Noi riconosciamo che le chiese orientali nei loro paesi tradizionali hanno improntato una ricca cultura cristiana millenaria. Noi apprezziamo e amiamo questa cultura. Non abbiamo per niente l’intenzione di rendere cattolici i paesi, dove voi fratelli ortodossi, siete a casa da molti secoli, dove voi avete disseminato il seme del vangelo, che intanto ha portato frutti ricchissimi di spiritualità e di cultura. Come l’apostolo Paolo non vogliamo mietere, dove altri hanno seminato (cf. Rom 15,20). Il cosiddetto proselitismo non è la nostra intenzione, non è la nostra strategia e non è la nostra politica. Se ci sono singoli casi che danno l’impressione o che sono veramente proselitismo, ne possiamo parlare concretamente e, se necessario, li cambieremo. Ma preghiamo anche voi, cari fratelli, di mettere fine a ciò che noi potremmo chiamare proselitismo da parte vostra e che è persino un pessimo proselitismo, cioè la scandalosa prassi del ri-battesimo.

Lasciamo da parte dunque queste querele del tutto inutili e guardiamo ai veri problemi e alle sfide, che incontriamo insieme. Un passo concreto è già possibile oggi, e se non sbaglio ne siamo d’accordo, che questo passo non è soltanto possibile ma anche auspicabile e inoltre urgente. Noi ortodossi e cattolici, siamo molto vicini nella fede, siamo gli eredi della comune cultura europea e abbiamo gli stessi valori etici, che sono fondamentali per il bene delle nostre società e per i loro uomini. Ma quei valori sono seriamente minacciati sia dal secolarismo in Europa occidentale che dalle profonde lacerazioni che in Europa orientale quaranta o meglio settant’anni di propaganda ed educazione ateista hanno compiuto.

Che cosa dunque può essere più ovvio e urgente che come prossimo passo sul lungo cammino verso la piena comunione formiamo un’alleanza in favore della riscoperta delle radici cristiane d’Europa, un’alleanza per aiutarci a vicenda in favore dei valori comuni e di una cultura della vita, della dignità della persona, della solidarietà e della giustizia sociale, per la pace e per la salvaguardia del creato. Sono convinto che su questa strada già nel prossimo futuro potremmo fare passi concreti.

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VI. Nuove dimensioni nel dialogo con le comunità protestanti

L’idea di un’alleanza come prossimo passo vale anche per il dialogo con i fratelli protestanti. Nell’ambito protestante vediamo un profondo cambiamento della scena ecumenica. Purtroppo la frammentazione interna del protestantesimo continua. Le chiese tradizionali (‘storiche’) protestanti (Protestant mainline churches) a livello mondiale diminuiscono, mentre nuovi movimenti carismatici e pentecostali insieme con vecchie e nuove sette crescono rapidamente e ciò non solo nell’emisfero meridionale, in America Latina, in Africa e in Asia, ma anche in America del Nord e da noi in Europa. Ci sono osservatori e studiosi autorevoli che in tali movimenti vedono la futura forma del cristianesimo del terzo millennio (cf. Ph. Jenkins, The Next Christendom. The Coming of Global Christianity, Oxford 2002).

Con alcuni di questi nuovi movimenti e comunità abbiamo sviluppato buoni contatti e dialoghi. A differenza di alcune chiese tradizionali protestanti sono saldi nella loro fede nella divinità di Gesù Cristo e soprattutto nei valori etici. Altri invece fanno un vasto proselitismo aggressivo e sono una seria sfida soprattutto nell’emisfero meridionale. Ci danno l’occasione di una presa di coscienza pastorale, di un rinnovamento spirituale ed evangelico e di una vissuta spiritualità di comunione. Il Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani ha focalizzato quest’anno la sua attenzione e il suo lavoro su questi problemi. In collaborazione con le rispettive Conferenze episcopali abbiamo programmato dei simposi in Brasile, nell’Africa anglofona e nell’Africa francofona per trovare una strategia pastorale comune e rivedere anche i metodi e i progetti ecumenici.

Si costata un altro sviluppo di frammentazione in Europa, che più che altri continenti è l’epicentro di una crisi ed il punto più debole della cristianità. Purtroppo alcune comunità di tradizione protestante sono in pericolo di abbandonare parti dell’eredità comune soprattutto nell’ambito etico. Ben note sono per esempio le difficoltà che sono emerse nella Comunione Anglicana, che spiacevolmente hanno tanto danneggiato il dialogo ed i nostri rapporti, che finora si erano ben sviluppati. La nuova situazione indebolisce fortemente o persino impedisce totalmente la testimonianza comune, che dobbiamo alla nostra civilizzazione secolarizzata.

Grazie a Dio, ci sono comunioni, gruppi, movimenti, fraternità in tutte le chiese e comunità ecclesiali che sono consapevoli di questa situazione drammatica particolarmente in Europa; sono gruppi e movimenti, che stanno fermi sulla base della Bibbia e della tradizione antica della Chiesa, sostengono i valori cristiani, si sforzano a vivere il vangelo e le beatitudini del Sermone della montagna e che – senza abbandonare nulla della propria e della comune tradizione – stringono reti di comunione e di amicizia attraverso le diversi confessioni senza un sincretismo ecumenico erroneo. L’incontro di Stoccarda nel maggio dell’anno scorso con 10.000 partecipanti e con una diffusione tramite satellite in più di 100 punti nel mondo è stato un segno di questa nuova realtà ecumenica, segno di una realtà che sta emergendo in molti luoghi. Su questa strada molti gruppi continuano e lo fanno con entusiasmo.

Così una nuova dimensione dell’ecumenismo sta emergendo, non in concorrenza ma come completamento dell’ecumenismo ufficiale delle chiese. Ovviamente, sebbene quest’ultimo sia divenuto faticoso e talvolta travagliato, nondimeno deve continuare; ma deve anche prendere nuovi impulsi ed un nuovo slancio da questi sviluppi.

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VII. Ecumenismo spirituale e culturale

L’ecumenismo che sta emergendo attraverso tanti singoli cristiani, in molte fraternità, congregazioni e monasteri, in gruppi e movimenti di laici è un ecumenismo spirituale. Esso soprattutto mi dà speranza. Già il Concilio Vaticano II ha dichiarato che l’ecumenismo spirituale è il cuore e l’anima di ogni ecumenismo (UR 8) e il nostro Pontificio Consiglio in prima linea vuole promuovere proprio questo tipo d’ecumenismo. Intanto stiamo preparando un Vademecum per l’ecumenismo spirituale. Si tratta dell’ecumenismo della conversione e santificazione della vita, dell’ecumenismo dell’ascolto e della lettura della Sacra Scrittura, dell’ecumenismo di una spiritualità che scaturisce dal battesimo comune, dell’ecumenismo della preghiera e della spiritualità di comunione. Seguendo l’esempio di San Nicola, dobbiamo promuovere la verità nell’amore (cf. Ef 4,15).

L’ecumenismo spirituale, sebbene personale, non è soltanto una realtà puramente interiore, soggettiva e privata o persino un affare soltanto per alcuni esoterici. La spiritualità cristiana è una spiritualità "incarnata". Come in passato la spiritualità cristiana ha improntato la cultura d’Europa, così oggi la spiritualità ecumenica è un contributo essenziale per la nuova evangelizzazione e inculturazione del cristianesimo. Nella crisi attuale della cultura d’Europa, questo continente Europa ha bisogno della nostra comune testimonianza. L’impegno ecumenico non è una appendice o un lusso, ma fa parte essenziale della nostra missione; il pane eucaristico è il pane per la sopravvivenza della cultura cristiana in Europa.

Oggi la riconciliazione ecumenica tra Oriente e Occidente ha, nel continuo processo di unificazione europea, anche un significato politico. Il nuovo ordine europeo di pace che è sorto dopo la tragedia della seconda guerra mondiale non potrà resistere a lungo se non vengono coinvolte anche le Chiese, che hanno influito così profondamente sulla cultura dell’Europa. Anche per questo non possiamo più permetterci una divisione; essa non è solo uno scandalo dal punto di vista religioso, ma è insostenibile anche dal punto di vista culturale e politico. Le Chiese devono essere le prime a preparare la strada al processo di riunificazione. In tal modo, esse potranno mostrare nel modo più efficace che l’Europa si basa su fondamenti cristiani, sui valori della cultura della domenica, cultura che dobbiamo sforzarci di rinnovare se vogliamo contribuire al rinnovamento dell’Europa.

"Vivere secondo la domenica": questo definisce la nostra identità. Ed è appunto questa cultura della domenica che è alla base della cultura europea. Se vogliamo mantenere e risvegliare i valori cristiani dell’Europa, allora, come cristiani, dobbiamo per primi imparare di nuovo a vivere la domenica. La domenica, come giorno del Signore, è il giorno della riconciliazione, che implica il riconoscimento della dignità di ogni persona, della santità della vita, dei valori della famiglia, della giustizia e della solidarietà tra i popoli e tra gli individui, il rispetto per l’alterità dell’altro e lo spazio per la molteplicità. La cultura domenicale realizza che l’uomo non è soltanto un ‘animale del lavoro’ ma un essere libero, che ha il desiderio che gli ha impiantato il suo Creatore, di avere spazio per il culto e la cultura, per la famiglia e gli amici. Soltanto una cultura domenicale così è una cultura veramente umana.

Vorrei concludere con un ulteriore breve pensiero. Ricordo alcune conversazioni con il compianto Papa Giovanni Paolo II sulla situazione ecumenica. Soprattutto ricordo un incontro, dove volevo riferirgli di alcuni segni di crisi. Lui non ha voluto neanche sentire questa parola. Insisteva per parlare dei segni positivi. Allora ero rimasto un po’ deluso, perché quei problemi mi premevano molto e mi aspettavo un consiglio da parte del Papa. Oggi penso che il Papa aveva ragione. Noi cristiani non possiamo essere uomini lamentosi. Anche l’ecumenismo passa il mistero della morte e della risurrezione. Siamo rigenerati per una speranza viva (1 Pietro 1,3). Sono convinto che se avanziamo sulla strada dell’ecumenismo spirituale e se tessiamo reti e alleanze attraverso le confessioni e le chiese e se lo facciamo con coraggio unito a pazienza, la crisi non sarà una crisi di crollo ma diventerà piuttosto una crisi di crescita.

San Nicola, 1600 anni fa ed ancora oggi venerato sia in Oriente che in Occidente, ha vissuto la speranza e realizzato i valori senza i quali l’Europa non può avere un futuro. Anche San Nicola potrebbe essere patrono dell’Europa e forse il Papa un giorno lo dichiarerà tale. Possa egli aiutare l’Europa a superare i segni di stanchezza e trasformarli in una nuova cultura della domenica, che non può essere altro che una nuova epoca ecumenica, un’epoca di gioia, di slancio, di speranza e di entusiasmo con lo scopo di una comune celebrazione della domenica attorno all’unica mensa del Signore. San Nicola, prega per noi!

(Relazione tenuta a Bari mercoledì 25 maggio 2005 nel corso del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale)

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Domenica, 05 Giugno 2005 17:12

Verso la terza assemblea ecumenica

Chiese Europee
Verso la terza assemblea ecumenica


Si va precisando il profilo che contraddistinguerà la III Assemblea ecumenica europea, cioè il terzo incontro delle Chiese cristiane europee dopo quelli svoltisi a Basilea nel 1989 (Giustizia, pace, salvaguardia del creato) e a Graz nel 1997 (Riconciliazione, dono di Dio e sorgente di vita nuova). L’evento è promosso dalla CCEE (Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa - cattolico) dalla KEK (Conferenza delle Chiese europee - riunisce le Chiese anglicane, protestanti e ortodosse).

Dal 3 al 6 febbraio 2005 si è tenuto in Francia, a Chartres, l’incontro del Comitato congiunto KEK-CCEE, che ha individuato il tema dell’assemblea, (La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento e unità in Europa), e le tappe preparatorie.

L’assemblea avrà luogo a Sibiu, in Romania, dal 4 all’8 settembre 2007. La scelta risponde a diverse esigenze. Innanzitutto si trattava di dare visibilità al contesto ortodosso, dopo che le due assemblee precedenti si erano svolte in luoghi in cui la predominante era protestante (Basilea) e cattolica (Graz). La Romania, inoltre, ha in corso un processo che mira all’ingresso nell’Unione Europea proprio nel 2007; la III Assemblea ecumenica europea sarà la prima a fare riferimento all’Europa a 25 stati, con due d’imminente ingresso (Romania e Bulgaria).

Si tratterà di un’assemblea a tappe. Sarà preceduta da un processo, a livello nazionale e regionale, «per sviluppare il comune impegno ecumenico delle Chiese in Europa» (Comunicato finale dell’incontro, 7.2.2005). Le tappe previste sono:
1) un incontro europeo dei delegati delle Chiese, delle conferenze episcopali e degli organismi e movimenti ecumenici (Roma, 24-26.1.2006, a conclusione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani);

2) una serie d’incontri a livello regionale e nazionale nel corso del 2006;

3) un secondo incontro europeo all’inizio del 2007 a Wittenberg, la città di Lutero;

4) la tappa finale a Sibiu, con la partecipazione di 3.000 delegati.

Nelle intenzioni del Comitato congiunto «il processo assembleare costituisce (…) una sorta di “pellegrinaggio” per incontrare le diverse tradizioni cristiane d’Europa, per ascoltare insieme la parola di Cristo, per rispondere alla domanda di spiritualità, alla ricerca di senso e alle attese dell’uomo e della donna di oggi, specialmente delle giovani generazioni».

Il contenuto dell’assemblea sarà costituito dalla ripresa della Charta oecumenica, il documento firmato insieme da KEK e CCEE nel 2001, che dava le «linee guida per la crescita della collaborazione tra le Chiese in Europa».

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Charta Oecumenica
Linee guida per la crescita della collaborazione
tra le Chiese in Europa
KEK - CCEE
(Conferenza delle Chiese Europee
Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa)


 



Gloria al Padre, al Figlio, e allo Spirito Santo!

In quanto Conferenza delle Chiese europee (KEK) e Consiglio delle Conferenze episcopali europee (CCEE) siamo fermamente determinati, nello spirito del messaggio scaturito dalle due Assemblee ecumeniche europee di Basilea 1989 e di Graz 1997, a mantenere e a sviluppare ulteriormente la comunione che è cresciuta tra noi. Ringraziamo il nostro Dio Trinità che, mediante lo Spirito Santo, conduce i nostri passi verso una comunione sempre più intensa.

Si sono già affermate svariate forme di collaborazione ecumenica, ma fedeli alla preghiera di Cristo: «Tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, affinché il mondo creda che tu mi hai inviato» (Gv. 17,21), non possiamo ritenerci appagati dell'attuale stato di cose. Coscienti della nostra colpa e pronti alla conversione, dobbiamo impegnarci a superare le divisioni che esistono ancora tra noi, in modo da annunciare insieme, in modo credibile, il messaggio del Vangelo tra i popoli.

Nel comune ascolto della parola di Dio contenuta nella sacra Scrittura e chiamati a confessare la nostra fede comune e parimenti ad agire insieme in conformità alla verità che abbiamo riconosciuto, noi vogliamo rendere testimonianza dell'amore e della speranza per tutti gli esseri umani.

Nel nostro continente europeo, dall'Atlantico agli Urali, da Capo Nord al Mediterraneo, oggi più che mai caratterizzato da un pluralismo culturale, noi vogliamo impegnarci con il Vangelo per la dignità della persona umana, creata a immagine di Dio, e contribuire insieme come Chiese alla riconciliazione dei popoli e delle culture.

In tal senso accogliamo questa Charta come impegno comune al dialogo e alla collaborazione. Essa descrive fondamentali compiti ecumenici e ne fa derivare una serie di linee guida e di impegni. Essa deve promuovere, a tutti i livelli della vita delle Chiese, una cultura ecumenica del dialogo e della collaborazione e creare a tal fine un criterio vincolante. Essa non riveste tuttavia alcun carattere dogmatico-magisteriale o giuridico-ecclesiale. La sua normatività consiste piuttosto nell'auto-obbligazione da parte delle Chiese e delle organizzazioni ecumeniche europee. Queste possono, sulla base di questo testo, formulare nel loro ambito proprie integrazioni e orientamenti comuni che tengano concretamente conto delle proprie specifiche sfide e dei doveri che ne scaturiscono.

I. CREDIAMO «LA CHIESA UNA, SANTA, CATTOLICA E APOSTOLICA»

«Cercate di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,3-6).

1. Chiamati insieme all’unità della fede

In conformità al Vangelo di Gesù Cristo, come ci è testimoniato nella sacra Scrittura ed è formulato nella confessione ecumenica di fede di Nicea-Costantinopoli (381), crediamo al Dio Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Dal momento che, con questo Credo, professiamo la Chiesa «una, santa, cattolica e apostolica», il nostro ineludibile compito ecumenico consiste nel rendere visibile questa unità, che è sempre dono di Dio.

Differenze essenziali sul piano della fede impediscono ancora l'unità visibile. Sussistono concezioni differenti soprattutto a proposito della Chiesa e della sua unità, dei sacramenti e dei ministeri. Non ci è concesso rassegnarci a questa situazione. Gesù Cristo ci ha rivelato sulla croce il suo amore e il segreto della riconciliazione: alla sua sequela vogliamo fare tutto il possibile per superare i problemi e gli ostacoli che ancora dividono le Chiese.

Ci impegniamo:
- a seguire l'esortazione apostolica all'unità dell'epistola agli Efesini (Ef 4,3-6) e a impegnarci con perseveranza a raggiungere una comprensione comune del messaggio salvifico di Cristo contenuto nel Vangelo;

- a operare, nella forza dello Spirito Santo, per l'unità visibile della Chiesa di Gesù Cristo nell'unica fede, che trova la sua espressione nel reciproco riconoscimento del battesimo e nella condivisione eucaristica, nonché nella testimonianza e nel servizio comune.

II. IN CAMMINO VERSO L’UNITA VISIBILE DELLE CHIESE IN EUROPA

«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

2. Annunciare insieme il Vangelo

II compito più importante delle Chiese in Europa è quello di annunciare insieme il Vangelo attraverso la parola e l'azione, per la salvezza di tutti gli esseri umani. Di fronte alla multiforme mancanza di riferimenti, all'allontanamento dai valori cristiani, ma anche alla variegata ricerca di senso, le cristiane e i cristiani sono particolarmente sollecitati a testimoniare la propria fede. A tal fine occorrono, al livello locale delle comunità, un accresciuto impegno e uno scambio di esperienze sul piano della catechesi e della pastorale. Al tempo stesso È importante che l'intero popolo di Dio si impegni a diffondere insieme l'Evangelo all'interno dello spazio pubblico della società, e a conferirgli valore e credibilità anche attraverso l'impegno sociale e l'assunzione di responsabilità nel politico.

Ci impegniamo:
- a far conoscere alle altre Chiese le nostre iniziative per l'evangelizzazione e a raggiungere intese in proposito, per evitare in tal modo una dannosa concorrenza e il pericolo di nuove divisioni;

- a riconoscere che ogni essere umano può scegliere, liberamente e secondo coscienza, la propria appartenenza religiosa ed ecclesiale. Nessuno può essere indotto alla conversione attraverso pressioni morali o incentivi materiali. Al tempo stesso, a nessuno può essere impedita una conversione che sia conseguenza di una libera scelta.

3. Andare l'uno incontro all'altro

Nello spirito del Vangelo dobbiamo rielaborare insieme la storia delle Chiese cristiane, che è caratterizzata, oltre che da molte buone esperienze, anche da divisioni, inimicizie e addirittura da scontri bellici. La colpa umana, la mancanza di amore, e la frequente strumentalizzazione della fede e delle Chiese in vista di interessi politici hanno gravemente nuociuto alla credibilità della testimonianza cristiana.

L'ecumenismo, per le cristiane e i cristiani, inizia pertanto con il rinnovamento dei cuori e con la disponibilità alla penitenza ed alla conversione. Constatiamo che la riconciliazione è già cresciuta nell'ambito del movimento ecumenico. E’ importante riconoscere i doni spirituali delle diverse tradizioni cristiane, imparare gli uni dagli altri e accogliere i doni gli uni degli altri. Per un ulteriore sviluppo dell'ecumenismo è particolarmente auspicabile coinvolgere le esperienze e le aspettative dei giovani e promuovere con forza la loro partecipazione e collaborazione.

Ci impegniamo:
- a superare l'autosufficienza e a mettere da parte i pregiudizi, a ricercare rincontro reciproco e a essere gli uni per gli altri;

- a promuovere l'apertura ecumenica e la collaborazione nel campo dell'educazione cristiana, nella formazione teologica iniziale e permanente, come pure nell'ambito della ricerca.

4. Operare insieme

L'ecumenismo si esprime già in molteplici forme di azione comune. Numerose cristiane e cristiani di Chiese differenti vivono e operano insieme, come amici, vicini, sul lavoro e nell'ambito della propria famiglia. In particolare, le coppie interconfessionali devono essere aiutate a vivere l'ecumenismo nel quotidiano.

Raccomandiamo di creare e di sostenere a livello locale, regionale, nazionale e internazionale organismi finalizzati alla cooperazione ecumenica a carattere bilaterale e multilaterale.

A livello europeo è necessario rafforzare la collaborazione tra la Conferenza delle Chiese europee (KEK) ed il Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa (CCEE) e realizzare ulteriori assemblee ecumeniche europee. In caso di conflitti tra Chiese occorre avviare e sostenere sforzi di mediazione e di pace.

Ci impegniamo:
- a operare insieme, a tutti i livelli della vita ecclesiale, laddove ne esistano i presupposti e ciò non sia impedito da motivi di fede o da finalità di maggiore importanza;

- a difendere i diritti delle minoranze e ad aiutare a sgombrare il campo da equivoci e pregiudizi tra le Chiese maggioritarie e minoritarie nei nostri paesi;

5. Pregare insieme

L'ecumenismo vive del fatto che noi ascoltiamo, insieme la parola di Dio e lasciamo che lo Spirito Santo operi in noi e attraverso di noi. In forza della grazia in tal modo ricevuta esistono oggi molteplici sforzi, attraverso preghiere e celebrazioni, tesi ad approfondire la comunione spirituale tra le Chiese, e a pregare per l'unità visibile della Chiesa di Cristo. Un segno particolarmente doloroso della divisione ancora esistente tra molte Chiese cristiane è la mancanza della condivisione eucaristica.

In alcune Chiese esistono riserve rispetto alla preghiera ecumenica in comune. Tuttavia, numerose celebrazioni ecumeniche, canti e preghiere comuni, in particolare il Padre nostro, caratterizzano la nostra spiritualità cristiana.

Ci impegniamo:
- a pregare gli uni per gli altri e per l'unità dei cristiani;

- a imparare a conoscere e ad apprezzare le celebrazioni e le altre forme di vita spirituale delle altre Chiese;

- a muoverci in direzione dell'obbiettivo della condivisione eucaristica.

6. Proseguire i dialoghi

La nostra comune appartenenza fondata in Cristo ha un significato più fondamentale delle nostre differenze in campo teologico ed etico. Esiste una pluralità che h dono e arricchimento, ma esistono anche contrasti sulla dottrina, sulle questioni etiche e sulle norme di diritto ecclesiastico che hanno invece condotto a rotture tra le Chiese; un ruolo decisivo in tal senso è stato spesso giocato anche da specifiche circostanze storielle e da differenti tradizioni culturali.

Al fine di approfondire la comunione ecumenica, occorre assolutamente proseguire negli sforzi tesi al raggiungimento di un consenso di fede. Senza unità nella fede non esiste piena comunione ecclesiale. Non c'è alcuna alternativa al dialogo.

Ci impegniamo:
- a proseguire coscienziosamente e con intensità il dialogo tra le nostre Chiese ai diversi livelli ecclesiali e a verificare quali risultati del dialogo possano e debbano essere dichiarati in forma vincolante dalle autorità ecclesiastiche.

- a ricercare il dialogo sui temi controversi, in particolare su questioni di fede e di etica sulle quali incombe il rischio della divisione, e a dibattere insieme tali problemi alla luce del Vangelo.

III. LA NOSTRA COMUNE RESPONSABILITÀ IN EUROPA

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt. 5,9).

7. Contribuire a plasmare l'Europa

Nel corso dei secoli si è sviluppata un'Europa caratterizzata sul piano religioso e culturale prevalentemente dal cristianesimo. Nel contempo, a causa delle deficienze dei cristiani, si è diffuso molto male in Europa e al di là dei suoi confini. Confessiamo la nostra corresponsabilità in tale colpa e ne chiediamo perdono a Dio e alle persone. La nostra fede ci aiuta a imparare dal passato e a impegnarci affinché la fede cristiana e l'amore del prossimo irraggino speranza per la morale e l'etica, per l'educazione e la cultura, per la politica e l'economia in Europa e nel mondo intero.

Le Chiese promuovono un'unificazione del continente europeo. Non si pur raggiungere l'unità in forma duratura senza valori comuni. Siamo persuasi che l'eredità spirituale del cristianesimo rappresenti una forza ispiratrice arricchente l'Europa. Sul fondamento della nostra fede cristiana ci impegniamo per un'Europa umana e sociale, in cui si facciano valere i diritti umani e i valori basilari della pace, della giustizia, della libertà, della tolleranza, della partecipazione e della solidarietà. Insistiamo sul rispetto per la vita, sul valore del matrimonio e della famiglia, sull'opzione prioritaria per i poveri, sulla disponibilità al perdono e in ogni caso sulla misericordia.

In quanto Chiese e comunità internazionali dobbiamo contrastare il pericolo che l'Europa si sviluppi in un ovest integrato e un est disintegrato. Anche il divario nord-sud deve essere tenuto in conto. Occorre nel contempo evitare ogni forma di eurocentrismo e rafforzare la responsabilità dell'Europa nei confronti dell'intera umanità, in particolare verso i poveri di tutto il mondo.

Ci impegniamo:
- a intenderci tra noi sui contenuti e gli obbiettivi della nostra responsabilità sociale e a sostenere il più possibile insieme le istanze e la concezione delle Chiese di fronte alle istituzioni civili europee;

- a difendere i valori fondamentali contro tutti gli attacchi;

- a resistere a ogni tentativo di strumentalizzare la religione e la Chiesa a fini etnici o nazionalistici.

8. Riconciliare popoli e culture

Noi consideriamo come una ricchezza dell'Europa la molteplicità delle tradizioni regionali, nazionali, culturali e religiose. Di fronte ai numerosi conflitti è compito delle Chiese assumersi congiuntamente il servizio della riconciliazione anche per i popoli e le culture. Sappiamo che la pace tra le Chiese costituisce a tal fine un presupposto altrettanto importante.

I nostri sforzi comuni sono diretti alla valutazione e alla risoluzione dei problemi politici e sociali nello spirito del Vangelo. Dal momento che noi valorizziamo la persona e la dignità di ognuno in quanto immagine di Dio, ci impegniamo per l'assoluta eguaglianza di valore di ogni essere umano.

In quanto Chiese vogliamo promuovere insieme il processo di democratizzazione in Europa. Ci impegniamo per un ordine pacifico, fondato sulla soluzione non violenta dei conflitti. Condanniamo pertanto ogni forma di violenza contro gli esseri umani, soprattutto contro le donne e i bambini.

Riconciliazione significa promuovere la giustizia sociale all'interno di un popolo e tra tutti i popoli e in particolare superare l'abisso che separa il ricco dal povero, come pure la disoccupazione. Vogliamo contribuire insieme affinché venga concessa un'accoglienza umana e dignitosa a donne e uomini migranti, ai profughi e a chi cerca asilo in Europa.

Ci impegniamo:
- a contrastare ogni forma di nazionalismo che conduca all'oppressione di altri popoli e di minoranze nazionali e a ricercare una soluzione non violenta dei conflitti;

- a migliorare e a rafforzare la condizione e la parità di diritti delle donne in tutte le sfere della vita e a promuovere la giusta comunione tra donne e uomini in seno alla Chiesa e alla società.

9. Salvaguardare il creato

Credendo all'amore di Dio creatore, riconosciamo con gratitudine il dono del creato, il valore e la bellezza della natura. Guardiamo tuttavia con apprensione al fatto che i beni della terra vengono sfruttati senza tener conto del loro valore intrinseco, senza considerazione per la loro limitatezza e senza riguardo per il bene delle generazioni future.

Vogliamo impegnarci insieme per realizzare condizioni sostenibili di vita per l'intero creato. Consci della nostra responsabilità di fronte a Dio, dobbiamo far valere e sviluppare ulteriormente criteri comuni per determinare ciò che è illecito sul piano etico, anche se è realizzabile sotto il profilo scientifico e tecnologico. In ogni caso, la dignità unica di ogni essere umano deve avere il primato nei confronti di ciò che è tecnicamente realizzabile.

Raccomandiamo l'istituzione da parte delle Chiese europee di una giornata ecumenica di preghiera per la salvaguardia del creato.

Ci impegniamo:
- a sviluppare ulteriormente uno stile di vita nel quale, in contrapposizione al dominio della logica economica e alla costrizione al consumo, accordiamo valore a una qualità di vita responsabile e sostenibile;

- a sostenere le organizzazioni ambientali delle Chiese e le reti ecumeniche che si assumono una responsabilità per la salvaguardia della creazione.

10. Approfondire la comunione con l’ebraismo

Una speciale comunione ci lega al popolo d'Israele, con il quale Dio ha stipulato un'eterna alleanza. Sappiamo nella fede che le nostre sorelle e i nostri fratelli ebrei «sono amati (da Dio), a causa dei Padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,28-29). Essi posseggono «l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne...» ( Rm 9,4-5).

Noi deploriamo e condanniamo tutte le manifestazioni di antisemitismo, i «pogrom», le persecuzioni. Per l'antigiudaismo in ambito cristiano chiediamo a Dio il perdono e alle nostre sorelle e ai nostri fratelli ebrei il dono della riconciliazione.

È urgente e necessario far prendere coscienza, nell'annuncio e nell'insegnamento, nella dottrina e nella vita delle nostre Chiese, del profondo legame esistente tra la fede cristiana e l'ebraismo, e sostenere la collaborazione tra cristiani ed ebrei.

Ci impegniamo:
- a contrastare tutte le forme di antisemitismo e antigiudaismo nella Chiesa e nella società;

- a cercare e intensificare a tutti i livelli il dialogo con le nostre sorelle e i nostri fratelli ebrei.

11. Curare le relazioni con l’Islam

Da secoli musulmani vivono in Europa. In alcuni paesi essi rappresentano forti minoranze. Per questo motivo ci sono stati e ci sono molti contatti positivi e buoni rapporti di vicinato tra musulmani e cristiani, ma anche, da entrambe le parti, grossolane riserve e pregiudizi, che risalgono a dolorose esperienze vissute nel corso della storia e nel recente passato.

Vogliamo intensificare a tutti i livelli l'incontro tra cristiani e musulmani e il dialogo cristiano-islamico. Raccomandiamo in particolare di riflettere insieme sul tema della fede nel Dio unico e di chiarire la comprensione dei diritti umani.

Ci impegniamo:
- a incontrare i musulmani con un atteggiamento di stima;

- a operare insieme ai musulmani su temi di comune interesse.

12. L’incontro con altre religioni e visioni del mondo

La pluralità di convinzioni religiose, di visioni del mondo e di forme di vita è divenuta un tratto caratterizzante la cultura europea. Si diffondono religioni orientali e nuove comunità religiose, suscitando anche l'interesse di molti cristiani. Ci sono inoltre sempre più uomini e donne che rigettano la fede cristiana, si rapportano ad essa con indifferenza o seguono altre visioni del mondo.

Vogliamo prendere sul serio le questioni critiche che ci vengono rivolte, e sforzarci di instaurare un confronto leale. Occorre in proposito discernere le comunità con le quali si devono ricercare dialoghi e incontri da quelle di fronte alle quali, in un'ottica cristiana, occorre invece cautelarsi.

Ci impegniamo:
- a riconoscere la libertà religiosa e di coscienza delle persone e delle comunità e a fare in modo che esse, individualmente e comunitariamente, in privato e in pubblico, possano praticare la propria religione o visione del mondo, nel rispetto del diritto vigente;

- a essere aperti al dialogo con tutte le persone di buona volontà, a perseguire con esse scopi comuni e a testimoniare loro la fede cristiana.

Gesù Cristo, Signore della Chiesa "una", è la nostra più grande speranza di riconciliazione e di pace.

Nel suo nome vogliamo proseguire in Europa il nostro cammino insieme.

Dio ci assista con il suo Santo Spirito!

«Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13).

In qualità di presidenti della Conferenze delle Chiese Europee (KEK) e del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE) noi raccomandiamo questa Charta Oecumenica quale testo base per tutte le Chiese e conferenze episcopali d'Europa, affinché venga recepita e adeguata allo specifico contesto di ciascuna di esse.

Con questa raccomandazione sottoscriviamo la Charta Oecumenica nel contesto dell'Incontro ecumenico europeo, che si svolge la prima domenica dopo la Pasqua comune dell'anno 2001.

Metropolita JEREMIE,
presidente della
Conferenza delle Chiese Europee
MILOSLAV card. VLK,
presidente del Consiglio delle
Conferenze Episcopali d'Europa
Strasburgo, 22 aprile 2001

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