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Lunedì, 24 Maggio 2010 16:15

Necessità dell’ascesi cristiana

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Di Enzo Bianchi

"Togliere via" per liberare

 

Già molte cose dette hanno mostrato l’essenzialità di un’ascesi per la vita del cristiano. E sottolineo che sto parlando del cristiano comune, del battezzato, di colui che fin dal battesimo si impegna a rinunciare a Satana e alle sue seduzioni e a crescere alla statura di Cristo.

 

La vita cristiana non va da sé e ciò che è opera della grazia non è frutto di magia. Occorre crescere, progredire nella vita secondo lo Spirito, nella sequela del Signore. Alla crescita fisiologica deve corrispondere una crescita spirituale: come il passaggio da un’età umana a un’altra avviene attraverso un abbandono, un tralasciare ciò che caratterizzava la precedente età, così deve avvenire anche nella vita spirituale.

Scrive Paolo: «Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato» (1Cor 13,11). Quell’«abbandono» (lett.: «distruzione», «annientamento», «abolizione») indica che occorre cooperare, corrispondere coscientemente alla crescita, occorre assumerla come propria responsabilità attuando l’abbandono, la messa a morte di ciò che era costitutivo della fase precedente. Questa cosciente rinuncia, che deve applicarsi anche alla vita spirituale e alle sue tappe di crescita, mostra che l’ascesi non è primariamente un «fare», ma un «togliere via», un’ablatio che lasci riemergere l’imago Dei nascosta in noi e spesso in noi offuscata dal peccato. Si potrebbe paragonare l’ascesi cristiana al lavoro dello scultore il quale «vede» già nel masso di marmo che ha davanti a sé la forma finale: il suo lavoro - questa è la concezione della scultura di Michelangelo - consisterà solo nel liberare l’immagine contenuta nel masso. L’ascesi è un rimettere in luce ciò che Dio ha posto in noi, è un liberare ciò che in noi è racchiuso: il frutto dell’ascesi, dunque, sarà opera di Dio, non dell’uomo!

E’ eloquente l’esempio della lotta contro il peccato: il credente non può sottrarsi a questa quotidiana battaglia, deve operare anche delle rinunce, delle privazioni, ma solo la grazia del Signore può togliere il peccato. La sua ascesi sarà, appunto, un cercare di corrispondere alla grazia, un vivere quotidianamente la morte a se stesso perché viva in lui il Cristo (cf. GaI 2,20). «L’uomo, affinché risplenda in lui l’immagine di Dio, deve soprattutto e prima di tutto accogliere quella purificazione, attraverso la quale lo scultore, cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l’aspettò autentico del suo essere, facendolo apparire solo come un blocco di pietra grossolano, mentre invece abita in lui la forma divina»17. L’ascesi come corrispondenza alla grazia è dunque richiesta ad ogni cristiano.

Ogni cristiano è chiamato alla crescita, alla maturazione, alla statura di Cristo (cf. Ef 4,13), e certamente dal suo profondo scaturisce un desiderio di rispondere a queste chiamate. E lo Spirito stesso che suscita questa volontà, fornisce questa mozione che noi siamo tentati di leggere solo come spontaneità perché «la sentiamo» senza essercela imposta. In verità quest’azione dello Spirito non può sostituire la nostra libera iniziativa: noi restiamo responsabili del nostro divenire e dunque dobbiamo giungere attraverso l’intelligenza a una decisione pensata, a una scelta, per non essere sballottati dai nostri sentimenti, dal nostro psichismo. Ciò che avvertiamo come desiderio di crescita umana e spirituale deve ottenere un nostro acconsentimento, e tale acconsentimento abbisogna di esercizio, di lotta contro le forze di resistenza in noi, di impegno perseverante che fa mettere radici in profondità al progetto, al desiderio, fino a quando diventa realtà, esperienza, habitus... Proprio per questo si tratta di un’ascesi non di conquista, ma di risposta allo Spirito e di disponibilità alla grazia!

 

Il caro prezzo della grazia

 Certo, la vita monastica ha riflettuto particolarmente su questa tematica, nel suo tentativo di tener vivo nella coscienza dei cristiani il caro prezzo della grazia. E ad essa ci si può rivolgere per imparare la necessità e l’arte della lotta. La Regola di Benedetto parla di un itinerario di dodici gradini dell’umiltà che il monaco deve salire per arrivare alla carità, culmine della vita cristiana e dunque anche monastica. Scrive Benedetto:

 Ascesi tutti questi gradini dell’umiltà, il monaco giungerà a quella carità di Dio che, divenuta perfetta, scaccia il timore, e per essa tutto ciò che prima compiva non senza trepidazione, ora comincia ad eseguirlo senza alcuna fatica, quasi spontaneamente, in forza della consuetudine, e non già per timore dell’inferno, ma per amore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù18.

 La novità di vita dell’evangelo richiede un esercizio da parte del credente, richiede il mettere in pratica un nuovo modo di esistenza in cui non vige più la logica mondana dell’immediato, dello spontaneo, del piacevole, dell’affermazione del proprio «io», dell’accaparramento, del consumo... Se è vero che questo costa fatica, è però altrettanto vero, come ci avverte la sapiente Regola di Benedetto, che ciò che all’inizio si fa con sforzo, con resistenze interne, con grande fatica, alla lunga diviene qualcosa di quasi naturale (velut naturaliter), che si compie in forza di una buona abitudine e per amore di Cristo. La sottolineatura della «buona abitudine» dice che nell’ascesi ciò che è importante è la perseveranza, ancor più dei risultati verificabili: su quella perseveranza si poserà l’azione trasfigurante del Signore.

La sottolineatura dell’«amore di Cristo» indica poi che il vero movente dell’ascesi (e anche ciò a cui l’ascesi conduce) è l’amore per il Signore. L’amore per il Signore è lo spazio in cui l’ascesi cessa di essere una stranezza, un lusso riservato a una casta di cristiani «perfetti», e diventa ciò che è: la gioiosa risposta di amore all’amore preveniente del Signore. «Se uno mi ama - dice il Signore -, osserverà i miei comandamenti» (cf. Gv 14,15-24): chi ama l’altro si sforza di piacergli in tutto, di aderire a lui sempre di più; chi ama l’altro ama fare la volontà dell’altro e in questo trova la sua gioia.

Un monaco contemporaneo, rileggendo i lunghi anni della sua vita monastica, gli innumerevoli uffici di preghiera comunitaria, i quotidianamente rinnovati momenti di preghiera personale, le altre pratiche di penitenza e di ascesi vissute nel suo monastero, paragona tutto ciò a un pesante lavoro di trasporto di sacchi di sabbia senza il quale non sarebbe stato possibile rinvenire, ogni tanto, una preziosa pepita d’oro...

 

Dimensione ecclesiale

Che l’ascesi sia necessaria lo mostra anche il fatto che solo attraverso un reale impegno del corpo la fede diventa qualcosa di realmente vissuto ed esce dalle secche dell’intellettualismo. Senza ascesi, come si può vivere la dimensione corporea della salvezza portata dal Cristo, Verbo fatto carne? Non si rischierà di fare del cristianesimo uno «stile di vita», un «modo di comportarsi»? Se si tralascia la dimensione dell’ascesi corporea, fisica, se si abolisce pressoché completamente, com’è avvenuto in occidente nella chiesa cattolica, il digiuno, ciò non contribuirà forse a ridurre il cristianesimo a etica di coerenza individuale, non lo spingerà a tradurre la sua incidenza reale in impegno sociale, in produzione di «valori»? E la chiesa non rischierà di smarrire la sua interna coesione di corpo di Cristo nella storia? Non rischierà di vedere frantumarsi e disarticolarsi le sue membra in logiche individualistiche, corporative, concorrenziali? Se manca una disciplina ascetica ecclesiale proposta a lutti, dove nascerà il senso di appartenenza al corpo ecclesiale? Non si rischierà di smarrire il senso di «essere chiesa»? Con l’ascesi, infatti, l’uomo afferma la signoria di Cristo sulla sua vita tutta e sulla vita di tutti i suoi fratelli; di un «codice di comportamento», invece, l’uomo è padrone e signore, e dunque anche sempre ri-creatore!

Pertanto vi è un aspetto, tutt’altro che trascurabile, dell’ascesi che ha a che fare con l’unità della chiesa, con la coesione comunitaria, che non può essere affidata solamente a una pratica ritualistica o a un’adesione intellettuale a verità di fede o a una prassi etica ispirata dall’evangelo. Il problema dell’ascesi ha rilevanza ecumenica! Non a caso il primo dei quattro testi teologici elaborati da una commissione interortodossa nel 1986 per essere discussi dal Concilio panortodosso riguarda il digiuno. In esso, tra l’altro, si dice:

 

Il digiuno costituisce una grande lotta spirituale ed è la migliore espressione dell’ideale ascetico dell’ortodossia ... Il digiuno è celebrato dalla chiesa come dono divino ... Il digiuno fu praticato non soltanto dal Signore stesso, ma anche da Giovanni Battista e dagli apostoli. Già dal tempo degli apostoli, la chiesa ha proclamato l’importanza del digiuno e ha stabilito il mercoledì e il venerdì come giorni di digiuno19, oltre al digiuno prepasquale20. La grande diversità concernente il significato e il contenuto di questi digiuni dimostra il carattere spirituale del digiuno, al quale tutti i fedeli sono chiamati a conformarsi, ciascuno secondo la propria forza e le proprie possibilità, senza pertanto prendersi la libertà di ignorare questo comandamento divino: «Bada che nessuno ti distolga da questa via tracciata dalla dottrina ... Se puoi portare tutto il giogo del Signore, sarai perfetto; se non puoi, fai ciò di cui sei capace. Per quanto riguarda il digiuno, osservalo secondo la tua forza» (Didaché 6,1-3)2l.

 

Quanto all’astinenza anche da qualcosa di buono, andrebbe ricordato ciò che ha scritto Freud, una vera contestazione agli slogan odierni che si nutrono del «tutto e subito»: cioè che sovente la sola misura educativa è l’astinenza. Privarsi per un certo tempo di una soddisfazione è permettere una distanza tra sé e l’oggetto del desiderio o del bisogno, frapporre uno spazio più grande per meglio vedere il reale. Un oggetto guardato troppo da vicino, un oggetto con il quale si pratica sempre un’assiduità, non lo si vede più: per una reattività sana è necessario non appiattirsi su quanto è immediatamente stimolante. L’astinenza permette di riflettere, di interrogarsi, di approfondire la coscienza che si ha di ciò o di chi è in relazione con noi...

La necessità dell’ascesi mi pare dunque fuori discussione. Certo, dev’essere ben compresa nei suoi fondamenti, nei suoi limiti, nella sua funzione, e ci si deve guardare dagli abusi e dagli eccessi! «Lo sforzo umano dell’ascesi vuole affermare la risposta personale dell’amore dell’uomo all’opera della sua salvezza da parte del Cristo e porsi in sintonia, sia pure per l’insignificante quantità che consente la debolezza umana, con la divina economia e con l’amore divino»22.

 

Bibliografia:

"È ancora necessaria l'ascesi", di Enzo Bianchi priore di Bose

Letto 9488 volte Ultima modifica il Sabato, 29 Maggio 2010 19:35

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