Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Un ecumenismo della croce
contro il deserto spirituale

di Claudia Stanila









In questa intervista, il nuovo patriarca ortodosso di Romania, Daniel Ciobotea, fa il punto sulle difficoltà e le chance del dialogo tra i cristiani delle diverse confessioni in Europa. E offre lo spunto per una svolta spirituale capace di aiutare le Chiese nel cammino verso l’unità.

Quando il 30 luglio scorso è morto Teoctist, l’anziano patriarca di Romania, il pensiero di quanti hanno a cuore le sorti del dialogo ecumenico è andato all’allora metropolita di Moldavia e Bucovina, Daniel Ciobotea. Chi meglio di questo 56enne - che vanta studi all’estero e tre dottorati, un insegnamento di otto anni all’Istituto teologico del Consiglio ecumenico delle Chiese a Bossey, in Svizzera, e una forte attenzione ai problemi della comunicazione e dell’informazione - poteva prendere la guida della seconda Chiesa ortodossa al mondo, dopo quella russa, con oltre 19 milioni di fedeli? Un’elezione tutt’altro che scontata, per i complicati equilibri di potere interni alla Chiesa rumena, che però si è risolta felicemente il 12 settembre, dopo l’assemblea di Sibiu. L’intervista con il neopatriarca di Romania, Daniel, parte dalla domanda che spesso le Chiese si sentono rivolgere.

Come possono i cristiani, così divisi, testimoniare l’unità?

«Le Chiese sono più credibili se lavorano insieme per far fronte alle problematiche attuali, sviluppando I’”ecumenismo della croce”, piuttosto che litigare tra di loro, isolarsi o ignorarsi. Il rinnovamento spirituale, necessario in questa Europa postmoderna, apatica e secolarizzata, presuppone una comune testimonianza delle Chiese di Cristo. Solamente una rinnovata e creativa fedeltà al Vangelo in una profonda percezione del mistero dell’amore di Dio per l’umanità - e non una vuota spiritualità fatta di ripetizioni di forme esteriori - può aiutare a superare il deserto spirituale, il “deserto della solitudine” del Vecchio Continente. Solo grazie alla preghiera comune, al dialogo e alla cooperazione possiamo vivere più profondamente il Santo Vangelo e, quindi, avvicinarci a Dio e ai nostri fratelli».

Quali sono te sfide principati per i cristiani della postmodernità? E qual è il volto dell’ecumenismo oggi?

«Le sfide principali sono la preservazione dell’identità religiosa, la conoscenza reciproca e l’apertura ai rappresentanti delle diverse confessioni. L’ecumenismo si declina come ecumenismo della croce, della carità, dell’umiltà, come ecumenismo spirituale. Non si tratta di un ecumenismo tattico-diplomatico: è piuttosto un’opera spirituale, un cambiamento del modo di vedere e di capire l’identità dell’altro. Questo cambiamento può essere attuato solamente tramite la forza plasmatrice dell’amore-agape. Di conseguenza, il principale compito spirituale delle Chiese di Cristo in Europa è quello di non considerare il nostro continente come autosufficiente, senza la luce di Cristo da trasmettere agli altri e, a nostro turno, da ricevere dai nostri fratelli cristiani. L’evoluzione spirituale è impossibile senza l’amore. Solo l’amore ci rende veramente liberi. E noi cristiani dobbiamo testimoniare Cristo nell’amore e nella carità».

Il cardinale Walter Kasper recentemente ha affermato che la Romania svolge un ruolo essenziale nel movimento ecumenico. Ma quali sono gli ostacoli per il dialogo ecumenico in Romania?

«E vero, in Romania l’ecumenismo è più avanzato che negli altri Paesi ortodossi. Il popolo rumeno è tollerante, aperto, ha convissuto pacificamente lungo i secoli con altre confessioni: i luterani, i riformati, i cattolici e anche con musulmani ed ebrei. I rumeni sono intrinsecamente tolleranti, perché sono una sorta di sintesi tra Oriente e Occidente. Certamente, però, per l’unità c’è ancora molta strada da percorrere. Potremmo lavorare insieme nei programmi di aiuto per gli anziani, per i poveri, per le persone sole e sofferenti. E, oltre all’approfondimento teologico e spirituale della tradizione comune e della luce di Cristo che condividiamo nel battesimo, potremmo sviluppare maggiormente l’aspetto della carità e dell’amore fraterno».

Dal punto di vista ecumenico, qual è il ruolo dei numerosi immigrati rumeni nei Paesi occidentali?

«Esistono più di un milione di rumeni che vivono in Italia e la maggior parte di loro pregano e celebrano la liturgia ortodossa nelle Chiese offerte dai cattolici. In Romania non possiamo più essere indifferenti al dialogo quando fratelli e sorelle della nostra Chiesa, all’estero, sono aiutati dalle altre Chiese. Dobbiamo uscire dall’isolamento, diventare sempre più collaborativi, senza però rinunciare alla nostra identità ortodossa. E questo perché, se perdiamo la nostra identità religiosa, non possiamo portare più nessun contributo al movimento di ricomposizione dell’unità cristiana. C’è bisogno degli ortodossi per via della loro ricchezza spirituale ma, a loro volta, gli ortodossi hanno bisogno di imparare la capacità organizzativa e di coordinamento degli altri cristiani. Noi cristiani rumeni dobbiamo coltivare le benedizioni che Dio ci ha dato. Papa Giovanni Paolo Il ha chiamato la Romania “Il giardino della Madre di Dio”, splendida definizione che riflette la lunga storia di spiritualità cristiana nel Paese, la devozione speciale che il popolo rumeno ha avuto da sempre per la Madre di Dio. Come in ogni giardino, evidentemente, c’è bisogno di molta cura nello scegliere i fiori e nel riconoscere le erbacce. Occorre approfondire la nostra fede, dobbiamo rafforzare la grande famiglia cristiana, agire in modo che la Madre del Signore non si rattristi quando sente parlare degli ortodossi rumeni o dei cristiani in generale, ma si rallegri».

Che ruolo svolge la preghiera per la realizzazione dell’ecumenismo?

«In primo luogo, la preghiera per l’unità dei cristiani rappresenta un dovere. Senza la preghiera non è possibile la riconciliazione e non possiamo superare i contrasti di ordine dogmatico, teologico e organizzativo tra le nostre Chiese. La preghiera - quando è fatta con umiltà - rappresenta la presenza stessa di Dio, dello Spirito Santo nell’essere umano. La preghiera non è un’opera umana ma divina, poiché è Dio che ascolta l’uomo che prega e risponde. Allora, la preghiera per l’unità dei cristiani rappresenta un dovere e un impegno sacro, come ci ricorda l’esperienza della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. In secondo luogo, la preghiera comune è una gioia immensa perché, al di là delle differenze esistenti, noi cristiani siamo accomunati dalla presenza nel Redentore, Gesù Cristo come Dio e vero uomo. In terzo luogo, la preghiera comune costituisce anche un supporto per un’azione comune. Spesso abbiamo bisogno di lavorare insieme per far fronte alla sofferenza, alla povertà, al degrado della vita familiare e sociale. E le Chiese diventano più credibili se lavorano insieme, Troppo spesso abbiamo litigato, polemizzato e ci siamo odiati. Tramite la preghiera comune, il dialogo, la cooperazione, viviamo più profondamente il Santo Vangelo, ci avviciniamo di più a Cristo».

“Ecumenismo della croce” “ecumenismo del cuore” sono definizioni che si aggiungono al più classico “ecumenismo spirituale”. L’ecumenismo, sempre più, sembra andare oltre l’idea di mere relazioni diplomatiche intraecclesiali, per riferirsi a un atteggiamento di comunione della gente comune, a un modus vivendi. Condivide quest’impressione?

«Direi di sì. Per la gente semplice le discussioni teologiche non sono molto accessibili. Però, se noi cristiani ci ritroviamo insieme per dare risposte a problemi urgenti ed esistenziali - penso alla sofferenza, all’atteggiamento verso la morte, alla povertà -, allora anche la gente semplice, vedendo l’amore e l’unità dei cristiani manifestati nelle azioni concrete, potrà capire il movimento ecumenico. Quanto al rapporto tra la diplomazia e il movimento di ricomposizione della visibile unità cristiana, direi che l’ecumenismo per il quale lavoriamo rappresenta un’opera spirituale, di conversione del cuore e, di conseguenza, un cambiamento del modo di vedere e di capire l’identità dell’altro. Troppo spesso l’identità dell’altro è percepita nebulosamente e semplicisticamente a causa di numerosi pregiudizi. Anche noi cristiani ortodossi siamo percepiti spesso come una Chiesa del passato, impantanata in una storia gloriosa, ma incapace di reagire di fronte alle problematiche emergenti Però, quando le persone comunicano tra di loro, si visitano, si conoscono nelle diverse tradizioni, allora la percezione dell’identità diventa più ricca, più ampia e più luminosa. Di conseguenza non possiamo limitarci a un ecumenismo di ordine diplomatico, perché porterebbe al fallimento del dialogo. Noi cristiani dobbiamo sviluppare un ecumenismo dell’umiltà, del pentimento per i peccati di ciascuno e, nello stesso tempo, dell’approfondimento della vita spirituale. Non si può realizzare l’unità delle Chiese su una base precaria, superficiale. Spesso i conflitti, anche teologici, sono il risultato di un pensiero superficiale. Solamente tramite un continuo approfondimento teologico della santa tradizione e della fede, concessa una volta per sempre ai santi, possiamo raggiungere l’unità. Noi non cerchiamo un’unità parziale, il metter assieme vari pezzi; cerchiamo invece la vera pienezza, la completezza della fede che è data nella Chiesa apostolica di Cristo e continuata dalla Chiesa ortodossa. La pienezza della Chiesa di Cristo è offerta come base di approfondimento, Non dobbiamo pensare gli uni contro gli altri, ma progredire insieme nella comprensione del senso spirituale del Vangelo e, soprattutto, della santità e dell’amore di Dio per tutti gli uomini. Perché l’amore di Dio è rivolto a tutti gli esseri umani, non solo agli ortodossi o ai rumeni, Dobbiamo interrogarci, analizzare il nostro modo di pensare e di vedere le cose. Se il Santo Apostolo Paolo afferma: “Abbiamo il pensiero di Cristo” e se il Redentore ama tutti gli uomini, allora noi non possiamo fare a meno di pensare come Cristo».

(da Jesus, gennaio 2008)


Una nuova diocesi ortodossa
 per il milione di rumeni d’Italia

Il prefabbricato è alle spalle della chiesa cattolica, al chilometro 37 dell’Aurelia. Siamo alle porte di Ladispoli venti minuti da Roma in auto, traffico permettendo. E qui che si è stabilita una delle colonie più numerose di immigrati rumeni. Ed è qui che ha sede la parrocchia ortodossa dedicata a Sant’Andrea, da tre anni ospitata in questo prefabbricato di sette metri per tredici che era servito alla chiesa cattolica dell’Annunziata durante dei lavori di restauro. «La nostra azione pastorale abbraccia un’area che si estende su 30-40 chilometri quadrati e arriva fino a Roma ovest», dice il parroco ortodosso Lucian Birzu, 29 anni, sposato, padre di tre bimbi e un quarto in arrivo.

E’ il lunedì che segue le celebrazioni per la festa solenne di Sant’Andrea. Il vescovo Siluan, ausiliare peri rumeni ortodossi d’Italia, è venuto a Ladispoli per consacrare un prete e un diacono e festeggiare la nascita della diocesi ortodossa rumena italiana. «Sarà una diocesi non territoriale a carattere missionario, necessaria per il milione e passa di rumeni immigrati», spiega Siluan, che ha partecipato alla Commissione per la Carta dei valori promossa dal ministero dell’Interno. Tra le tante urgenze pastorali con cui la diocesi dovrà fare i conti, c’è in primo luogo la necessità di far nascere nuove parrocchie, su un territorio nazionale che oggi conta una settantina di realtà dislocate per la maggior parte al Nord e al Centro, con solo una decina di presenze al Sud. «I rumeni sono un popolo con una forte sensibilità religiosa. La trasmissione della fede è sempre avvenuta in famiglia. E oggi questo patrimonio rischia di andare perduto».

A metà gennaio il Sinodo di Bucarest dopo aver consultato l’assemblea formata dai sacerdoti e da due laici provenienti da ognuna delle 70 parrocchie italiane, dovrà scegliere da una terna il nome del vescovo che guiderà la neonata diocesi (e probabilmente sarà lo stesso Siluan, dal 2004 in Italia, che vanta una buona conoscenza del territorio e della lingua). La sede centrale sarà a Roma, per assicurare un punto di riferimento ai sacerdoti e alle loro famiglie: «Un posto dove essere accolti, dove poter far giocare i bambini dove le donne potranno ritrovarsi». Già, perché una delle preoccupazioni che il Sinodo ortodosso di Romania affiderà al futuro vescovo sarà proprio la cura delle famiglie, a partire da quelle dei sacerdoti. Basti pensare alla condizione di un bambino che alla domanda classica: «Cosa fa tuo padre?», risponde candidamente: «Il prete».

«In Italia questa è una realtà nuova», spiega Siluan. «Qui tutti i nostri parroci sono sposati e le loro mogli non trovano un ruolo corrispettivo nella società, spesso non sono comprese». E già non si contano gli aneddoti di preti guardati con disapprovazione per una innocente passeggiata mano nella mano con la legittima consorte. Una diocesi dunque, per aiutare i preti e le loro famiglie, ma soprattutto per stare vicino a quanti lontani da casa, si sentono poveri, feriti, sradicati «E’ una tragedia quando a lasciare la famiglia in Romania è la madre, che viene in Italia e magari, come baby-sitter, cresce i figli di un’altra donna. Aiutare le famiglie a ricomporsi trovare degli spazi dove curare la formazione religiosa dei giovani e dei bambini, «senza trascurare quei talenti che la nostra Chiesa ha sempre coltivato: spazi non solo per socializzare ma anche per imparare a suonare, a dipingere». E poi il servizio ai carcerati e ai rom, che «non sono cristiani di seconda categoria».

I sacerdoti ortodossi rumeni che vengono destinati nelle parrocchie in Italia, spiega Siluan, sono selezionati attraverso due canali: «I laureati in Teologia che riportano un punteggio superiore a 8,50 su 10 e fanno un periodo di inserimento presso una parrocchia italiana; e i teologi che già sono in Italia per motivi di lavoro, che conoscono e capiscono la realtà in cui si trovano».

La nascita di una diocesi sostiene il vescovo, è una possibilità di fare esperienza di ecumenismo dal basso, di vincere il pregiudizio attraverso la conoscenza, perché «la gente vede come preghiamo, apprezza la nostra religiosità». «Qui a Ladispoli», aggiunge padre Lucian, «tanti italiani hanno accompagnato dei rumeni per matrimonio battesimi La parrocchia è come un’ambasciata: qui c’è un pezzo di Romania, che entra in dialogo con l’Italia».

vi.pri.

Giovedì, 25 Settembre 2008 00:13

Il mercato della pace (Nigrizia Dossier)

Il mercato della pace

Nigrizia Dossier


Il dire e il fare, i principi e i conti correnti, l’incidenza social-politica presunta e quella reale. Lo spaccato di un mondo fatto di mille contraddizioni, più pragmatico di quel che sembra.

Un azzardo. Venti pagine di dossier per intuire, grattando grattando, cosa sta sotto la vernice multicolore dell’arcobaleno. Se la pace è di bandiera. O se c’è sostanza. Soprattutto, per capire come s’impiega il tempo in 364 giorni l’anno, dopo averne trascorso uno a marciare e a cantare, annunciando di voler edificare la nuova Gerusalemme della pace.

L’esperienza del gesuita Albert Poulet-Mathis

Il buddhismo dalla porta del cuoredi Matteo Nicolini-Zani *







Le riflessioni di uno dei pionieri dell’incontro con le religioni dell’Oriente: « Impariamo ad aprirci per amare anche ciò che ci divide».

«Vivere il dialogo tra religioni è capire che quanti ti circondano stanno dentro la tua vita»


«Qual è il tuo cognome cinese?», mi chiede Changchi, il monaco che mi accoglie al monastero buddhista Zen di Fagu-shan a Taiwan. «Mi chiamo Ma, Ma xiushi (fratel Ma)», rispondo io. «Ah, a quanto pare voi religiosi cristiani vi chiamiate tutti Ma! Noi abbiamo un caro amico, Ma shenfiu (padre Ma), un prete cattolico che ci ha visitato molte volte... Così lui è il vecchio Ma e tu sei il giovane Ma.. ».

Con questo buffo episodio - che gioca intorno ai frequenti casi di omonimia dovuta al ristretto numero di cognomi in uso in cinese - sono stato involontariamente avvicinato a un «caro amico» dei buddhisti presso il cui monastero sto per iniziare un breve soggiorno: il padre gesuita Albert Poulet-Mathis. Mi sento così anch’io misteriosamente accompagnato nella mia iniziazione alla conoscenza della vita monastica buddhista da questo «caro amico» che non avevo mai incontrato, ma di cui avevo avuto alcune notizie. Di lui mi avevano infatti parlato Paulin Batairwa, il missionario saveriano che mi ha introdotto al monastero di Fagu-shan e che è un po’ il giovane discepolo di padre Albert, e Gianni Criveller, missionario del Pime, che mi aveva sollecitato pochi giorni prima a non ripartire da Taiwan senza aver cercato di incontrare questo grande conoscitore delle comunità buddiste taiwanesi.

L’occasione di incontro è arrivata pochi giorni dopo, ancora una volta grazie all’intermediazione di padre Paulin. Nel suo ufficio presso il Tian Educational Center dei gesuiti a Taipei, bevendo una tazza di buon tè, padre Albert, nonostante i suoi ottant’anni e la sua salute malferma, ha acconsentito a una chiacchierata insieme, nello stile del dialogo che scoprirò essere più tardi il suo stile proprio: semplice e profondo. Ho potuto così ascoltare le sue riflessioni sulla necessità di un dialogo diverso da quello teologico e più profondo, sulla sua tardiva ma ispirante scoperta degli scritti di Henri Le Saux su questo tema, sulla positività del contributo monastico al dialogo interreligioso... Poche parole, in effetti, ma pronunciate sullo sfondo di una lunga esperienza, e che io cercavo di ascoltare compaginandole con ciò che vedevo intorno: scaffali pieni di volumi in tutte le lingue sulle religioni e il dialogo interreligioso, insieme a un gran numero di fotografie di diversi uomini spirituali da lui incontrati a Taiwan e nei molti paesi dell’Asia da lui visitati (soprattutto maestri buddisti), oltre che a doni da loro fatti a Ma Tianci (suona così il nome cinese di padre Albert) in segno di amicizia e gratitudine.

AI termine della nostra chiacchierata padre Albert mi ha fatto dono di un volume in cinese fresco di stampa, che sarebbe stato presentato al pubblico di lì a qualche giorno, dal titolo eloquente: il tuo Gesù, il mio Buddha: il dialogo interreligioso in profondità, con un titolo parallelo in inglese altrettanto significativo: Open the Doors, Let’s TaIk (Apri la porta, parliamo!). Scritto da Chen Shixian, un giovane amico buddista di padre Albert conosciuto dieci anni prima, questo libro raccoglie - integrandole con proprie riflessioni - le interviste da lui fatte al gesuita francese lungo circa due anni di incontri settimanali di confronto e di dialogo, con la partecipazione anche di padre Paulin. Non è da trascurare il fatto che questo libro rappresenti la prima pubblicazione da parte del maggior editore cattolico di Taiwan (Kuangchi Cultural Group) di un volume scritto da un buddhista sul dialogo interreligioso. Certamente un «significativo e promettente segno di interesse crescente nella promozione del dialogo interreligioso», come scrive Poulet-Mathis nei suoi ringraziamenti alla fine del libro.

La lettura di questo testo è diventato così per me il prolungamento di quell’incontro di fine novembre, e mi ha permesso di scoprire l’esperienza di un operaio del dialogo , «soltanto un piccolo prete francese» - come si autodefinisce nel libro (p. 205) - che ha dato però un grande contributo all’incontro profondo tra cristianesimo e religioni orientali.

Impegnato fin dal suo arrivo a Taiwan nel 1959 nello studio delle vie spirituali orientali e nella conoscenza delle comunità che sull’isola le percorrono, padre Poulet-Mathis ha lavorato instancabilmente per la promozione del dialogo e la pace tra le religioni, oltre che all’interno della Chiesa taiwanese e degli organismi della Compagnia di Gesù, anche come segretario dell’ufficio per le questioni ecumeniche e interreligiose (Oeia) in seno alla Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc) dal 1977 al 1992, e come consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso dal 1980 al 1995. Questo ha fatto sì che «ciò per cui padre Poulet-Mathis è noto a Taiwan non sia tanto la sua identità di prete cattolico, quanto piuttosto il suo contributo al dialogo e alla collaborazione tra le religioni, per aver aperto la porta al dialogo interreligioso» (p. 30), con la sua disponibilità al rispetto, alla fiducia e all’amicizia. Tanto da essere stato definito pubblicamente in una cerimonia il «rappresentante delle religioni di Taiwan».

La reticenza a parlare di sé e soprattutto a presentare delle riflessioni sistematiche sul tema del dialogo interreligioso pervade tutto il volume quasi come una costante. Non si troverà dunque nessuna vera e propria riflessione teologica nelle sue pagine, ma una cancellata di ricordi, di incontri, di figure: «Io considero particolarmente importante il valore delle relazioni interpersonali» (p. 152),confessa. E quasi nascoste nelle pieghe di questi eventi si scoprono allora preziose intuizioni.

Innanzi tutto la consapevolezza che la Chiesa cattolica è inserita in un contesto plurireligioso: «Nel mondo non può esserci soltanto il cattolicesimo, dunque esso deve aprirsi» e «imparando ad aprici agli altri, ameremo ciò che tra noi è comune e rispetteremo ciò che fra noi è diverso» (pp. 134e 152). Per aprirsi - uno dei verbi che ricorrono più volte nelle confessioni di padre Albert - i cristiani devono uscire incontro agli esponenti delle altre religioni, cosa che lui stesso non si è mai stancato di fare, stringendo relazioni durature con uomini spirituali in luoghi che non avevano mai visto prima la visita di un prete cattolico. Sempre e soltanto con l’umile atteggiamento di voler imparare.

Suoi maestri nella conoscenza del buddhismo sono stati ad esempio il venerabile Shengyan, abate del monastero buddhista di Fagu-shan e leader buddhista mondiale, e il venerabile Chanyun, abate del monastero buddhista di Lianyin-si, che dopo più di dieci anni di frequentazione reciproca arrivò a confidare a padre Albert che all’inizio aveva sperato che lui diventasse buddista. Ma alla fine si era convinto felicemente che sarebbe rimasto cattolico, ma un cattolico buon amico dei buddhisti. In questo senso l’impegno di padre Albert ricorda ancora una volta che non esiste un dialogo tra le religioni, ma soltanto un dialogo fra uomini e donne che camminano fianco a fianco lungo vie religiose differenti.

«Il dialogo interreligioso è simile a un ponte che aiuta a mettere in contatto gli uni con gli altri», è «un’ opportunità che ci rende consapevoli del fatto che siamo una sola famiglia». Il suo scopo «non è fare missione, ma imparare gli uni dagli altri attraverso la conversazione fra appartenenti a religioni diverse» (pp. 216, 153 e 56).Se «è necessario avere un atteggiamento di accoglienza nei confronti delle altre religioni, si deve nello stesso tempo dare importanza alla propria fede religiosa e affermare il valore della religione altri; ma il primo dovere del dialogo interreligioso è di dare importanza alla propria fede» (p. 153). Fiduciosi che il dialogo interreligioso non porta affatto a diluire o smarrire la propria fede, ma «può aiutare ad approfondirla ulteriormente» (p. 154).

Fu però una visita in India nel 1981, durante la quale ebbe l’opportunità di leggere uno scritto del samnyasin benedettino Henri Le Saux (Abhishiktananda, 1910-1973) a segnare profondamente l’esperienza di padre Poulet-Mathis e il suo approccio al dialogo, come lui stesso scrive: «Quell ‘articolo mi influenzò e mi sollecitò profondamente... Spesso ritorno a quell’ articolo, le cui poche frasi cambiarono la mia vita» (pp. 156 e 162). Si tratta del saggio scritto nel 1969 e intitolato The Depth-Ditnension of Religious Dialogue (La dimensione della profondità del dialogo religioso), in cui Le Saux annota: «Ogni partner nel dialogo deve cercare di fare sua, per quanto è possibile, l’intuizione e l’esperienza dell’altro; personalizzarla nella propria profondità, al di là delle proprie idee e persino dei concetti attraverso cui l’altro cerca di esprimerle e comunicarle con l’aiuto di segni forniti dalla propria tradizione. Per un dialogo efficace è necessario che io raggiunga, per così dire, nella mia profondità l’esperienza del mio fratello, liberando la mia esperienza da tutte le sovrapposizioni, così che il mio fratello possa riconoscere in me l’esperienza da lui vissuta nella sua propria profondità».

Così padre Albert è oggi più che mai convinto che «il dialogo interreligioso non deve soltanto essere una teoria né si può limitare a un dialogo superficiale; e non è nemmeno una piacevole attività di solidarietà; esso è invece creativo e profondo riconoscimento, comprensione e amore reciproco». E proprio «questo tipoi profondità è ciò di cui oggi abbiamo bisogno nella Chiesa, anche se io non riesco a esprimerlo del tutto, non arrivo a trovare le parole più appropriate per farlo» (pp. 156 e 162). E’ quel dialogo di vita e di cuore proposto dal Concilio Vaticano II, ricordato da Giovanni Paolo II nella sua esortazione post-sinodale Ecclesia in Asia del 1999, nonché sottolineato in molti documenti della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche. È quella comunione a livello profondo possibile tra ricercatori dello spirito che percorrono differenti vie religiose e di cui era convinto Thomas Merton: «Comunicare è possibile al livello più profondo. Ma quella che avviene al livello più profondo non è comunicazione ma comunione. Senza parole. Al di là delle parole, al di là del discorso e al di là del concetto» (Thomas Merton, Diario asiatico).

Più avanti, in uno sforzo per trovare espressioni adatte, padre Albert arriva a dire: «Che cos’è il dialogo interreligioso? E’ forse l’annuncio di una qualche buona notizia? No, significa piuttosto comprendere che tutti gli uomini che ti circondano stanno dentro la tua vita, che tu hai una specifica responsabilità nei loro confronti, che li devi aiutare a comprendere che essi hanno una grandiosa possibilità di essere felici [ . .] Basterebbe che noi dessimo più importanza al dialogo interreligioso in profondità [ . .]. All’inizio anch’io pensavo fosse cosa difficile, ma poi ho sperimentato come si possa non soltanto arrivare a fare esperienza della fede altrui, ma anche rendere più solida la propria fede» (pp. 172- 173). «In questi ultimi vent’ anni sono venuto in contatto con molte religioni che hanno arricchito la mia vita. Sebbene io continui a essere un prete cattolico come lo ero un tempo, tuttavia la mia fede è oggi molto più profonda di vent’anni fa, e ho ancora bisogno di apprendere dagli altri, apprendere da loro a ricercare la fonte della beatitudine [ . .]. Aprite le porte! La mia esperienza testimonia che ciò porta frutto!» (p. 172). Da qui un sussurrato auspicio e insieme un lascito di padre Albert verso le nuove generazioni, che questo gesuita si augura siano formate e preparate per il dialogo: «Se queste mie esperienze potessero aiutare i giovani a intraprendere il dialogo interreligioso.. .» (p. 205). Solo raccogliendo questo invito sarà possibile non fare di padre Albert e di altri pionieri del dialogo interreligioso delle strane, bizzarre figure che nuotano controcorrente, ma riferimenti cui guardare nel pensare una direzione del percorso futuro del cristianesimo accanto alle altre religioni. «Il mio unico sconcerto è che io diventi all’interno della mia Chiesa una figura singolare: questo il mio più grande dolore.. .» (p. 203), confessa con rammarico padre Poulet-Mathis.

L’aver dato voce alla sua decennale esperienza di dialogo in profondità con il mondo buddhista vorrebbe in qualche modo rassicurarlo, testimoniandone l’apprezzamento e la volontà di accoglienza della sua preziosa eredità: «Ciascuno secondo la propria tradizione, ma tutti immersi in un medesimo silenzio…» . (p. 171), o, come direbbe l’apostolo Paolo, «tutti abbeverati ad un unico Spirito» (1Cor 12,13). * Monaco di Bose


(da Mondo e Missione, m arzo 2008)

Obiezione di coscienza
ed etica della convivenza


di Franco Monaco *


Anche per la morale cristiana, la coscienza è l‘ultimo, decisivo giudice. Tuttavia, giustamente, si aggiunge che la coscienza personale deve essere vera e certa. Vera, cioè conforme alla verità sull’uomo e sulle cose. Certa, cioè istruita e orientata dalle “evidenze etiche”. Il fondamento teologico del primato della coscienza rispetto alle leggi umane può essere condensato in due massime: 1) la legge è per l’uomo e non viceversa; 2) si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini.

Mercoledì, 24 Settembre 2008 23:33

Coram Deo (Faustino Ferrari)

Secondo il filosofo francese Jean-Paul Sartre, lo sguardo dell'altro ferisce, è pericoloso, uccide. «Attraverso lo sguardo altrui, io mi vivo come fissato in mezzo al mondo, come in pericolo, come irrimediabile ». Lo sguardo rappresenta una minaccia, fa sperimentare la vergogna, è «distruzione di ogni obbiettività per me ».

Sabato, 06 Settembre 2008 21:00

Asia, scuola di pluralismo (Sandra Mazzolini)

Asia, scuola di pluralismo

di Sandra Mazzolini *





Se diversi sono i motivi per i quali sempre più persone viaggiano per il mondo, molto spesso è comune il fine conseguito: l’incontro tra persone di varie provenienze culturali e religiose. Che, per periodi più o meno lunghi e in forma più o meno stabile, interagiscono in uno stesso contesto, che per gli uni è quello conosciuto delle origini e per gli altri è un vero e proprio «nuovo mondo» da scoprire.

Le forme dell’incontro sono molte, certificate sia dall’esperienza quotidiana, sia dall’informazione, spesso concentrata sugli esiti negativi o sui fallimenti che sembrano sigillare l’impossibilità di una pacifica convivenza. Pare così giustificato, per esempio, il pensiero di coloro che ipotizzano uno scontro di civiltà o le paure e i timori di possibili «invasioni», ulteriormente destabilizzanti il già precario assetto istituzionale, politico ed economico del nostro Paese.

Se è un fenomeno sostanzialmente nuovo per il nostro Paese, non è così per altre aree continentali, la più significativa delle quali è quella asiatica. Qui il dialogo è tematizzato e praticato come modalità specifica dell’evangelizzazione, con riferimento a tre realtà che caratterizzano l’Asia: i poveri, le culture e le grandi religioni. Liberazione, inculturazione, dialogo interreligioso sono conseguentemente assunti quale terminologia specifica per descrivere i modi e gli ambiti dell’evangelizzazione in Asia.

Padre Michael Amaladoss, gesuita indiano, docente di teologia e autore di diverse opere sul dialogo interculturale e tra le grandi religioni, mette in rilievo che il dialogo interreligioso - l’interazione tra persone che appartengono a varie tradizioni religiose - può essere compreso e praticato in due modi differenti e complementari: o come dimensione della missione (e quindi con riferimento all’annuncio evangelico), o come dialogo praticato da credenti di religioni diverse che vivono insieme nella società civile, spazio pubblico multireligioso, che offre un’effettiva possibilità di collaborazione in ordine alla creazione di una nuova società giusta, libera e fraterna.

Il dialogo non esclude perciò alcun ambito della vita dei credenti e non è neppure appannaggio dei soli specialisti. La collaborazione per la difesa e la promozione di comuni valori umani e spirituali, e allo stesso tempo la condivisione della vita quotidiana della comunità di appartenenza, delle proprie esperienze spirituali, delle riflessioni sul proprio specifico modo d’intendere la vita e la realtà, sono le coordinate lungo le quali si sviluppano - certo non senza difficoltà - esperienze di dialogo tra le religioni, dalle quali può conseguire una reciproca ed effettiva comprensione e conoscenza, volta a superare quei pregiudizi che stanno all’origine delle divisioni anche conflittuali e che le mantengono vive.

Quindi l’apporto che i cristiani possono offrire al dialogo interreligioso, senza in alcun modo indebolire o negare la specificità della loro professione di fede e della loro appartenenza ecclesiale, si muove nella doppia linea della conoscenza degli interlocutori e del riconoscimento, che in ultima analisi riguarda un fattore determinante: Dio è già presente in essi e nelle loro tradizioni religiose. Destinatario dell’annuncio evangelico è, dunque, un mondo nel quale Dio non è estraneo.

Considerare in modo non pregiudiziale o idealizzato l’esperienza dei processi dialogici già in atto altrove permette di sottrarre dal limbo dell’utopia l’ipotesi di un’effettiva possibilità d’incontro.

Le nostre società, che si stanno configurando come interculturali e interreligiose, hanno bisogno certamente di leggi ad hoc che determinino i modi della convivenza civile, ma hanno anche e soprattutto bisogno di superare preliminarmente i pregiudizi; se questi permangono, la diversità è percepita e vissuta sostanzialmente come attentato alla propria identità. Invece occorre pervenire a una fondata conoscenza degli interlocutori, senza la quale non ci può essere un reale ed efficace riconoscimento

* Teologa, docente di missiologia alla Pontificia università urbaniana

(da Mondo e Missione, m aggio 2007)

Abramo nel Nuovo Testamento


di Pier Luigi Ferrari



 


La prima generazione cristiana ha riletto la figura di Abramo alla luce di Cristo. Varie e ricche sono le riflessioni che ne sono scaturite e che percorrono il Nuovo Testamento: il patriarca è qualificato come l'antenato del popolo d'Israele, ma di fronte alla novità portata da Gesù si fa sempre più strada un interrogativo critico circa l'autentica appartenenza alla discendenza di Abramo; le promesse a lui fatte si illuminano e si ampliano in senso universale; egli diventa il tipo del credente cristiano, colui che ha addirittura anticipato la fede in Gesù Cristo.

L’uomo nuovo nell'epistolario paolino


 


di Ettore Franco




In un'epoca di transizione molte sono le proposte di cambiamento, ma spesso la delusione succede all'illusione quando le speranze riposte in «novità» risolutrici e decisive rivelano poi la loro fallacia nella contingenza storica e mostrano il limite ineliminabile di ogni progetto umano, sempre inadeguato e mai definitivo.
Sabato, 06 Settembre 2008 20:05

XXIII. Chiesa Ortodossa del Sinai

Le Chiese dell'oriente cristiano

Chiesa Ortodossa del Sinai






Essendo il sito dove secondo il Libro dell’Esodo Mosè ricevette la Legge da Dio, fin dai primi secoli il Sinai è stato frequentato dai pellegrini cristiani. Col sec. III gli anacoreti cristiani hanno cominciato a viverci e dal sec. IV vi si stabilirono una o più comunità di monaci.

Poiché la zona divenne critica e i monaci vulnerabili ad attacchi, nel 528 l’imperatore Giustiniano decise di fortificare il monastero. Vi trasferì inoltre 200 famiglie dall’Egitto e da Trebisonda perché proteggessero e servissero la comunità monastica.

In principio il monastero ebbe un carattere fortemente internazionale con monaci slavi, arabi, latini, armeni, etiopi, siriani e greci. Il monaco forse più famoso del monastero fu S. Giovanni Climaco, che fu abate nel sec. VII. In quel tempo la zona fu conquistata dai musulmani arabi. I governi islamici erano sostanzialmente tolleranti, ma in più occasioni tribù selvagge assaltarono il monastero obbligando i monaci a chiuderlo temporaneamente e a rifugiarsi al Cairo o ad Alessandria. Durante questo periodo, i monaci di altre nazionalità lasciarono il monastero ai Greci.

Il monastero di Santa Caterina, conosciuto fin dal sec. IX, faceva parte del Patriarcato di Gerusalemme, con la diocesi di Pharan. Dopo che il vescovo di Pharan venne deposto, nel 681, con l’accusa di monotelismo, la sede episcopale fu trasferita nel monastero stesso e l’Abate divenne quindi il vescovo di Pharan. Con la conseguente unione della diocesi di Raitho al monastero, tutti i cristiani della penisola sinaitica finirono sotto la giurisdizione dell’Abate-arcivescovo.

Nel 1575 il Patriarcato di Costantinopoli concesse al Monte Sinai l’autonomia, riaffermata nel 1782. Il solo legame con il Patriarcato di Gerusalemme era che l’Abate, eletto in un’assemblea di monaci seniori, doveva essere ordinato vescovo dal Patriarca di Gerusalemme, il quale era commemorato anche nella liturgia del monastero.

La biblioteca del monastero è rinomata per la sua antichità e per i suoi manoscritti. E’ qui che nel 1859 Tischendorf trovò il Codex Sinaiticus della Bibbia. Oggi la biblioteca vanta 4.000 manoscritti. Alcune delle più antiche icone sono custodite nel monastero, che era già fuori dall’impero bizantino durante la controversia iconoclasta quando molte delle icone imperiali andarono distrutte.



Attualmente il monastero, oltre alla biblioteca, possiede una casa per ospiti e un ospedale per la popolazione locale. I monaci, inoltre, dirigono una scuola in Cairo. Dal monastero dipendevano molte chiese e monasteri (metochia ) sparsi in altri paesi. Oggi ne ha uno in Cairo (dove spesso risiede l’Abate), sette in Grecia, tre in Cipro, uno in Libano e uno in Istanbul.

Oggi, oltre ai circa 20 monaci formanti la comunità monastica, questa chiesa include qualche centinaio di beduini e pescatori che vivono al Sinai. Nel 1984 è stato stipulato un accordo tra i governi greco ed egiziano che concede al monastero di ricevere fino a 50 nuovi monaci greci.

Dall’invasione d’Israele del 1967, il problema più grave che la comunità ha dovuto affrontare è il mantenimento di un autentico stile monastico nonostante il massiccio flusso dei turisti. Il problema persiste dopo che la zona è tornata sotto l’amministrazione egiziana.

Nel contesto di quanto abbiamo detto finora del protestantesimo italiano non rientra certamente la corrente di pensiero che si è sviluppata sulla direttiva del Prof. Vittorio Subilia docente della Facoltà Valdese di teologia. Le più forti contestazioni ai rapporti ecumenici con Roma trovano, nei suoi scritti, la loro motivazione e il loro orientamento.

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