Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di Alfonso Soares
Questo testo vuole evidenziare, nel modo più schematico possibile, il valore teologico del sincretismo religioso, inserendolo nella dinamica divino-umana della rivelazione. Tenterò di suggerire alle lettrici e ai lettori che il sincretismo è la rivelazione di Dio in atto, considerando che non esiste altro modo di accedere al mistero se non facendolo a poco a poco, in forma frammentata, fra avanzamenti e retrocessioni, luci ed ombre (...).
Di che stiamo parlando e perché insistete su un termine controverso come questo?
Molti termini si contendono l'attenzione della teologia pluralista in questi tempi di incalzante dialogo. Esiste l'ecumenismo (la fede cristiana celebrata fra le varie Chiese in un culto comune), il dialogo interreligioso (la convivenza armoniosa fra tutte le religioni) e perfino il dialogo afro-interreligioso. Quest'ultimo si può intendere a partire da due esperienze. La prima, come avvicinamento alle religioni afroamericane ((Candomblé in Brasile; Vodu ad Haiti; ecc.) è, per un verso, quella di penetrare sempre più nella vita e nella teologia di queste tradizioni; e, per altro verso, quella di impedire che esse siano ignorate o trascurate nelle discussioni ufficiali sul dialogo interreligioso. La seconda esperienza è a partire dalla realtà afro così come si incontra all'interno del cristianesimo: in questo caso si tratterebbe di conquistare sempre maggiore spazio interno per l'espressione e l'attuazione delle differenze culturali nelle Chiese cristiane (. ..).
Oltre a quelli citati, è necessario prendere in considerazione altri termini:
Macroecumenismo, che, ratificato nell'Assemblea del popolo di Dio (Quito, 1992), viene apprezzato dai gruppi popolari, in particolare dagli Operatori della Pastorale per i Neri/e. Implica un ecumenismo dalle frontiere flessibili, basato sull'esperienza delle comunità;
Dialogo Intrareligioso, che coincide con quella che prima è stata definita come seconda maniera di vivere il dialogo afro-interreligioso (...);
Inculturazione, che è attualmente il termine più usato dalla Chiesa cattolica (...). Su questo, hanno trovato un consenso i "conservatori" e i "progressisti". Ed è proprio qui il pericolo: due persone che difendono l'inculturazione magari stanno parlando di realtà o prospettive diametralmente opposte. Nel caso specifico delle comunità culturali autoctone, in genere per inculturazione si intende una costruzione che gli stessi soggetti stanno facendo nel loro proprio contesto a partire dalle sollecitazioni che il Vangelo opera nelle loro tradizioni culturali. Per la gerarchia cattolica, invece, l'inculturazione dovrebbe essere il canale tramite il quale la Chiesa ritorna all'ideale di una cultura cristiana, valorizza e rinnova la sua cultura tradizionale. Questo uso ambiguo è preoccupante. (...) Prendiamo il caso della religiosità afro, per esempio: cos'è l'inculturazione per queste culture? Perché, dopo tutto, quello che sta proponendo recentemente la Chiesa lo facevano già i neri secoli fa, e questo viene definito sincretismo. Di più: attualmente si parla di dialogo fra cristianesimo e religioni di origine africana. Questo costituisce già un passo avanti, a parte il fatto che ci sono voluti 500 anni per riconoscere il Candomblé come religione. Ma in quali termini intraprendere questo dialogo se il 90% dei membri del Candomblé è costituito già da cattolici?
Irreligionare, parola nuova e brutta per una vecchia sfida, che già doveva essere sottintesa nel termine inculturazione: ogni religione si trasforma a partire da sé, attraverso il contatto che stabilisce con le altre; è necessario permettere che la religione si trasformi al ritmo delle crisi, delle scoperte e degli scambi che effettua con le altre religioni. (...) Una comunità religiosa accoglie un'altra religione, assimilando quello che le sembra più appropriato e scartando quello che non le conviene. Come ho affermato in altre occasioni, il popolo irreligiona quello che può o vuole accogliere della nuova tradizione che viene da fuori. Di fatto, molti praticanti della tradizione degli Orixàs, dell'Umbanda, del Vudù, della Santeria o di altre variabili religiose della nostra eredità indigena e africana, si sentono sinceramente cattolici. Accolsero (molte volte obbligati, vale la pena ricordarlo) nelle loro tradizioni di origine l'inserimento cristiano, depurarono quello che sembrava loro inumano o senza senso, mescolarono quello che non aveva molta importanza e finirono per mantenere intatto quello che ritenevano positivo e arricchente per la propria cosmovisione originaria. Se osserviamo attentamente, tutto ciò non differisce in nulla da quello che si conosce con il nome di sincretismo.
Sincretismo. Quando lo menzioniamo, il primo impulso è di pensare a qualcosa di degradato, a un difetto di produzione (...). In realtà il cristianesimo ufficiale, clericale, asettico non è mai esistito nella vita reale. Quello che esiste sono i contatti religiosi che si stabiliscono tra gruppi e individui con forme diverse di dialogo. (...). In definitiva, è un lavoro di Sisifo cercare di contenere la fame religiosa delle persone nella sfera di certi ingredienti e condimenti, soprattutto se teniamo conto di questi tempi postmoderni, di laicità estrema da un parte e di abbondante offerta di significanti religiosi dall'altra. (...)
Il sincretismo è sempre stato e continua ad essere presente nelle relazioni storiche tra le religioni
(...) Il cristianesimo, per essere una religione universalista, non può sfuggire al sincretismo, dal momento che si è assunto la responsabilità di contenere, fin dal principio, tutta la pluralità esistente nel genere umano. La sua principale argomentazione per tale pretesa si fonda sulla certezza che la rivelazione di Dio all'umanità abbia raggiunto in Gesù di Nazareth un livello di profondità senza pari, prima o dopo tale evento (pienezza della rivelazione). C'è qui l'eccellenza e, al tempo stesso, il tallone d'Achille di tutta la storia del dogma cristiano. Come si può conciliare l'assoluto di Dio che si rivela con l'inevitabile relatività del mezzo utilizzato e dei suoi risultati? ... Lo sforzo popolare di unire divinità di diversa provenienza e, in alcuni casi, contraddittorie nel seno di una stessa esperienza religiosa, non avrà alcuna somiglianza con la geniale formulazione simbolico-teorica del dogma trinitario, che cerca di raggiungere il difficile equilibrio tra la convinzione monoteista e l'esperienza del molteplice nella divinità? Da un punto di vista antropologico-pastorale, perché dovrebbe essere sospetto "offrire un culto" agli antenati e agli elementi della natura (Orixàs) quando le devozioni mariane e il culto dei santi cattolici sono considerati positivamente e appaiono pedagogicamente importanti? (...)
È un fatto che la gerarchia cattolica contemporanea, per quanto con più pudore che in passato, continua a interrogarsi sulla miglior forma per combattere la spiritualità sincretica. In fondo, lo fa per una questione di potere. Da parte loro, indifferenti alla controversia, grandi segmenti della popolazione dei nostri Paesi continuano ad offrire un culto alle loro divinità e ad osservare alcuni riti cristiani, pienamente convinti che tali modi di comprendere e di praticare la religione siano sicuramente cattolici ...).
Il sincretismo è, prima di tutto, una pratica che precede le nostre opzioni teoriche e bandiere ideologiche
(. . .) In primo luogo, si tratta di riconoscere il sincretismo de factu; solo dopo può avere un senso la domanda su cosa potremmo apprendere teologicamente da questo dato reale. (.. .) Tollerato dalla pratica pastorale in nome della carità cristiana, il sincretismo è ripudiato nelle dichiarazioni e nei documenti ufficiali. Fortunatamente, questi ultimi anni sono stati caratterizzati da una timida revisione di questa posizione.
D'altro lato, sarebbe ingenuo non tener conto che molte delle pratiche sincretiche vissute dalla nostra gente sono il prodotto della forma violenta con cui il cristianesimo si e imposto in tutta l'America Latina, di modo che ai popoli non sono rimaste che abitudini distorte, camuffate e frammentate delle loro tradizioni. Per questo sono promettenti i movimenti che oggi hanno ripreso queste tradizioni ancestrali evitando di pagare pegno ai rituali cristiani/cattolici. (...)
Allo stesso tempo, un nuovo cammino è iniziato, a fatica, ad opera dei settori cristiani più progressisti, tra i quali il movimento degli Operatori neri di pastorale (Apn) e le sue ramificazioni in America Latina e nei Caraibi. Maggioritariamente cattolici, essi intendono riscattare le tradizioni nere e riaffermare la propria identità culturale. E qui, inevitabilmente, emerge la questione di come affrontare il sincretismo de facto o la doppia appartenenza religiosa dei membri di questa comunità. Fino a che punto un cristiano può permettersi di avanzare nella ricerca delle sue autentiche radici africane? È possibile essere allo stesso tempo un nero cosciente e un cattolico? La questione è la stessa in qualunque latitudine: posso essere aimara e cristiano, hindu e seguace del Vangelo, cinese e partecipante alla funzione domenicale, bantu e credente nella resurrezione?
Una volta che si sia ammesso con tranquillità che tali connessioni si stanno realizzando nella pratica, possiamo passare al punto successivo: questa situazione reale di fatto, non fabbricata artificialmente per mero capriccio di alcuni teologi e teologhe, ci può insegnare qualcosa dal punto di vista non solo pastorale ma più specificamente teologico? (...)
Teologi come M. de F. Miranda preferiscono ancora usare il termine inculturazione a quello del sincretismo e affermano che è preferibile "seppellire per sempre questo concetto del mondo teologico, dal momento che oggi un corretto e ortodosso sincretismo riceve la denominazione di inculturazione, che non è gravata da letture negative del passato come avviene nel caso del termine sincretismo".
La doppia appartenenza religiosa è una delle possibili interpretazioni naturali del dialogo interreligioso
Se il termine non e unanime, perlomeno si verificano sensibili passi avanti per quanto riguarda l'accettazione o la tolleranza della realtà rappresentata dal vocabolo.
(...) Un profeta del dialogo tra le religioni, François de L'Espinay, sacerdote cattolico e ministro di Xangô (orixà della giustizia, giudice e guerriero, ndt) nel II Axé Opò Aganju, passò i suoi ultimi anni di vita a Salvador de Bahia (1974-1985). Arrivò ad essere scelto come mogbà (membro del consiglio di Xangô). "Il giorno in cui il pai-de-santo (autorità religiosa del Candomblé, ndt)mi chiese di far parte del consiglio, sapevo di dover passare per una iniziazione. Fu un grande problema. Non sapevo cosa fosse. Sarebbe andata contro il cristianesimo? Non rinnego nulla né del cristianesimo né del sacerdozio (...). Nel Candomblé io promisi fedeltà a Xangô. Ciò non allontana per nulla dalla fedeltà a Cristo".
Se questa pratica diventasse una regola, si domanderanno molti, come giustificare allora la mediazione della Chiesa o la sua funzione salvifica (Lumen Gentium 14)? Prevenendo questi interrogativi, François in quella occasione ponderava quanto segue: "Perché Dio dovrebbe esigere un contatto per mezzo di un traduttore e non direttamente con la sua parola? Egli si rivela come Padre. Ma un Padre non parla la lingua dei suoi figli? (...) Dio è più grande e più vivo. Non si racchiude in una formula rigida, non è prigioniero delle sue opzioni. Non fa discriminazioni tra i suoi figli. Nessuno può dire: 'È a me che si è rivelato e soltanto a me'”.
La Chiesa uscirà in questo modo ridimensionata? Sinceramente, se questo fosse il prezzo da pagare perché il Regno di Dio sia servito, ben venga. Dopo tutto, affermano che la Chiesa è il lievito e non la torta finale (...). François sarebbe stato d'accordo, giacché, secondo lui: "Basterebbe uscite dai nostri limiti cementati nell'esclusivismo, nella certezza di possedere l'unica verità, e ammettere che Dio non si contraddice, che parla sotto forme molto diverse e complementari le une alle altre e che ogni religione possiede un deposito sacro: la Parola che Dio ha annunciato loro. Ecco tutta la ricchezza dell'ecumenismo, che non deve limitarsi al dialogo fra cristiani". (...)
Un'esperienza ibrida può essere segno del disegno di Dio di comunicare se stesso
(...) Sua Santità Giovanni Paolo II, ricevendo in visita ad limina alcuni prelati brasiliani, ha indicato la religiosità popolare come tema importante e il sincretismo religioso come una delle principali minacce. Per il Santo Padre: 'la Chiesa cattolica guarda con interesse a questi culti, ma considera nocivo il relativismo concreto di una pratica comune di entrambi o della mescolanza di essi, come se avessero lo stesso valore, mettendo in pericolo l'identità della fede cattolica. La Chiesa si sente in dovere di affermare che il sincretismo è dannoso quando compromette la verità del rito cristiano e l'espressione della fede, a detrimento di una evangelizzazione autentica”.
Mi sembra di capire che nel messaggio pontificio esista un margine di dialogo, dal momento che se ne deduce che se il sincretismo non compromette la verità del rito, ecc., questo sarà benvenuto. In definitiva, come ben sapeva il predecessore di Benedetto XVI, la verità del rito e l'esperienza della fede non sorgono da un momento all'altro, e un'autentica evangelizzazione presuppone un lunghissimo processo di incarnazione dello spirito evangelico nella vita delle persone e delle comunità. Inoltre, sembra che il papa riconosca che l'unico complesso di criteri che il popolo possiede per giudicare se il Vangelo è, di fatto, "una buona notizia" è la sua stessa cultura autoctona e, pertanto, che non può abbandonarla automaticamente per diventare "evangelico" (...).
In varie occasioni e già da molti anni, le implicazioni contenute nella pratica e nell'esempio di personaggi come L'Espinay hanno sfidato la fede, la spiritualità e il modo di fare teologia di molte persone. (...) Sembra facile riscattare il sincretismo come condizione sociologica di ogni religione: in definitiva, nessuna di esse, come fatto culturale, esiste indipendentemente dalle altre tradizioni delle quali è tributaria. Ma cosa bisogna dedurre teologicamente dall'opzione di un padre cattolico che non ha mai creduto necessario mettere a rischio la sua fede originaria per abbracciare la spiritualità degli Orixàs? Quale sarebbe la vera funzione della Chiesa in queste situazioni di sincretismo e di doppia appartenenza religiosa? Quali servizi ci si attendono dai cristiani in tali contesti? Guardare al bene del popolo equivale a convertirlo (nella sua totalità) ad un cristianesimo più ortodosso? Insomma, la salvezza-liberazione del popolo di Dio è sinonimo di adesione matura da parte delle persone a questa comunità chiamata Chiesa?
Per rispondere alle questioni poste dalla pratica di padre François così come alle tante persone che attualmente militano in diversi movimenti (macro-)ecumenici, la teologia cristiana dovrà rivolgere la sua attenzione a se stessa e ai fondamenti della fede cristiana, cioè alla possibilità e alle modalità dell'accesso umano alla presunta novità evangelica. Una discussione epistemologica realmente aperta potrà costruire una teologia della rivelazione più capace di includere nei suoi circuiti altre possibili risorse di autocomunicazione divina nella storia, altre interfacce della rivelazione.
Domandiamoci infine: esperienze come quelle del padre L’Espinay sono ancora propriamente cristiane, o si collocano in un'altra tradizione spirituale, che non è più cristiana né propriamente del Candomblé? Sarebbe un caso di "sincretismo di ritorno" (come suggerisce Pierre Sanchis), di inculturazione (come preferiscono molti) o di inreligionazione (vedi Torres Queiruga)? È una strategia rischiosa, conveniamo, per rifondare la plantatio ecclesiae o un gesto vissuto nella gratuità di chi non si aspetta niente in cambio?
Il sincretismo mostra che nessuna religione ha forze, permesso o mandato per esaurire il Senso della Vita
Il vantaggio di una parola controversa come sincretismo rispetto a inculturazione è che la prima mette immediatamente in evidenza dov'è il problema teologico-dogmatico: la rivelazione di Dio comporta evidenti ambiguità, errori e contraddizioni che devono essere spiegati come componenti essenziali e non come fallimenti circostanziali del processo dell'autocomunicazione divina con l'umanità. Come affermava il card. Lercaro già cinquant'anni fa: "bisogna essere prudenti pure di fronte ad errori flagranti, per rispetto alla propria (maniera umana di accedere alla) Verità" (...).
Allora, come leggere teologicamente ed ecclesiologicamente le esperienze sincretiche? Esempi come quello del padre François, che hanno fecondato tante buone esperienze profetiche e liberatrici nelle nostre comunità sono riusciti ad aprire le porte ad un cambiamento nell'autocomprensione cristiana? Una nuova categoria potrebbe essere utile per capire quello che sta succedendo a noi e a quanti ci stanno intorno. Mi azzardo ad introdurla nel dibattito: la fede sincretica. Penso che anche la teologia (fondamentale e dogmatica) più nuova non potrà non riconoscere, con l'ausilio delle scienze religiose, la condizione e i condizionamenti radicalmente umani dell'accesso a qualsiasi fede, religiosa o meno. (...) Di conseguenza, si può parlare di fede sincretica per identificate il modo stesso in cui una fede "si concretizza". Di fatto, non esiste una fede allo stato puro, essa si manifesta nella prassi.
(...) Potremmo perfino domandarci: dove si situa la cattolicità di queste esperienze/testimonianze di sincretismo conosciute, tanto nostre? Questo mi fa venire in mente la nota frase biblica: “Nella casa di mio padre ci sono molte dimore". Ispirandoci ad essa, il segno della cattolicità si amplia fino ad abbracciare una pluralità di esperienze che hanno in comune l'incontro con Gesù di Nazareth. Forse non tutte hanno generato o generano la sequela strictu sensu, ma nel cammino (di Emmaus?) hanno incrociato Gesù. La cattolicità non è proprietà esclusiva della istituzione Chiesa cattolica.
(...) Le esperienze sincretiche, malgrado le inevitabili ambiguità che accompagnano qualsiasi biografia o processo storico, sono anche variazioni di una esperienza d'amore (o, se vogliamo, eventi di grazia o di gratuità, o piuttosto di spiritualità). E dove c'è amore non c'è peccato. Perché il popolo do santo (del Candomblé) non si stacca dalla Chiesa e non si oppone ai suoi rituali? Forse perché, come afferma fra B. Kloppenburg, "sono quelli che più amano la Chiesa in America Latina, sebbene siano quelli che più si servono di essa”.
Mi compiaccio di ripetere che la storia della rivelazione divina è una storia di amore fra Dio e l'umanità, la quale ha per talamo la storia. Perché fa parte della rivelazione anche il modo in cui i popoli sono arrivati ai dogmi, cioè fra avanzamenti e retrocessioni, errori e successi, gesti amorosi e peccaminosi. Solo così possiamo capire come il complesso delle "rivelazioni" autoescludenti raccolte e mantenute le une accanto alle altre dai redattori biblici costituisca oggi, per una gran parte dell'umanità, la "Parola di Dio". Insomma, altre variabili possibili, a partire da una stessa intuizione originaria, si verificano in quello che per convenzione abbiamo chiamato Tradizione cristiana. È il caso della fede abramitica alla quale attualmente fanno riferimento tanto gli ebrei quanto i cristiani e i musulmani. E, se è così, il sincretismo può essere solo la storia della rivelazione in atto, visto che costituisce il cammino reale della pedagogia divina in mezzo alle invenzioni religiose popolari.
L'insistenza/audacia sincretica non desidera abbandonare nessuno dei due amori (cattolicesimo e candomblé; reincarnazione e messa domenicale; culto degli antenati e lotta evangelica contro le ingiustizie; viaggio astrale e via crucis). Li vuole tutti e due; è contraria alla monogamia. Se le chiediamo spiegazioni, offre quello che il poeta Drummond aveva denominato "le irragionevolezze dell'amore". Risposta talvolta disperante per la vecchia scolastica (giacché, come assicurava Vasconcelos, quando la gente racconta, sconcerta”), ma vitale per la mistica di ieri, di oggi e di sempre. Tutto questo è affascinante per chi sta vivendo tale esperienza, ma non per questo meno tremendo, dal momento che è un sapere che si assapora e che, a partire da qui, genera un nuovo potere oriundo di secolari contropoteri (gay, afrodiscendenti, donne, giovani).
Tuttavia, non c'è fretta di battezzare le varie esperienze religiose che andiamo tacendo: queste sono già valide di per sé e occupano il loro posto nel sorprendente mandala di risposte all'autocomunicazione di Colui/Colei che ci ha amato per primo/a. Per chi ha nel sangue le impronte della tradizione cristiana, qui non c'è niente di spaventoso, dato che il modo e il luogo dell'adorazione di Dio non sono importanti, se lo facciamo, come Gesù, in Spirito e Verità. Forse, alla fine, l'equilibrio più difficile, in questi tempi plurali, è quello di una sottile distinzione che dovremmo tenere a mente al momento di parlare di cattolicità: guardarci dal rullo compressore del "c'è posto per tutto", eclettico ritornello post moderno, e rivolgere il cuore al "c'è posto per tutti". Questo, sì, utopicamente evangelico ed evangelicamente plurale.
Nella lingua ebraica, il termine compassione viene dalla stessa radice di utero e significa l’amore che, normalmente, una madre sente per il figlio o la figlia che ha generato. Se la nostra vocazione è vivere con tutte le creature questo amore compassionevole, la comunità dei discepoli e delle discepole di Gesù deve, in primo luogo, offrire questa testimonianza d’amore.
di Gianfranco Ravasi
C’e un curioso contrasto da segnalare appena ci si meta parlare del paradiso. Da un lato, la Bibbia - che è pur sempre il nostro grande codice di riferimento simbolico, teologico e iconografico - è al riguardo estremamente sobria, per non dire reticente. D'altro lato, la tradizione cristiana successiva si è abbandonata a una fantasmagoria irrefrenabile di immagini e di scene.
di Giovanni Vannucci
Sulla strada di Emmaus i due discepoli incontrano Cristo, non lo riconoscono, disputano sulle Scritture lungo tutto il tragitto, ma i loro occhi rimangono ottenebrati. Cristo parla il loro stesso linguaggio, essi fissi sull’idea messianica della loro fede ebraica, nulla intendono. Durante la cena, quando Cristo spezza il pane, lo riconoscono e gli dicono: «Signore, resta con noi perché si fa sera» (Lc 24,29). Dopo la frazione del pane Cristo scompare.
di Amedeo Cencini
Protagonisti della preghiera non siamo noi, ma Dio. È lui che desidera l'incontro con noi, e lui che, ci ha messo in cuore il desiderio di stare con lui, è' lui che ci parla e interpella come nessuno potrebbe.
Saper dire: «Ti perdono» è il traguardo finale di un percorso fatto di piccoli successi e sofferenza. La «purificazione» del passato,con la conseguente liberazione dalla rabbia e dal risentimento è il premio finale che spetta a chi, nell’oggi,sceglie questa via per gestire i suoi conflitti, verso una vera e matura riconciliazione.
di Vladimir Zelinskij
Capax Dei
Nella «gioia dell'iterazione» che stupì Mandel'štam, ossia nella gioia di aver trovato e riconosciuto i giacimenti della Sapienza o della Shekinah in una moltitudine di specie culturali, Averincev non si ripete, non si ferma nella sua ricerca, non celebra il passato per amore della sua canuta antichità. Prima sembrava che non si sarebbe mai deciso a uscire dai porti accoglienti e vastissimi della «sua» antichità, ma poi si è scoperto che si muoveva con altrettanta sicurezza anche sulla «nave della modernità». Si tratta non solo dell'attualità di nuovi temi, della pubblicistica, dove ha dato prova della sua dolce maestria, ma di qualcosa di infinitamente più essenziale, della modernità di se stesso, di ciò che nel dialogo con la Parola può essere chiamato «qui e ora». Egli pone questo tipo di dialogo alla base di ogni cultura che sia degna di questo nome.
Qui sta l’essenza della sua novità, della sua irripetibilità, del nuovo apporto di Averincev. Egli si rivolge alla Parola che «era in principio presso Dio». (Gv 1,2) non per ragionarci sopra o per descrivere l'esperienza che ne hanno fatto altri, ma per creare liberamente e stare semplicemente in essa. Non per chiarirla per sé ed erigere l'ennesimo monumento verbale alla propria interpretazione, ma per fermarsi stupito di fronte al suo mistero. Il mistero non consiste in qualcosa di inconcepibile o apofatico, ma in quella che egli stesso una volta ha chiamato «divinoumanità della parola», intendendo la semplice parola umana, piccolo mattone della cultura con cui la Sapienza si costruisce la casa. Il mistero sta nella stessa Discesa della Parola di Dio, che si incarna nel linguaggio umano, a volte spigoloso, dei testi sacri. Dietro a questo postulato classico può celarsi anche un altro significato, universale e mistico.
«Per questo esso ha il diritto dl affermare che per logica interna di questo stesso miracolo, nella parola umana può essere contenuto l'incontenibile Verbo divino; che la parola umana, come tende bene la formula latina, è capax Dei. In realtà, per far ciò la parola umana deve superare se stessa, oltrepassare i propri limiti, restando puramente umana ma trasformandosi anche in qualcosa di più che umano». (20)
Capax Dei, è il dono alla parola umana reso possibile dall'incarnazione, il cui riflesso d'ora in avanti sta in tutte le parole umane, le quali possono respingere questa capacità di «irradiare Dio», o accoglierla, cercando di essere illuminate da Lui. La Parola si è fatta carne in Gesù di Nazaret, e questo avvenimento, unico nella storia dell'uomo, non può non riflettersi (oppure velarsi) in tutte le parole umane. E non solo nelle parole, ma in tutti gli atti umani che portano il logos, si tratti di una forma d'arte o di una qualunque nostra azione. La scoperta di Averincev, una delle sue scoperte, sta nell'aver percepito e confermato, avvalendosi di una moltitudine di esempi, questa irrinunciabile responsabilità di cui è investito ogni uomo dell'era cristiana. Essere capax Dei significa essere capaci di esprimere, sia pure con i propri mezzi stentati, la presenza di Dio tra gli uomini, o Shekinah, Sapienza, Buona Novella, che hanno bisogno del nostro linguaggio, sia esso parola, immagine o gesto. Non è da molto che abbiamo cominciato a ripetere con devozione il pensiero di padre Pavel Florenskij sull'origine della cultura dal culto, intendendo il culto prevalentemente come liturgia e non lasciando alla cultura contemporanea altro diritto di sopravvivenza se non quello di riprodurre forme liturgiche di culto, innanzitutto pittoriche o plastiche. Non c'è dubbio che alla base della cultura creata da Avetincev stia proprio il culto, perché in essa la parola umana afferma la propria capacità di accogliere la presenza di Dio, che prende dimora nella nostra gloria, nella casa costruita dalle nostre mani, e la costruzione di questo tempio è la vocazione di ognuno di noi.
«Padre, il cui nome è segreto»
«Sapere molte cose come abbiamo ricordato non insegna ad avere intelligenza», tuttavia, l'intelletto può utilizzare le sue molte conoscenze per renderle un luogo di preghiera. Tutti sanno che il fumo che si spande lentamente e si dissolve, il profumo dell'incenso, la ieraticità di un gesto possono in qualche modo aiutarci a comprendere l’icona. Le permettono di manifestarsi in noi, quasi tracciassero la via al nostro sguardo che si apre al mistero, nascosto e al tempo stesso svelato in un'immagine che per i nostri occhi potrebbe sclerotizzarsi in un'iconostasi o spegnersi in un museo. Ma ecco che con questi gesti, come con la terra o con le nostre conoscenze, si può impastare quel «fango» che Gesù mise sugli occhi al cieco nato.
Un tempo le opere di Averincev mi sembravano solo una ricca collezione di icone, raccolte ovunque e appese avendo come criterio solo il capriccio del collezionista. Un po' alla volta, questo ammasso di inutili capolavori a cui stavo di fronte si è trasformato per me nella chiesa della Sofia, veramente ornata di una moltitudine di immagini meravigliose, che tutte assieme dovevano rivelare, rinnovare, insegnare a vedere l'unica vera icona: quella della Sapienza o del Nome. E questo Nome ripetono a modo loro tutte le immagini sacre, gli affreschi, le vetrate, gli stucchi. Allineandosi in un'unica schiera, in un ordine che si forma spontaneamente o consapevolmente, queste opere tracciano al Nome la via verso i nostri occhi, le nostre orecchie, il nostro intelletto, la nostra conoscenza. E in loro - o attraverso di loro - il Nome in qualche modo compie il suo annuncio. Tutta la cultura di Averincev, ponderosa ma al tempo stesso agile e dinamica, diventa un atto di culto raffinato, ricercato, ma pienamente ortodosso, una celebrazione davanti all'icona del Nome di Dio. Nome che si fa chiaro nel denso fumo delle parole umane che esce dal turibolo. Questa densità permette al Nome di manifestarsi e al tempo stesso gli consente di restare inosservato. Perché nella sua profondità il nome di Dio coincide con il silenzio, il silenzio a sua volta esige verginità e pace. Forse, per la mia durezza d'orecchio, non riuscirei a sentire bene il silenzio dei testi di Sergej Averincev se non mi venissero in aiuto le sue poesie.
«Padre, come nella debolezza infantile,
alle sorgenti del verbo,
siano le parole nostre grevi,
riempite fino all'orlo di silenzio». (21)
Le sue parole sulla debolezza non sono pronunciate a caso. Solo un uomo che ha sperimentato con tanta finezza e profondità la forza della parola in sé e negli altri, in molti dei suoi confratelli che con lui rendono culto alla Sapienza e servono la Shekinah, sa meglio di chiunque altro cosa significhi la debolezza infantile, che si impadronisce delle parole quando cerchiamo di avvicinarci per loro tramite «alle sorgenti del verbo». Il mistero dell'icona del Nome o della Parola di Dio non si pronuncia con un linguaggio qualsiasi, ma piuttosto si rivela nell'immanenza, nel silenzio, nella preghiera.
«Preghiamo Te, Parola,
che eri in principio presso Dio,
che pronunci senza linguaggio
i silenzi della Sua profondità…» (22)
Ma prima ancora di aver sentito questi splendidi versi, ho capito che i numerosi linguaggi di Averincev, pieni fino all'orlo del «sapere molte cose», portano in sé le profondità del silenzio, proprio di quel silenzio in cui ogni uomo può al meglio percepire, capire e accogliere l'altro. Infatti, tutti i nostri linguaggi possono servire come frammenti di un Nome colmo fino all'orlo di silenzio, del silenzio che custodisce questo nome segreto, nel quale ci è dato di salvarci.
«Dio, il cui nome è segreto,
dà ogni parola per vedere
nel nero della nostra morte,
nell'oro della Tua gloria,
come una pietra splendente e dura,
sfaccettata in losanghe di luce,
cinta da tutti i lati
dalla guardia del silenzio». (23)
Il segreto o il «modello» di Averincev
Quello che sto cercando di esprimere in queste righe non è affatto il panegirico di una certa persona. Francamente, non posso soffrite il culto della personalità sotto qualsiasi forma, anche se si trattasse di personalità eccezionali, e umili nella loro eccezionalità, come Sergej Averincev, poiché «non a noi, non a noi, ma al Tuo nome» (Sal 115, 1) bisogna rendere ogni culto, ogni commemorazione. L'«arcipelago Averincev», per quanto sia notevole e interessante di per Sé, lo è ancora di più come modello «operativo» che organizza o crea cultura, e in questa sua funzione può essere applicato a ciascuno. Anche se non abbiamo al nostro attivo mille isole popolate di nomi rari e lingue astruse, ma ne abbiamo solo cinque o sei; anche se non è un mare di associazioni a ribollite nella nostra memoria e le icone si contano sulla punta delle dita e sono tutte copie delle copie, non è questo ultimamente l'essenziale. Essenziale è Colui «il Cui Nome è nascosto», e tutto ciò che in noi si raccoglie, si struttura attorno a questo Nome e lo serve. Essenziale è il riflesso e il silenzio del Nome in noi. Ogni atto culturale, ogni conoscenza che assimiliamo non può essere vuota per l'anima, inutile per il Nome, vana per la Parola, impenetrabile alla Luce che ci ha toccato. Ciò che è riuscito ad Averincev può benissimo capitare a chiunque, qualunque sia il suo lavoro, per quanto modesto sia il posto che occupa nell'arcipelago della cultura, dove coscientemente o meno vive ogni uomo di questa terra. Perché cultura, in sostanza, significa anzitutto edificare la personalità attorno al Nome di Dio.
La sostanza del successo culturale non sta nelle proporzioni grandiose, ma nel grado di illuminazione interiore che si possiede, che promana dal silenzio del verbo, dalla totalità con cui lo si serve. Tutti possiamo diventare «degli Averincev» in quello che facciamo, nella nostra esistenza, poiché la sostanza dell'opera di Averincev sta nell'aprire le finestre alla luce, nel riempite le parole della Parola e le conoscenze del Nome, proteggendole con la vigile «sentinella del silenzio». Proprio in questo saper raccogliere e trasmettere il silenzio con le sue numerose conoscenze, sta uno dei segreti di Averincev. Sono cose che non si imparano da nessun libro e da nessun manuale, poiché ognuno deve trovare da solo la strada verso questo silenzio, con le proprie conoscenze e le parole, senza imitare nessuno, senza idolatrare nessuno, senza seguire nessuno, ma solo volgendosi verso il modello e mettendosi in ascolto del mistero del Nome in se stesso. La cultura può diventare la lingua di questo nome, e al tempo stesso ogni tentativo di edificare la cultura, ogni forma in cui la si serve può portare a noi qualcosa di ignoto, che non si è ancora rivelato ma che può rivelarsi solo in un uomo concreto. Un uomo che è nato ed è stato mandato nel mondo proprio per accendere, con la sua piccola luce umana, la Luce che ci ha illuminato, per illuminare e benedire con segni umani il Nome che si nasconde nel silenzio. Poiché anche in questo consiste la predicazione del Vangelo che Gesù ha comandato.
Nel Vangelo di Matteo c'è una frase che può suscitare perplessità in molti. Parlando dell'avvicinarsi del giudizio finale e della Seconda Venuta, Cristo profetizza: «Non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell'uomo» (Mt 10,23). Mi è sempre parso che noi cristiani abbiamo appena cominciato a percorrere «le città di Israele», che il Vangelo non sia ancora stato predicato fino in fondo, che il nome segreto di Dio non abbia trovato neppure una minima parte dei nomi umani in cui deve incarnarsi, che la Parola non abbia ancora svelato tutta la sua stupefacente novità e immediatezza, che la sua pienezza sia ancora ben lontana dall'essersi riversata in tutti i recipienti e i contenitori umani che avrebbe dovuto riempite, che il sacro mistero della Trinità non abbia ancora raccolto, non sia ancora riuscito a chiamare tutti coloro che ad esso partecipano e del quale sono servitori, che le «città di Israele» disseminate nella nostra storia e nelle nostre culture, nel nostro futuro, non solo non siano state percorse, ma nemmeno scoperte...
Nel cammino verso queste città, iniziato ancora una volta, come ai tempi degli apostoli, in un'epoca di persecuzioni e di sordità, Sergej Averincev è diventato uno dei più energici e instancabili pellegrini.
Post scriptum.
La vocazione della persona e l'ora della morte
Avevo incominciato a scrivere di Averincev quand'era ancora vivo, anche se da alcuni mesi era alle soglie e come attirato dalla morte. Sussisteva la speranza, ancorché flebile, che sarebbe restato fra noi, che sarebbero tornati la sua voce, la sua parola, il calore speciale del suo pensiero. Ma il 21 febbraio 2004 è mancato.
È morto alle soglie della vecchiaia. La «possente vecchiaia evangelica», come diceva l'Achmatova, sembrava essergli stata promessa ma non gli è stata data. Rozanov chiamava la vecchiaia «l'età metafisica». Finito il lavoro nel mondo, si intreccia una «conversazione» silenziosa con l'altro. Quell'età per lui non è venuta, anche se sappiamo che tutta la vita di Averincev è trascorsa in pratica nell'età metafisica. Eppure, nonostante l'importanza di tutto ciò che ha fatto, sembrava che l'«acme» della sua vita non si fosse ancora manifestato appieno, ma si stesse appena approssimando negli ultimi anni. La vita se n'è andata, ed è rimasto un certo pensiero divino su una persona (ed è questo che giunge all'orecchio del nostro cuore), una persona di proporzioni tali da non trovare posto nel solo passato. Il passato dell'uomo entra in dialogo con noi, noi vi partecipiamo nel presente, e qualcun altro dopo di noi anche nel futuro. Ecco io vorrei raccontare come la figura, la vita, la personalità di Averincev si iscrivono nel futuro, come il suo riflesso tocca anche noi. I necrologi sono già stati scritti. L'offerta o il risveglio della vera memoria ancora non è iniziata.
Durante il periodo della sua lunga agonia Avetincev era diventato una persona cara, certamente non solo all'autore di queste righe. Si aveva l'insistente impressione che la morte, o meglio la vita, avesse un suo disegno segreto, e si cercava tormentosamente di svelare quale. Ma ora è morto, è entrato nell'esperienza della morte, come diceva l'indimenticabile padre Sergej Želudkov, e questo transito ci ha lasciato una sensazione di quiete e di luce. Come se fosse tornato chiaro non solo cosa è stato Sergej Averincev (cos'ha fatto, detto, rivelato, come ci ha sorpresi), ma che cosa sarà, cosa dirà, come ci sorprenderà nella sua vecchiaia promessa ma non realizzata, che ancora troverà il modo di farsi sentire nella maturità o giovinezza di altri.
Del resto, questa sensazione è nata ben prima della sua dipartita. Due anni e mezzo fa, prima di lasciare una conferenza sulla patristica a Vienna, cui ebbi l'onore di partecipare assieme a lui, mi diede da leggere durante il viaggio la sua traduzione del Vangelo di Luca. Cominciai a leggerla sul treno, la lessi dalla prima riga all'ultima senza mai interrompermi. L'autenticità linguistica di questo testo mi assorbì totalmente. Non c'era una sola parola che trafiggesse per la sua «inverosimiglianza», per l'infedeltà allo spirito e alla lettera dell'annuncio evangelico. Incominciai a paragonarlo. Non osai rivolgermi al testo greco per scarsità di conoscenze (naturalmente il livello di Averincev era tale, che a nessuno sarebbe venuto in mente di cercare gli errori). Paragonai il russo col russo. La traduzione sinodale, da qualsiasi parte la si guardasse, è e resta un grande avvenimento delle nostre belle lettere, anche se ci limitassimo alla storia della letteratura. E tuttavia questo avvenimento non può diventate la norma legislativa della nostra lingua religiosa da due secoli a questa parte fino al giorno in cui «non ci sarà più il tempo». Non si tratta del fatto che la lingua si sviluppa, poiché questo movimento può anche non essere avvertibile dalle nostre profondità liturgiche. Ma lo sviluppo della lingua recepisce anche le nuove forme o strade del pensiero, comprese quelle che portano a Dio, che gravitano attorno al mistero di Dio nell'uomo, e che è impossibile indirizzare una volta per tutte in un determinato senso verbale univoco. Ma ciò nonostante, la nuova forma linguistica deve esprimere in modo nuovo esattamente il tipo di linguaggio che parla soltanto «l'interno del cuore», che non vive nel tumulto della politica, delle ansie quotidiane, delle notizie gridate o dei romanzi letti nel metro, ma nella bellezza «di un'anima incorruttibile piena di mitezza e di pace» (cfr 1Pt 3,4). Ed ecco che questa bellezza si è dischiusa nel Vangelo di Averincev, che suona «alto e chiaro» (sono parole di Žukovskij), con l'autenticità con cui l'eterno si fissa nel temporale.Sicuramente l’opera di traduzione, pur nella sua ricchezza (oltre a due Vangeli, il Libro di Giobbe, i Salmi, come pure i Padri siriaci e greci, Platone, Aristotele, Hesse, Brentano...), rappresenta soltanto la periferia di ciò che è rappresentato dal nome di Averincev. Ma quando si tratta della traduzione di testi sacri, cioè della Parola che ci parla di Dio e lo manifesta dentro il nostro cuore, ci vuole ben più che una solida conoscenza distillata da antiche erbe, ben più che talento, discrezione, finezza, orecchio per le sfumature verbali, insomma tutto ciò di cui Sergej Averincev era riccamente dotato, qui ci vuole anche mitezza e bellezza d'animo. Bisogna essere mediatori e scomparire in questo servizio. Bisogna servire «non nobis, sed nomini Tuo», ma bisogna farlo in modo che questo servizio al nome diventi allo stesso tempo un nostro servizio, che si compia in noi. Soltanto con questi talenti ci si poteva misurare col problema dei problemi della Chiesa russa, quello della lingua liturgica. Non è questo il luogo per intavolare il discorso. Ma a molti - e non a me solo - era chiaro che se c'era qualcuno in grado di provarci questo era Averincev. Chi altri - e chiedo scusa a chi non conosco - poteva vantarsi di unire in sé il tesaurus della memoria storica e la semplicità di fede, il lavoro di cesello sulla parola e la percezione della sua potenza che l'uomo non può contenere, un'insolita delicatezza e una finissima abilità, una umiltà non affettata e l'audacia? Chi se non lui, che era dotato di un orecchio assoluto per la poesia, e poeta lui stesso, maestro di retorica nel senso antico e originario del termine, uomo di preghiera capace di trattare liturgicamente ogni singola parola, sarebbe potuto diventare il nuovo mentore dei russi, quello che la nostra Chiesa attende ma non vuole accettare, che rifiuta ma allo stesso tempo invoca silenziosamente? Chi altro avrebbe saputo trovare le parole con cui poter pregare e gioire, ed esprimere quella pienezza umana dell'anima per cui uno è in grado di capire l'altro senza perdere la consapevolezza della propria persona? Chi saprebbe trovare una lingua totalmente «pura davanti a Dio» come davanti a se stesso, condividendo la patria della lingua con quanti Dio ha scelto come suoi e nostri contemporanei?
L'uomo non è più tra noi, ma la sua vocazione rimane.
Un'eredità interiore
La «cultura di Averincev», se guardiamo ai suoi libri, ai suoi articoli disseminati dovunque, si è sviluppata contemporaneamente da numerose fonti. Chi avrebbe potuto riconoscere nel giovane filologo già dottissimo, che scriveva della poetica antico-russa o della vivacità storica della categoria del genere, il poeta che si teneva appartato e componeva inni appassionati all'Annunciazione? Volendo abbracciare in un solo sguardo tutto ciò che ha scritto, dai primi articoli fino agli ultimi lavori (anche se non ci sono tante persone capaci di assimilare in uno sguardo tutto questo), nasce la sensazione di uno sviluppo, di un cammino interiore che ha avuto le sue tappe, la sua specifica logica dell'anima. Molto schematicamente (dato che un breve discorso commemorativo non può essere uno studio) questa logica si potrebbe tracciare come il cammino da un problema di critica letteraria all'autore stesso, dall'uomo-scrittore all'uomo segreto del cuore, immerso in Dio, dall'uomo segreto al Nome che in lui è stato posto e che in lui canta; ma fermiamoci qua.
Nell'introduzione al libro Poeti, Averincev scrive: «Più che cercate di farli "miei", volevo piuttosto io stesso farmi "loro", perché il simile, secondo la vecchia massima, riconoscesse il proprio simile; perché essi stessi fossero non soltanto per il mio intelletto, ma anche per la mia emozione, ancora più interessanti dell'emozione in quanto tale per se stessa. Il mio scopo era di coinvolgere la mia soggettività nel processo della conoscenza però con l'intenzione che in questo processo essa avesse a "morire", Non spetta a me giudicate quando il mio proposito sia stato almeno in parte coronato da successo, o quando sia decisamente fallito. Di un fatto sono sicuro: i poeti dei quali ho scritto non sono stati per me un pretesto per dire qualcosa "al riguardo". Per me non sono mai stati altro che se stessi, vale a dire qualcosa di incomparabilmente più interessante di tutto ciò ch'io avessi da dire su di loro». (24)
Noi lettori siamo pronti a rispondere concordemente in coro: «Ci è riuscito, assolutamente». L'autore, tuttavia, vede meglio di chiunque. Evidentemente, è rimasto qualcosa oltre la parola, che lui sentiva più fortemente, che tormentava lui e non noi. Parlare di fallimento non è affatto una forma di riverenza letteraria, ma un normalissimo processo creativo, quando dietro ad ogni frase conclusiva cresce immediatamente una montagna di cose non dette fino in fondo, non partorite; una montagna di cose pensate, mature, che premono sulla porta serrata del nostro discorso, ma che questo non è ancora pronto ad accogliere. Averincev è stato capace di fare «suoi», «nostri», ma anche più propriamente «loro» una schiera delle migliori menti creative, tanto che questa stessa capacità è diventata la sua ricchezza, la sua ascesi, un’opera nel più rigoroso senso ecclesiale, e infine il suo testamento. Quello che ha fatto resterà con noi. Ma con noi resterà anche ciò che non ha detto fino in fondo, ciò che andava maturando ed era maturo in lui, ma è stato interrotto dalla morte.
Cerco una parola, ma le parole sembrano troppo logore, sfilacciate per riuscire a trasmettere l'inesprimibile. Forse la parola più precisa e meno inadeguata è la parola «sapienza», la sapienza in senso biblico, la sapienza della semplicità decantata, limpida, profonda. La «possente vecchiaia evangelica» è frutto della sapienza. Negli ultimi anni in Averincev era affiorata un’intonazione nuova, nient’affatto da maestro ma piuttosto da discepolo, era l'intonazione di una persona che ha cominciato a elargirsi, a mettersi in comune con gli altri. Parlava molto in pubblico, partecipava a molti convegni, scriveva introduzioni a libri altrui, con la sua stupefacente capacità di aprirsi agli altri era diventato un maestro anche nella pubblicistica. Quello che non gli era stato possibile da giovane - per banali motivi di censura - si era poi rivelato necessario, tempestivo ed estremamente richiesto nella maturità. In un certo senso, questo sapiente servizio al tempo e al mondo per un uomo del rango di Averincev era in parte un sacrificio, ma un sacrificio portato con letizia, che lo aveva entusiasmato (ed era diventato alla fine «la morte totale effettiva»). Molti hanno avuto e hanno qualcosa da dire, ma la parola di Averincev era intrisa di una particolare forza pacificante, rivestita della tacita potenza e fortezza di quella pace dell'anima che così tragicamente mancava e manca al mondo russo. Quando si leggono i suoi commenti degli ultimi anni a questo o quel fatto di cronaca, non si può fare a meno di notare che sono espressi con una chiarezza ideale. Non solo riusciva a cogliere il nocciolo della questione, ma trovava anche la giusta intonazione per poter discorrere del fatto. Ricordo ora l'articolo Noi e i nostri vescovi, ieri e oggi. Moltissimo era già stato scritto sull'argomento (ahimè, anche dall'autore di queste righe), ma di tutto questo forse è rimasto fissato non sulla sabbia ma sulla pietra solo quanto ha scritto lui, Averincev. In lui giustizia e misericordia non si contestano a vicenda ma si congiungono, si fondono insieme dando origine a qualcosa di organico, autentico. I suoi articoli sul matrimonio - una predicazione attuale e opportuna -, sul futuro del cristianesimo in Europa, sul contesto europeo dei dibattiti russi, sulla Parola divina e quella umana, sul cristianesimo nel XX secolo, sulla poesia di Ol'ga Sedakova; articoli frammisti a versi spirituali, rappresentano l'ultimo Averincev maturo, dal quale non si vuole, è difficile separarsi.
La sapienza di Averincev, che in qualche modo balenava in lui pur senza aver ancora raggiunto piena espressione, consisteva nella capacità, per dirla con Deržavin, di «conversar di Dio con sobrietà cordiale» e di dire la verità, anche quella più austera, con un sorriso buono, chiaro, quasi inerme.
L'attesa della morte
Chiudo con un osservazione personale. A chi scrive queste note è capitato di incontrare Averincev a Mosca, all'inizio degli anni ‘70 (il defunto Boris Šragin gli aveva fatto una visita di buon vicinato e mi aveva portato con sé), ma un vero rapporto e anche una certa amicizia - nonostante la differenza che corre fra le nostre persone e il nostro livello - sono nati fra noi soltanto vent'anni dopo. Non potrò dimenticare le nostre passeggiate per Roma nei primi anni '90. Ricordo in particolare il Lungotevere dove dei vecchi olmi toccano l'acqua con le fronde, formando una galleria verde sopra la testa. Una sera d'estate la sua fisionomia si stagliava sulle fronde verdi, e sembrava che la sua voce sommessa suonasse in armonia con il fruscio delle foglie.
Il giorno dopo la nostra passeggiata andammo in San Pietro. Non c'erano celebrazioni, in quel momento la chiesa era tutta dei turisti. Poco discosto dalla statua del primo degli apostoli, interrompendo d'un tratto il discorso su Vjačeslav Ivanov, Averincev si mise a recitare la sua Preghiera per l'ultima ora. Con una voce non sussurrata ma ferma, chiara, come di chi professa qualcosa che certamente si avvererà, e a cui il cuore è preparato da tempo:
Preghiera per l’ultima ora
Quando la Morte riderà di me
come colei che ride ultima e fiaccherà
le membra ad una ad una
Sia con me la Tua Forza
Quando il pensiero sprofonderà ottuso
quando la volontà si perderà
quand'io più non saprò il mio nome
Sia con me il Tuo Nome
Quando verrà la fine dei discorsi
e la lingua così loquace un tempo
s'impietrirà nell'afasia della tomba
Sia con me la Tua Parola
Quando passerà l'apparenza
che il veggente vedeva in piena luce
e la superbia del non essere
nuda apparirà
Colma di Te il mio vuoto.
Cercate di penetrare questa pienezza e questa economia di parole, di guardar dentro l'uomo che le ha udite. Non viene voglia di pregare non solo con lui, non solo per lui, ma lui stesso?
(fine)
Note
20) S. Averincev, Parola divina e parola umana, in «La Nuova Europa», n. 2, 196, p. 15.
21) Ibidem, Molitva o slovach, cit., p. 8.
22) Ibidem.
23) Ibidem, p. 9.
24) S. Averincev, Dieci poeti. Ritratti e destini, cit., p. 9.
di Vladimir Zelinskij
A Natalija Petrovna Averinceva
Nell’introdurre questa riflessione sui Sergej Averincev, penso innanzitutto alle sue poesie. Poesie che si vorrebbe chiamare «preghiere come gigli del campo», dal titolo che il monaco Kiprian Kern diede al suo libro sulla poesia liturgica, nella quale le parole, come steli di fiori, si piegano lievemente sotto il peso leggero, incorporeo, della preghiera.
Oh Dio, le parole fuggono
dalla fragile dimora dell'uomo
al nostro sentimento carnale
misteriosamente indifferenti;
staccandosi dalla mano, cominciano a vagare.
Come cani randagi ululano:
meglio è per loro ritornare a Te,
stringersi al Tuo sacrario. (1)
«Il deserto è fiorito come un giglio del campo, o Signore», si dice nell'Irmologion. (2) Quando si pensa all'ambiente, al terreno da cui è germogliato il «fenomeno Averincev», l'immagine del deserto «fiorito» come un giglio del campo si affaccia spontaneamente alla memoria. Certo, l'ululato di cani randagi è ciò che meno si percepisce nelle sue parole. Siamo piuttosto di fronte alla figura di un pentimento non retorico, perché le sue parole, staccatesi dalla mano, invece di vagare si tuffano in profondità alla ricerca di tesori nascosti nelle navi affondate e, raggiunti lì, li ripuliscono dalle alghe e dal fango... Le parole di Averincev sembrano custodire il profumo di quelle profondità, emanano la dolce antichità e il tepore degli altari sui quali si è appena estinto il fuoco dei greci che offrivano sacrifici, hanno la fragranza dei mari e degli stretti che un tempo Odisseo attraversò tornando in patria...
«Di molti uomini le città vide e conobbe la mente». (3)
La strada di Averincev, che si può seguire passando in rassegna le città che ha percorso e i luoghi che ha «visto», è sempre via del ritorno al «sacrario» attraverso la preghiera.
La chiave di Eraclito
Qualsiasi esperienza creativa può essere esaminata in diverse «chiavi», che a buon diritto prendiamo in prestito dagli autori più impensati. Da lungo tempo cerco di sciogliere l'enigma di Averincev usando la «chiave di Eraclito». Mi si è impresso nella memoria un frammento del pensatore greco, che è rimasto, come tutto in lui, oscuro e inesplicabile: «sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l'avrebbe altrimenti insegnato a...» (fr. 40), e seguono i nomi degli oppositori di Eraclito: Esiodo, Pitagora e altri.
Negli anni in cui il nome di Averincev si sussurrava tra le élite delle biblioteche, tra un pubblico di pochi detti, sulle riviste letterarie, io, dissociandomi dall'atmosfera snob dei circoli esclusivi, usavo il verso di Etaclito proprio contro questo orgoglioso portatore o, come credevo, trasmettitore di nozioni inutili. Le conoscenze che Averincev aveva accumulato, allora come oggi, colpivano gli occhi invidiosi e stupefatti degli ascoltatori con il loro luccichio che a me, chissà perché, ricordava il luccichio delle monete di cui aveva fatto incetta il cavaliere avaro. (4) Neofita degli anni ’70, guardavo non senza ironia i giovani cercatori di Dio che come mosche sciamavano attorno al piatto colmo del miele vischioso dell'erudizione che si chiamava «lezione di Averincev», e ricordavo, forse fuori luogo, le parole evangeliche sul mercante che aveva venduto tutte le proprie ricchezze per quell'unica perla preziosa… In poche parole, «sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza..», dove per me l'«intelligenza», il logos, il giglio era solo quella conoscenza interiore che sboccava nel Verbo che era in principio presso Dio e in principio presso l'uomo, e in confronto alla quale tutto il resto sembrava un ammasso di cocci.
Cos'era dunque quella conoscenza interiore che non desiderava riconoscersi in nessuna nozione esteriore? Sembrava una forza che agiva nelle cose, che si opponeva al caos delle molte istruzioni inutili sulla cultura e sul mondo, era l'essenza più intrinseca della realtà, l'«aletheia», secondo l'interpretazione di Martin Heidegger del frammento 16 di Eraclito, ossia la verità che emerge dal mistero in cui l'essere si rivela all'uomo. Questa verità non si può raggiungere con nessuna archeologia della conoscenza o dotta digressione culturale. Infatti, la cultura ci può accecare con i riflessi dell'individualità umana che si è staccata dal Verbo di Dio. Anche oggi molti la pensano così, contrapponendo la cultura non tanto alla Parola, quanto al culto, e considerandola come qualcosa di notoriamente inutile, che distoglie dall'«aletheia» della vita della Chiesa, dall'«unico necessario» della preghiera. Come se l'ampiezza e la varietà dei paesaggi culturali servissero solo ad attutire la voce dell'intelletto o del logos che parla in noi, a offuscare la luce del mistero che procede dal logos, dal Verbo, e dalla fede che di esso è partecipe.
Mi sono tanto dilungato a parlare di queste cose, proprio perché oggi non la penso più così. La mia protesta contro la freddezza delle «enciclopedie viventi» era in questo caso superficiale, e non teneva conto del «silenzio del Verbo» di Averincev, che può celarsi persino nella disciplina più prolissa e ramificata. Ma, dopo aver ascoltato una volta «la pienezza che non ha nome» (Vjačeslav Ivanov) e che sta dietro a questo silenzio, non ho più potuto separarmi dalla sua ricchezza, disseminata e nascosta nei testi di Averincev, esteriormente sovrabbondanti di reminiscenze culturali; non ho più potuto staccarmi da ciò che fin dall'inizio era colmo dell'intenso dialogo della preghiera, dialogo che cresce dallo stupore che si comunica agli ascoltatori.
Così che, se proprio dobbiamo «misurare» l'armonia con il metro dell'algebra e Averincev con il metro di Eraclito, visto che da qui siamo partiti, oggi come oggi preferirei un altro frammento, il 54, che dice: «L'armonia nascosta vale più di quella che appare».
E finalmente sono arrivato a ricostruire questa armonia nascosta mettendo insieme la moltitudine di frammenti, di isole, sulle quali è disseminata la galassia delle scienze di Averincev. Poiché «la forza materiale [anche quando si tratta della “materia" del pensiero – V. Z.] permette al significato spirituale di realizzarsiL'arcipelago Averincev
Konstantin Sigov, nella sua postfazione alla raccolta Sofia-Logos, ha definito, con un'espressione felice, questa miscellanea come un arcipelago, «un viaggio universale della conoscenza dalla A alla Z». (6) Ma la «A» in Averincev si trova dappertutto: nei greci, dai quali aveva cominciato, negli antichi bibliofili russi, ai quali era approdato, nell'acatisto alla Madre di Dio, di cui ci ha aiutato a scoprire la saggezza, nei Padri della Chiesa, dai quali non si è mai separato, in Vladimir Solov'ëv, che è diventato suo confratello, in Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, in Vjačeslav Ivanov e in altri poeti ed eterni compagni di viaggio, in Walter Benjamin, Rilke, Tralk, Jung, Maritain, in molti altri che sono stati suoi compagni dicammino o, piuttosto, amici... e in tantissime altre diverse esperienze.
Ma con tutto ciò Averincev non è diventato affatto un prontuario ambulante, una sorta di enciclopedia della cultura mondiale. Se esaminiamo con attenzione la traiettoria del suo pensiero, all'apparenza ridondante ma al tempo stesso vivace e lieve, sentiremo che la sua «A», la sua «archè», sta prima della nascita delle parole, si trova «alle sorgenti del verbo», come dirà in seguito.
Nata dalla contemplazione, la sua parola segue il proprio «ciclo», per rifluire poi verso la fonte da cui era partita. È proprio questa fonte, ancora tutta da scoprire, che ci attira e ci affascina. Forse perché in ognuno dei suoi compagni di viaggio Averincev cerca un complice e un confratello, depositario come lui del segreto della sapienza che si è costruita una casa, o almeno un'abitazione fragile e provvisoria, in un certo destino, in un verso particolare e nel silenzio che vi si cela. E tutta questa pienezza del silenzio-conoscenza viene affidata ad ogni lettore attento di Averincev. Qualunque testo di Averincev noi prendiamo, è sempre un capolavoro di dialogo umano ben riuscito, ben realizzato (come dice Marina Cvetaeva: «l'anima si è realizzata»). (7) Un capolavoro che, per usare una delle sue parole preferite, «evoca» persone e concetti, che a loro volta prendono vita e fioriscono nella preghiera. I «protagonisti» di queste opere ci mostrano la loro faccia illuminata, rischiarata dalla luce del cuore che cade su ognuna delle isole dell'«arcipelago Averincev». personalità) diventa fitto e ricco di contenuto, poiché la sua propria voce si fonde con la voce dell'altro senza coprirla, dandole modo di esprimersi pienamente e creando così materia sonora per la Sapienza, la cui voce è sempre polifonica.
La chiave di Mandel'štam
«Solo un russo poteva rivelare questo Occidente, più concentrato e concreto dello stesso Occidente storico», (8) scriveva Mandel'štam di Čaadaev, ma forse queste parole si possono applicare, a maggior ragione, anche ad Averincev.
Non a caso abbiamo ricordato uno dei poeti a lui più familiari, nel quale è facile trovare una moltitudine di sentieri verbali che ci possono condurre anche al fenomeno Averincev. Cercare e trovare vie come queste, spesso impensate, che portino dall'uno all'altro è uno dei suoi segreti stilistici. «Oggetti piuttosto lontani l'uno dall'altro», secondo la definizione di poesia di Lomonosov, ma collegabili tra loro, creano un effetto di compattezza, densità e concretezza storica. Proprio questa compattezza costituiva una sorta di opposizione della parola in anni in cui ci si poteva impantanare nelle parole putrefatte e mummificate come in una fetida palude. Oggi, se ci voltiamo indietro a guardate la palude di ieri (da cui tutti, chi più, chi meno, allora siamo passati), non vi troviamo le impronte di Averincev.
«Dai nemici della parola emana un impuro sentore caprino che avverto quasi fisicamente», scriveva Mandel'štam nel 1921 nel saggio La parola e la cultura. (9)Questa può essere considerata la definizione più esatta dell'epoca che di lì a poco avrebbe ucciso lo stesso poeta. Negli anni in cui il giovane Sergej Averincev aveva appena incominciato a tessere i suoi rapporti sopraffini con la parola, il sentore caprino non era più quello della morte, almeno di quella fisica, ma era così pesante, asfissiante e onnipresente da sembrare ormai a tutti da tempo la normale atmosfera umana. Quando non era rimasto più neppure un barlume di speranza che un giorno tutto questo lezzo si sarebbe dissipato, Averincev aveva trovato il modo di respirate quell'aria diversa, che, a quanto pareva, era stata spazzata via alcuni decenni prima. Aveva trovato il modo non tanto di parlare, ma semplicemente di respirare senza assorbire con i polmoni i miasmi della palude, evitando però di atteggiarsi ad acerrimo nemico del «sentire caprino» (questa resistenza eroica troppo spesso si è rivelata, ahimè, fatale proprio al profumo diverso e sublime che avremmo voluto difendere).Dapprima in modo piuttosto intuitivo, ma poi, penso, in piena coscienza, decise di avere a che fare solo con i primi cittadini della repubblica dei pensatori e dei poeti, che sapeva scoprire in modo così infallibile. Penso che la sua stessa erudizione sia nata non dall'avidità di accumulare nozioni alla rinfusa, ma dal bisogno di amicizia, proprio di quell'amicizia che nella lingua ellenica si chiama philia: da qui la sua philo-logia, philo-sophia, che in Averincev non sono materie e discipline, ma stati di un'anima amica, che ama. «E il mare e Omero, tutto è mosso dall'amore»; (10) ricordiamo ancora una volta Mandel'štam, poiché è come se il mare di Averincev con le sue isole fosse attraversato dalla tiepida Corrente del golfo... Non su tutte le isole sono vissuti eroi che gli sono ugualmente cari, congeniali, compartecipi delle sue scoperte, tuttavia non si trova mai in lui un tono tagliente, che assieme agli errori mozzi via tutta la personalità dell'altro. Il metodo di Averincev è la finezza d'orecchio, da cui nasce anche il dialogo, un dialogo così aperto all'interlocutore, così disposto a comprenderlo, che è come se questa comprensione impedisse all'autore stesso di pronunciarsi. Spesso ci tocca andare a scovare il suo pensiero in testi che parlano d'altro, e perciò non è facile tracciare un confine tra ciò in cui c'è tutto lui, e ciò dove lui non c'è più per niente, ma ha lasciato il posto a un altro misterioso, che secondo Tjutčev «hanno accolto i beati dei come un convitato alla festa». (11)
«Lo afferra la profonda gioia dell'iterazione, una gioia che dà il capogiro», (12) secondo le parole di Mandel'štam, poiché Averincev sa e ama ritrovare se stesso in qualsiasi interlocutore. Per questo è rimasto straordinariamente libero dalla logorroica frenesia dell'ego che si è impadronita di tutti, in particolare all'inizio dell'epoca della libertà; è rimasto libero dall’estasi di lavare in pubblico i panni sporchi del proprio «io». Le sue isole si richiamano l'una con l'altra, si invitano a fuochi notturni, segnali, messaggi d’amicizia, poiché alla base risuona sempre la stessa notizia, ma ogni volta in modo diverso, in cento diverse interpretazioni, saggi e versi. «I versi», dice Mandel’štam, «vivono di un'immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta», (13) e noi vediamo come questa immagine interiore, maturata in Averincev, viene da lui intuita e creata poeticamente in modo instancabile nei suoi amici e interlocutori. Questa immagine interiore che egli trova dappertutto, perché vive in primo luogo dentro di lui, si chiama «Sapienza».
Sofia, Shekinah, (14) Parola
Averincev promuove sempre il suo lettore, lo introduce da pari in una cerchia scelta, sebbene non proprio ristretta, di amici fidati, e chiunque egli inviti non può fare a meno di seguirlo, anche se può capitare che non si senta del tutto a proprio agio alle sue latitudini.
Ne è un esempio il modo in cui ci invita ad andare in pellegrinaggio alla Sofia. «Personalmente mi sembra impossibile pronunciare il nome della città di Kiev», ha affermato all'inizio della lezione all'Accademia Mogiliana, quando gli è stato conferito il titolo di professore Honoris causa, «senza pensare al suo santissimo Palladio, che porta il nome di cattedrale di Santa Sofia». (15) Il costrutto «a me personalmente» sottolinea, a quanto pare, la soggettività di chi parla, che si scusa un po' con gli ascoltatori per questo «io», sbucato fuori in modo importuno. Tuttavia, in questo preambolo si sente già la dolce autorevolezza, che non deriva dal carattere (poiché sarebbe difficile trovare una persona più delicata), ma che nasce dall'atmosfera di culto, nella quale noi, seguendo i passi dell'autore, ci prepariamo a entrare. Ed ecco che l'ascoltatore o il lettore si mette già in viaggio per l'«arcipelago Averincev» salpando da un porto chiamato «santissimo Palladio» e portandosi dietro come provvista un po' di questa santità. «L'argomento di questo saggio è ristretto e al tempo stesso ampio fino ad essere inesauribile», (16) così inizia un altro, precedente saggio sulla Sofia, ed ecco che, cominciando dall'abside della chiesa di Kiev, il filo del suo pensiero-narrazione si immerge in profondità, scende verso le proprie radici, che affondano in Proclo e Platino, in Omero e nell'Edda Antica, (17) e in molte altre opere e autori. La Sapienza chiama Averincev da ogni luogo, e così sembra che il suo viaggio non debba finire mai, ma è proprio questa la peculiarità della famosa sensibilità universale dell'anima slava, di Dostoevskij o, a maggior ragione, di Puškin, che impone delle soste per rispondere a ogni richiamo. Se vogliamo fare un paragone, il metodo e la ragione occidentali ci trascinano dal punto A al punto B come a rimorchio, senza perdersi in inutili digressioni che portano lontano, senza librarsi in alto, senza tuffarsi in profondità, e, normalmente, il punto d’arrivo ci è noto fin dall'inizio. Nella navigazione di Averincev, invece, è importante la stessa cordialità della risposta, un indugiare lungo la via che talvolta sembra del tutto ingiustificato, un particolare che improvvisamente affiora alla memoria e viene portato in offerta a un altare invisibile, e magari è proprio quello a diventare il punto d'arrivo segreto. «La sapienza si è costruita una casa» (Pr9,1), ma in Averincev questa costruzione avviene sotto i nostri occhi: solo un lettore del tutto sprovveduto può non accorgersi di essere finito senza volerlo in questa casa, e per di più non dall'esterno come «osservatore culturale», ma dall'interno, come chi partecipa a un culto nel quale si sente coinvolto.
Lasciamo stare le isole sulle quali la Sapienza ha lasciato traccia di sé, e approdiamo alla Bibbia, alla Parola, poiché in fin dei conti proprio a questo continente ci conduce il nostro autore-Odisseo, Mi perdonino i lettori per la libera interpretazione, ma la Parola in questo testo di Averincev nasce dalla Shekinah, dalla presenza sacra, dalle manifestazioni di Dio nel mondo, che secondo l'interpretazione audace dell'autore si presenta come un Suo alter ego moltiplicato. E l'alter ego di Dio è proprio la Sapienza, definita nel libro di Gesù figlio di Sira «un'emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell'Onnipotente» (Sap 7,25).
La Shekinah non solo ci illumina, è presente o prende dimora in noi (come dice la preghiera allo Spirito Santo), il suo ruolo in Averincev è più attivo: la Shekinah raccoglie come un uccello sotto le ali ciò che da essa nasce, ciò che ne è illuminato. Essa «plasma» l'agire umano, nell'arte, nella costruzione della società, nella preghiera. «Raccogliendo i corpi cosmici in un universo ordinato, raccogliendo i pensieri degli uomini in un cosmos intellettuale disciplinato, la Sapienza raccoglie anche terre, città e paesi in uno Stato sacro centralizzato. Perché anche lo Stato è la sua “casa”». (18)
Mi permetto di fare un'analogia arrischiata: il «cosmos intellettuale» di Averincev nasce dall’unione dei molti corpi, frammenti e volti «culturali» in cui si è imbattuto come per caso, senza un progetto premeditato, ma che sono divenuti, solo grazie a un'intuizione nata prima dei testi, una sorta di edificio di culto, di Stato della saggezza, di reame delle scoperte, di società degli amanti della sapienza; certo, una sapienza puramente umana, che si compone in unità in un grandioso affresco. Nell'«intellettualismo sacro» della Sofia di Averincev la sacralità sembra ben nascosta dietro l'intellettualismo, ma via via che i suoi testi si moltiplicano e si arricchiscono di contenuto spirituale, possiamo constatare come essa si fa sentire sempre più apertamente. Si fa sentire direttamente come professione della vera fede sua, di Averincev.
Infatti, si può professare la propria fede anche così: raccontando delle ricchezze che la ragione, illuminata dalla fede stessa, ha accumulato. «Credere in un unico Dio», dice Averincev del metropolita Ilarion, autore del Sermone sulla legge e la grazia, - ma forse avrebbe potuto a buon diritto applicare anche a sé queste parole -, «non solo è più santo, ma anche più intelligente, ed è più intelligente proprio perché è più santo». (19) Del resto, Averincev non avrebbe mai detto di sé nulla di simile, e, vista la sua umiltà, non lo avrebbe nemmeno pensato. Eppure ha individuato sperimentalmente questa legge, e se non è stato lui a scoprirla, comunque l'ha dimostrata secondo nuove modalità, riconducendo all'intelletto tutto ciò che la santità e la contemplazione della Shekinah o della Sapienza gli avevano rivelato, e raccogliendo i tesori dell'intelletto, tutta la memoria degli incontri, delle conversazioni, dei dialoghi e dei richiami nella santità della conoscenza che aveva scoperto per la nostra epoca.Note
1) S. Averincev, Molitva o slovach (Preghiera per le parole), in: Idem, Stinchi duchovnye (Versi spirituali), Kiev 2002, pp. 8-9.
2) Cit. da: Archimandrita Kiprian (Kern), Kriny molitvennye (Poesie come gigli del campo, Mosca 2002, p. 13. L’Irmologion è un libro liturgico della tradizione bizantina, che contiene i testi delle parti cantate di tutti gli uffici.
3) Omero, Odissea, Torino 1981, p. 3.
4) Allusione a protagonista dell’omonima tragedia di Puškin (1830).
5) S. Averincev, Slovo-Logos (Parola-Logos), Kiev 2000, p. 234.
6) Ibidem, p. 423.
7) M. Cvetaeva, Zoloto moich volos (L’oro dei miei capelli), in: Idem, Sobranie sočinenij v semi tomach (Opere in sette volumi), Mosca 1994, vol. 2, p. 149.
8) O. Mandel’štam, Slovo i kul’tura. K stat’e e «Čaadaev» (La parola e la cultura. Per l’articolo «Čaadaev»), Mosca 1987, p. 267. Tr. it. In: S. Averincev, Dieci poeti. Ritratti e destini, La Casa di Matriona, Milano 2001, pp. 187-188 e in: O. Mandel’štam, La quarta prosa, Bari 1967, p. 109.
9) Ibidem, p. 40; tr. it. in: O. Mandel’štam, La quarta prosa, p. 40.
10) O. Mandel’štam, Betonica. Gomer. Tugie parusa (Insonnia. Omero. Vele spiegate), in: Idem, Sobranie sočinenij (Opere), New York 1955, pp. 76-77.
11) F. Tjutčev, Ciceron (Cicerone), testo russo e trad. it. in: Idem, Poesie, Milano 1993, pp. 130-131.
12) O. Mandel’štam, Slovo i kul’tura, p. 41. tr. it. in: Idem, La quarta prosa, p. 42.
13) Ibidem, p. 42; tr. it. in: La quarta prosa, p. 44.
14) Il termine Shekinah indica la divinità immanente, la presenza di Dio nel mondo.
15) S. Averincev, Slovo-Logos (Parola-Logos), Kiev 2000, p. 6.
16) S. Averincev, K ujasneniju smysla nadpisi nad konchoj central’noj apsidy Sofii Kievskoj (Per comprendere il senso dell’iscrizione sulla conca dell’abside centrale della Sofia di Kiev), in: Drevnerusskoe iskusstvo i chudožestvennaja kul’tura domongol’skoj Rossii (Arte antico-russa e cultura figurativa della Russia premongolica), Mosca 1972, p. 25.
17) L’Edda Antica, o Edda Poetica, considerata la prima opera della letteratura germanica, è attribuita al monaco cristiano Saemund che operò in terra vichinga. La sua stesura risale all’800 d. C.
18) S. Averincev, K ujasneniju smysla nadpisi nad konchoj central’noj apsidy Sofii Kievskoj, p. 42.
19) Ibidem, pp. 42-43.
Gli scambi sono sempre più possibili fra cristiani e buddisti. La conseguenza non è necessariamente una conversione, ma più spesso l'opportunità di vivificare la fede nella propria tradizione di origine.
di Karin Heller
Per un lettore del Nuovo Testamento la persona di Gamaliele è indissociabile da due fatti: Gamaliele è stato il maestro ebreo di San Paolo. Scrive l'apostolo: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, […] formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna» (At 22,3); poi Gamaliele è intervenuto nel momento della comparsa degli apostoli davanti al Sommo Sacerdote e al sinedrio, evento che ci è tramandato nel brano che commentiamo. Prima di chinarci su questo evento, cerchiamo di conoscere meglio la persona di Gamaliele.
Chi è Gamaliele?
II nostro testo presenta Gamaliele come «dottore della legge, stimato presso tutto il popolo» (At 5,34). La stima che circonda questo personaggio è confermata dalle fonti rabbiniche per le quali Gamaliele I, detto «l'Anziano», è un nassi, vale a dire, un patriarca, un membro eminente del sinedrio. (1) Gli è anche attribuito il titolo onorifico di Rabban, cioè «nostro maestro», invece del titolo di rabbi che significa «mio maestro» e designa in modo abituale i saggi del Talmud. (2) Il nonno di Gamaliele era il grande maestro Hillel, principale capo di una scuola farisaica, conosciuta per la sua interpretazione generalmente liberale della Legge, opposta alla tendenza rigorista della scuola di Shammai. (3)
Gamaliele si colloca nella linea dell'eccellente nonno: introduce disposizioni importanti quanto alla rimessa dell'atto di ripudio per assicurare una migliore protezione alla donna e rende per la donna abbandonata o separata, chiamata agounah, più elastiche le condizioni necessarie per provare la morte del marito. (4) Inoltre afferma che occorre trattare i pagani allo stesso modo degli ebrei per quanto riguarda la carità (aiuto materiale, visite ai malati, funerali, conforto nel momento del lutto). Gamaliele è riconosciuto come autorità rispetto alla Halakha, cioè i problemi relativi alla pratica rituale e alla legislazione civile e penale. Il re Agrippa I e la sua sposa, Berenice (gli stessi davanti ai quali comparirà anche Paolo), (5) lo consultano al riguardo. (6)
Non possediamo di Gamaliele commenti di testi biblici. Il Talmud gli attribuisce qualche saggio consiglio all'indirizzo dei suoi discepoli come: «Procuratevi un buon maestro per essere liberati dal dubbio; quando pagherete le imposte, fatelo con precisione». (7)
Pietro e gli apostoli a Gerusalemme
Nel libro degli Atti, l'entrata in scena di Gamaliele è preceduta da una situazione precisa, alla quale il grande maestro della Legge non è totalmente estraneo. Lui, che ha formato Paolo, conosce tutto il peso della storia del passato d'Israele; lo studio, la meditazione, il commento delle Scritture e la predicazione, attingono in continuazione a questo passato. Gamaliele, come San Paolo, è un fariseo. La loro caratteristica è la scrupolosa osservanza della Legge, la fede incrollabile in Dio che guida la storia in chiave escatologica e una viva attesa del Messia. (8) La tradizione dei Padri costituisce quindi un riferimento permanente nel loro parlare e agire. È ciò che praticano non soltanto Paolo, (9) ma anche Stefano, (10) poi Pietro stesso assieme con gli apostoli. Difatti, dal giorno della Pentecoste fino alloro arresto menzionato nel cap. 5, gli apostoli non cessano di predicare, appoggiando la loro predicazione sulle meraviglie compiute da Dio nel passato. Anzi Pietro ha già pronunciato quattro dei suoi otto discorsi contenuti nel libro degli Atti (11) e Gamaliele stesso assiste al suo quinto discorso (At 5,29-32).
In quel momento preciso della storia della giovane Chiesa, quest'ultima è già diventata una comunità numerosa, cioè si è compiuta per lei la promessa fatta da Dio ad Abramo: «nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra», (12) o, per dirlo, con le parole di San Paolo: «È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (1 Cor 1,21). Quando ci si china sui diversi testi che presentano tale predicazione, si constata che non si tratta di una lezione scolastica sulla storia, né di un discorso di morale. Ma la predicazione o kerygma significa «predicare Gesù Cristo» o predicare «il regno di Dio». Il termine non mira a designare l'atto della predicazione, ma il suo contenuto. Lo studio dei diversi testi manifesta che questo contenuto comporta in generale sei punti: 1. l'annuncio che i tempi sono compiuti; 2. l'affermazione che il compimento si è realizzato con la morte-risurrezione di Gesù; 3. la proclamazione di Gesù glorificato, ormai alla destra di Dio, capo messianico di un popolo nuovo; 4. l'affermazione che lo Spirito Santo è il segno del compimento della promessa divina; 5. la chiamata alla conversione; 6. la dichiarazione che gli apostoli sono i testimoni di tutto ciò.
Il discorso che tiene Pietro insieme agli apostoli davanti al sommo sacerdote, al sinedrio, e a Gamaliele, non fa eccezione. Le parole di Pietro secondo cui «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (5,29) sono la risposta al sommo sacerdote che aveva proibito agli apostoli, inutilmente, di «non insegnare più nel nome (di Gesù)». Pietro non esita a proclamare la sua dottrina addirittura di fronte a coloro che cercano di farla sparire da Gerusalemme. Ricorda ai suoi uditori, tra i quali Gamaliele e probabilmente altri eminenti dottori della Legge, che l'iniziativa degli eventi accaduti appartiene al «Dio dei nostri padri». Questa osservazione sottintende le altre meraviglie delle quali Israele fa memoria, e colloca la risurrezione di Gesù nella stessa linea. Anzi, la risurrezione di Gesù manifesta il totale indurimento del sinedrio che ha ucciso Gesù «appendendolo alla croce» (5,30); la stessa risurrezione manifesta altresì l'azione salvifica che Dio accorda sempre al popolo «dalla dura cervice» (Es 32,9). (13) Pietro, poi, proclama il Cristo, innalzato alla destra di Dio, capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati (5,31). Infine conclude che di tutto ciò sono testimoni loro, gli apostoli, insieme allo Spirito Santo, dato a coloro che si sottomettono a Dio, cioè che hanno fede in ciò che Dio annuncia e realizza.
La formula «noi e lo Spirito Santo» può sorprendere. Non potrebbe sembrare un'espressione di presunzione? di temerarietà spirituale? di mancanza di umiltà? Si potrebbe argomentare in questo senso, se fossimo nel quadro di una conferenza "spirituale" qualsiasi. Ma siamo precisamente nel momento della proclamazione solenne del kerygma, cioè dell'evento pasquale che concerne la persona di Gesù. In quel momento, Pietro e gli altri apostoli non tengono una lezione di teologia pasquale più o meno appassionante, ma con la loro proclamazione rischiano la propria vita a causa di Gesù. La loro testimonianza non è semplicemente un atto a favore di una persona che ha subito un danno, atto che implica sempre qualche contrarietà; non è neppure il racconto più o meno lungo di «ciò che Dio ha fatto per me». Ma la testimonianza si rivela inseparabile dal testimone, perché essa gli fa condividere la passione di Gesù.
Tutto ciò che capita nel brano che commentiamo ci ricorda infatti che non basta proclamare «Cristo è risorto» per convertire la gente; occorre vivere, condividere il mistero pasquale nella propria carne. (14) E' proprio la condizione dell’apostolo: la proclamazione del kerygma si conclude con l'imprigionamento, seguito da una liberazione operata da Dio stesso. Si riprende la proclamazione del kerygma e, di nuovo, gli apostoli sono imprigionati, chiamati a comparire davanti ai tribunali, giustiziati, minacciati di morte e liberati per la mano potente di Dio che invia il suo angelo (5,18-33). Gli eventi sono tipicamente pasquali. Rinviano a Gesù stesso, arrestato dopo un periodo di predicazione, accompagnata da guarigioni ed espulsioni degli spiriti cattivi, giudicato, messo a morte e, infine, liberato dalle catene della morte per mezzo dell'azione divina.
L'opera del testimone sta fondamentalmente nel condividere il destino di Gesù stesso. Anzi, diventa chiaro che solo lo Spirito può permettere al testimone di andare fino in fondo, sigillando la sua testimonianza con il dono della propria vita. In questo caso, la formula «noi e lo Spirito Santo» non costituisce l'espressione di un orgoglio smisurato, ma è la parola autentica della stoltezza della croce (1 Cor 1,18ss). E in questa testimonianza degli apostoli che tutta la Chiesa trova la norma definitiva della sua fede e della sua unità attraverso i secoli. Ormai ogni membro della Chiesa può affrontare la prova del perdurare nel tempo, fino alla parusia, nella forza di questa testimonianza fondatrice: ogni giorno è chiamata a proclamare la morte del Signore, a celebrare la sua risurrezione, fino alla sua venuta.
Verità dell'uomo-verità di Dio
L'acclamazione pronunciata dall'assemblea cristiana dopo la consacrazione della celebrazione eucaristica rimane spesso una formula semplicemente prescritta dalle autorità ecclesiastiche. Ora, questa formula non è da recitare in modo più o meno distratto, o con la massima devozione, ogni volta che si va a messa; piuttosto, è da mettere in pratica nella vita quotidiana. Esprime in maniera concentrata il mistero cristiano che vale per ogni fedele, laico, diacono, prete, e vescovo. Chiama tutti a un servizio autenticamente sacerdotale. E l'espressione del sacerdozio comune a tutti i battezzati, uomini e donne, e a coloro che sono ordinati in vista della celebrazione liturgica del mistero pasquale di Gesù. Consiste nel proclamare di fronte ai membri della propria famiglia, agli amici, a coloro che incontriamo spesso o che passano soltanto, ciò che è accaduto a Gesù, cioè: è stato messo in croce dagli uomini, e, per usare le parole di Paolo, «costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione, mediante la risurrezione dai morti» (Rm 1,4).
Di questo Vangelo potente, la parte che probabilmente pone più difficoltà è quella del confessare Gesù messo in croce dagli uomini. Difatti, già il sinedrio ha qualche problema ad ascoltare un tale messaggio, perché implica il riconoscimento della propria responsabilità nella morte di Gesù; questa responsabilità è espressa nella formula giudaica «del sangue che cade su un tale». (15) Dice infatti il sommo sacerdote a nome di tutta l'assemblea: «ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell'uomo» (5,28). Detto in altro modo, la predicazione degli apostoli manifesta l'implicazione del sinedrio nella morte di Gesù; sono colpevoli del sangue sparso da Gesù sulla croce. La proclamazione del mistero pasquale comporta quindi sempre la rivelazione di ciò che l'uomo è in verità: un essere che vive in una situazione umanamente inestricabile con i suoi e con Dio, un essere che non può mai dichiarare di fronte a Dio: «sono innocente, sono giusto, non ho fatto nulla di male». Per dirlo in termini di teologia classica: la passione e la risurrezione di Gesù rivelano che l'uomo è peccatore, incapace di salvare se stesso, ma è tuttavia sempre chiamato ad accogliere la salvezza offerta da parte di Dio.
Questa verità dell'uomo non piace a prima vista, e non piace affatto a uomini, come i Farisei, particolarmente convinti della loro giustizia davanti a Dio e davanti agli altri. Non sorprende quindi la loro reazione, fatta di sdegno, collera, passione omicida: «all'udire queste cose essi si irritarono e volevano metterli a morte» (5,33). La situazione è quella di Gesù che rivela con la sua presenza l'uomo peccatore o lo mette di fronte a una scelta fondamentale: accogliere questa verità su se stesso per essere salvato, oppure rifiutare questa verità e rendere sempre più dura la propria posizione fino all'eliminazione fisica di colui che manifesta l'autentica verità dell'uomo.
L'argomento di Gamaliele
L'intervento di Gamaliele salva in quel momento gli apostoli da morte certa e violenta. Il capitolo seguente, infatti, si concluderà con il martirio di Stefano e non lascia nessun dubbio al riguardo. Gamaliele misura la fragilità umana di fronte a Dio che parla e agisce. L'uomo è come l'erba del campo che fiorisce, poi passa il vento, non esiste più e il suo posto non lo riconosce (cf Sal 103,15-16). I suoi progetti gli sono simili. Durano un tempo, poi crollano; Teuda fu ucciso e i suoi seguaci finirono nel nulla. Quanto a Giuda, anche lui perì e i suoi fedeli furono dispersi (5,36-37). Quanto alla parola di Dio, essa dura sempre (/s 40,8). Anzi è consigliabile all'essere umano di «non trovarsi a combattere contro Dio» (5,39).
L'opinione di Gamaliele è adottata dal sinedrio e dal sommo sacerdote. Perché? L'argomento di Gamaliele può essere inteso in due modi:
- Come nel caso di Teuda e di Giuda il Galileo, si saprà presto se Dio fa perdurare questa via. L'esempio del fallimento di questi due protagonisti presenta la durata dell'incertezza come breve.
- Un movimento come quello lanciato dalla predicazione di Pietro e degli apostoli è solido soltanto perché è opera divina. E lui che ne ha l'iniziativa, lui che lo mantiene, lui che lo fa crescere e che ne determina la durata. In quel caso è tolta la certezza che concerne «l'ora e il giorno», il rapporto tra la pazienza di Dio e la messa alla prova dell'attesa dei giusti.
L'opinione di Gamaliele è probabilmente adottata dal sommo sacerdote e dal sinedrio secondo la prima interpretazione. Soddisfa la loro impazienza, permette di chiudere rapidamente l'incidente. Evita la procedura della messa a morte e permette nondimeno di fustigare gli apostoli. L'eccesso di furore sollevato dalla rivelazione della loro ingiustizia è placato dall'applicazione della sanzione. Ma infine il problema è soltanto rinviato nel tempo. Essendo la prova della pazienza nell'aspettare il giudizio divino diventata insopportabile, si ricorre alla «giustizia», come è considerata da eminenti dottori della Legge divina, e si applica la condanna a morte.
Gamaliele è visibilmente un uomo moderato. Di più: è un uomo modera t in materia religiosa. Questa capacità di tolleranza religiosa ha la sua radice nell' esercizio quotidiano, praticato di generazione in generazione, da parte di coloro che aspettano in Israele il Dio che rivela allo stesso tempo se stesso. il fondo dei cuori umani, le loro opere personali e comunitarie. La difficoltà nell'acquisire questo tipo di tolleranza è messa in evidenza da tutti i conflitti contemporanei che hanno alla loro radice un problema religioso. Riguarda tutti: ebrei, musulmani, cristiani, fanatici religiosi di ogni sorta. Quanto alla convinzione di Gamaliele, essa esce dal cuore stesso della tradizione ebraica formata alla scuola dell' attesa apocalittica; essa insegna che occorre aspettare una rivelazione nuova, un fatto nuovo, per scoprire ciò è già stato annunciato e compiuto da Dio. Egli sa che Dio parla e agisce, ma è anche cosciente dell' incapacità umana di prendere le misure della parola e dell' opera divine.
La capacità umana risiede nell'aspettare e nello sperare che Dio riveli il significato profondo di un evento, che per il credente si chiama: Gesù Cristo.
Note
1) Dal 1948, il titolo di nassi designa il presidente dello Stato d'Israele. Il suo significato è «principe», «governatore».
2) Cf STRACK-BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, II, p. 626.
3) Al tempo di Gesù la scuola di Hillel e quella di Shammai discutevano in modo aspro sui motivi che possono condurre al ripudio della propria moglie. Vale a Gesù d'essere interrogato su questo tema (cf Mt 19,3).
4) Si tratta di una donna legata a suo marito che desidera risposarsi e non lo può sia perché il marito non le concede l'atto di ripudio, sia perché si trova nell'impossibilità di farlo a motivo di una malattia mentale o perché non esiste una prova formale del suo decesso.
5) Cf At 25,13ss.
6) Cf Dictionnaire encyclopédique du Judaisme. Éd. du Cerf, Paris 1993, p. 428.
7) Cf Aboth 1, 16. Citato in: STRACK-BILLERBECK, cit., p. 638.
8) Cf Parole di Vita n. 6/1994 interamente consacrato ai Farisei.10) Cf At 7,1-53.
11) Cf At 1,16- 22; 2,14-36; 3,12-26; 4,8-12; 5,29-32; 10,34-43; 1l,5-17; 15,7-11.
12) Cf Gn 12,3; 22,18; At 3,25.
13) È ciò che appare in modo eminente nel discorso più lungo degli Atti, cioè quello di Stefano. Da notare in particolare l'insistenza sull'indurimento dei diversi protagonisti, lungo la storia, di fronte a Dio che salva.
14) Cf al riguardo 2 Cor 4,1-15, in particolare vv. 12-15: «Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. [ ... ] Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera in un maggior numero, moltiplichi l'inno di lode alla gloria di Dio».
15) Cf STRACK-BILLERBECK, cit., I, p. 1033.(da Parole di vita, 2,1998)