Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Nato in Dalmazia nel 1866, visse sino al 1942, quasi sempre a Padova. Ultimo di dodici figli, pareva uno "scarto umano": piccolissimo, claudicante, pronunzia difettosa, sempre malaticcio; cosa mai avrebbe potuto realizzare? Ma lo sguardo di Dio era su di lui per farne un capolavoro di bellezza e di forza spirituale. La nobiltà d'animo suppliva all'aspetto fisico.

L’esilio a Babilonia
Crogiolo del monoteismo
di Thomas Römer *


Gli autori biblici che ci hanno trasmesso la testimonianza della loro fede in Yahwè, solo Dio d'Israele e dell'universo, non hanno fatto ricorso a concetti astratti. Il fatto di professare un solo Dio era divenuto per loro questione di vita o di morte…

Nel 597, l'esercito babilonese investì Gerusalemme. L'intellighenzia e l’establishment della città sono deportati a Babilonia (secondo Ger 52,28, sarebbero state deportato 3023 persone, tra le quali il re Ioiachin e il personale della sua corte). Dieci anni più tardi, la città è distrutta, le mura rase al suolo e il tempio incendiato. In questa occasione ebbe luogo una seconda deportazione (Ger 52,29 indica 832 abitanti di Gerusalemme). Alcuni testi biblici (per esempio 2 Re 25,21) danno l'impressione che il regno di Giuda fosse in quel tempo completamente svuotato della sua popolazione. Ma in realtà solo un 10/15 per cento della popolazione fu esiliato. La popolazione rurale rimase in gran parte nel paese e beneficiò della politica di ridistribuzione delle terre praticata dai Babilonesi (2 Re 25,12; Ger 39,10). Il fatto che i testi biblici si interessino maggiormente degli esiliati che di quelli rimasti nel paese si spiega facilmente. Sono i deportati o i loro discendenti che sono alla base della maggior parte dei testi dell'Antico Testamento, specialmente di quelli che danno una risposta monoteistica agli avvenimenti del 597/587.

Non possiamo sottovalutare lo shock provocato dalla distruzione di Gerusalemme. La distruzione del tempio, la deportazione della famiglia reale e l'occupazione del paese da parte di una potenza straniera significavano la radicale messa in discussione della religione ufficiale di Giuda. Essa era caratterizzata dalla venerazione di Yahwè come Dio nazionale (senza escludere i culti di altre divinità) attorno ai tre pilastri fondamentali: tempio, re e territorio. Ora, una tale religione nazionale diventava da quel momento impossibile. Nelle sue categorie mentali, la distruzione di Gerusalemme e la deportazione della sua classe dirigente non poteva essere interpretata che come l'abbandono di Giuda da parte di Yahwè (Ez 8,12), o come la debolezza di Yahwè, incapace di difendere il suo popolo contro i Babilonesi e i loro dèi (Is 50,2). È in questo contesto che va delineandosi la confessione di Yahwè come unico vero Dio.

Le risposte monoteiste alla crisi dell'esilio

I Giudei esiliati elaboreranno tre risposte monoteiste alta crisi dell’esilio. Un primo gruppo di scribi, che vengono chiamati deuteronomisti (si ispirano allo stile e alla teologia del libro del Deuteronomio), pubblicano una storia di Israele e di Giuda, che si estende dall'epoca di Mosè (Deureronomio) sino alla caduta del regno di Giuda (2 Re 24-25). Questa storiografia spiega la catastrofe dell'esilio con l'incapacità del popolo e dei suoi capi a conformarsi alle leggi di Yahwè. Nel Deuteronomio, Israele è messo costantemente in guardia contro il pericolo della venerazione di altre divinità. Come in tutto il corso della sua storia, il popolo e i suoi re hanno venerato altri dèi (2 Re 17,l6-20); la collera di Yahwè li ha alla fine consegnati ai Babilonesi. I testi deuteronomisti che predicano la venerazione esclusiva di Yahwè non riflettono ancora un «monoteismo teorico», poiché gli altri dèi non sono negati nella loro esistenza. Essi, al contrario, rappresentano un enorme pericolo per Israele. Solo nei testi deuteronomisti più tardivi (probabilmente dell'inizio dell'epoca persiana) si trovano enunciati che celebrano Yahwè come unico Dio: «Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n'è altro» (Dt 4,39). Il monoteismo deuteronomista si afferma in un discorso di esclusione. Riconoscere Yahwè come il solo e vero Dio comporta un atteggiamento di intolleranza e di rifiuto verso gli altri popoli (cf specialmente Dt 7).

In compenso, l'elaborazione del credo monoteista nei testi sacerdotali del Pentateuco avviene in modo più universalistico. Il Dio di Israele è dapprima il Dio che si prende cura dell'umanità intera (Gn 1; 9,1-17: l'alleanza concerne i discendenti di Noè, cioè tutta l'umanità). Gli autori sacerdotali non esitano, per designare Yahwè, a ricorrere al nome divino arcaico «El Šaddai» (Gn 17). Questa divinità fu venerata in Mesopotamia e, nell'epoca persiana, ira qualche tribù proto-araba. Il monoteismo sacerdotale comporta allora una certa dose di sincretismo, e Yahwè è diventato il Dio dell'universo attraverso l'assimilazione di diversi epiteti divini e attraverso l'integrazione della religiosità popolare. La riflessione monoteista più spinta si trova nel Deutero-Isaia (Is 40-55). Essa si sviluppa in una raccolta di oracoli anonimi che celebrano l'ingresso del re persiano Ciro a Babilonia nel 539 a.C. Al contrario dei testi deuteronomisti e sacerdotali, la riflessione del Deutero-Isaia propone una «dimostrazione teorica» del monoteismo, e ne costituisce in seguito l'estensione in seno al canone veterotestamentario. Tutti i popoli sono chiamati a riconoscere che non c'è altro Dio che Yahwè (Is 45,6). Tutte le altre divinità non sono che chimere, «legna da bruciare» (Is 44,15). Si ironizza sul commercio di statue di divinità la cui sola utilità è di arricchire gli artigiani: «I fabbricatori di idoli sono tutti vanità e le loro opere preziose non giovano a nulla. Chi fabbrica un dio e fonde un idolo senza cercarne un vantaggio?» (Is 44,9-10). Questa affermazione dell'unicità di Yahwè - spesso identificato dal Deutero-Isaia con El (cf 43,12) - è presentata conte una sorta di rivoluzione teologica. La rivelazione di Yahwè come Dio unico di tutti i popoli e dell'universo equivale ad una nuova rivelazione: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19). L'elaborazione di una fede monoteista si comprende allora come una risposta degli intellettuali ebrei agli sconvolgimenti degli anni 597/587. Ma sarebbe errato interpretare questa fede in Yahwè esclusivamente come uno sviluppo interno al giudaismo.

Condizioni propizie alla fede monoteista

Nel VI secolo a.C. il monoteismo era per così dire «nell'aria». In Grecia, i filosofi presocratici (come Senofane) criticano il pantheon popolare e difendono l'unicità della divinità. L'ultimo re babilonese Nabonide (550-539) restaura i templi del dio lunare Sin a Ur e a Harran e sembrava voler fare di Sin il dio unico dell'impero babilonese. Il clero di Marduk, ferocemente contrario a questo tentativo, si alleò al re persiano Ciro e gli consegnò nel 539 a.C. la città di Babilonia. Ciro si presenta, in un testo propagandistico, come l'eletto di Marduk mandato per pacificare l'universo. Il testo del «cilindro di Ciro» somiglia alla celebrazione di Ciro come messia di Yahwè in Isaia 40 e seguenti.

L'universalismo monoteista del Deutero-Isaia gli permette di presentare Ciro come Messia di Yahwè ispirandosi alla propaganda del re persiano. L'influenza persiana sull'elaborazione del monoteismo giudaico si accrescerà sotto Dario e i suoi successori che introdurranno il culto di Ahura Mazda come religione ufficiale dell'impero achemenide.

Le origini della venerazione di Ahura Mazda e del suo profeta Zoroastro sono ancora poco conosciute. Sappiamo in compenso che i sovrani achemenidi hanno adottato le dottrine di Zoroastro e che hanno legittimato il loro impero facendo riferimento al «grande Dio». Il riferimento ad Ahura Mazda è onnipresente nelle iscrizioni reali: «Ahura Mazda è il grande re che ha creato questa terra. che ha creato quel cielo, che ha creato l'uomo, che ha creato il bene per l'uomo, che ha fatto Dario re, unico re su molti». Si può qualificare la religione ufficiale dell'Impero persiano come «monoteismo inclusivo», perché gli Achiemenidi erano in genere tolleranti verso le credenze delle popolazioni sottomesse. Bisognava semplicemente che gli dèi di queste fossero «compatibili» con Ahura Mazda. È degno di nota che la pubblicazione della Torâ (il Pentateuco), che diventa il fondamento del giudaismo monoteista dell’epoca persiana, sia fatta da Esdra, un emissario della corte achemenide. In 7,12, Esdra è chiamato «scriba della legge del Dio del cielo». Questo titolo si applica tanto ad Ahura Mazda quanto a Yahwè. In Esd 7,26, la legge del Dio di Esdra equivale alla legge del re persiano. Ne consegue che l'elaborazione del monoteismo ebraico trovò condizioni favorevoli nel contesto dell'impero achiemenide. D'altra parte nessun testo dell'Antico Testamento lascia trasparire qualche ostilità nei confronti dei Persiani. La fede in Yahwè, l'unico Dio, non è tuttavia una semplice interpretatio judaica del culto di Ahura Mazda. Perché, al contrario della religione di Zoroastro che è caratterizzata da una fortissima opposizione tra il Dio del bene e le forze del male, la fede biblica ha resistito al dualismo. Certo, Satana fa qualche breve apparizione in alcuni racconti della Bibbia ebraica (Gb 1; 1Cr 21,1), ma in modo marginale e rimanendo inferiore a Yahwè. Un testo del Deutero-Isaia si legge inoltre proprio come un rifiuto dei dualismo della religione persiana: «Io sono il Signore [Yahwè] e non v'è alcun altro. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene [in ebraico šalom] e provoco la sciagura; io, il Signore [Yahwè], compio tutto questo» (Is 45,6-7).

Le conseguenze della rivoluzione monoteista sul giudaismo

La presa di coscienza dell'universalità di Yahwè pose ai teologi dell'epoca esilica e postesilica il seguente problema: come conciliare l'affermazione che Yahwè è da un lato il Dio del cielo e della terra, e dall'altra che egli intrattiene una relazione privilegiata con un solo popolo? La risposta si trovava nella forte affermazione dell'elezione di Israele-Giuda da parte di Yahwè. I testi del Deuteronomio che risalgono ai secoli VI-V a.C. insistono sul legame tra creazione ed elezione (Dt 4,32-40; 10,14-15). All'epoca della monarchia, il solo re era l'unto, l'eletto di Yahwè, ma in epoca più tarda, è l'intero popolo che si è sostituito al re. L'idea dell'elezione permise così al giudaismo di inscrivere il particolare nell'universale.

La scoperta che la fede in Yahwè non aveva bisogno né di uno spazio preciso (il tempio o la terra), né di una istituzione politica (la monarchia) permetterà al giudaismo di vivere dappertutto nel mondo, nella diaspora. La Legge, la Torâ, che contiene tutto ciò che è necessario per vivere la propria fede in Yahwè, Dio dell'universo e Dio d'Israele, divenne una «patria portatile». Come già diceva l'esegeta Julius Wellhausen: «Il Diluvio dell'esilio che minacciava di sommergere gli Israeliti si è trasformato per loro nel bagno di una nuova nascita».

* Professore di Antico Testamento
Facoltà teologica dell’Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia, 47)

Lezione Seconda
Fede, teologia, storia della salvezza



1. La fede in rapporto alla teologia


Se consideriamo la teologia come atto dell’uomo, essa può essere indicata con l’espressione classica di intellectus fidei, intelligenza della fede. La teologia in questo senso soggettivo suppone la fede e la luce della fede: essa nasce quando la fede, mediante un movimento di appropriazione e di riflessione intellettuale, muove verso una conoscenza delle cose credute (fides quaerens intellectum), senza cessare per questo di essere fede. 

Un dialogo coraggioso, aperto, franco, sensibile e umile... con l'umanità contemporanea, con la ragione umana, le scienze... con tutto quanto concerne la giustizia sociale, i diritti umani, la solidarietà con i poveri... Un dialogo che sa ascoltare, dibattere, discernere e assimilare ciò che di buono e vero, giusto e umanamente degno viene proposto dall'interlocutore.

Lo scisma nella Chiesa Russa
fra il passato e il futuro
di Vladimir Zelinskij


Oltre alla Russia che occupa la settima parte del pianeta, da quasi 90 anni ne esiste un’altra, dispersa su tutta la terra. Queste due Russie non sono separate da confini territoriali, ma piuttosto da quelli ideologici; ciò che fu imposto come verità indiscutibile all’interno del paese non aveva nessun fascino per i suoi figli che si trovavano fuori. L’opposizione tra la “Russia rossa” e la ”Russia bianca” (se ammettiamo tale divisione schematica) ha trovato il proprio riflesso anche nel mondo ecclesiale, presentandosi come divisione netta e secca tra il Patriarcato di Mosca e la Chiesa Ortodossa Russa all’estero.

“All’estero” non è un termine geografico e nemmeno politico. E’ la denominazione ecclesiale creata nel 1921 in Serbia dai quei vescovi e sacerdoti della Chiesa Russa che insieme a due milioni di profughi hanno lasciato la Russia dopo la Rivoluzione del 1917. Ma a differenza dei greci che, cacciati nello stesso periodo dall’Asia Minore, avevano il proprio capo ecclesiale nel Patriarcato di Costantinopoli, i russi non potevano rivolgersi al patriarca di Mosca poiché si trovava sotto la mortale pressione esercitata da parte del regime – che per gli emigrati era il male assoluto, sanguinario. Così, in una situazione inaspettata per l’Ortodossia, che da millenni si appoggiava all’ecclesiologia della Chiesa locale sul territorio di una nazione, è nata una Chiesa con il suo gregge oltre le frontiere e che voleva salvaguardare a qualsiasi prezzo il suo carattere nazionale, non confluendo in altre Chiese locali. (1) Un altro punto del proprio programma era (ed in modo implicito rimane anche oggi) il restauro della monarchia con la famiglia imperiale Romanov nel momento in cui finalmente fosse finito il giogo bolscevico.

Il Patriarcato di Mosca che viveva sotto questo giogo fu costretto a reagire, tagliando con la Chiesa all’estero. Ma per quest’ultima un atto simile non aveva nessun valore; lo scisma era già iniziato. Nel 1931, la partecipazione di una diocesi russa - che rimaneva ancora sotto la giurisdizione del Patriarcato - alle preghiere interconfessionali celebrate a Londra in difesa della Chiesa perseguitata in Russia, portò il metropolita Serghij, capo della Chiesa di Mosca, a sospenderla a divinis. Per rimanere nella canonicità questa diocesi chiese l’omoforo (la protezione ecclesiale) di Costantinopoli. Così, oltre delle frontiere dell’URSS, si sono formate tre “Chiese-sorelle” russe in contrasto tra di loro - quella di Mosca, quella di Costantinopoli e quella all’estero, diffusa soprattutto in America, in Germania ed in Australia.

Per lunghi anni la Chiesa all’estero è rimasta fuori della comunione con la famiglia delle Chiese ortodosse canoniche, considerando se stessa come l’unica autentica Chiesa Russa: a differenza di quella a Parigi, che era scappata “sotto i greci” e, soprattuto, contro quella di Mosca che era diventata schiava di un regime ateo e blasfemo. Questo spirito, non privo dell’orgoglio di essere gli ultimi depositari della “Santa Rus”, ha creato una certa immagine di Chiesa vera, “pulita e ideale”. I suoi vescovi portano i titoli di Shiangai, di New-York, di Berlino, di Sidney, di Cannes, ma la loro bandiera è sempre russa-russa, non macchiata dal collaborazionismo con il nemico di Dio. Quando nel 1974, subito dopo il suo esilio forzato dall’URSS, il grande scrittore Soljenitsyn si è rivolto al III Concilio della Chiesa Russa all’estero con un suo appello all’unità ecclesiale in ambito russo, il metropolita Filaret, all’epoca suo capo, nella sua risposta ha ricordato una santa di San Pietroburgo del XVIII secolo, Xenia, una “pazza in Cristo”. Una volta venne al mercato e trovò una grande botte di miele; improvvisamente lei la rovesciò, tra lo stupore del popolo. Ma sul fondo di quella botte c’era un topo morto. Così, ha detto Filarete, è anche la Chiesa di Mosca; i dogmi, i riti, i sacramenti mandano profumi come miele, ma sotto c’è un topo morto: la sottomissione al regime dell’anticristo.

E quando la sottomissione non c’è più? Quando al posto dell’anticristo rosso ne è venuto un altro, “democratico” e variopinto, con il quale la Chiesa almeno non è più costretta a collaborare? Dopo il crollo del comunismo, per 15 anni questa domanda si è posta nella coscienza del clero e dei fedeli della Chiesa “bianca”. Finalmente, nel maggio scorso, il suo IV Concilio, riunito a San Francisco, ha proclamato solennemente la fine dello scisma. Più precisamente: del suo intento di ristabilire la comunione eucaristica con la Chiesa-Madre. Non si tratta di “tornare all’ovile” nel senso amministrativo, perché materialmente e giuridicamente la Chiesa all’estero vuole rimanere indipendente, ma piuttosto della riconciliazione canonica e spirituale. Questa decisione ha portato tanta gioia in alcuni ortodossi della Russia e dell’estero e ha provocato una certa amarezza in altri. Perché? La sfiducia nei confronti della Chiesa di Mosca è diventata parte dell’ideologia dei “zarubezniki” (seguaci della Chiesa al’estero), la propria ragione d’essere. La Chiesa di Mosca, affermano costoro, non ha ancora espresso un pentimento pubblico per il proprio “serghianesimo”. (2) Un peccato non rigettato si nasconde e può essere ripetuto. Già con i primi segni di avvicinamento fra Mosca e “l’estero”, quest’ultimo si è diviso in due, fra i partigiani e gli oppositori dell’unione. Ma il “serghianesimo” è comunque del passato e “i vitalibani” (3) - che vanno ripetendo che da Mosca “può mai venire qualche cosa di buono?” - sono una misera minoranza. Invece il problema che divide davvero le due parti della Chiesa Russa porta il nome ecumenismo. Nell’ottica della Chiesa all’estero il Patriarcato di Mosca non solo fa, ma anche confessa l’ecumenismo, cioè partecipa alla paneresia. L’ecumenismo è stato ufficialmente scomunicato negli anni ‘70 dal già citato metropolita Filarete. Questo anatema non solo rimane in vigore, ma anche rivela il tenore dell’anima di una Chiesa che da decenni ha vissuto con la coscienza di essere l’unica guardiana della verità in un mondo immerso nelle proprie colpe, nelle corruzioni e nelle cadute. Il documento finale del Concilio di San Francisco finisce con un concitato appello a Mosca (“col dolore nel cuore” davanti allo spettacolo del peccato della Madre) di uscire dal Concilio Ecumenico delle Chiese. In pratica, di rompere con l’ecumenismo.

L’appello non è ancora condizione sine qua non. Ma può diventarlo.

La storia dell’attività ecumenica del Patriarcato di Mosca è abbastanza breve, ma a modo suo drammatica. L’ecumenismo non era neanche pensabile nel periodo della persecuzione aperta e sanguinaria (1918-1943). E nemmeno al tempo della “protezione” staliniana. Nel 1948, quando Stalin volle fare dell’Ortodossia il proprio baluardo contro il Vaticano, l’ecumenismo fu risolutamente rigettato. Ma nel 1961, al culmine della persecuzione krusceviana, il Patriarcato entrò nel Consiglio Ecumenico delle Chiese - naturalmente con il permesso dello Stato (4) che trovava utile per sé continuare la propria politica anche con le mani e con le voci ecclesiali. La Chiesa da parte sua voleva semplicemente sopravvivere e mostrare la sua presenza sull’arena internazionale. Così il rapporto con le altre Chiese (le trattative teologiche con i luterani, i cattolici e gli anglicani) andava di pari passo con il servizio reso allo Stato in modo pubblico (“la lotta per la pace”, nella sua versione sovietica) ed anche in segreto (attraverso l’infiltrazione del KGB nell’ambito ecclesiale). Dopo il crollo dell’URSS questo ecumenismo è andato in crisi, crisi che è diventata poi più acuta con il problema del proselitismo cattolico, l’invasione delle sette, ecc. La Chiesa di Mosca, però, in nessun caso vuole irrigidirsi nella posizione “via, lontano da me” (Mt 25,41) nei confronti di tutto il mondo etero-ortodosso.

Ma ci sono anche altri punti caldi di discussione. Chi sarà il rappresentante degli ortodossi russi fuori Russia? Il vescovo di New-York, per esempio, sarà designato da Mosca o dalla Chiesa all’estero? Oppure le strutture parallele rimarranno come prima (oltre alla Chiesa ortodossa Americana, anche quella di origine russa)? A chi deve appartenere la proprietà della Chiesa all’estero in Terra Santa e che Mosca considera come sua? Ma il problema più aspro è quello delle decine di parrocchie della Chiesa all’estero create dopo il crollo dell’URSS, che si trovano all’interno della Russia (e anche dell’Ucraina). La loro identità stessa si trova in un’opposizione accanita a Mosca. Loro si sono già pronunciati contro qualsiasi unione col Patriarcato.

Ma è proprio l’ecumenismo che rimane il punto più cruciale del disaccordo. Certo, la Russia può arrabbiarsi contro tutti i proselitismi, congelare il dialogo, poi aprirsi di nuovo, rimproverare o abbracciare l’Occidente, ma il rapporto con esso, spesso difficile, è imprescrittibile alla cultura russa. Solo in Russia, però. Perché l’Europa, anche da nemica, fa parte della sua anima. Ma tanti russi all’estero (come molti convertiti all’ortodossia in Occidente) sono cresciuti con una nostalgia per l’”Eden dove voi non siete mai stati” (5) e con le spalle rivolte a quel deserto spirituale che li circonda in Occidente. “Per me la Francia è così estranea - mi disse in russo con un forte accento francese un vescovo della Chiesa all’estero - come qualsiasi altro paese del mondo”. Se questi atteggiamenti persistono nei prossimi anni, è più probabile che l’ecumenismo della Chiesa Russa faccia un passo indietro. Sì, ma fino al momento in cui la coscienza della cattolicità fraterna - che la luce di Cristo illumina - deve prevalere sull’ossesione di ricercare ovunque eresie. La storia, anche se oggi si discosta da quella luce, deve riscoprirla di nuovo nell’unità.

Note

1) Formalmente, la base ecclesiale della formazione della Chiesa all’estero è stato un decreto del 1920 del patrirca Tichon che ha concesso alle diocesi separate dall’autorità centrale durante la guerra civile il permesso di autogestirsi da soli.

2) Dal nome del metropolita Serghij (Stragorodsky) che nel 1927, sotto la pressione del regime e dello scisma interiore, dopo gli arresti di molti vescovi, intervenne con una sua famosa Dichiarazione nella quale proclamava non solo la lealtà della Chiesa ad un sistema nemico di Dio, ma in pratica anche la sua sottomissione morale.3) Dal nome del vecchio metropolita Vitalij che presiede la parte più “dura” della Chiesa all’estero.

4) A quell’epoca non si poteva neanche riparare una vecchia cinta intorno ad una chiesetta di campagna; immaginarsi l’entrata di tutta la Chiesa Russa nel CEC!

5) Dalla poesia di M.Tsvetaeva, poetessa russa.

Teologia ufficiale e religione popolare
di Thomas Römer *



La maggior parte dei testi dell'Antico Testamento proviene da un piccolo numero di intellettuali che tentarono, durante e dopo l'esilio babilonese, di riformulare la fede yahwista. Facendo questo, non si curarono affatto delle preoccupazioni degli «Ebrei medi», la maggior parte dei quali era rimasta in Palestina.

La distinzione tra «religione ufficiale» e «religione popolare» si è imposta da tempo alla sociologia della religione. Per conoscere la religione popolate ebraica di allora, lo storico deve leggere l’Antico Testamento tra le righe e prendere in considerazione documenti extrabiblici.

Lo studio dei nomi propri

I nomi che i genitori scelgono per i loro bambini sono un buon indicatore della religione popolare. Nell’antichità, questi nomi sono quasi tutti teofori, fanno cioè riferimento ad una divinità di cui essi esprimono un'attitudine, un'azione, o un augurio che gli si indirizza. L'Antico Testamento ha conservato, accanto a nomi teofori yahwisti (come Gionata: «YHWH ha dato»), numerosissimi nomi propri che si riferiscono a diverse divinità: Išba’al («Uomo di Ba'al»), Elqana («El ha creato»), Abram («Il Padre [l'antenato divinizzato] è innalzato»). Questi nomi non sono affatto un residuo dell' età arcaica. I testi biblici ed extrabiblici mostrano come nomi propri ebraici formati a partire da nomi di dèi stranieri sono ancora di moda nel periodo babilonese o persiano: Mardocheo («Che appartiene a Marduk»), Šinusur («Che Sin [Dio lunare] protegga»).

I teologi che hanno edito la Bibbia hanno mantenuto questi nomi che erano troppo diffusi e di cui certi elementi teofori (specialmente «El» e «Ab») potevano essere identificati con Yahwè. In alcuni casi, tuttavia, si è tentata una sorta di censura. Nei libri di Samuele, gli ultimi redattori hanno sostituito ad alcuni nomi in «Ba’al» la terminazione in «bošet»,: così Išba’al è diventato Išbošet («Uomo della vergogna»).

Le pratiche politeiste in epoca babilonese e persiana

Una grande parte della popolazione ebraica non deportata resta apparentemente attaccata alle pratiche politeiste. Parecchi testi che adottano la prospettiva della Golah (gli esuli a babilonia) criticano queste pratiche. Ezechiele (cap. 8) ci informa che, durante l'epoca babilonese, si celebrava a Gerusalemme il culto di Tammuz, un dio mesopotamico molto popolare la cui morte e resurrezione garantivano la fertilità del paese. Secondo lui, gli abitanti di Gerusalemme giustificavano le loro pratiche religiose col fatto che Yahwè avrebbe abbandonato il paese. Allo stesso modo, il culto di una dea chiamata la «regina del Cielo» era ancora molto diffuso al momento dell'esilio; si trattava di un culto familiare in cui le donne avevano il ruolo centrale. Il cap. 44 del libro di Geremia critica severamente questa venerazione.

I destinatari della critica per più si oppongono alla proibizione del loro culto:

«Anzi decisamente eseguiremo tutto ciò che abbiamo promesso, cioè bruceremo incenso alla Regina del cielo e le offriremo libazioni come abbiamo già fatto... nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme. Allora avevamo pane in abbondanza, eravamo felici e non vedemmo alcuna sventura; ma da quando abbiamo cessato di bruciare incenso alla Regina del cielo e di offrirle libazioni, abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame» (vv. 17-18).

Bisogna dedurne che l'abolizione del culto della Regina del cielo (probabilmente la dea Ašerah) era ancora in piena discussione nel giudaismo dei secoli VI e V a.C. Un'interessante testimonianza della sopravvivenza di una religiosità popolare ci proviene dai documenti della comunità ebraica insediata ad Elefantina, un'isola situata sul Nilo nel sud dell’Egitto, che ospitava una guarnigione militare in epoca persiana. In questa comunità che aveva il suo proprio tempio, si è continuato ad associare a Yahwè (Yaho) una dea. Così, si prestava giuramento «per Yaho il dio, per il tempio, e per l'Anat di Yaho».

Altri dèi vi erano parimenti venerati sotto i nomi di Ašam-Betel e di Haram-Betel. A dispetto di queste pratiche che dovettero fortemente dispiacere alla nascente ortodossia di Gerusalemme e di Babilonia, gli Ebrei di Elefantina intrattenevano numerosi scambi epistolari con le autorità religiose di Gerusalemme. Sembra anche che pagassero un’imposta ecclesiastica.

Tra rifiuto e integrazione

Come si doveva gestire il permanere di una religiosità popolare a carattere politeista nel momento in cui gli artefici del giudaismo postesilico avevano ratificato nella Torâ la venerazione del solo Yahwè e l'osservanza dei suoi precetti? Erano possibili due atteggiamenti: la condanna della religione popolare, oppure la sua integrazione nel sistema della teologia ufficiale. Come ci accingiamo ad esaminare a proposito del culto degli antenati defunti, entrambi gli atteggiamenti hanno trovato codificazione nella Bibbia.

Il culto dei morti giuoca un ruolo importante nella maggior parte delle religioni dell'umanità. È così anche per le religioni del Vicino Oriente antico. Consistevano nel portare cibo o altre offerte ai defunti per mantenere la continuità tra le generazioni e per ottenere prosperità e protezione. Così certe tombe, specialmente quella di un antenato del clan o della tribù, rivestivano un carattere sacrale. Isaia (65,4) parla di persone che visitano i sepolcri durante la notte, cosa che attesta la pratica di un culto dei morti in epoca persiana. I redattori del Deuteronomio hanno reagito a questa pratica proibendola. I riti di lutto sono dichiarati illeciti (Dt 14,1), come l'offerta di cibo a un morto (26,14).

Di fronte a questa pedagogia repressiva, i redattori sacerdotali adottano una diversa strategia. Essi cercano di integrare la religiosità popolare nella fede yahwista dando alla prima un nuovo senso. In Gn 23, un autore di ambiente sacerdotale riferisce l'acquisto della tomba di Abramo, che era senza dubbio oggetto di culto. Descrivendo l'acquisto di questa tomba come un banale atto immobiliare la pietà popolare è da un lato presa seriamente, dall'altro è contemporaneamente trasformata. Poiché Dio non interviene in alcun momento in questa storia, il lettore è invitato a comprendere che se i gesti e i riti legati agli antenati sono importanti, le tombe patriarcali non hanno, in sé, alcun valore sacrale.

L'atteggiamento della teologia ufficiale nei confronti della religiosità popolare oscilla tra rifiuto e «recupero». Questo doppio atteggiamento si vede ancora, anche ai nostri giorni, nelle tre religioni monoteiste.

* Professore di Antico Testamento
Facoltà teologica dell’Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia, 47)

Martedì, 13 Giugno 2006 22:55

Gregorio Nisseno, Santo (Franco Gioannetti)

Gregorio Nisseno, Santo
di Franco Gioannetti



Uno dei grandi dottori che, nella seconda metà del secolo IV, diedero splendore alla Chiesa di Cappadocia. È speculativo, contemplativo, filosofo, mistico.

Nacque a Cesarea di Cappadocia nel 335 circa e morì nel 394 circa.

La sua giovinezza è piena di quei contrasti che sono caratteristici del suo tempo e del suo ambiente. La sua famiglia, benestante, che era stata perseguitata da Valerio per motivi di fede, ebbe su di lui un grande influsso. Ebbe una buona formazione culturale ed abbracciò la professione di Rettore.

Sotto l’influsso del fratello Basilio, che aveva iniziato un’esperienza monastica, seguito in questo dalla sorella Macrina, si avviò ad un approfondimento della vita cristiana attraverso lo studio della Scrittura e dei grandi Dottori che avevano lasciato la loro impronta culturale nella vita della giovane Chiesa.

Ma nel 370 il fratello Basilio, che era stato eletto vescovo di Cesarea e che aveva bisogno di persone di cui fidarsi, lo fece eleggere vescovo di Nissa, cittadina nel cuore dell’Asia Minore. Fedele alla fede di Nicea, fu perseguitato e fatto deporre da Demostene, vicario del Ponto, simpatizzante verso gli Ariani. Fu però riabilitato con gioia del popolo nel 378.

La morte del fratello Basilio, alla cui ombra era sempre vissuto, lo fece passare in primo piano. Fu incaricato di ispezioni nelle chiese del Ponto, dell’Acaia, della Palestina e dell’Arabia. A causa della sua vita culturale e spirituale, stimata da tutti, fu costretto a prendere posizione nelle controversie dottrinali. Morì nel 394.

Le sue opere sono di contenuto esegetico, letterario e spirituale; con, nel De vita Moysis, delle note di profonda mistica che influenzarono anche autori venuti dopo di lui. Nelle sue omelie in Cantica Canticorum sviluppa una mistica dell’estasi, dell’amore che apre nuovi orizzonti alla spiritualità. Il suo trattato De Beatitudinibus ha, nel capitolo sulla purezza del cuore, espressioni profondamente importanti per la vita spirituale.

Rilevante l’importanza dei suoi trattati di teologia, dove approfondisce il dogma e si sforza di renderne conto. I suoi trattati di spiritualità sono costituiti principalmente da commenti della S. Scrittura e poi da scritti strettamente spirituali. Tra questi emerge il De virginitate. Importanti anche i sermoni e le omelie.

La dottrina

Gregorio di Nissa è teologo nel senso più stretto del termine, nella misura in cui mistero di ha nella sua opera un posto considerevole. Qui, per motivi di spazio, tratteremo essenzialmente gli aspetti più inerenti questa rubrica: spiritualità e mistica.

La teologia spirituale di Gregorio N. è una conseguenza della sua teologia sacramentaria. Essa è, sotto l’azione dei sacramenti, lo sbocciare delle potenze divinizzate dell’anima. Secondo un’immagine a lui cara, Gregorio paragona le virtù dell’anima, vivificate dai sacramenti della Chiesa, gli alberi del Paradiso. Il Nisseno rappresenta la vita spirituale come un percorso dalla luce alle tenebre, in cui distinguere tre grandi vie:

  • La via della luce (i principianti): essa è caratterizzata dalla purificazione di tutti gli elementi estranei all’anima e dalla restaurazione dell’immagine di Dio in lei. In primo luogo bisogna lottare contro il pervertimento delle disposizioni sensibili o passioni; quindi raccoglimento ed unificazione in sè per repulsa delle cose sensibili e vane. Caratteristiche: il distacco da ogni vana preoccupazione, una profonda fiducia filiale. La purificazione ed unificazione dell’anima le permettono una prima conoscenza di Dio in lei.
  •  La via della conoscenza di Dio nello specchio dell’anima. È questo un aspetto essenziale della sua mistica, si tratta di una esperienza della grazia che Gregorio esprime con la dottrina dei sensi spirituali. Questa esperienza della grazia è una conoscenza di Dio; non conoscenza dell’essenza di Dio che è inaccessibile, ma esperienza della presenza di Dio che Gregorio chiama sentimento di presenza. Il fondamento di questa esperienza è la presenza della trinità nell’anima, mediane la grazia, la divinizzazione dell’anima è un’azione divina che comporta una vicinanza speciale di Dio ad essa. La conoscenza dello specchio è una conoscenza mediata, ove la presenza di Dio è conosciuta attraverso la sua azione sull’anima. Possiamo dunque avere un’esperienza di Dio in noi, ma man mano che progrediamo scopriamo che Dio trascende infinitamente tutto ciò che non possiamo conoscere.
  •  La terza via, la conoscenza di Dio nella tenebra; essa consiste nel comprendere che la vera conoscenza di Dio consiste “nel comprendere che Egli è incomprensibile”. Questo fino a comprendere che “trovare Dio consiste nel cercarlo incessantemente” e che “nel progredire sempre nella ricerca sta il godere veramente dell’amato”.
Gregorio porta l’anima a Dio per la via della spiritualità estatica dell’amore. Quindi la vera esperienza mistica è, nella tenebra, l’unione a Dio. Gregorio esprime con i termini: “sobria ebbrezza”, “sonno vigile”, “eros impassibile”. Dove Gregorio intende per “eros” la carità intensa, la follia dell’amore che strappa l’anima a se stessa per gettarla in Dio.

Fasi della cultura europea d'oltralpe

Mattia Flacio (1520-1575):
agli albori del luteranesimo *
di Renzo Bertalot


Venezia

Al di la delle Alpi si riteneva che la capitale della Serenissima potesse sponta­neamente aderire alla Riforma protestante e diventare così la “Ginevra Italiana”. (2) e Giordano Bruno rife­rendosi ad Enrico IV di Francia. Nel 1542 Bernardino Ochino scrisse al Senato della Repubblica (3) e nel 1545 Pier Paolo Vergerio già vescovo di Capodistria, passato al pro­testantesimo, invitò ufficialmente, a nome dei principi tedeschi, il doge Francesco Donà a prendere posizione a favore della Riforma. (4) Dal 1553 al 1562 Giovanni Andrea Ugoni continuò a sperare che Venezia accettasse l'invito rivoltole più volte. (5) Mattia Flacio, nel 1570, scrisse al Doge, (6) ma fu un'illusione.

I libri della Riforma ebbero un'ampia circolazione a Venezia che fu anche un centro di esportazione. Si calcola che circa quarantamila copie del Il Beneficio di Cristo, ritenuto il cate­chismo della Riforma, circolassero a Venezia. Si ritiene che sei­mila studenti, cosiddetti "luterani", frequentassero l'università a Padova. E seicentottanta danesi vi studiarono durante il XVI secolo. (7) Inoltre vi furono almeno due sinodi anabattisti.

Molti teologi italiani passarono alla Riforma e diven­nero titolari di prestigiose cattedre in Inghilterra, Germania e Svizzera.

Tuttavia per motivi di sangue blu e di famiglia, (8) vi furo­no anche molte esitazioni e ben presto i riformatori al di là delle Alpi dovettero rendersi conto che i principi italiani non avevano autorità sufficiente per introdurre la Riforma nei loro paesi. (9)

Bisogna tenere presente che le turbolenze dal punto di vista religioso si aggravarono e si complicarono con il 1547, anno della morte di Enrico VIII, di Francesco I e della sconfitta a Mühlberg della Lega di Smalcalda organizzata dai principi protestanti in funzione antiasburgica. (10)

Filippo Melantone (1497-1560)

Non è possibile richiamare il nostro tema senza che il nostro pensiero vada immediatamente a Melantone (gre­cizzato da Schwartzerdt), personaggio chiave del periodo accanto a Lutero.

Filippo Melantone nacque a Bretten il 16 febbraio 1497. A diciassette anni era già professore a Tubinga e in seguito insegnò ebraico e greco a Wittenberg collaborando con Lutero alla traduzione della Sacra Scrittura. Nel 1521 furono pubblicati i Loci communes rerum theologicarum (la prima opera dogmatica della Riforma) (11) che circolarono rapidamente in tutta Europa e costituirono la base di partenza dei circoli riformati italiani. Melantone si occupò anche di storia, di matematica, di astronomia e di scienze naturali.

Essendo Lutero bandito dall'Impero, toccò a Melantone presentare alla Dieta la Confessione di Augusta del 1530. Lutero l'aveva preventivamente appro­vata. In vista di salvare il salvabile la confessione si limitò a sottolineare gli "abusi" da rivedere. Melantone perciò fu considerato un uomo di compromesso.

Per quanto riguarda l'Italia sia i Loci che la Confessione Augustana trovarono l'epicentro della loro diffusione a Venezia, a Padova, a Modena, a Roma, a Napoli, a Siena e a Firenze. Abbiamo già ricordato che Melantone visitò Udine e Trieste e che nel 1539, da Norimberga, scrisse al senato della Repubblica Veneta.

I testi circolavano anche sotto il nome italianizzato di Ippofilo da Terra Nera. (12)

Melantone morì a Wittenberg il 19 aprile 1560 e fu sepolto accanto a Lutero nella chiesa del Castello.

Fu considerato, per la vastità del suo insegnamento e la riorganizzazione dell'educazione scolastica Praeceptor Germaniae, Praeceptor Scandinaviae, Praeceptor Europae e lo fu certamente anche dell’Italia nell'ambito della Riforma protestante. (13)

Mattia Flacio (1520-1575)

Mattia Flacio nacque il 3 marzo 1520 ad Albona qualche decina di chilometri a Nord-Est di Pola, città a maggioran­za luterana ai tempi del vescovo Pier Paolo Vergerio. Studiò a Venezia; fu particolarmente attento al Rinascimento. Andò a Basilea. Incontrò Gasparo Contarini a Ratisbona nel 1541 e poi si recò a Wittenberg dove aderì decisamente alla Riforma convintosi sulla giustificazione per fede. Ebbe la stima di Lutero ed ottenne la cattedra di ebraico e più tardi quella di Nuovo Testamento a Jena. (14)

Il 24 aprile del 1547 la Lega antiasburgica dei principi protestanti fu sbaragliata a Mühlberg. Con l'Interim di Augusta 1548 e poi di Lipsia, con la perdita dell'Elettore Maurizio passato nelle File di Carlo V, le imposizioni dei vin­citori passarono senza protesta. Non si menzionò la giustifi­cazione per fede. (15) La messa fu ristabilita ovunque (anche a Wittenberg, dove Lutero era morto nel 1546). Carlo V con­cesse effettivamente il matrimonio dei preti e il calice ai laici. L'esperimento fu tentato a Strasburgo, ma fallì. (16)

Non si parlò più di giustificazione in senso luterano, ma di giustizia infusa: la fede divenne una virtù e l'autori­tà tornava sub Petro.

Allora insorse energica­mente Flacio che divenne il capo dell'opposizione a Melantone e ai suoi sostenitori detti filippisti. La Riforma intanto si riafferma. (18)

Contro Melantone presero posizione molti teologi riformati. Lo stesso Calvino ritenne vergognoso l'atteg­giamento di Melantone. (19) Flacio era burbero di carattere e comunque intransigente sostenitore del dogmatismo luterano ortodosso. Lascia Wittenberg in rottura con Melantone. Nel 1562 gli muore la moglie; più tardi si risposerà. (20) Nel 1570 scrive al doge di Venezia invitando­lo ad abbracciare la Riforma: un'illusione. Visita Anversa. Il 12 marzo 1575 muore a Francoforte sul Meno.

Tra gli scritti di Mattia Flacio rimarranno significativi attraverso i secoli: la Clavis Scripturae Sacrae, un'opera siste­matica della riforma luterana del 1567 e le Centurie di Magdeburgo (1559-74), in tredici volumi (ne erano previsti sedici: uno per ogni secolo), frutto di molti viaggi e della consultazione di molti manoscritti. (21) Flacio cercò di stabili­re attraverso i secoli una catena di testimoni dell'Evangelo come autentica successione apostolica. In questa linea lodò anche i valdesi. L’opera segna la rinascita della storiografia. (22)

Mattia Flacio rimane una delle figure più significative della seconda generazione della Riforma protestante. (23)

La Formula della Concordia: dispute e conclusioni

Non è compito nostro soffermarci sulla Formula di Concordia. Essa è diventata uno dei libri simbolici della chiesa luterana e continua ad interpellare le chiese. (24) Raccoglieremo qua e là qualche spunto sulla contrapposi­zione che era venutasi a creare. La Concordia ha voluto esprimere un giusto equilibrio tra le parti. Intanto non va dimenticato che nel 1542 viene introdotta l'inquisizione di tipo spagnolo che porrà fine ad ogni tentativo di ade­sione alla Riforma in Italia. Inoltre sempre nel 1542 v'è la confluenza di calvinisti e di zwingliani nella Chiesa Riformata. Seguono il Concilio di Trento (1545), la scon­fitta antiasburgica dei principi protestanti (1547), gli Interim di Augusta e di Lipsia (1548-49), avallati senza protesta. (25) V'è notevole scompiglio dovuto alla restaura­zione della messa cattolica e il passaggio dell'elettore Maurizio alle file di Carlo V.

Melantone è visto come l'uomo del compromesso e della tolleranza, ma anche di velato sinergismo. È stanco della rabies theologorum. (26)Sull'eucaristia è accusato di criptocalvinismo per essersi avvicinato alle idee di Bucero e di Calvino. Sulla questione degli adiafora, degli elemen­ti dogmaticamente insignificanti, dimostra una certa apertura, ma Flacio, diventato il capo degli oppositori a Melantone interviene avvertendo che non bisogna mai cedere agli avversari. Occorre sempre riaffermate la Riforma.

La Formula della Concordia trovò una via di mezzo tra i contendenti.

Sulla giustificazione Melantone e Flacio erano d'accor­do, in quanto la fede è madre e fonte di buone opere, ma non lo erano sulla necessità di buone opere per la salvez­za e sulla predestinazione. In materia di cooperazione la volontà non resiste, ma si adatta, ha quindi la capacità di una giusta decisione nonostante il peccato originale. Ma per Flacio Dio solo converte perché il peccato ha trasfor­mato sostanzialmente l'uomo in una immagine di Satana. La Formula della Concordia respinge sia i flaciani sia i sinergisti: lo Spirito Santo può illuminare l'uomo verso l'obbedienza e la cooperazione; si tratta di un inizio nuovo della vita anche se permangono imperfezioni. Chi cade non va ribattezzato, ma riconvertito.

I teologi luterani si trovavano divisi in sostanzialisti o accidentalisti. Ma il peccato come sostanza non trovò cre­dito e Mattia perse la cattedra a Wittenherg, da dove già erano stati cacciati i filippisti.

Il seguito nei nostri tempi

Per descrivere l'incapacità dell'uomo a salvarsi, la Formula delta Concordia afferma, secondo Flacio e giu­stamente secondo Barth, che l'uomo è truncus et lapis perché l'alleanza è irrimediabilmente rotta. Tuttavia per Barth l'alleanza non è abolita perché opera onnipotente di Dio. Dio continua a pronunciare il SI’ sull'uomo, ne assume la morte per vincerla. L’uomo pecca nel dominio di Dio che solo decide quel che l'uomo è. È sotto l'auto­rità della Parola anche come fallito. L'uomo muore davanti a Dio.

Non è possibile quindi considerare l’"ateismo ontolo­gico" di Flacio che fa dell'uomo l'immagine sostanziale del diavolo. Lo status corruptionis è una degenerazione della relazione. La colpa è una questione di orgoglio: un debito, una negligenza una mancanza e una confusione del rapporto. L’uomo è responsabile del dono ricevuto, ma non ha la libertà alla quale è chiamato; scatena così il caos. La sola riparazione sta nel perdono perché l'uomo non è senza Dio. Di fronte a questo mistero dell'onnipo­tenza divina bisogna fermarsi senza tirare in ballo l'onni­presente tentazione della religione. (27)

La discussione sulla "cooperazione", sulla "sostanza" e sulla «relazione" continuerà a travagliare, con accenti diversi a seconda delle epoche, la teologia dei secoli suc­cessivi. Allo scadere del XX secolo si possono intravede­re le luci antesignane di tempi nuovi. Si tratta della Concordia di Leuenberg, della Dichiarazione Congiunta sulla giustificazione per fede (28) e della Carta Ecumenica per l'Europa. Sono documenti collettivi che trovano un sempre più ampio consenso tra le chiese e le singole comunità che rivelano l'inutilità dei dialoghi captativi (proselitismo) o oblativi (perdita d'identità). La disponi­bilità al dialogo (al cambiamento) sembra aprire nuovi orizzonti lasciando sedimentare nelle biblioteche e negli archivi, a beneficio degli studiosi, la storia dell'incomuni­cabilità degli uomini e della divisione delle chiese.

Note

* Il presente testo è apparso in Studi Ecumenici, cf. R. Bertalot, Mattia Flaco: agli albori del luteranesimo, in Studi Ecumenici, 20 (2002), pp. 453-459.

1) S. Caponetto, Melantone e l’Italia, Claudiana Torino, 2000 p 19.

2) R. Bertalot, Dalla Teocrazia al laicismo. Propedeutica alla filosofa del diritto, Università di Sassari, Sassari, 1993.

3) S. Caponetto, La Riforma protestante nell'Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino, 1992, pp. 60 ss.

4) Id.

5) G. Gullino (a cura), La Chiesa di Venezia tra Riforma Protestante e Riforma Cattolica, Ed. Studium, Venezia, 1990; cf. S. Tramontin, Tra Riforma cattolica e Riforma protestante, in S. Tramontin (a cura), Storia religiosa del Veneto. Patriarcato di Venezia, Giunta Regionale del Veneto – Gregoriana Libreria Editrice, Padova, 1991, p. 100.

6) E. Comba, I nostri protestanti Il, Claudiana, Firenze, 1895, p. 383.

7) F. Melantone, Lettere per l'Europa, Claudiana, Torino, 2000, p. 46; cf. S. Caponetto, Benedetto da Mantova. Marcantonio Flaminio: Il Beneficio di Cristo, Claudiana, Torino 1975.

F. Ambrosini, Storie di patrizi e di eresia nella Venezia del '500, Franco Angeli, Milano, 1999. D. Cantimori; Umanesimo e religione nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1975, pp. 183-188.

10) Caponetto, La Riforma protestante, p. 229.

11) Melantone, Lettere, p. 24.

12) Caponetto, Melantone; pp. 7, 27, 55-59.

13) Melantone, Lettere, IVs,, 27, 46-55.

14) Comba, I nostri protestanti Il, pp. 361ss.

15) J. L. Neve, A History of Christian Thought I, The Muhlenberg Press, Filadelfia 1946, p. 295.

16) Caponetto, La Riforma protestante, p. 179.

Comba, I nostri protestanti II, p. 370; K. Heussi, G. Miegge, Sommario di storia del cristianesimo, Claudiana, Torino, 1960, pp. 215 ss.

18) Comba, I nostri protestanti II, p. 370.

19) Neve, A History, pp. 295s.

20) Comba, I nostri protestanti II, p. 381.

21) L. A. Loescher, Twentieth Century Enciclopedia of Religious Knowledge, Baker Book House, Grand Rapids 1955, voce Flacius,

22) Comba, I nostri protestanti Il, p. 376.

23) Loetscher, Twentieth, voce Flacius.

Tillich, Storia del pensiero cristiano, Ubaldini, Roma 1969, p. 265.

25) Neve, A History, pp. 295-304.

26) Cornba, I nostri protestanti II, pp . 368ss. pp. 375-390.

27) K. Barth, Dogmatique, vol. XVIII, Ed. Labor et Fides, Ginevra 1966, pp. 134ss.

28) R. Bertalot, Fasi della cultura europea d'oltralpe, Istituto di Studi Ecumenici, Venezia 2002, pp. 52-58.

Fa’ di me un arcobaleno di pace
di Dom Helder Camara

Signore, fà di me
un arcobaleno di bene e di speranza
e di Pace.
Arcobaleno che per nessuna ragione
annunci
le ingannevoli bontà,
le speranze vane,
le falsi paci.
Arcobaleno incarnato da te
quale annuncio
che mai fallirà
il tuo amore di Padre,
la morte del Tuo Figlio,
la meravigliosa azione
del Tuo Spirito, Signore.

Educare alla pace

Conferenza Episcopale Italiana
Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace


INTRODUZIONE

1. - La pace è una promessa e insieme un'invocazione, che nasce nel profondo dell'essere di ogni uomo e ogni donna. In essa si proiettano immagini di tranquillità e di sconvolgimento, di fratellanza e di conflitto, di vita e di morte; essa vive della memoria del dolore, della paura che il dolore si rinnovi, della speranza di esserne risparmiati. La pace appare come la condizione e la sintesi di ogni altro bene desiderato.
Eppure c'è uno scarto tragico fra la sincerità dell'invocazione e la realtà della vita. Si fa la guerra affermando di avere in cuore la pace. In nome del proprio sogno si contrasta il sogno dell'altro e non gli si fa posto. Il conflitto è contrabbandato come il prezzo inevitabile da pagare per la quiete e l'ordine, spesso identificati con la vittoria e la tranquillità del più forte. E il sangue di Abele continua a gridare dai solchi della terra (cf. Gen 4,10).

2. - È allora spontaneo chiederci: perché questa contraddizione? Se la pace, sempre inseguita, sembra sempre sfuggire al possesso dell'uomo, non ci sarà nella stessa condizione umana qualcosa che impedisce il realizzarsi del sogno?
Certo la pace chiama in causa le istituzioni, nelle quali si esprimono e vengono regolate la vita e le relazioni dei popoli. Ma è sempre il cuore dell'uomo che è chiamato a scegliere tra la forza e il dialogo, la competizione e la solidarietà. La guerra non è altro che la massificazione dei gesti di ostilità fra uomo e uomo, quotidianamente vissuti e dispersi nelle inimicizie, nelle sopraffazioni, negli egoismi individuali. Cambiare le istituzioni è quindi necessario, ma resta impresa vana e impossibile se non cambia il cuore dell'uomo.
Infatti il volto definitivo dell'uomo non è quello del carnefice né quello della vittima, perché entrambi si mostrano disumani. Nel profondo dell'esistenza personale l'uomo avverte che la propria "verità totale" è una sorta di traguardo: egli "diventa" uomo, nella continua tensione verso la pienezza del proprio essere. Poiché dunque il dinamismo che accompagna tale crescita è l'educazione, se si vuole che il seme dell'invocazione alla pace diventi frutto, occorre educare alla pace.

3. - È questa la prospettiva nella quale intendiamo metterci, concludendo un itinerario di riflessione e proposta, che è iniziato con il tema dell'educazione alla legalità (1991) ed è passato attraverso il tema dell'educazione alla socialità (1995).
Le pagine che seguono si propongono anzitutto di ascoltare, raccogliere e condividere con ogni uomo e donna le contraddizioni e le attese contenute nell'invocazione umana alla pace. Nelle ambiguità che accompagnano l'invocazione si profilano infatti appelli rigorosi alla conversione, che coinvolgono insieme credenti e non credenti. Nella tensione costruttiva, che comunque l'invocazione rivela, spuntano valori umani che vanno condivisi e stimati per se stessi, ma che - per chi crede in Gesù di Nazaret - si manifestano pure come germi del regno di Dio che cresce nella storia, fino alla pienezza di novità del giorno ultimo (cf. Parte prima).
I credenti in Cristo sanno di dover condividere l'invocazione di pace di tutta l'umanità, ma anche la ricchezza del messaggio evangelico sulla pace, donato loro per grazia, rivolto però a tutta l'umanità. Una sintetica proposta di tale messaggio viene quindi offerta fraternamente, come contributo al crescere della speranza e della responsabilità collettive (cf. Parte seconda).
Dall'ascolto e dallo scambio nasce infine la proposta di alcune linee per un progetto di educazione alla pace, con l'unico desiderio di contribuire all'elaborazione di un itinerario educativo che si mostri condivisibile e vivibile. Le sue ragioni vanno perciò fondate sull'invocazione umana più vera e drammatica, e vanno alimentate ai valori di vita che la fede cristiana aiuta a riconoscere e a vivere come dono dall'alto, ma che ognuno può scoprire scrutando il proprio cuore. La pace infatti è di tutti e può nascere solo con l'opera convergente di tutti (cf. Parte terza).

PARTE PRIMA

IN ASCOLTO DEL GRIDO DI PACE CHE NASCE DAI CONFLITTI

4. - Il secolo che si va chiudendo ha conosciuto esperienze terribili di guerre di sterminio e di ecatombe nucleare. Ma quando sono caduti i muri della contrapposizione tra blocchi politici e ideologici, la guerra - per certi versi diventata "fredda" e per altri spesso dislocata sui fronti dei popoli emergenti - ha mutato volto. Essa si è come frantumata e disseminata in una miriade di conflitti particolari, così orrendi da suscitare perfino il pudore di nominarli, nel timore che la ripetizione diventi "informazione consumatoria" e impedisca di sussultare e di gridare lo sgomento.
Si possono infatti usare con sufficiente distacco termini come conflitti locali o etnici o tribali, guerra civile, terrorismo, sfruttamento economico di massa... Ma con quali parole si possono nominare i genocidi e le violenze delle "pulizie etniche" di ogni tipo e colore? o le stragi sanguinose degli scontri tribali e delle azioni terroristiche organizzate contro i civili? Come parlare dei corpi dilaniati dalla bomba che esplode nel mercato? o delle masse dei disperati costretti a fuggire da una terra desertificata dallo sfruttamento operato da poteri economici estranei e incontrollabili?
La stessa religione può essere utilizzata come motivo per innescare o inferocire lo scontro, talora offrendo una specie di "bandiera" che serva a identificare il "nemico", o più spesso in nome di radicalismi e fondamentalismi che offendono il volto di Dio predicando l'odio per l'"altro" in nome di Dio. Quando poi il fondamentalismo nega la libertà religiosa, esso insidia la pace perché perseguita l'uomo e gli impedisce la libera ricerca dell'Assoluto, seminata da Dio stesso nel cuore umano.
Episodi di violenza, di razzismo, di esclusione, di rifiuto, di disprezzo della vita sono ormai ogni giorno sotto i nostri occhi, dentro la quiete apparente delle nostre città e delle nostre case; si consumano nelle relazioni politicihe ed economiche, nei rapporti sociali che mettono a confronto le diversità di ogni genere. Essi esplodono nella concorrenzialità efficientistica e spietata che - in ogni campo - espelle i deboli e i vinti, nei ricatti di una vita di coppia e di famiglia sempre più attraversata da linee di frattura, nella violenza fisica e psichica esercitata sulle donne e sui bambini, nell'aggressività cieca che devasta perfino i momenti del gioco e della competizione sportiva.

5. - Pure la situazione italiana Paese presenta forme di conflitto che mettono insieme radici antiche ed espressioni nuove. Permane la violenza indotta dalla criminalità organizzata, ma lo scontro tradizionale fra gruppi di potere per il controllo del territorio assume le strategie più raffinate delle vendette "trasversali", dei "veleni" riversati sulle istituzioni, dell'investimento nel mercato di morte della droga.
Più in generale, la vita politica risente della mancanza del senso dello Stato come mediatore dei conflitti e non come erogatore di vantaggi sulla base dei rapporti di forza. Il "bipolarismo incompiuto" della politica è vissuto come polarizzazione contrappositiva di forze e non come competizione democratica e progettuale. Il conflitto fra le istituzioni (magistratura, parlamento, partiti...) offre spazi e giustificazioni apparenti a rivalse personali o di gruppo. Le rivendicazioni localistiche sono spesso frutto delle inadempienze di un sistema statale centralistico e lontano dalla vita della gente, ma mostrano anche il volto duro della difesa ad ogni costo di un benessere costruito con il proprio sudore, diventato però a sua volta estraneo alle radici solidaristiche tradizionali. Così, problemi oggettivamente gravi e difficili, quali la regolamentazione saggia e solidale dei fenomeni migratori e l'armonizzazione dello sviluppo fra Nord e Sud del Paese, mancano del contesto sociale, e non solo politico, necessario alla loro soluzione.
La stessa "diaspora politica" dei cattolici non si configura come opportunità per l'animazione di progetti legittimamente diversi, ma alimenta scontri e diffidenze incrociate, che si riproducono talora anche all'interno delle comunità cristiane, le rendono incerte e quindi silenziose e assenti.

6. - È dunque profondamente mutato il volto di ciò che fino ad ora è stato chiamato "guerra" e, di conseguenza, non può non mutare il volto di ciò che si continua a chiamare "pace".
Un aspetto è certo: se il conflitto sta perdendo sempre più i caratteri della generalità e dell'ideologizzazione, tipici di un recente passato, ciò significa che esso si sta sempre più avvicinando al vissuto dei gruppi sociali e degli individui. È quindi sempre più un problema personale e di relazioni interpersonali. È sempre più un problema di educazione. Per questo la volontà di ascoltare e raccogliere il grido di pace, che nonostante tutto si fa strada nei conflitti del tempo presente, si orienta verso alcuni appelli rilevanti e coglie alcuni fatti significativi.

Pace e giustizia

7. - Ci sono situazioni in cui l'ordine regna; ma non sempre l'assenza della guerra è sinonimo di pace. C'è infatti assenza di conflitto anche nelle situazioni di oppressione, quando il debole soggiace alla prepotenza del forte e non è in grado di reagire e di opporsi. In tal caso la pace apparente è la maschera iniqua di un ordine perverso, fondato sulla forza e sull'ingiustizia: essa sconta la propria menzogna nella minaccia di rivolta che si genera dentro alla disperazione degli oppressi.
Il giogo dell'ingiustizia infatti non è sopportabile a lungo e l'uomo che la subisce è spinto a scuoterlo, anche a costo della vita. La rivolta per la libertà e la giustizia, così frequente nella storia, è sempre stata investita di significato ideale e di una forte carica etica, anche se la bontà dei fini porta talora a giustificare un'azione violenta che non si cura della bontà dei mezzi. L'umanità comincia dunque a capire che senza giustizia non c'è pace, che per fare pace occorre cominciare a fare giustizia. Anche la giustizia però è per l'umanità un'invocazione e un sogno, che deve faticosamente farsi strada fra la resistenza della malvagità presente nell'uomo e nella storia e la debolezza delle istanze e degli strumenti che dovrebbero fronteggiarla e impedirne, o almeno delimitarne, gli effetti degeneranti.
Il dinamismo della pace impone dunque una strategia di movimento, che si armonizza con il dilatarsi degli orizzonti della giustizia, sia nel tessuto ampio e complesso dei rapporti fra uomini e fra istituzioni sia, soprattutto, nel cuore dell'uomo. Infatti la coscienza etica progredisce quando passa dall'obbedienza imposta con la sferza dei castighi alla giustizia abbracciata e praticata nella gioia. Dentro a un mondo minacciato e divorato dai conflitti, la pratica della giustizia come virtù è un fattore dinamico e operoso della costruzione della pace: i giusti sono i veri operatori di pace.

8. - La ferita più profonda inferta dall'ingiustizia è quella della violazione dei diritti umani, e quindi dei diritti dei popoli. La pace infatti non può realizzarsi quando tali diritti propri sono oppressi da una relazione prevaricatrice, o quando sono trascurati o dimenticati dal silenzio e dall'indifferenza. Anche questa intuizione, per quanto possa apparire ovvia, riceve consensi finché rimane principio astratto e viene spesso contraddetta nei fatti, specialmente quando il grido di rivolta è debole o muto. Basta pensare al diritto alla vita, violentato fin dallo sbocciare dell'essere umano nel grembo materno o manipolato da pratiche di eutanasia, segno radicale dell'incapacità dell'uomo di affrontare da solo il mistero del dolore.
La stessa logica si verifica poi quando il godimento di diritti vitali - quali la salute, la casa, l'istruzione, il lavoro... - viene abbandonato all'incontro casuale con opportunità positive o negative e con la sollecitudine o con l'indifferenza degli altri. Diversi modelli di "Stato sociale" mostrano il limite dei progetti assistenziali certo a causa della scaltra usurpazione da parte di alcuni dei benefici preparati per altre povertà, ma anche e soprattutto perché l'apparato confida nell'efficienza organizzativa e dimentica che l'uomo, prima che un catalogo di bisogni, è un cuore che chiede ascolto.
Ritardare la promozione umana è dunque ritardare la pace. La strategia minimale che si appaga di avari e misurati consensi alle istanze di giustizia e quasi ne teme le rivendicazioni, deve cedere il passo alla radicalità del principio che la promozione dei diritti umani è il criterio fondante della speranza di una pace durevole.

9. - Lo sviluppo della condizione umana sulla terra sta anche mettendo in luce nuove frontiere della giustizia, che scavalcano il tempo e lo spazio e interpellano l'umanità sui diritti delle generazioni future. Ogni generazione consegna all'altra un mondo che a sua volta ha ricevuto: può essere un mondo migliore o peggiore, segnato dalla giustizia e dalla pace o prenotato alla tribolazione e alla sventura. Per questo quanto più crescono la conoscenza e il dominio dell'uomo nei confronti del cosmo, tanto più essi si caricano di responsabilità e di doveri.
La sensibilità per questi problemi, tenuta desta dagli allarmi ecologici, ripropone l'immagine dell'uomo come custode e non dèspota del creato, impegnato a non creare condizioni di vita per il pianeta che risultino irreversibili e immodificabili di fronte alle esigenze e ai rischi del futuro. La violenza alla natura prepara altre violenze.

Pace e solidarietà

10. - La pace è opera della giustizia, e la giustizia è legata all'osservanza della regola. Può accadere però che la legge sia osservata in modo solo astratto e formale, o sia subìta come un tributo alla paura della frusta. L'uomo intende invece il linguaggio della pace quando impara il linguaggio dell'amore, quando si affaccia sulla realtà dell'altro, lo riconosce e lo accoglie nella sua somiglianza e diversità, si fa solidale con lui.
La coscienza e l'esperienza comuni avvertono infatti che l'atteggiamento di pace contiene il senso della prossimità, della fratellanza. Nel loro nome la diversità non ispira diffidenza, ma dilata il dialogo, apre alla scoperta della natura umana nella sua pienezza, accoglie e condivide l'originalità di ogni fisionomia e cultura, arricchisce l'orizzonte della collaborazione. Lo scambio di un gesto d'amore diventa riconoscimento reciproco che rassicura e ridona il senso del proprio valore. Il rifiuto di tale gesto invece fa sentire esclusi e rifiutati, e quando l'essere dell'uomo viene squalificato - da sé o da altri - nasce l'odio. Esso è un veleno piantato nel cuore che mostra un'incredibile capacità riproduttiva e genera la coazione alla vendetta: è il "nemico ereditario" della storia dell'uomo, dei popoli, delle fazioni, dei gruppi ostili. Quanto più l'odio distende le radici, tanto più vi è ostacolo alla pace.
Non solo l'odio tiene l'uomo lontano dai sentieri della pace: c'è anche il nemico, più sottile ma non meno devastante, che si chiama indifferenza. Essa nasce dalla perdita delle radici e del senso di sé e delle cose, e diventa noia, livellamento delle coscienze nel vuoto dei significati, disamore per la vita, trasgressione vissuta senza nemmeno la consapevolezza dei propri motivi, fuga nella realtà "virtuale", talora anche violenza rivolta contro sé stessi mediante la droga, le malattie anoressiche, la sfida assurda del rischio, il brivido dell'autodistruzione. È sotto gli occhi di tutti il costume di vita disumanizzante delle metropoli fatte di "folla solitaria", dove l'indifferenza è eretta a sistema e lo svuotamento dei valori e dei rapporti avviene con la pura forza della suggestione e dell'abitudine.
Una società disintegrata, che non coltiva le ragioni dell'amore alla vita, non può essere una comunità di pace. La tempra dell'uomo costruttore di pace non si manifesta sulla soglia che distingue chi odia da chi è indifferente all'odio, ma su quella che separa chi ama da chi resta indifferente all'amore.

11. - La pace nasce dalla liberazione dall'odio e dal superamento dell'indifferenza, perché ambedue rimandano all'altro un messaggio di squalificazione e impediscono il riconoscimento reciproco. Nello stesso tempo bisogna riconoscere che il conflitto esprime in modo naturale e realistico la non eliminabile presenza di interessi concorrenti o divergenti, anche dotati di una propria razionalità, per quanto parziale.
Ci sono infatti interessi simili, che si trovano a spartire risorse insufficienti per tutti, e affermano simmetricamente il proprio diritto e il proprio bisogno, in concorrenza con l'altro e non necessariamente "contro". Ci sono poi interessi contrapposti che si escludono a vicenda, per cui la soddisfazione degli uni comporta la sconfitta degli altri. La pace quindi non può essere sognata nell'annullamento dei conflitti, ma nella costruzione paziente delle vie per la loro composizione, nella giustizia e nella solidarietà, per evitare che all'interno di questi meccanismi si insinui la dinamica dell'odio e che la percezione del bene e della verità si deformi nell'esclusione dell'"altro", visto come una minaccia potenziale. La realtà dei conflitti chiede un sistema di giustizia che abbia la forza di tenere in equilibrio le rivendicazioni concorrenti o contrapposte, temperandole e convogliandole nella ricerca di soluzioni concordate nel rispetto dell'altro e del metodo democratico. Ma tale sistema rivela a sua volta la necessità di educare coscienze che riconoscano l'antagonista come un uomo dotato di pari diritti e dignità, e sappiano chiedersi se le proprie "giuste pretese" non siano calcolate sulla misura o dismisura del proprio avere attuale e se non siano la contropartita della sottomisura o dell'esclusione di altri al banchetto dei beni della terra.
Né va dimenticato infine il conflitto che nasce dallo scontro ideologico (anche di origine religiosa) e assume forme diverse ma ugualmente insidiose e implacabili. In tal caso la pace non domanda di barattare la verità con una quiete a ogni costo, né di dissiparla nell'equiparazione di ogni opinione soggettiva. L'amore per la verità sa invece distinguere l'errore dall'errante e ha la forza di mantenere l'irriducibilità delle diverse prospettive, senza compromettere la relazione umana, fatta di rispetto e di accoglienza nei confronti di ciascuno.

12. - La pace nasce dal riconoscimento reciproco e si sviluppa nel sentirsi uniti in un vincolo comune, entro un cerchio di relazioni definito e carico di interessamento affettuoso, che inizia dal rapporto familiare e si allarga sempre più fino ad abbracciare l'umanità intera.
La storia insegna come spesso la guerra sia stata scongiurata dallo stringersi di alleanze tra famiglie, gruppi, nazioni, e come la pace sarebbe definitiva se l'umanità trovasse le vie per un'alleanza globale e stabile. Per quanto però la realtà sia oggi diversa, non è comunque vano auspicare che il processo di unificazione umana continui attraverso l'ampliamento dei trattati e delle istanze di governo internazionali, non per imposizione, ma per lo sviluppo libero e condiviso della coscienza di fraternità universale.

Scelte e gesti di pace

13. - L'ascolto attento di quanto risuona nell'invocazione umana alla pace rivela anche alcune scelte e alcuni gesti già concretamente realizzati e visibili, nei quali è possibile riconoscere con gioia i germi di un futuro di speranza. Attorno a questi "semi di pace" sono anche nati movimenti di opinione a favore della pace, che si impegnano su diversi fronti per influenzare le scelte degli Stati e rivelano la loro incisività e credibilità nel riferimento a valori umani universali, non a letture ideologiche o "schierate" dei problemi. È giusto allora richiamare e riconoscere tali percorsi.
a) Il rifiuto della logica delle armi: fa ormai parte della coscienza comune la distinzione fra la violenza, che aggredisce e opprime, e la forza, che difende e soccorre. Così anche l'intervento armato può assumere il volto dell'intervento umanitario, quando più nessun'altra ragione umana si rivela capace di fermare lo sterminio e le atrocità contro gli indifesi. Non è però pensabile che la soluzione dei conflitti possa essere demandata al confronto tra i potenziali bellici messi in campo. In più la corsa agli armamenti continua a rappresentare oggi una delle piaghe più gravi dell'umanità e una delle cause più acute delle povertà nel mondo. Anche per quanto riguarda l'Italia si sa a sufficienza, malgrado i troppi e fitti silenzi, che molte armi impiegate altrove per seminare morte (comprese le micidiali mine-giocattolo che straziano i bambini) recano il marchio di fabbriche italiane. È quindi legittimo e doveroso che nel dibattito democratico siano presenti voci e strategie mirate a far cessare la produzione e il commercio delle armi, perché i loro ricavi grondano sangue.
b) La non-violenza: l'opzione per la pace si fa visibile nello stile di vita personale e di gruppo. Lo stile della non-violenza rivela una singolare capacità di provocazione. L'uomo non violento non distoglie il volto dalla brutalità dell'oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole "nemico" perché altri lo hanno definito come tale.
c) L'obiezione di coscienza al servizio militare: è una scelta che non sottrae alla responsabilità verso il proprio paese e non smentisce il principio della liceità di quel servizio. Essa si propone dunque non come disobbedienza alla legge, ma come obbedienza a una norma superiore, che vincola la coscienza; non nasce dalla semplice ripugnanza per la guerra né dalla volontà di fuggire la complicità e i rimorsi, ma è profezia di valori e di atteggiamenti non manipolabili dalle leggi dell'uomo. La stessa cultura giuridica moderna riconosce ormai in modo generalizzato l'esistenza del diritto soggettivo al rispetto della coscienza e, in numerosi Stati, l'obiezione al servizio militare è regolata per legge attraverso la sostituzione con il servizio civile. Si fa anzi strada un'ulteriore tendenza secondo la quale le ragioni della coscienza non possono essere sottomesse al vaglio di un'autorità amministrativa, per cui la scelta fra servizio militare e civile diventerebbe una pura opzione individuale. Al di là di ogni giudizio sulle scelte giuridiche che potranno essere compiute, l'originario valore di profezia dell'obiezione di coscienza non dev'essere comunque stemperato in una scelta, priva di prezzo, fra pari opportunità giuridiche. Essa deve invece suscitare la ricerca di forme più rigorose di generosità, affinché l'adesione al valore affermato (la pace) si traduca in vita reale (essere operatori di pace). Il significato autentico dell'obiezione infatti si misura sulla condotta effettiva dell'obiettore: un servizio civile offerto coscienziosamente in risposta generosa e sincera a bisogni umani reali, si propone come stile di vita che annuncia e costruisce la pace.
d) La cooperazione internazionale: si articola e si sviluppa nei rapporti fra le istituzioni mondiali, ma conosce pure la fecondità delle realizzazioni promosse dal volontariato organizzato o individuale e da esperienze del genere "non profit", quali le "banche etiche", il "commercio equo e solidale", ecc. Spesso anzi proprio le "organizzazioni non governative" raggiungono gli avamposti dove i soccorsi ufficiali non arrivano (magari perché prosciugati o dirottati strada facendo), dove "uomini senza frontiere" accostano direttamente il dolore e il bisogno, impegnando la vita per amore e non per calcolo. La cooperazione internazionale è seme di pace, perché restituisce visibilità all'appartenenza all'unica famiglia umana, scioglie la diffidenza e il timore reciproci, sostituisce la rapina con il dono.

PARTE SECONDA

CON IL DONO DELLA PACE CHE VIENE DA DIO

14. - I cristiani sanno di dover condividere con ogni uomo e ogni donna di questa terra la speranza per la pace che cresce e la responsabilità per gli ostacoli che essa incontra. Essi però sanno anche di aver ricevuto un messaggio capace di illuminare e sostenere il cammino dell'umanità e di essere quindi chiamati a testimoniarlo e a condividerlo, perché contribuisca a far fruttificare la speranza e l'impegno.
Il messaggio evangelico sulla pace infatti va incontro alla domanda dell'uomo, il quale - nell'apparente irraggiungibilità di una mèta tanto sognata - è tentato di vedere e gridare una sorta di imperfezione di sé e del cosmo, che sembra condannare all'assurdità le attese più profonde. Tale messaggio infatti rivela la fonte ultima di ogni possibilità di pace nell'amore di Dio Padre, che "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16). Per chi crede in Gesù di Nazaret, la sua croce e la sua resurrezione sono la promessa, la via, il compimento della pace, già operanti nel cuore della storia, anche se non ancora nella pienezza dei frutti.

La pace: continua offerta di Dio nella storia dell'uomo

15. - Nel racconto biblico della Genesi, i giorni della creazione sono scanditi dalle parole: "E Dio vide che era cosa buona" (Gen 1,4ss). Il cosmo dunque è uscito buono dalle mani di Dio. La pace - come assenza di morte e pienezza di vita, di bontà, di armonia (shalom) - è un costitutivo essenziale del mondo così come è uscito dalle mani del suo Creatore. Nello stesso tempo Dio ha deciso di affidare all'uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, la responsabilità di coltivare e custodire il giardino del mondo; gli ha chiesto pure di accogliere questo compito come una libertà ricevuta in dono, non come spazio di chiusa autosufficienza (cf. Gen 2,15-17).
L'uomo aveva però - e ha costitutivamente - il potere di accettare o rifiutare il disegno di Dio e la sua risposta è stata negativa. Così il peccato delle origini ha scatenato il conflitto nei rapporti umani, nei confronti di Dio e del creato (cf. Gen 3). Caino uccide il fratello Abele (cf. Gen 4,1-16) e nella prima città si innalza il canto sinistro di Lamech "Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette" (Gen 4,23-24). La violenza e la divisione si estesero poi al punto che troviamo scritto: "Il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra" (Gen 6,6) e decise di mandare il diluvio. Ma Dio è Dio della vita e non della morte: quando il mondo, con il piccolo nucleo dei salvati, riemerse dall'abisso delle acque, l'amore infinito di Dio tracciò nel cielo l'arcobaleno, promessa di un nuovo e definitivo patto di pace (cf. Gen 9,12-17).
Così tutta la storia della salvezza, testimoniata dalla rivelazione biblica, è la storia dell'appassionata ri-offerta all'uomo della possibilità e della responsabilità di aderire al "regno di Dio", cioè al progetto di costruire la storia umana come storia di pace. La chiamata di Abramo, promessa di benedizione per tutte le genti (cf. Gen 12,1-3), è l'avvio di questo cammino. La liberazione di un popolo di schiavi - con l'offerta di un patto d'amore e con la proposta di una legge che temperasse l'istinto della violenza - è il gesto decisivo e rivelatore di una via ormai aperta (cf. Es 3,7-12; 21,23-25).
L'annuncio profetico del Messia attraversa tutta la storia di Israele come una promessa di pace (cf. Is 11,1-9) e culmina nella figura del Servo di Jahweh, che prende su di sé la violenza dei propri carnefici e li redime (cf. Is 52,13-53,12). Alla coscienza scoraggiante dei fallimenti umani, è offerta la promessa del dono di un "cuore nuovo", che cambi dall'interno i passi e le vie dell'uomo (cf. Ez 11,19; Sal 51,12).

La pace: dono di Dio in Cristo crocifisso e risorto

16. - Il dono divino della pace culmina nella persona, nell'insegnamento e nella vicenda di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, l'uomo nuovo che può dare al mondo una pace diversa da quella che il mondo stesso pensa di offrire e che risulta impossibile senza la conversione del cuore (cf. Gv 14,27). Infatti la pace offerta da Cristo è il frutto della sua decisione, libera e amorosa, di dare la vita sino al termine estremo della morte di croce, accompagnata dal perdono per i crocifissori: "Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia... per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia" (Ef 2,14-16). Chi opera in questo modo non è lo sconfitto, ma il vincente, perché Dio garantisce per lui. La risurrezione di Cristo infatti è la conferma della fedeltà di Dio e il primo saluto del Crocifisso-Risorto ai discepoli diventa il nucleo stesso del messaggio evangelico: "Pace a voi!" (Gv 20,19).
Ogni giorno, di fronte alle sconfitte che la pace conosce anzitutto nella vita personale di ciascuno, possiamo lanciare verso il cielo la domanda, che anche Paolo di Tarso ha sperimentato: "Io non riesco a capire neppure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Sono uno sventurato. Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?" (Rm 7,15.24).. Di fronte all'annuncio di Cristo risorto però possiamo anche sperare nella possibilità che la nostra domanda non si perda in un cielo vuoto, ma incontri un dono e divenga grido di riconoscenza: "Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!" (Rm 7,25). Se il sangue di Abele continua a gridare dalla terra le sconfitte generate dall'odio, il sangue di Cristo, "dalla voce più eloquente di quello di Abele" (Eb 12,24), grida più forte la speranza di pace.

La pace: dono di Dio affidato all'invocazione dell'uomo e alle sue mani

17. - La pace del Signore Gesù Cristo ci è già donata, ma l'uomo ha il potere tremendo di respingere il dono e il seme, per quanto rigoglioso, deve conoscere i tempi lunghi e incerti della fioritura, prima che si possa mietere la spiga (cf. Mc 4,26-29). L'attesa umana della pace allora si colloca al crocevia fra l'invocazione alla grazia divina che cambia il cuore e il proposito di non rinnegare il compito affidato da Dio alla nostra libertà, alla nostra sapienza, alla nostra generosità.
Perciò il discepolo di Cristo deve fare propria con decisione la logica della croce, cioè la logica del dono di sé e non del dominio e del possesso (cf. Mc 10,32-45); e in tale cammino scopre una giustizia "nuova" e "superiore", che trasforma radicalmente le dinamiche di ogni rapporto umano, fino a chiedere forme d'amore inattese e impensabili (cf. Mt 5,20-48). Di conseguenza l'impegno a edificare la pace diventa testimonianza resa all'amore di Dio (cf. Mt 5,9), perché si alimenta al distacco dall'ansia dell'avere, proprio di chi si sa affidato all'amore del Padre (cf. Lc 12,22-32) ed è quindi capace di condivisione fraterna (cf. 1 Gv 3,16-18). La fatica quotidiana della riconciliazione nell'unità, diventa segno offerto al mondo, perché possa credere che Cristo è venuto (cf. Gv 17,20-21).

La pace: dono di Dio offerto nella speranza

18. - La croce di Cristo ci pone in cuore la fiducia che il regno di Dio già opera come lievito nella storia e che alla fine ci saranno "un nuovo cielo e una nuova terra" (Ap 21,1), nei quali giustizia e pace regneranno e ogni lacrima sarà asciugata. Ma tutto ci è donato nella forma del "già e non ancora". È quindi nostro compito rendere ragione di fronte alla storia della speranza che è in noi (cf. 1 Pt 3,13) e assumere la fatica fiduciosa di orientare tale storia al suo traguardo, contro ogni pronostico disperato e con la consapevolezza che fino all'ultimo le tracce del male renderanno la pace incompiuta.
Tale impegno coinvolge i gesti e i pensieri della vita quotidiana, nei suoi aspetti più semplici e in quelli più alti, per cui coloro che lo assumono devono mettere in conto il rischio di trovarsi "come pecore in mezzo ai lupi" (Mt 10,16), di suscitare divisioni, di offrire pace e di ricevere rifiuto, ostilità, persecuzione e morte (cf. Mt 10,1-25). Ma, come Cristo risorto, i discepoli continueranno portare al mondo il saluto di pace (cf. Mt 10,12s), a dire con efficacia: "Pace a voi" (1 Pt 5,14), così che la pace augurata diventi dono maturo.

La pace: dono di Dio e frutto del perdono

19. - L'ascolto dell'invocazione umana alla pace e della risposta che ad essa offre l'amore di Dio conduce alla soglia di una parola grande e tremenda: il perdono. Esso è desiderio di un abbraccio che rigenera e domanda di riparazione e riconciliazione; non distrugge la memoria di ciò che è accaduto, ma proprio perché non dimentica, può misurare per intero l'irreparabilità del dolore e della violenza e compiere il miracolo dell'andare oltre. L'uomo che tenta di chiedere o di dare il perdono sa che nessuno ha forza e vita bastanti per compensare il male inflitto o subìto, ma riconosce che anche un solo ultimo respiro può bastare a strappare il peso dal cuore e a tentare un nuovo azzardo d'amore.
La via del perdono rimane comunque una via che appare talora assurda per l'uomo, e lo sarebbe se fosse affidata soltanto alle sue forze. Il perdono invece corrisponde sì a una delle aspirazioni umane più profonde, ma è anzitutto dono e grazia da accogliere, perché è attributo dell'amore di Dio. Dio infatti perdona perché sua è l'onnipotenza dell'amore che crea ogni cosa e, sola, può ri-fare il cuore traviato dell'uomo. Gesù di Nazaret manifesta tale onnipotenza perdonando il peccato nel gesto stesso di guarire il male fisico dell'uomo (cf. Mc 2,1-12), perché ha riscattato personalmente ogni male e ogni crudeltà, morendo per amore sulla croce.
Non si può dunque annunciare al modo la pace se non si annuncia il perdono. Il nostro perdonare è partecipazione al perdono di Dio: a Lui lo chiediamo con la preghiera del "Padre nostro"; da Lui lo riceviamo per le nostre colpe e lo impariamo giorno per giorno vivendo gesti umili e concreti di riconciliazione, di giustizia, di solidarietà e di misericordia; nel suo nome lo doniamo, per rinnovare il miracolo di una nuova creazione che cancella l'inimicizia nel mondo. Sul canto sinistro di Lamech, che prometteva settanta volte sette vendetta, si impone il comando di Cristo di offrire settanta volte sette il perdono (cf. Mt 18,21s).

PARTE TERZA
PER UN PROGETTO CONDIVISO DI EDUCAZIONE ALLA PACE

20. - L'invocazione di pace che sale dalla terra chiede di essere tradotta in coerenza di vita; il dono della pace che viene dall'alto attende di essere accolto e custodito. La via da percorrere è quella dell'educazione alla pace, perché su questa via la pace diventa possibile.
Ci si può chiedere, talvolta con scetticismo, se i tempi siano maturi per tale progetto, ma per chi ha cuore e occhi trasparenti i segni della speranza sono visibili nella nostra storia e il "vangelo della pace", che abbiamo condiviso, apre vie nuove e insospettate a chi si lascia raggiungere da Cristo, a ogni uomo e donna di buona volontà. È dunque possibile, ed è necessario, che l'educazione alla pace diventi una scelta decisa.
Ora si può "imparare la pace" anzitutto esercitandosi a praticarla ogni giorno, all'interno di ogni relazione e in ogni àmbito di vita. L'educazione alla pace però si propone pure come processo esplicito, intenzionale e permanente, che prevede spazi di ricerca, di elaborazione e di esperienza organicamente strutturati all'interno dell'itinerario educativo globale. Ci sono poi contesti umani (la famiglia, la scuola...) che sono per natura ordinati allo sviluppo libero e responsabile della persona umana, e quindi a far crescere uomini e donne di pace, con una proposta educativa continua e consapevole.
L'educazione alla pace deve quindi anche tradursi in un progetto formale, che determini gli obiettivi e le condizioni per il loro raggiungimento, individui i soggetti da chiamare in causa e i percorsi da compiere. Tale progetto deve però nascere come esito condiviso di un confronto libero e sereno, nel quale le diverse opzioni culturali vengono sinceramente vissute e offerte come contributi alla crescita comune e non come motivi di contrapposizione. Per questo sembra utile definire qui alcune linee essenziali, rimandando ad altri àmbiti e ad altre competenze l'individuazione di itinerari più precisi e specifici.

Il contesto sociale dell'educazione alla pace

21. - Un progetto di educazione alla pace richiede un contesto sociale che offra le condizioni necessarie per un'esperienza quotidiana di relazioni costruttive e per una proposta educativa non resa vana dalle circostanze nelle quali si compie. In continuità con il precedente documento Educare alla legalità quindi, si vede necessario mettere a fuoco l'esigenza di promuovere un'adeguata cultura della regola, al di là di ogni prospettiva puramente formale. L'illegalità infatti è nemica della pace e ogni giorno verifichiamo i frutti amari di questa realtà, specialmente quando essa diventa organizzazione e logica di vita, propone modelli esistenziali di sopraffazione e di facile arricchimento, destabilizza con il terrore e il sospetto il tessuto delle relazioni sociali, inquina i processi della politica e dell'economia.
La cultura della regola (o della legalità) diventa invece via di educazione alla pace anzitutto e normalmente attraverso la prevenzione, ma anche proponendo vie di riconciliazione là dove le contese già insorte chiedono una soluzione pacificante e non soltanto tecnica. In questa linea il mondo della legge ha introdotto la figura del giudice di pace, che dovrà comunque esprimere sempre meglio il volto del compositore dei conflitti, non l'immagine tradizionale di chi alla fine sentenzia in forza della legge. Per quanto riguarda invece il processo penale va incoraggiata la ricerca di "mediazioni" che - accanto alla specifica dinamica processuale e punitiva, nella quale non c'è spazio per la composizione - pongano attenzione al tema della riparazione, non per risarcire perdite inguaribili, ma per stabilire uno spazio di incontro e di possibile pacificazione fra il reo e la sua vittima. Lo stesso fenomeno del "pentitismo" dovrà sempre meglio configurarsi dentro questo orizzonte, al quale concorre in modo determinante anche la proposta evangelica del perdono.
In ogni caso ciò che passa per le aule dei tribunali è pur sempre una parte minima della conflittualità già esplosa e che attende riconciliazione. Per questo vanno sostenuti gli organismi di mediazione (consultori familiari, altre iniziative di volontariato per l'"ascolto", alle quali può contribuire anche la comunità ecclesiale), che aiutino i cittadini a sanare le fratture e a evitare il senso della sconfitta che diventa voglia di rivalsa. Infatti quando un equilibrio infranto si ricompone per una scelta non subìta ma condivisa, un reale esercizio di pace si è compiuto.

22. - Un secondo aspetto da considerare è lo sviluppo di una cultura politica che sia supporto autentico all'educazione alla pace. La competizione anche dura è parte integrante del gioco politico, ed è anzi garanzia della democraticità del sistema. Quando però la competizione non si colloca sul piano del confronto democratico fra progettualità diverse e assume le forme dell'aggressione personale e della contrapposizione preconcetta e senza scambi fra blocchi, o quando diventa l'arena di singoli protagonismi o di interessi di parte, allora la politica degenera e i cittadini non possono che smarrire il senso dello Stato e delle sue finalità. Se quindi le recenti vicende della politica italiana hanno inferto un duro colpo alle connivenze fondate sullo scambio di favori, va ora incoraggiato ogni sforzo destinato a far ritrovare alla politica il suo profilo alto, che significa capacità autentica di governare democraticamente lo sviluppo del Paese, in spirito di servizio nei confronti del bene comune e nel contesto di una globalizzazione sempre più ampia dei problemi e dei rapporti.
Ci sono in particolare due àmbiti nei quali la cultura e la prassi della politica devono oggi mostrare la propria capacità di essere strumenti di educazione alla pace. Il primo riguarda lo sviluppo effettivo della partecipazione, attraverso la definizione di un sistema compiuto di autonomie, che faccia arretrare lo stato dall'invasione burocratica della società civile e riapra la "vicinanza" e la corresponsabili fra cittadini e istituzioni. La seconda riguarda la capacità di comporre le autonomie in un quadro unitario di responsabilità e di solidarietà, che garantisca in tutto lo Stato eque opportunità di sviluppo e non abbandoni i rapporti reciproci alle spinte egoistiche locali o di gruppo. Una comunità di pace infatti è una comunità di uomini liberi e responsabili, capaci di costruire insieme rapporti di condivisione e di scambio.

23. - Una terza condizione per l'educazione alla pace è lo stabilirsi di un contesto caratterizzato da un'economia per l'uomo e per la comunità. Anche l'economia infatti è una realtà strutturalmente conflittuale, perché si trova a soddisfare bisogni molteplici con risorse sempre limitate e perché la distribuzione dei beni è talora inestricabilmente legata a rapporti di forza. Già la precedente riflessione su Stato sociale ed educazione alla socialità aveva messo in luce che molti conflitti sociali nascono proprio dallo squilibrio nell'accesso ai beni della terra e possono essere affrontati solo con la rimozione delle ingiustizie, a livello mondiale e locale. Il problema però si pone dentro a ogni uomo, quando l'avere è vissuto come segno di successo e di autoaffermazione; quando il rifiuto della condivisione viene giustificato con il "merito" di chi ha accumulato beni con la propria intraprendenza, anche se la bilancia del merito è spesso truccata da condizioni di partenza disperatamente diseguali; quando la legittima soddisfazione dei bisogni personali viene sopraffatta dalla bramosia dilagante che diventa rapina e sfruttamento sistematici.
Esiste quindi un nesso profondo fra la pace e la "questione sociale" della giusta distribuzione dei beni, secondo criteri dinamici di valutazione, che tengano conto dello sviluppo tipicamente umano dei bisogni, ma anche delle condizioni di reciprocità del loro soddisfacimento, in un contesto di effettiva condivisione fraterna, che riceve forza dalla scoperta della paternità universale di Dio. Inoltre una sapiente politica economica, orientata alla pace sociale, non può accontentarsi di moltiplicare i beni materiali, ma deve contribuire all'innalzamento generalizzato della qualità della vita, al rispetto dell'ambiente e alla diffusione dei beni spirituali, che salvano dalla tristezza del consumo diventato costrizione priva di senso umano.
Una particolare attenzione va riservata al tema del lavoro, che si rivela sorgente continua di conflitti e postula il confluire delle rivendicazioni contrapposte in un "patto" condiviso. Appare dunque provvida la rete di regole dettate direttamente dallo Stato a tutela di diritti non negoziabili che toccano l'integrità e la dignità della persona che lavora (rifiuto delle discriminazioni, difesa della salute, libertà sindacale...). Al di là di tale rete però si pone il campo della contrattazione collettiva, nel quale si definiscono altre regole di condotta, non imposte dall'alto ma generate dal consenso. Educare alla pace quindi significa maturare la coscienza che lo strumento della contrattazione deve servire a fondere interessi divergenti in un obiettivo comune; a stipulare accordi che non dimentichino o cancellino le giuste rivendicazioni di altri settori, magari troppo deboli per farsi sentire, come quello dei senza-lavoro. Il controllo dell'asprezza del conflitto e del suo dilagare sociale, chiede pure che vengano utilizzati metodi di lotta adeguati al fine, senza che improvvise negazioni di servizi essenziali si ritorcano contro la comunità invece che diventare mezzo di pressione sulla reale controparte.

24. - Ma c'è un'ultima condizione, che oggi si rivela assolutamente necessaria per educare alla pace, ed è la comunicazione, intesa non semplicemente come gestione di mezzi informativi, ma come via privilegiata alla fraterna messa in comune dei pensieri, dei sentimenti, delle ragioni di vita, in un incontro libero dall'inganno e dalla violenza.
Esistono infatti conflitti interpersonali, generazionali e sociali che derivano o sono resi più acuti da una comunicazione mancante o scorretta, per cui diventa necessario approfondire e stabilire concretamente il rapporto fra educazione alla pace e comunicazione. Tale rapporto va anzitutto definito sul piano personale e interpersonale, quando la comunicazione innesca una ricerca continuamente sollecitata dalla più profonda istanza veritativa, che non prescinde dalla domanda sull'Assoluto; favorisce la formazione di convinzioni e atteggiamenti responsabili, liberi e coscienti; permette la condivisione e l'interscambio di valori comuni in base ai quali costruire la convivenza, a partire dalle comunità originarie; assicura il riconoscimento effettivo dei diritti della persona e l'educazione a viverli in modo solidale e non contrappositivo.
Sul piano invece dell'organizzazione e della gestione dei mezzi, la comunicazione educa alla pace quando offre conoscenze che garantiscano alla persona di crescere in dignità e di non essere ingannata su se stessa e sul mondo; rende possibile un'effettiva integrazione tra persone e comunità, in un contesto ormai definito di globalizzazione integrale del mondo; consente agli utenti di non essere fruitori passivi e deresponsabilizzati, ma li stimola ad essere artefici e protagonisti di cultura nella propria comunità.
C'è una comunicazione che educa alla partecipazione e quindi alla pace, perché la partecipazione induce alla condivisione e alla corresponsabilità, genera democrazia. C'è invece un circolo di informazioni nel quale troppi uomini non sanno e troppo pochi sanno e determinano ciò che gli altri devono sapere; ma esso serve soltanto a consolidare emarginazioni e sopraffazioni che minano alla radice ogni reale possibilità di pace.

Obiettivi per un progetto di educazione alla pace

25. - L'articolazione di un organico progetto di educazione alla pace chiede la definizione formale di un insieme coerente di obiettivi, che si presenti strategicamente organizzato e si traduca poi in percorsi più propriamente culturali, pedagogici e didattici, da elaborare in altre sedi. È qui sufficiente offrire alcune indicazioni essenziali, e la prima riguarda l'obiettivo del dialogo, con tutto ciò che esso comporta.
A tale proposito occorre anzitutto denunciare i limiti di una tolleranza di matrice illuministico-borghese, che presuppone un soggetto umano individuale così sicuro di sè da poter "portare" (o sop-portare) l'altro e il diverso "anche se" diverso, con magnanimità e distacco. Nella prospettiva invece di una soggettività in relazione (alla quale concorre anche il volto di Dio-Trinità e il continuo definirsi di Gesù di Nazaret in relazione al Padre), l'altro diventa un elemento di costruzione dell'identità individuale, "perchè" diverso, in quanto la sua diversità apre e arricchisce. Così perdono di significato i razzismi e le esclusioni di ogni tipo e maturano possibilità di pace in una convivenza effettivamente interetnica, interculturale, interreligiosa.

26. - Un altro obiettivo dell'educazione alla pace è individuabile nel "circolo virtuoso" che deve stabilirsi fra sobrietà e solidarietà, allo scopo di ridurre i conflitti che si generano nell'accedere al banchetto dei beni della terra. Infatti la globalizzazione e l'interdipendenza dei problemi economici ed ecologici fanno sì che ogni scelta personale abbia ripercussioni molto ampie e si traduca spesso in un aggravio di peso sulle spalle di chi è meno fortunato. Di conseguenza educare alla sobrietà nell'uso dei beni (evitando sia l'accumulo che lo spreco) diventa condizione per una più giusta distribuzione degli stessi, per oggi e per domani, e colloca la solidarietà in una prospettiva di giustizia e non di elemosina.

27. - Un'ultima indicazione può essere data circa l'obbiettivo dell'educazione alla gestione dei conflitti. Essi infatti sono un'esperienza ineliminabile del rapporto interpersonale e sociale, e la loro presenza esige che le persone maturino atteggiamenti, convinzioni e strumenti per vivere dentro la tensione in modo non distruttivo. A questo proposito sembra opportuno segnalare due percorsi. Il primo riguarda la consapevolezza dei diritti e dei doveri, che genera rapporti paritari, non permette di sbilanciare le attese soltanto sui bisogni individuali, impone che ciascuno faccia la propria parte e apre a istanze più alte, come quella del perdono. Il secondo si riferisce all'assunzione competente e responsabile del metodo democratico, in base al quale i conflitti vengono risolti non semplicemente con la forza dei numeri, ma con l'accettazione sincera e consapevole di una regola che cerca di garantire il maggior bene possibile per il maggior numero possibile di persone.

Luoghi e soggetti dell'educazione alla pace

28. - In un progetto di educazione alla pace emerge in primo luogo e con forza la responsabilità della famiglia, modulo primo e naturale della vita, cellula e paradigma della convivenza sociale. In essa l'educazione alla pace inizia con l'esperienza del "prendersi cura" della diversità di ciascuno rispetto all'altro. Ciò accade anzitutto nella relazione coniugale, quando le inevitabili ferite reciproche - tanto più crudeli perché inferte in un contesto di "prossimità" intensamente voluto - vengono riconosciute sinceramente e lenite nell'esercizio quotidiano della comprensione, della riconciliazione, del perdono.
Il percorso di accoglienza reciproca e di continua riconciliazione della coppia, ha anche il potere di ripercuotersi positivamente sui figli, per sé esposti ai traumi derivanti dalle tensioni dei genitori e talora al rischio di essere usati come "ostaggi" o oggetti di ricatto nella contesa. Nel contesto del "prendersi cura" dell'altro va però inserito anche il tema dell'accoglienza della vita, di fronte al fenomeno inquietante della denatalità che si manifesta in Italia. Tale fenomeno infatti è contrario alla cultura di pace perché spesso è segno di un conflitto fra la responsabilità verso una nuova vita e la conservazione della libertà e del benessere personali; e perché riduce le possibilità di sperimentare l'"essere fratelli" nel suo contesto primario e naturale.
L'educazione alla pace in famiglia si sviluppa poi nel modo di vivere le relazioni e i conflitti generazionali, tra genitori e figli, superando da una parte l'autoritarismo che impone senza motivare e dall'altra la tentazione di liquidare facilmente la saggezza maturata dall'esperienza di vita. Per questo occorre definire regole semplici e condivise di vita familiare, dove ciascuno possa conoscere e sperimentare diritti e doveri; e soprattutto occorre stabilire un dialogo che affronti i temi forti della vita, superando l'impaccio delle differenze in un clima fatto di accoglienza, ascolto, rispetto e amore donati senza riserva. In tale clima si rivela particolarmente il "genio" femminile dell'educare alla pace, perché la contiguità della relazione educativa con quella connessa al dono della vita (fin da quando essa è custodita nel grembo) può fondare un rapporto che porta in sé l'offerta e la certezza dell'essere accolti e amati.
Infine, la famiglia educa alla pace quando rifiuta ogni chiusura egoistica, in nome della propria quiete, e diventa luogo nel quale trovano risonanza, ascolto e risposta le sofferenze e le attese del mondo, con la collaborazione di tutti i membri. Ciò comporta scelte quali la determinazione del livello di benessere familiare con attenzione ai bisogni altrui e non solo al calcolo delle risorse possedute; la disponibilità a mantenere nell'àmbito familiare i membri che hanno bisogno di cure particolari e di aprire la casa a forme di affido, di adozione o simili; la capacità di assumere responsabilità negli spazi di partecipazione civile ed ecclesiale, particolarmente in quelli che richiedono l'esperienza di coppia o di genitori (scuola, consultori matrimoniali, ecc.). Ovviamente, perché la famiglia possa far fronte alle proprie responsabilità verso la vita e verso l'educazione, occorre anche una politica familiare che risponda all'esigenza di conciliare il lavoro con la maternità e le cure parentali; e che ponga le condizioni per un effettivo esercizio del diritto alla casa, alla salute, al lavoro e alla libertà educativa, anche in riferimento alla scelta scolastica.

29. - Accanto alla famiglia, un progetto di educazione alla pace chiede il coinvolgimento della scuola. Infatti, in un contesto di corretta sussidiarietà, la scuola si affianca alla responsabilità primaria della famiglia per proseguire l'educazione alla pace, attraverso un intervento pedagogico che ha al suo centro l'esperienza culturale. Tale compito (dal quale non va ritenuto assente il mondo universitario, pur con la specificità che lo caratterizza) riguarda anzitutto i modi concreti nei quali sono vissute le relazioni scolastiche e nei quali la scuola si inserisce nel più ampio contesto sociale, coinvolgendo i diversi soggetti in una prospettiva di "comunità educante". Si può allora "imparare la pace" a scuola, vivendo processi effettivi di partecipazione, democrazia e responsabilità nel lavoro, nel rispetto dei diversi ruoli e competenze; prendendosi cura di chi è più debole ed evitando che l'apprendimento diventi puro spazio di competizione per il successo personale e quindi radice di conflitti, invece che strumento di relazione e di aiuto reciproco.
In secondo luogo la scuola risponde al progetto di educazione alla pace con l'offerta di un "sapere per la vita", identificato nell'apprendimento dei percorsi cognitivi-valutativi e delle conoscenze che rendono possibile il distacco critico e l'autonomia personale, senza dei quali non ci sono libertà e responsabilità, e neppure cultura di pace. Ciò non significa ovviamente che il tema della pace debba configurarsi come contenuto di una particolare disciplina scolastica. È invece necessario che nella didattica e nei contenuti dei diversi saperi siano fatti emergere esperienze comunicative, quadri di riferimento e significati valoriali che possono dar vita a un'organica cultura di pace. Nella programmazione di particolari saperi poi si potranno prevedere utilmente alcune unità didattiche finalizzate ad esplicitare organicamente il tema della pace nel contesto della ricerca storica, letteraria, religiosa, filosofica, economica, geografica, ecc.

30. - L'educazione alla pace costituisce però un itinerario di formazione permanente, che deve coinvolgere tutte le esperienze nelle quali si realizza lo sviluppo integrale della persona umana, valorizzando anche dimensioni interiori e "gratuite", quali la contemplazione, la creazione e ri-creazione estetica, la riflessione sapienziale, e non solo ciò che riguarda gli aspetti sociali del conflitto.
Per questo un progetto di educazione alla pace interessa il vasto e complesso mondo dell'associazionismo, nel quale le persone di ogni età si raccolgono spontaneamente per rispondere al bisogno di continua crescita personale, di comunicazione e di socializzazione, di cultura, di esperienza religiosa, di sport e tempo libero, ecc.; o per mettere a disposizione competenze ed energie in varie forme e organizzazioni di volontariato sociale e di impegno civile, sindacale e politico. Anche tali aggregazioni infatti possono offrire percorsi esperienziali, animati dai valori che fanno crescere le possibilità di pace ad ogni livello.

Comunità cristiana e educazione alla pace

31. - La comunità cristiana si riconosce come un popolo di fratelli e di sorelle riconciliati per grazia dall'amore di Dio, nonostante le continue resistenze e cadute, attraverso la morte e la resurrezione di Cristo e con l'opera incessante dello Spirito di carità e verità. Essa quindi risponde all'invocazione umana di pace anzitutto accogliendo e celebrando nella storia il mistero della pace che viene dall'alto, e sottoponendosi alla sua potenza rinnovatrice per rendergli testimonianza davanti a tutti.
I segni di questo cammino sono dunque l'ascolto della Parola, che convoca l'umanità attorno allo svelarsi del progetto di Dio; la partecipazione, soprattutto domenicale, al banchetto del Corpo e del Sangue di Colui che ha dato se stesso per riconciliare i dispersi; la gioiosa esperienza del perdono del Padre, reso presente nel sacramento della riconciliazione; l'appartenenza a una comunità che vive, custodisce e manifesta - anche se con mezzi e gesti poveri e compromessi - una comunione che è partecipazione alla vita stessa di Dio e si apre a una fraternità senza confini; la possibilità di posare sul mondo uno sguardo che riconosce in ogni "ultimo" la presenza di Colui che si è fatto servo di tutti per amore, e quindi di offrire gesti di carità che diventano annuncio e svelamento del volto di Dio, perchè solo a Lui sia resa gloria.
L'esperienza del dono divino della riconciliazione, accolto e testimoniato, diventa per la Chiesa possibilità concreta di uno stile di vita che educa alla pace.
a) Il dono della pace va chiesto con insistenza nella preghiera e va accolto in modo particolare nella liturgia, dove Dio attualizza il suo fare grazia. È quindi importante valorizzare i segni liturgici che esprimono e fanno sperimentare il dono e l'impegno della pace, in particolare nella sequenza penitenziale di gesti di riconciliazione che preparano alla celebrazione sacramentale del perdono di Dio e da essa promanano. Il tema della pace poi, con le sue valenze di fede, trova il suo spazio naturale nei momenti formativi della vita comunitaria, nelle occasioni che convocano tutto il popolo di Dio (come la celebrazione della Giornata mondiale della pace), nelle esperienze di catechesi per ogni età e condizione, negli itinerari di formazione propri di gruppi, associazioni e movimenti ecclesiali, nelle "scuole di pace" promosse dalla comunità ecclesiale.
b) Le comunità cristiane sono chiamate a una costante attenzione verso i problemi della pace nel mondo, con un duplice obbiettivo: operare su di essi un discernimento sapienziale di fede, dal quale derivino motivi di conversione e di impegno; e esprimere nei loro confronti prese di posizione e gesti di partecipazione visibili e coerenti, anche incoraggiando scelte generose come quelle della non violenza, dell'obiezione di coscienza, dell'autotassazione a vantaggio dei poveri ecc. Questo impegno, che ha la sua sede naturale nei Consigli pastorali parrocchiali e diocesani, chiede la valorizzazione delle competenze dei laici cristiani e delle aggregazioni laicali ecclesiali e un dialogo fiducioso e collaborativo con i movimenti e le organizzazioni a favore della pace che operano nella società civile.
c) Nella comunità cristiana si incontrano gruppi e persone che interpretano in modi diversi il cammino di fede e il rapporto con il mondo; non di rado tale diversità diventa motivo di dubbi incrociati e di scarsa collaborazione, rischiando anche di rendere meno efficace la testimonianza della comunione. Lo stile di pace esige allora che ogni posizione accetti di subordinarsi

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