Famiglia Giovani Anziani

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Domenica, 06 Giugno 2010 09:18

“Iniziare” a vivere in due: Dono e Progetto

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Perché uno sposalizio per dare avvio alla missione di Gesù? E perché l’origine del suo ministero ha avuto bisogno del segno delle nozze per rivelarsi? Non c’è forse una reciproca illuminazione e una feconda benedizione tra “iniziare la vita a due” e “l’inizio dei segni che Gesù fece”?

 La vita dei primi mesi però era stata concitata. Avevano dovuto organizzarsi lontano dalla famiglia, tra lavoro e casa. Qualcuno degli amici non era ancora sposato e li invitava spesso ad uscire. L’inizio — dopo un’entusiasmante luna di miele — era stato un po’ trafelato. Lui rivelava qualche difficoltà per non avere più la mamma che gli preparava tutto, lei non voleva coccolarlo subito, nascondendogli le corse che faceva per tenere insieme casa e ufficio. Del resto lei era un tipo preciso e non transigeva sull’ordine dell’abitazione.

Ai nostri due sposi di soli nove mesi era venuta persino la voglia di andare a salutare gli amici del corso. Sarebbe piaciuto loro rinverdire la tenerezza dei momenti di preparazione. Era come riaprire uno squarcio sull’incanto dell’inizio. Una sera avevano deciso di andarvi, ma era arrivato Mario in difficoltà con la sua ragazza. Era del giro degli amici, doveva sposarsi tra sei mesi, ma alla madre di lei non piaceva la cucina scelta da loro due. Ne era venuta una lite furibonda. Mario chiedeva asilo per trovare conforto. Ormai dovevano sposarsi e questa non ci voleva. Così quella sera non s’erano potuti recare in parrocchia per salutare gli amici.

Il giorno dopo a cena — commentando la mancata occasione — si dicevano tra loro: «Peccato che non siamo riusciti ad andare al corso ieri sera! Era stato così bello l’anno passato. Il parroco e le coppie avevano fatto la proposta di rivedersi qualche volta». Poi però non si era sentito più nulla...

Sembra una storia capitata molte volte e confermata anche dalla statistiche. Nei primi dieci anni del matrimonio la vita della coppia e della famiglia appare la più remota alla pastorale della chiesa. Coppia e Chiesa sembrano camminare su due binari paralleli. Capita di rivedersi per qualche breve incontro per il battesimo del primo figlio, ma poi l’effetto tornado del piccolo accentua la separazione. Chissà forse fino alla prima comunione del ragazzo.

Questa storia paradigmatica avvenuta molte volte, forse con leggere varianti, mi ha spinto a fermare l’attenzione su questo momento decisivo della vita della famiglia: i primi dieci anni del matrimonio. E lo vorrei fare ora soffermandomi sui due momenti di grazia di questi primi dieci anni: l‘inizio della vita a due e l’arrivo del primo figlio. Mi sono lasciato ispirare da un testo biblico che parla degli inizi, anzi dell’inaugurazione del ministero di Gesù e questo — secondo l’evangelista Giovanni — avviene proprio a Cana per una festa di nozze. Mi sono chiesto: perché uno sposalizio per dare avvio alla missione di Gesù? E perché l’origine del suo ministero ha avuto bisogno del segno delle nozze per rivelarsi? Non c’è forse una reciproca illuminazione e una feconda benedizione tra “iniziare la vita a due” e “l’inizio dei segni che Gesù fece”? Mi sono avvicinato al testo delle nozze di Cana e con mia grande sorpresa mi è venuto il canovaccio dei pensieri che cercavo. Seguendo il racconto evangelico narrerò che cosa significa “iniziare a vivere in due”. Un racconto con il racconto— in cinque tappe — è ciò che vi offro per il vostro cammino.

 1. Il primo dei “segni”: l’inizio del cammino.

    Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli (semêia) in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

    Il cosiddetto miracolo di Cana termina con un’annotazione dell’evangelista di sorprendente bellezza Egli dice al lettore: Gesù, con un’azione prodigiosa a uno sposalizio, dà inizio ai suoi segni (semêia), manifesta la sua gloria e suscita la fede dei suoi discepoli. Il primo segno che apre la missione di Cristo è quello delle nozze e dell’abbondanza del vino che minaccia di mancare nel giorno delle nozze. Potremmo dire che l’occasione delle nozze di Cana dà avvio alla missione di Gesù e l’inizio del ministero di Cristo ha bisogno del rito festoso del matrimonio per muovere i primi passi. Un rito di nozze apre la porta allo Sposo che viene per il suo popolo, ma lo Sposo quando viene dona il vino in abbondanza al tempo delle nozze! E lo stesso evangelista che lo sottolinea concludendo il racconto dell’episodio. Mentre con un matrimonio Gesù inaugura i suoi segni, proprio lì manifesta la sua gloria e apre il cammino della fede. Mi pare allora che possiamo anche noi partire da qui per comprendere le dinamiche dell’inizio della vita a due.

    1.1 -  Dare inizio: l‘approdo e la partenza. Il nostro testo dice che Gesù “dà inizio” ai suoi segni/miracoli con le nozze di Cana. Osservate: sono miracoli che diventano segni e sono segni che si esprimono in miracoli. Per di più, dei sette segni miracolosi che Giovanni racconta nel “Libro dei segni”, tre sono una variante molto simile a quella dei rispettivi miracoli dei Sinottici, tre corrispondono a un tipo di miracoli che si trova negli altri vangeli, solo questo segno non ha parallelo nella tradizione evangelica. E con questo Gesù dà inizio ai suoi segni, quasi una preparazione al grande segno dell’ora della Pasqua.

    Si tratta quindi di un segno speciale che è capace di “dire l’inizio”. Ed effettivamente è così: l’amore di uomo-donna, la forma con cui essi si consegnano l’uno all’altro per la vita sono una delle esperienze originarie dell’esistenza, con la quale si “dice l’inizio” e si “dà inizio” alla vita. Per questo il gesto del rito del matrimonio appare un punto di approdo e un punto di partenza. E’ un gesto con cui l’uomo e la donna toccano il mistero della vita, si slanciano al di là del loro essere soggetti di bisogno e diventano capaci di relazione e di donazione. Perciò Gesù ha bisogno di dire anche l’inizio del suo cammino in mezzo a noi mediante il “segno” le nozze, perché a partire da qui continuerà a trasformare l’uomo da affamato, assetato, bisognoso di luce e guida, di consolazione e perdono in un discepolo che crede e cammina, si affida e ascolta e, alla fine, si dona. In ogni cultura il matrimonio è sempre stato circondato dalla preparazione e dalla festa, segnato dalla separazione e dall’abbandono della casa paterna. E custodito con una serie infinita di riti che dicono l’approdo e la partenza. Anche nella nostra esperienza attuale, nonostante il consumismo sfrenato che pervade la preparazione al matrimonio, resta nell’esistenza dei due coniugi un barlume del fatto che il matrimonio è l’approdo sognato, il porto sicuro, l’arrivo atteso. Forse meno chiara è oggi l’esperienza che le nozze sono un punto di partenza. Un momento in cui si dà avvio a qualcosa di nuovo. I due arrivano così stremati al giorno del matrimonio, che ne sono così come storditi, trascinati dall’abbraccio benevolente e talvolta anche soffocante di mamme e zie, di nonne e parenti vari. Così che la “luna di miele”, il tempo che la sapienza culturale prevede per “dare inizio”, è diventato di più un tempo di riposo che un cammino che fa partire. Bisogna accorgerci che in ogni caso il matrimonio per l’aspetto più importante è un punto d’inizio, anzi d’una partenza che oggi ha il tratto di un avvio esaltante e faticoso.

    1.2 -   Manifestare la gloria: ascoltare la chiamata. Per questo Gesù aggiunge che, dando inizio ai suoi segni, manifestò la sua gloria. Gesù rivela la sua presenza gloriosa, la sua vicinanza amorevole per tutti noi proprio nel segno delle nozze. Certo a questo punto il lettore evangelico ha già letto il racconto e sa che la presenza di Cristo si è rivelata nel ridare splendore alle nozze di Cana che correvano il rischio di finire in un... fiasco! Prima di manifestare la sua gloria a noi, l’arrivo di Cristo si rivela nella gioia dell’amico dello sposo. Dirà più avanti l’evangelista, mettendo l’espressione sulla bocca di Giovanni Battista: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta.» (Gv 3,29). Tutto nel momento del matrimonio è teso verso la gioia, che è l’incontro dello sposo con la sposa. Anche coloro che sono presenti devono custodire e favorire quest’abbraccio. Soprattutto la figura dell’”amico dello sposo” che aveva la duplice funzione di preparare il rito della festa e custodire l’integrità della sposa è colui che gioisce, perché è “presente e ascolta” ed “esulta di gioia alla voce dello sposo”. C’è un bellissimo effetto di sovrapposizione tra la gioia per le nozze dei due sposi e l’esultanza per l’arrivo dello Sposo che è Gesù, che incontra finalmente la sposa, il suo popolo diletto. C’è un tripudio che esige attenta preparazione e festosa accoglienza. Ma c’è soprattutto bisogno di favorire l’ascolto della voce dello sposo: “Ecco lo sposo, viene!”. Per questo con assoluta naturalezza tutti si ritraggono quasi ad ascoltare la voce dello Sposo che viene...

    Anche nelle nozze umane v’è una sorta di stupito pudore che ci fa mettere in disparte perché i due novelli sposi sappiano ascoltare la voce dell’uno e dell’altro che parla, che dice parole e gesti di consegna. I primi tempi sono facili all’ascolto, le parole e i gesti sono sciolti e naturali, ma oggi, quando sovente si arriva al matrimonio dopo un (lungo) periodo di convivenza, capita che l’esperienza dei primi tempi del matrimonio sia già logorata. Per questo come a Cana si ascolta la voce dello Sposo che viene, così anche gli sposi novelli devono riascoltare il sogno e il progetto contenuto nella promessa del loro incontro. Questo significa dare inizio alla vita a due. Nella voce dell’altro occorre riascoltare la chiamata che viene dall’Altro, da Colui che invita a custodirne il tesoro. Proprio ora che è facile parlarsi, abbracciarsi e scambiarsi gesti e sentimenti di amore, bisogna imparare ad ascoltare la voce, a non avere la fretta del “tutto e subito”, a prendere ritmo e concedere spazi a sé e all’altro, a saper farsi prossimo dell’altro con una vicinanza non soffocante, ma liberante. Tra le molte cose che facciamo nei primi tempi, sovente trascinati dal mimetismo sociale del “fan tutti così”, occorre imparare a dedicare uno spazio per dire come è bello aver iniziato a vivere insieme.

    1.3 -  La fede dei discepoli: il tempo compiuto e la fede. Il terzo tratto, contenuto nel commento dell’evangelista a piede del racconto di Cana, dice: “e i suoi discepoli credettero in Lui”. Se si ascolta quanto avviene nell’incontro con l’altro o l’altra, se si guarda alla tenerezza che i due sposi novelli si scambiano, il dono promesso comincia a dispiegare i suoi frutti benefici. L’incontro tra i due porta con sé una forza e un’energia che richiede di essere accolta. La chiamata contenuta nel dono dell’uomo alla donna sprigiona una voce che invita ad essere ascoltata e seguita. Anche qui abbiamo una bellissima sovrapposizione: le nozze di Cana salvate da Gesù aprono i discepoli alla fede, l’incontro degli sposi apre la fiducia tra i due al cammino della fede. Sappiamo che - soprattutto oggi - le strade che conducono al matrimonio sono sentieri irti di fughe e deviazioni. L’adolescenza e ampie regioni della giovinezza sono oggi, per molte persone, spazi deserti per la fede, la preghiera, l’ascolto, la confidenza, il perdono. E anche quando, grazie a Dio, vi sono giovani che hanno fatto nella giovinezza un percorso di ricerca e di costruzione di una profonda interiorità, questo assume i tratti affidabili del cammino di gruppo, dell’esperienza emotivamente forte dei campi scuola, delle giornate della gioventù e di esperienze straordinarie, che ora - nel momento delle nozze - devono “prendere casa”, in qualche modo addomesticarsi, assumere i tratti del cammino normale della vita quotidiana. Per questo dare “inizio alla vita a due” è un tempo propizio per ritornare a credere. Bisogna dirlo con forza a tutti: la casa, l’incontro, l’atmosfera dell’amore personale è un tempo nuovo per la fede.

    2. Ci fu uno "sposalizio a Cana": la festa e il tempo nuovo

      Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.

      Come si è visto, il commento dell’evangelista alla fine della narrazione contiene il senso di tutto racconto. Ora si tratta di leggerlo con calma per cogliere nella perla preziosa l’iridescenza di tuffi i colori. E partiamo dunque dall’inizio. Il racconto si apre con la notizia delle nozze a Cana. Non si fa cenno a quale legame ci fosse con l’ambiente familiare di Gesù. Si parla soltanto della presenza della madre di Gesù e dell’invito fatto a Gesù con i suoi discepoli. L’accento cade dunque sullo sposalizio, sulla madre e sull’invitato di riguardo, Gesù che viene con i suoi discepoli. Attorno a questi tre elementi è possibile raccogliere il senso del matrimonio come punto di partenza.

      2.1 Il duplice segno: le nozze e il vino nuovo (la Sapienza). Lo sposalizio di Cana è caratterizzato da un duplice segno (le nozze e il vino nuovo), rinforzato da un’indicazione di tempo (dopo tre giorni). Il centro dell’episodio è certamente il cambiamento dell’acqua in vino. Un segno che ha sempre stupito i lettori di ogni tempo, ma che si avvicina molto alla moltiplicazione dei pani. Sono due gesti simili e, se il primo è attestato nei vangeli con sei menzioni, questo episodio ricorre solo nel vangelo di Giovanni. Entrambi i prodigi trovano somiglianze nel ciclo di Elia ed Eliseo (2Re 4,42-44 e 1Re 17,1-6 e 2Re 4,1-7: moltiplicazione dei pani, della farina e dell’olio). Qui il cambiamento dell’acqua nel vino nuovo avviene durante uno sposalizio. Entrambi i simboli sono molto familiari al lettore educato nell’atmosfera biblica. Il simbolismo delle nozze nell’AT dice la pienezza dei tempi del Messia. Infatti, sia le nozze che il banchetto sono i grandi segni per dire che è venuto il tempo del Regno, della prossimità di Dio (Mt 8,11; 22,1-14; Lc 22,16-18). Lo stesso Giovanni parlerà delle nozze dell’Agnello nell’Apocalisse (19,9). Il simbolismo del vino nuovo presente in abbondanza si trova anche negli altri vangeli, quando Gesù, proprio all’inizio del ministero, nel contesto di un banchetto (Mc 2,19) parlerà del vino nuovo in otri vecchi per paragonare il suo insegnamento con le abitudini dei farisei. Due simboli per dire che ora si apre un tempo e un insegnamento nuovo. Sono due segni della gioia e dell’abbondanza della nuova economia legata dalla venuta di Gesù.

      Questo è il dono del matrimonio che simbolizza l’inizio del ministero di Gesù. L’evangelista può dire tutto ciò perché sa che i due simboli sono segno della meraviglia contenuta nell’inizio. Anzi, questi due segni sono collegati dal contesto alla tema della Sapienza (Pv 9,5), che imbandisce un banchetto per gli uomini, invitandoli a mangiare il suo pane e a bere il suo vino. Le nozze preparano, dunque, un banchetto che dispensa il sapere della vita. E’ questo il primo momento del matrimonio, che la tradizione cristiana enumera tra i doni del matrimonio: la sacramentalità (accanto alla fedeltà e alla fecondità). Potremmo tradurla con un linguaggio moderno: nel segno della pienezza (significata dalle nozze e dall’abbondanza del vino) il matrimonio è quel cammino che dischiude l’esperienza di un amore personale.

      Se c’è una singolarità dell’inizio della vita a due è che nei primi anni gli sposi novelli fanno una particolare esperienza dell’amore personale. Essi sperimenta- no appunto la pienezza dell’essersi fidati, accolti, consegnati l’uno all’altra. Certo nella fase del fidanzamento questo era già fortemente presente, persino in modo travolgente. Si poteva correre il rischio di pensare che la forza trascinante dell’eros, dell’attrazione fisica, psichica e spirituale desse buona prova della bontà della relazione personale. La “prova” è una delle parole che forse ricorre di più nel fidanzamento: uno ha bisogno quasi di un segno corporeo dell’amore dell’altro, vuole provare prima di tuffo a sé che l’altro è fatto per lui. Lo stesso dilagare del fenomeno della convivenza dice questo bisogno di “provare”. Ma questo può contenere un’illusione: il difetto ottico di confondere “esperimento” con “esperienza”. Per quanto si possa sperimentare prima, l’esperimento dell’altro non potrà mai dire che cosa succede dopo. Non solo ciò che avverrà molto più avanti negli anni, ma già da subito quando l’incontro diventa comunione stabile di vita. Qui si è in qualche modo posti nella condizione di fare “esperienza”, cioè di costruire un cammino comune che non solo metta alla prova l’altro, ma si affidi alla promessa contenuta nel cammino.

      Per questo nei primi armi della vita a due si fa esperienza dell’amore personale. Chiudendo la prima sera la porta della propria casa, tornando con la valigia piena di cose alla rinfusa dopo il viaggio di nozze, allora comincia l’esperienza della vita insieme. Prima ne abbiamo solo una sua rappresentazione idealizzata. Essa è bella, persino necessaria, ma ancora insufficiente, perché da quel momento si è insieme così come si è. Anzi come si è capaci di sognare e progettare con un cuor solo e un’anima sola. Il dono diventa promessa, la promessa richiede di mettersi in cammino. Per questo i primi anni di matrimonio sono il tempo magico per costruire la casa, la sua atmosfera, il suo clima, la capacità di fidarsi e affidarsi ogni giorno, di attendere alla sera con cuore ardente lo sposo, di svegliarsi il mattino ringraziando il Signore che ci ha fatto dono di chi ci sta accanto. Sì proprio lei tra le mille che ho incontrato; sì proprio lui tra i molti che mi hanno chiesto la mano. Far esperienza dell’amore personale significa allora la tenerezza, la gratuità, la capacità di prevenire, il desiderio di attendere e ascoltare, lo sforzo di prendere il passo dell’altro/a, la gioia di ringraziare, di dire all’altro come sia capace di riempirmi la vita e di aprire ogni giorno davanti ai miei occhi un orizzonte sconfinato. Questo è la sapienza dei primi anni di matrimonio che anche la chiesa deve abitare, incoraggiare, suggerire. Per questo la parola cristiana deve saper dire parole sapienti per questa stagione della vita, perché la sapienza che due giovani sposi saprebbero raccontarci sarebbe istruttiva per attendere “lo Sposo ardente che viene a sera!”

      2.2 La presenza che genera: la madre di Gesù. L’evangelista poi annota in modo enfatico che “c’era la madre di Gesù”. Colpisce la centralità di questa presenza, che richiama lo “stare presso la croce” della madre sua. Essa allude alla presenza silenziosa del padre e della madre degli sposi. Il “matrimonio” è appunto il matris mumus, l’ufficio della madre, il momento in cui la maternità genera sempre di nuovo. Dopo la generazione fisica della nascita e psichica nell’adolescenza, le nozze sono la generazione alla partenza per la vita. Per questo il matrimonio è presidiato dalla figura della madre. Alla pari il “patrimonio”, il patris munus, è la dotazione del padre che, prima di essere la casa e i beni, consiste in quella capacità di responsabilità della vita, senza della quale non si può partire per l’avventura dell’esistenza. La sua mancanza farebbe svanire come neve al sole anche il patrimonio più ricco. Qui si tratta però non della madre dello sposo, ma della madre di Gesù. Forse perché — come si vedrà — la madre di Gesù fa da spola tra il segno del matrimonio e la realtà della presenza di Cristo.

      In ogni caso, appartiene in modo indelebile ai primi anni della vita a due la presenza della famiglia d’origine. Essa non è solo al centro nel giorno del matrimonio, con giustificato orgoglio, ma c’entra spesso anche nella prima fase della vita a due. E facile osservare quanto sia singolare il seguente fenomeno: se prima non si vedeva l’ora di partire dalla casa (paterna), appena sposati c’è una sorte di irresistibile attrazione per la casa (materna). Ma non bisogna temere questo “ritorno a casa”: se ben vissuto è una forza positiva, perché esprime il debito nei confronti della vita d’origine. Come ogni cosa ad alto tasso di investimento personale, può capovolgersi nel suo contrario. I genitori non sono (stati) soltanto all’origine della vita, ma non smettono di generarci ogni giorno. Diventa particolarmente importante “come si parte” dalla casa paterna: «per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola» (Gn 2, 24). E un abbandono che lascia la condizione di dipendenza filiale, per aprire lo spazio ad una giusta autonomia, per unirsi a un’altra persona e sognare insieme un destino comune. Non viene meno la relazione con il padre e la madre, neppure viene meno il proprio essere filiale. Si nasce figli e tale relazione rimane per tutta la vita! Ma una volta fatta una scelta di vita, anzi per poter decidere in modo maturo il proprio futuro, è necessario lasciare il padre e la madre, per diventare a propria volta capaci di generare vita. Si manterrà l’affetto, resterà la gratitudine, il quarto comandamento non cadrà in oblio, ma ciò avverrà da persone ormai diventate grandi.

      2.3 L’ospite invitato: Gesù con suoi discepoli. C’è un terzo tratto che l’evangelista annota tra le presenze che non possono mancare: «fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli». Dal punto di vista narrativo è sorprendete quanto si dice. La madre c’era, forse perché parente, come suggerisce costantemente la tradizione. Ma Gesù fu invitato con i suoi, quelli che nel primo capitolo del Vangelo si sono associati a Gesù per ascoltare, vedere e dimorare presso di Lui. Ai suoi che gli chiedono “Maestro dove abiti?”, Gesù risponde: “Venite e vedrete”. Agli sposi che l’invitano, Gesù prende dimora presso la loro casa come l’ospite di riguardo, invitato per il giorno più bello. Gesù è il Terzo del giorno del matrimonio. Non viene mai da solo, porta con sé i suoi discepoli

      Nella sua disarmante semplicità, questo testo dice la grazia intima del giorno del matrimonio: poter avere Lui tra gli ospiti attesi e con lui la sua nuova comunità. Sembra un silenzioso anticipo di ciò che avverrà dopo. La presenza del misterioso invitato che arriva con un drappello di discepoli, la nuova comunità che gravita attorno a lui. E si insedia nel bel mezzo del matrimonio, forse sconvolgendo - come dice qualche esegeta - anche i calcoli del vino necessario per la festa. Anche questa piccola notizia, che è narrata quasi en passant, è importante per dire i personaggi che popolano i primi anni dell’amore personale. Occorre aprire la porta all’ospite misterioso, correggere il regime di appartamento tenendo la casa aperta ad una presenza che viene da altrove. E oltre ad essa alla fila di amici che porta con sé.

      Appartiene all’esperienza dell’inizio della vita a due anche quest’apertura della casa. L’inizio della vita di coppia è contrassegnato da un movimento centripeto. Finito il giro degli amici a cui mostrare la casa nuova, l’arredamento in stile italiano, il televisore in dolby soundround e ogni altra meraviglia moderna, poco a poco vince la fatica della giornata. La domenica si va da mamma, così la nuova casa resta intatta. L’ultima volta che sono venuti gli amici hanno lasciato l’ambiente come l’orto di Renzo. Questo però è il tempo di aprire le porte a nuove forme d’incontro, di predispone il canale comunicativo con nuove amicizie. Magari si sono conosciute altre coppie e ne è venuta la voglia si vedersi almeno ogni tanto. Forse don Carlo s’è rifatto vivo per riprendere l’idea di un gruppo di giovani sposi. Si vede chiaramente la possibilità di una ripresa anche della pratica della fede e di fare spazio nuovo all’incontro con Cristo, ormai da persone grandi che cominciano a pensare alla vita in formato di dono e progetto. E questo incontro ha un luogo, la comunità che si riunisce attorno a Gesù. Per questo bisogna prevedere che ci sia sempre un posto a tavola pronto, come fanno ancora oggi i fratelli maggiori ebrei. Chissà che non venga Lui, e certamente non verrà da solo. I tre momenti descritti ricordano alcune esperienze dell’inizio che possono far decollare con slancio la vita a due. Sono decisivi per creare l’atmosfera per il futuro della vita comune. Quando verranno i bimbi troveranno il clima di una casa accogliente e stimolante. L’atmosfera non si può improvvisare e alla città-mercato non si vende.

      3. “Non hanno più il vino”: il sogno e la realtà.

        Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». E Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora».

        Finalmente l’azione si muove. E si snoda sotto il segno della sorpresa. Accade l’irreparabile, viene a mancare il vino. La notizia, tra i bisbigli dei parenti, raggiunge la madre di Gesù. Maria prende l’iniziativa, non può lasciar rovinare le nozze. E interviene con una constatazione sbrigativa: «Non hanno più vino». La condizione del “non avere” è indicata da Giovanni come una mancanza e un’attesa: la mancanza di vita buona e felice e l’attesa che qualcuno la colmi. Ricordiamo il «non ho marito» della Samaritana (4,17) o il «Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina» del paralitico alla piscina probatica (5,7). A questa condizione di indigenza dà voce Maria, definita ancora con il nome di madre di Gesù. Essa sembra premere sul Figlio, per generarlo non solo alla vita ma anche alla missione. L’invocazione di Maria riceve per tutta risposta una presa di distanza da parte di Gesù, ma la risposta del Figlio introduce due temi importanti, che sono come il filo d’oro del nostro brano: l’appellativo “donna” e il termine “ora”. Essi ci guideranno nel leggere la parte centrale del testo, in questo e nel successivo paragrafo.

        3.1 Il vino consumato: quando la realtà irrompe nel sogno. L’inizio dell’azione avviene con una constatazione della madre, che dà voce allo sconcerto generale: «Non hanno più vino». La ragione non è spiegata, è solo registrato il fatto. La frase rivolta a Gesù - secondo alcuni esegeti - potrebbe avere anche il tono di rimprovero, perché l’arrivo di Gesù con i discepoli ha sconvolto le previsioni degli sposi. Il rimprovero potrebbe riferirsi persino al fatto che il gruppo si sarebbe presentato a mani vuote. E secondo alcuni il vino apparteneva al novero dei regali per rendere più bella la festa. Giovanni giocherebbe sull’ironia: Gesù viene con i suoi discepoli senza portare nulla e fa saltare anche i calcoli del maestro di tavola. Ma forse sono solo ipotesi fantasiose.

        A questo punto mi piace ricordare che il codice Sinaitico, assieme a pochi altri, registra una versione più lunga del testo, quasi una spiegazione della perentoria affermazione del racconto attuale: «Ormai essi non avevano più vino, perché il vino provveduto per la festa era stato consumato». Questa glossa esplicativa sembra voler rendere ragione dall’assenza di vino a un certo punto della festa. Il testo più lungo spiega: “il vino provveduto era stato consumato”. E una bella espressione che sembra chiarire bene non solo quello che avviene nel giorno del matrimonio, ma anche nei primi passi della vita a due: la gioia della festa e il vino in abbondanza vengono meno, si consumano pian piano.

        Appartiene all’esperienza dei primi armi del matrimonio anche questa prima esperienza di mancanza, di indigenza, talvolta persino di logoramento. Niente in tutto ciò dell’esperienza traumatica del conflitto e della solitudine che esplode a volte quando i figli stanno diventando grandi. Tuttavia l’aumento dei matrimoni brevi, la fine improvvisa di un fidanzamento durato a lungo, dopo non molti anni, se non appena dopo pochi mesi dal matrimonio, richiede di sostare un momento su questa specifica forma di crisi. E’ l’altra faccia dell’esperienza travolgente e sognante dell’inizio della vita a due. Come ogni cosa grande essa porta con sé la possibilità di capovolgersi nel suo contrario. Succede quando l’esperienza intensa e intima dell’amore personale viene consumato con voracità, quasi con ingordigia, senza prendere il respiro, senza interporre un momento di pausa, di silenzio, di attesa.

        E bella l’espressione sopra ricordata: “il vino provveduto per la festa era stato consumato”: l’amore personale non può essere consumato, quasi trangugiandolo a grandi sorsate, fin che stordisce e genera assuefazione. Occorre invece prendere ritmo anche nei gesti dell’amore, accompagnarli con i momenti simbolici della parola, dell’attenzione, del riposo, della festa, dell’apertura a un servizio alla comunità e al bisogno del fratello. In una parola, l’inizio della vita a due richiede di distendersi nel tempo. Si può offrire una regola semplice ma importante: l’unità di misura delle nostre emozioni e della nostra esperienza non può avere l’orizzonte ristretto di una giornata, ma deve guardare alla settimana o forse a un periodo più grande. Dentro questo sguardo devono stare insieme la tenerezza e l’attesa, la parola e il silenzio, la gioia e La fatica, il divertimento e il lavoro, la cura della casa e l’apertura verso gli altri. La fisiologia dell’inizio della vita a due sta nella giusta armonia di questi aspetti. Se osserviamo che sono scompensati, la vita quotidiana prima o poi presenterà il conto. E questo il periodo in cui la realtà irrompe nel sogno: sognare che non sia così, vuol dire farsi travolgere dalla realtà, ma la vita di ogni giorno è la verità del sogno, aiuta pian piano a far passare dall’esperimento all’esperienza. Quella che resterà anche domani!

        3.2 L’invocazione della madre: quando la famiglia non lascia partire. La madre di Gesù appare a Cana e solo in un altro episodio, presso la croce. In ambedue i casi la madre ha a che fare con la “generazione” di Gesù. A Cana la fiducia della madre irrompe con la freschezza di chi sa che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37). Maria pare voler “generare” il figlio anche al ministero, si dà da fare con la fiducia ansiosa, tipica di molte madri, perché Gesù intervenga subito e bene per salvare il matrimonio. A questo punto, non sappiamo ancora a quale lungo calvario dovrà sottoporsi l’ardimento di Maria, con quale sofferenza la madre potrà generare l’uomo nuovo Gesù. Intanto ora Maria si fa avanti con il piglio sicuro di chi sa che Gesù può fare grandi cose. La madre fa la spola tra lo sposalizio di Cana e l’inizio del ministero di Gesù: vuole far intervenire il Figlio come un taumaturgo che risolve la situazione, ma Gesù si sottrae a questa pretesa, perché non è ancora giunta la sua ora. L’intercessione di Maria deve prendere la forma dell’attesa confidente, della consegna ai tempi del Figlio.

        Anche questo tema trova nell’esperienza dei primi tempi del matrimonio un’analogia nel rapporto degli sposi con la famiglia d’origine. E un tema molto delicato, che porta con sé grandi opportunità, ma genera anche sofferenza. Abbiamo detto sopra che “lasciare il padre e la madre” non significa rompere la relazione con la famiglia d’origine, ma trovarne una più matura. Per i genitori, soprattutto per la madre - a stare alle statistiche - è difficile “lasciar essere” e “lasciare andare”. Molti sono i fili del sottile legame che si instaura soprattutto con il figlio maschio, dalla normale visita al pranzo domenicale, dalla telefonata piena di buoni consigli alle osservazioni più o meno critiche sulle scelte della moglie. Ma soprattutto quando verranno i bimbi, il rapporto di aiuto per la custodia dei nipotini si trasforma sovente in credito affettivo, che chiederà domani tempo per vederli e per averli con sé. Né si pensi che la distanza fisica dalla casa paterna sia sufficiente a trovare il giusto distacco che crea la buona autonomia. Questa è uno spazio dell’anima che si fa strada tra il legame soffocante e la separazione chirurgica e trova la via stretta che conduce a una buona relazione, fatta di momenti specifici per la vita di coppia e momenti di relazione con la famiglia d’origine. Soprattutto la domenica è il momento in cui i due sposi possono stare insieme per l’ascolto, la preghiera, il riposo, il pranzo, per addomesticare la casa e renderla uno spazio d’incontro personale.

        3.3 L’ora del figlio: quando bisogna scegliere il futuro. La risposta di Gesù è di quelle che gelano l’atmosfera: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora». Gesù si tira indietro, non si lascia catturare dal desiderio della madre, sembra sottrarsi alla sua pretesa di generarlo non solo alla vita, ma anche al ministero. Gesù ha i suoi tempi, soprattutto «non è ancora giunta la sua ora». E’ qui che appaiono le due parole già ricordate: l’invocazione “donna” e il termine “ora”. Saranno come il filo d’oro del nostro cammino. Se la madre spinge per ottenere dal Figlio un segno, cosa che poi Gesù farà, ciò però non può avvenire a motivo della richiesta di Maria. Prima di compiere questo segno, Gesù deve rendere ben chiaro che il futuro del figlio non dipende dall’invocazione della madre, ma dalla sovranità del Padre.

        All’osservatore attento sovviene un’associazione mentale, che ritrae una situazione simile. Ripensa alla scena del ritrovamento di Gesù al tempio. Anche qui l’atteggiamento di Gesù nei confronti di Maria appare sconcertante. Sembra ben descrivere il senso di molti dialoghi che circolano tra genitori e figli. «“Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma essi non compresero le sue parole» (Lc 2,48-50). La domanda preoccupata di Maria: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» manifesta l’amara scoperta che il figlio non le appartiene più (come prima) e, insieme, l’angoscia che la ricerca di un nuovo rapporto suscita nella madre. Gesù deve occuparsi delle cose del Padre suo. La madre lo cerca ancora come il figlio obbediente, ma lo deve ritrovare come il Figlio che sta nella relazione con il Padre. Riscoprendolo così, scopre anche lei di essere chiamata a un’obbedienza e a una fede più grande. Non è un caso che tale messaggio sia consegnato all’esperienza della maternità. Essa comporta una seconda generazione che esige il distacco dal figlio: non più solo il distacco fisico, ma anche quello psichico e vocazionale.

        Anche quest’ultima esperienza in cui si mostra la sovranità dell’iniziativa di Gesù nella sua relazione al (le cose) del Padre, manifesta un tratto sorprendente che ha nella presenza del padre la sua analogia più bella. Gesù può dire che egli è il primo di quelli la cui vera generazione non è da sangue, nè da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio (Gv 1,13), solo perché l’esperienza dell’umana paternità allude già a quel futuro che il figlio dovrà scegliere. Così anche i padri umani in genere sono quelli che suggeriscono più facilmente che il figlio (figlia) sposato “deve fare la sua vita”, perché il padre in qualche modo indica la vita che chiama, la vocazione. La debolezza delle figura paterna genera oggi una difficoltà a lasciare la famiglia d’origine e si esprime in quei “ritorni a casa”, tanto inspiegabili quanto improvvisi. L’ora del figlio può prodursi come una decisione che non riguarda solo il momento del matrimonio, ma quelle piccole scelte della vita a due nei primi anni vissuti insieme, che danno forma al progetto di vita comune. Perché questa è in fondo l’ora del figlio: che i due sposi scelgano non solo la vocazione del matrimonio, ma il matrimonio come vocazione. Che imparino cioè a dare un volto singolare alla loro vita a due, la quale, pur partendo dalla casa paterna, possa dire di nuovo sì al mistero della vita.

        4. “Fate quello che vi dirà”: il futuro che uscirà da lei.

          La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà». Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo.

          La madre, per nulla scoraggiata dalla risposta di Gesù, interviene di nuovo e dice rivolta ai servi: «Fate quello che vi dirà». Nelle parole di Maria c’è tutto lo slancio sconfinato della fede. Esse hanno la forma di un comando, di una perentoria indicazione data ai servi («Fate quello...»). Viene alla mente il paradosso evangelico: «Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: “Levati e gettati nel mare”, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato» (Mc 11,22-23). Tuttavia il contenuto del comando è totalmente consegnato a Gesù, alla sua parola, ai modi e ai tempi che egli sceglierà (“…quello che [Lui] vi dirà»). Così è la fede di Maria, questa fede iniziale coraggiosa e piena di iniziativa, ma che si lascia svuotare radicalmente nel suo volere e rimanda alla parola di Gesù, alla sua ora, al suo tempo. La madre che prima voleva anticipare i tempi e i momenti, pareva forzare alla generazione del tempo nuovo, dell’”ora” del Figlio, diventa la madre che genera “lasciando essere”, che si assoggetta alla passività del tempo, che si sottopone all’apprendistato della parola, che usa il verbo al futuro («...che vi dirà»). Per questo dicevamo che Maria fa da spola tra le nozze umane e il primo dei segni che manifesta la gloria del Figlio. Nella carne della “donna-madre”, nell’atto della sua generazione è iscritta la chiamata a lasciar essere, ad affidarsi, a divenire la vergine della fede, l’umile ancella che dice: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Che sorprendente corrispondenza, persino nel linguaggio, tra ciò che la madre dice ai servi e ciò che ella aveva detto di sé! E ancora attraverso le parole della madre l’azione si scioglie. A partire dal “fate quello che Egli vi dirà” non solo viene dato il vino nuovo e abbondante per il matrimonio, ma inizia quel mistero della vita a cui Giovanni ci introdurrà nel seguito del suo vangelo..

          Tuffo ciò ci fa accostare alla seconda grande esperienza dei primi anni del matrimonio: la generazione del figlio. Dobbiamo sostare sull’evento sorprendente della nascita del bimbo. Un’esperienza che tocca nel profondo la vita della coppia nei primi anni del matrimonio e che può correre il rischio persino di oscurare, tanto è piena di emozioni, l’altra nascita che abbiamo descritto sinora, quella della vita insieme. Tra le due nascite però c’è una profonda continuità: la communio vitae tra gli sposi è così reale, corporea e profonda, che fiorisce nel frutto della comunione che è il figlio.

          4.1 Le doglie del parto: il figlio come benedizione. Lasciamoci guidare da Giovanni. Ci ha lasciato due parole chiave che dobbiamo seguire per comprendere il seguito: “donna” e “ora”. Ricompaiono sulla bocca di Gesù, appena è giunta la sua ora: «La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21). Mentre Gesù annuncia la sua dipartita, egli parla dell’afflizione di questo momento, in vista della gioia che sarà concessa ai suoi discepoli. E, all’improvviso, riappare la metafora della maternità, con le due parole chiave: «La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora». L’ora di Gesù è appena iniziata (Gv 13,1: «sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre») e già la donna-madre sperimenta che è giunta l’ora propria. E singolare: per comprendere ciò che avviene nel mistero di Cristo e nel suo legame a Maria, bisogna riferirsi all’esperienza della maternità umana. L’ora delle doglie porta afflizione e timore, ma suscita anche speranza e piena consegna alla vita del figlio, che cambia il volto e lo sguardo della donna e la colloca in un alone di trasognata tenerezza. Nel diario del Dottor Zivago, che il protagonista scrive nel lungo inverno del suo rifugio, Pasternak ha steso una pagina indimenticabile che racconta l’esperienza femminile della maternità e la presenza dell’uomo a quel mistero. La trascrivo per suggerire il senso di quell’esperienza travolgente che è la nascita del figlio nei primi anni della vita della coppia.

          Il volto della donna cambia. Non si può dire che imbruttisca. Ma il suo aspetto, che prima dominava a suo piacimento, sfugge ora al suo controllo. E il futuro adesso che ne dispone, il futuro che uscirà da lei, ormai non più se stessa. Questo sottrarsi dell’aspetto esteriore al controllo della donna prende la forma di uno smarrimento fisico: il volto sbiadisce, la pelle perde la finezza della sua grana e gli occhi acquistano una lucentezza diversa da quella che lei vorrebbe, quasi non riuscisse più a dominare tutto ciò e lo abbandonasse a se stesso. [...]

          Mi è sempre sembrato che ogni concepimento sia immacolato, e che nel dogma che riguarda la Madonna si esprime l’idea universale della maternità.

          In ogni donna che genera si trova Io stesso senso di solitudine, di distacco, di abbandono a se stessa. L’uomo ormai, in questo particolare momento, rimane a tal punto estraneo che è come se in nessun modo ne fosse stato partecipe e tutto fosse caduto dal cielo.

          La donna è sola a mettere al mondo la propria creatura, sola con lei si ritira su un altro piano dell’esistenza, dove c’è più silenzio e si può tenere senza paura una culla. E sola, in silenziosa umiltà, la nutre e la cresce.

          Si rivolgono alla Madonna: «Prega di tutto cuore il Figlio tuo e il tuo Dio...». Le pongono sulle labbra versetti del salmo: «E il mio spirito esulta in Dio mio salvatore, perché ha rivolto lo sguardo alla piccolezza della sua ancella. Ecco, da questo momento, mi chiameranno beata tutte le generazioni». Questo dice alla sua creatura, sarà Lui a glorificarla («grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente»), Lui è la sua gloria. La stessa cosa la può dire ogni donna. Il suo Dio è nel bambino. Le madri dei grandi uomini devono conoscere questa sensazione. Ma tutte le madri sono madri di grandi uomini e non è colpa loro se poi la vita delude (B. PASTERNAK, Opere narrative [= I Meridiani], Milano, Mondadori, 1994, 364-365).

          Non è possibile aggiungere parole alla penna del grande poeta. Prima di indicare le dinamiche che suscita nella vita di coppia la nascita di un bimbo, occorre fermarsi a contemplare la sorpresa e la benedizione del bimbo nuovo! Senza coglierne il mistero ogni altra osservazione apparirà scontata. Ma questa contemplazione va avvolta dallo stupore degli sposi, quando prendono tra le mani il proprio bimbo e possono esclamare: “Ecco un uomo nuovo! Ecco il nostro figlio!”

          4.2 La gioia di un uomo nuovo: il figlio come promessa. “È il futuro adesso che ne dispone, il futuro che uscirà da lei... “ - dice il romanziere con intuizione profondissima - : quel “futuro” a cui la “madre” si era consegnata nella sua volontà di generare l’ora del figlio è il futuro che “adesso” dispone della donna, trascolorando il suo corpo. L’esperienza del tutto femminile della generazione è segno vivo e vero dell’altra maternità che dona al mondo l’Uomo Nuovo. Ma accade anche l’inverso - lo ricorda senza forzature Pasternak - perché la nascita del Figlio dalla Vergine-Madre ridona ad ogni donna la gioia inenarrabile che dare la vita è generare un “bimbo nuovo” («La stessa cosa la può dire ogni donna. Il suo Dio è nel bambino...»). Un bimbo a cui è affidato il futuro di diventare un “grande uomo”, un uomo “nuovo” (“Ma tutte le madri sono madri di grandi uomini e non è colpa loro se poi la vita delude”).

          Finito il rodaggio, trovato il ritmo comune, subito s’affaccia per istinto di natura, ma anche come esigenza profonda, alla mente degli sposi il pensiero del figlio. Tra il figlio pensato e il figlio reale c’è l’evento originario della nascita, che ha i tratti di un’esperienza che ci fa toccare il mistero della vita. E tuttavia il figlio pensato e atteso è importante per rivelare il cuore degli sposi. Se lui sia atteso come un bisogno di realizzazione o sia accolto come una benedizione promessa. Proviamo a collocarci a fianco di due giovani sposi in attesa del bimbo. Il tempo della gestazione è un momento “gravido” di molte promesse e la parola della fede dovrebbe accompagnare gli sposi a cogliere il “senso” del figlio. Purtroppo, qui la parola cristiana si fa scarsa e non aiuta a percorre l’ardito cammino che va dal figlio pensato come completamento e realizzazione della coppia al figlio atteso come promessa e benedizione, il modo più alto per affidarsi e dire il carattere buono della vita. Solo ciò potrà fugare tutti i timori per il futuro del figlio (dei figli), sulla capacità di educazione, sullo sconvolgimento che questi introdurrà nella vita di coppia. L’alternativa tra un figlio per sé o un figlio per dire di sì alla vita non si sostiene. La tensione tra questi due aspetti potrà essere sciolta solo quando la promessa contenuta nel dono del figlio apparirà come la forma autentica della vocazione al dono reciproco degli sposi stessi. Il dono dell’uno all’altra alla fine sfocia nel dono dell’altro. In pura perdita di sé. Perché solo donando la propria vita la si ritrova. La vita donata ha il volto di tuo figlio.

          4.3 Ecco tuo figlio... ecco tua madre: il figlio come sfida cruciale. Il quarto Vangelo ci conduce per mano e, al momento supremo, là davanti alla croce, la “madre”, la “donna”, l”ora”, il “Figlio” s’incontrano nella pasqua: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quell’ora il discepolo la prese nella sua casa.» (Gv 19, 25-27).

          Il lungo cammino della donna-madre è giunto alla sua ora. La fede con cui Ella aveva svuotato il suo ardimento («Fate quello...»), entrando nell’obbedienza incondizionata dell’abbandono alla parola di Gesù («...che egli vi dirà»), deve ora sperimentare le doglie del parto per generare l’Uomo Nuovo. Per questo “stava” la Madre e “dimorava” presso la croce. Al momento supremo, quando le doglie del parto colgono all’improvviso, la donna-madre stava già là. Non si lascia prendere di sorpresa, perché ha camminato nella forma della fede che si abbandona in modo radicale, perché sa che l’ora del Figlio è il futuro che adesso ne dispone, il futuro che uscirò da lei... Da allora e per sempre noi la possiamo trovare là, perché la mater dolorosa non smette di stare accanto alla croce. Maria sviene dal dolore guardando suo Figlio, viene meno dinanzi al suo grido che invoca: «Ho sete». Il seno che ha alimentato il bimbo deve inaridirsi per generare l’uomo nuovo e i tratti del suo volto sfigurato rimarranno sul volto della gioia pasquale di Maria.

          Poi, nel momento supremo, avviene il dialogo impercettibile che genera insieme l’Uomo Nuovo e il discepolo amato. Gesù, allora, vede la “madre” (e accanto a lei il discepolo amato) e le parla: la “madre sua” diventa adesso “la madre”. Gesù finalmente le parla come alla donna-madre, ora che l’umile ancella dimora nella consegna dolorosa della fede presso la croce. E la madre che lascia essere il figlio nelle cose del Padre suo, che lascia andare Gesù verso la sua ora, che non lo trattiene più, perché non desidera più dominarlo come madre, ma si abbandona con tutto il suo corpo nella braccia di colui che ne dispone, perché egli è il futuro che uscirà da lei... E così lo genera di nuovo!

          Con le braccia conficcate alla croce, nell’assoluta passività dell’agonia mortale, Gesù ora prende l’iniziativa. Il Figlio, la Parola della vita genera ancora, nel grembo della madre, la vita nuova del discepolo. Con il corpo sfigurato si rivolge alla madre perché generi il discepolo amato attraverso «la spada che anche a lei trafiggerà l’anima» (cf Lc 2,35). E dice alla Madre: «“Donna”, ecco il tuo figlio». Il filo d’oro riemerge e si riannoda. La madre di Gesù, passando attraverso la donna-madre, diventa la madre del discepolo, cioè di tutti quei figli che, lasciandosi generare, seguiranno il Figlio del Padre. Gesù, poi, si rivolge al discepolo, dicendogli: «Ecco la tua madre!». Non c’è bisogno neppure di cambiare la lingua: «Ecco la tua madre!» è rivelazione che si rivolge anche a tutti i figli che vorranno ricevere la vita come dono, diventando il discepolo amato. Non si tratta di una nascita che sta solo all’inizio, ma di una generazione “continua”, la generazione per ogni tempo del credente nella chiesa.

          Per i primi anni della vita comune il figlio è così la “sfida cruciale” per gli sposi. Dopo lo stupore della nascita del bimbo proprio, dopo che i genitori sentono tra le mani il dono della benedizione promessa, pian piano sperimentano anche la “sfida” che il figlio rappresenta. Anzitutto per loro stessi e il loro rapporto: perché il figlio come dono talvolta appare come compito gravoso, quel futuro che decide della loro vita presente, che diventa ingombrante, scombussola le notti, riempie i giorni, si fa presente in modo diverso dal figlio sognato. Questa sfida diventa talvolta “cruciale”, perché mette letteralmente “in croce” la vita dei due, la loro intesa, il loro tempo, i loro affetti, la loro differente capacità di dedizione. Per la madre il figlio ha di che riempire il tempo e i pensieri, colma la sua vita con una possessività affettiva. Non le lascia letteralmente un’ora libera, soprattutto se la donna continua a lavorare e deve correre trafelata tra la casa dei genitori e la propria. Per il padre il figlio suscita un nuovo senso responsabilità, gli fa scattare dal di dentro il desiderio di ulteriori traguardi professionali. Nel poco tempo libero che gli rimane, bisogna aiutare la madre nell’accudire il bambino. Il padre si sente meglio valorizzato così, entra con fatica nel suo compito di essere la voce che chiama, stimola, fa crescere. Soprattutto appare difficile mantenere la relazione di coppia, le parole diventano brevi, le tenerezze s’impoveriscono, tanto il mondo affettivo in questa stagione è abitato dal nuovo venuto.

          Più avanti la loro diversa visione della funzione educativa diventerà motivo di divergenza e talvolta di scontro. E così il sogno di altri figli svanirà dopo l’esperienza ingombrante del primo. E’ necessario che la coppia anche in questa stagione resti molto uniti, trovi spazi per sé, quasi impari a capitalizzare il tempo, sostituendo alla distensione dei momenti la brevità e l’intensità dell’incontro. Ma in ogni caso non dovrà mai smettere di sentirsi e vivere come coppia, perché la buona relazione tra i due è condizione essenziale per una feconda crescita dei figli. Altrimenti possono introdursi pericolosi processi di sostituzione e compensazione: per la madre il figlio potrebbe riempire lo spazio affettivo di un marito che non c’è più; per il padre il lavoro potrebbe rappresentare un rifugio per la difficoltà ad essere una presenza educativa per il figlio. Per questo nei primi dieci anni di matrimonio il figlio è una sfida “cruciale”, perché non solo si dà alla luce una nuova vita, ma gli si dona anche la luce per vivere. E così il figlio fa trovare agli sposi la maturità della loro capacità generativa che sarà un vino nuovo e una misura abbondante per la loro crescita di coppia.

           

          5. “Hai conservato finora il vino buono": il segno e la vita.

            Disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono».

            Torniamo al racconto di Cana. Gesù in un primo tempo aveva detto di riempire le sei giare di pietra, affermando che la misura del tempo antico era colma. Egli porta il vino nuovo che fa traboccare la misura del tempo della legge e della tradizione dei padri, là dove si intreccia il dono di Dio e l’esperienza umana. Ma poi Egli parla di nuovo ai servi: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». L’azione si scioglie, il vino trabocca, la sua abbondanza stupisce anche il maestro di tavola. Viene chiamato lo Sposo e avviene la rivelazione che capovolge la normale sequenza delle cose: da principio il vino buono poi quello che segue quanto ne è disponibile. Ma ora è l’inverso: viene lo Sposo che ha «conservato fino ad ora il vino buono»! La rapidità della scena mette sotto i nostri occhi la sorpresa finale del vino buono e abbondante. Quasi a dire: solo ora è possibile sedere alla mensa che distribuisce il pane moltiplicato e il vino in abbondanza. Quando lo sposalizio e i primi anni del matrimonio diventano il tempo e il luogo che è segno ospitale per lo Sposo che viene con i suoi discepoli, allora egli dona in abbondanza ciò che è contenuto nel segno della vita a due. Tre brevi cenni potranno illuminare questa breve conclusione.

            5.1 Attingere e offrire: il segno eucaristico. Molti hanno visto nell’azione simbolica, avvenuta durante lo sposalizio di Cana, l’allusione dell’evangelista ad un segno sacramentale, magari al battesimo o al matrimonio stesso come sacramento. La parola di Gesù che dice “attingete e offrite” assomiglia molto a quella della moltiplicazione dei pani: “predente e distribuite”. Forse il segno eucaristico è il più probabile tra le allusioni che Giovanni ha in mente, perché le nozze di Cana, la moltiplicazione dei pani e l’ultima cena sono tutte collocate in un contesto pasquale. Anche il sacramento del matrimonio fiorisce dentro questa esistenza eucaristica che i due giovani sposi imparano soprattutto nei primi anni di matrimonio. Nella misura in cui ne “attingono e offrono” anch’essi sentiranno dispiegare dentro di loro la beatitudine inebriante dell’abbondanza del vino nuovo, persino sconosciuta al maestro di tavola. Tra eucaristia e sacramento del matrimonio c’è un profondo legame e i due gesti si alimentano insieme. Gesù invita i servi ad attingerne e a offrirne. Non è difficile vedere qui evocata la chiesa e i suoi ministri: essa è chiamata ad “attingere e offrire”, a rendere possibile questa condivisione, accompagnando con pazienza e tenerezza i giovani sposi a gustare e sapere.

            5.2 Assaggiare e sapere: l’esperienza comune. Il maestro di tavola, l’esperto del vino, assapora il vino nuovo in abbondanza, ma non sa di dove venga. L’evangelista fa notare in modo rassicurante per il lettore che i servi invece lo sapevano. Spesso chi è troppo esperto fa fatica a gustare il vino nuovo, a scoprire quando lo Sposo tira fiori dalle sue riserve la novità di un vino mai bevuto prima. Proprio quei servi che sanno e nella misura in cui vengono sempre di nuovo a sapere, perché ne attingono e gustano, hanno il compito di accompagnare l’esperienza dei giovani sposi in questo tempo delicato e stupendo. Anch’essi vengono invitati con Gesù e i discepoli, perché possano poi diventare i servi che offrono il vino nuovo da gustare per riconoscere da dove viene! E il vino nuovo dell’esperienza comune che cresce come dono e progetto. Se la chiesa e i suoi ministri sono assenti in questo tempo prezioso non può avere inizio il primo dei segni. Si impoverisce l’esperienza della coppia e della famiglia, ma così si isterilisce anche lo spazio per il pane spezzato e il vino dato in abbondanza, i segni dell’eucaristia che fa la chiesa

            5.3 Da principio e fino ad ora: il vino squisito. Finalmente è giunta la sua ora. E l’ora dei segni che preparano il grande segno della Pasqua. Ma questo non può avvenire se Gesù non è invitato alle nozze di Cana, se non parla alla Samaritana, se non distribuisce sui pascoli erbosi il Pane di vita, se non illumina il cieco, se non guida le sue pecore verso l’ascolto della parola di vita, se non si protende come la vite con tutti i suoi tralci. Il primo di questi segni è il vino squisito dato in abbondanza in occasione delle nozze di due sposi a Cana. “Da principio” tutti servono il vino buono, dopo... tutto va bene, ma quando viene lo Sposo egli tiene “fino ad ora” il vino squisito, quello che è offerto in abbondanza e che ridona allo sposalizio il timbro della gioia senza fine. Ma così quel vino prelibato tenuto per la fine diventa la beatitudine per coloro che celebrano le nozze e vivono i primi tempi della vita a due, ospitando lo Sposo che viene! Questa è la beatitudine delle nozze e dell’inizio del cammino. Anche lì c’è Maria, la madre di Gesù.

             

            Franco Giulio Brambilla

            Letto 6208 volte Ultima modifica il Sabato, 25 Maggio 2013 18:54

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