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Lunedì, 23 Maggio 2011 10:57

Quando la comunicazione è nemica dell'educazione

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Il titolo del convegno organizzato da Dimensione Speranza per il 27 maggio 2011, “Educare nella società della comunicazione” (vedi locandina), non è poi così esplicito come a prima vista potrebbe sembrare.

Alla preposizione nella, che nel titolo compare, si possono infatti attribuire significati diversi e persino contrapposti: la si può intendere come et, come congiunzione; o, al contrario, in senso disgiuntivo, come aut aut. Detto in parole più semplici: educazione e società della comunicazione possono trovarsi in un rapporto di proficua relazione (et) oppure in opposizione (aut aut). Per società della comunicazione, è bene precisarlo, intendiamo il formidabile apparato di media tecnologici che il progresso mette a nostra disposizione: Internet, la posta elettronica, i social network, e poi tutto l’hardware necessario per fruirne, i computer, la telefonia mobile, i notebook... Che tutto questo possa essere di grande utilità per chi fa educazione e per chi viene educato è cosa del tutto evidente, non serve parlarne. Ma la società della comunicazione, abbiamo detto, può entrare in conflitto con l’educazione, e - su questo – qualcosa è opportuno dire.

 

INTERNET CI RENDE STUPIDI?

Fornire una quantità pressoché illimitata di dati e informazioni non è sufficiente perché si possa parlare di educazione. Anzi, tale quantità può persino nuocere al processo educativo, può disperdere l’attenzione, mettersi di traverso nel sempre difficile rapporto tra educatore e educando. La pubblicistica fornisce non pochi saggi, studi e riflessioni sull’argomento. Basti citare, a titolo d’esempio, “Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello”, un libro di Nicholas Carr pubblicato da Raffaello Cortina. Oppure “Confessioni di un eretico high-tech” di Clifford Stoll, edito da Garzanti. Nel suo libro, Carr riflette sul fatto che non soltanto la quantità di dati e informazioni disponibili in rete, ma il modo frenetico-compulsivo con cui di solito li si consulta, possano compromettere la nostra capacità di pensare in modo profondo. Stoll, dal canto suo, sostiene che un buon insegnante dovrebbe puntare, più che su mouse ed email, sul contatto umano con lo studente, sul rapporto con la classe, sulla condivisione di esperienze e percorsi comuni.

Ma il problema non sta soltanto nella quantità di informazioni e nelle modalità di fruizione. Il rischio più insidioso è che si finisca col fare di tutta l’erba un fascio, con il confondere educazione e informazione, col pensare che informare significhi automaticamente educare. In realtà non è così. L’informazione è un ingrediente indispensabile dell’educazione, ma non è ancora educazione. L’informazione, per sua natura, ha un potere performativo praticamente nullo. Essere informatissimi, sapere tutto di tutti, non porta di per sé all’azione, e anzi sovente la inibisce. Un’autentica educazione, al contrario, deve condurre a diventare pienamente responsabili, capaci di volere, di agire, di intervenire nel mondo. Educare, vale la pena ricordarlo, viene dal latino educere, che vuol dire “condurre fuori”, “liberare”, “far venire alla luce qualcosa che è nascosto”. Ed essere liberi non significa disporre di una quantità infinita di possibilità: significa imparare a scegliere, cioè – paradossalmente – a limitare tali possibilità, a uscire dall’indeterminazione cui i processi ad infinitum inevitabilmente conducono.

 

IL SIGNIFICATO E L’ENERGIA DELLA PAROLA

Che siano credenti o atei, che piaccia loro oppure no, gli europei sono figli della cultura giudaico-cristiana e di quella greca, entrambe centrate sul Logos, sul principio ordinatore che pervade l’universo e che, per i giudeo-cristiani, addirittura lo crea, lo trae dal nulla. Nel Logos i padri apologisti, come Giustino, Atenagora, Teofilo di Antiochia, cercarono il punto d’incontro con il mondo ellenico. E il Logos è ben lungi dall’essere parola fine a se stessa, comunicazione priva di significato, un parlare per parlare. È parola che crea, opera, compie quello che dice. Il dabar della tradizione giudaica, fa notare Edmond Jacob, “potrebbe essere definito come la proiezione in avanti di ciò che sta dietro, il passaggio all’atto di ciò che sta prima nel cuore”. Gli fa eco Otto Procksch: “Il dabar è lo sfondo di una cosa, il significato che le è proprio; e questo significato si esprime nella parola... Ogni parola contiene non soltanto un significato ma anche un’energia”. Separare le due cose, il parlare e l’operare, il significato e l’energia, può avere conseguenze tragiche, come insegna Shakespeare nell’“Amleto” e nell’“Otello”, terribili moniti contro il pensiero e la parola che non sanno tradursi in azione e contro l’azione che non sa darsi un pensiero, un principio regolatore. Anche una comunicazione a ruota libera, lo scambiarsi informazioni che hanno solo un come e non un perché, il lasciarsi prendere dalle frenesie del multitasking, può provocare disastri. La vera educazione usa il materiale fornito dall’informazione tecnologica, abbondante e preziosissimo, per edificare l’uomo, non per alienarlo da se stesso e dagli altri.

di Marco Galloni

Letto 7378 volte Ultima modifica il Lunedì, 23 Maggio 2011 19:16

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