Famiglia Giovani Anziani

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Giovedì, 22 Maggio 2008 23:44

I volti di Gesù - Prima parte (Bruno Secondin)

I volti di Gesù
Prima parte

di Bruno Secondin

 

 

I - Chiarimenti

Dobbiamo chiarire fin dall’inizio che bisogna evitare di percorrere la storia allo scopo di individuare quali siano le spiritualità criostocentriche, per distinguerle da quelle che non lo sono.

Non c’è dubbio che non vi può essere una spiritualità cristiana allo stesso tempo anche «cristocentrica», se il Cristo non occupa cioè il centro. Per quanto teocentrica essa sia, per essere autenticamente cristiana, dovrà essere un’esperienza di discepolato (= sequela) dietro a lui in maniera radicale. Qualunque teocentrismo dovrà essere ancorato al Dio di Gesù Cristo.

Il nostro discorso sarà allora fatto a due livelli:

- Il piano dell’esperienza cristiana: il cristocentrismo è il costitutivo dell’esperienza stessa, senza di esso non esiste esperienza cristiana;

- Il piano delle sintesi vissute: dipende dalla cultura, dalla sensibilità, dal momento storico. Ma in tutto — in ogni specificità:

- Bisogna cogliere il cristico, come autenticità cristiana. Senza la via di Cristo non si può arrivare al Padre, e senza arrivare al Padre non si può neppure essere aperti all’autentica «verità» del Figlio.

Mettiamo anche in guardia da un pericolo notevole nel leggere i dati storici: cioè la tendenza ad usare degli schemi ideologici. Con tale atteggiamento si rifiuta, si accetta, si parzializza la testimonianza e il valore delle esperienze vissute.

Per esempio, lo schema contemplativo: quando si privilegia il trascendimento più o meno radicale del corporeo e si svaluta il fatto incarnatorio. E si parla di «nudità» in senso di immutabilità, destoricizzazione, «totale astrazione». Soprattutto negli spirituali occidentali si manifesta questa tendenza (la mistica astratta o delle essenze) e il loro libro preferito è il Vangelo di Giovanni (cf. la sua frase: «è bene che me ne vada..»). Teresa di Gesù e Giovanni della Croce hanno superato questo scoglio, affermando la presenza dell’umanità di Cristo anche nei momenti più «mistici».

Per esempio, lo schema della chiesa spirituale: caratteristica della chiesa medievale, e di Gioacchino da Fiore (+1203) in particolare (ma presente anche in altre epoche e movimenti: montanisti, donatisti, fratelli del libero spirito, illuminati di varie epoche, alcune tendenze della teologia liberale...). Si legge la storia per età: dopo il Vangelo del Regno predicato da Cristo, ci sarà il Vangelo dello Spirito: nel quale viene superata la tensione tra legge e spirito, gerarchia e libertà carismatica, corporeo e spirituale, ecc.

Per esempio, la tendenza alla cristologia etica: che vuoI dire risolvere la cristologia in «cristianesimo», cioè in programma di azione per il cristiano. Cristo diviene senso dell’esistenza e della storia, «progetto» di maniere di vivere dell’uomo (per-gli-altri, per esempio), senso dell’esistenza e della storia, cifra della profondità dell’esistenza. E come un Gesù ridotto a programma etico, non avvenimento vivo di grazia operante, storicamente fondata negli eventi salvifici (pasquali specialmente). Solo il rapporto con la persona storica di Gesù dà all’esistenza «normata» da quella Persona l’autenticità «cristiana» della sequela-imitazione.

Su questi problemi avremo comunque modo di ritornare alla fine della panoramica storica.

 

II - Il punto di vista biblico

Dal punto di vista teologico e biblico/esegetico, si possono trovare moltissime sintesi nelle opere di cristologia, là dove esaminano le categorie bibliche del mistero della salvezza realizzatasi in Cristo. Ad esse rimandiamo, senza ripetere qui più di quanto sia necessario, quello che in esse è ottimamente esposto1. Il nostro intento è quello specifico della spiritualità.

L’attuale feconda stagione di letture bibliche, non ignare delle esigenze .esistenziali della riflessione sulla Parola, ha alimentato un proliferare di testi, qualitativamente anche eccellenti, almeno in alcuni casi, sulla «spiritualità biblica». Di conseguenza disponiamo oggi di aiuti importanti per capire meglio in che cosa consista la «normatività» dell’esperienza spirituale primitiva rispetto a quella posteriore derivata. La migliore conoscenza del contesto culturale e della pietà delle tradizioni sapienziali e dei gruppi ascetici, ci consente di vedere l’intreccio fra tradizione e novità, fra correnti di pietà e simbologie religiose, fra immaginario apocalittico e figure messianiche.

La spiritualità perciò in questi vent’anni ha acquisito una matura base biblica, scientificamente corretta e vitalmente ispirativa. E’ questo un fatto di grande importanza, che i secoli passati non conoscevano assolutamente: non solo come letteratura dell’esperienza, ma anche come sapienza che dirige l’esperienza. I saggi di spiritualità biblica stanno pertanto diventando proposta di percorsi mistagogico all’appropriazione soggettiva del “mistero” di vita e di fedeltà di Dio. Ed è quello che più conta in questi nuovi studi.

1. PLURALISMO E UNITÀ ALL’INTERNO DELLA BIBBIA

Ci si accorge subito — anche ad un accostamento superficiale — che nel testo attuale dell’Antico Testamento e ancor più logicamente nel Nuovo Testamento, quando si parla del Cristo, si ha davanti una pluralità abbastanza ampia di asserti cristologici, di formule kerigmatiche, di titoli cristologici, di inni liturgici, di simboli e immagini. Che cosa si deve dire di questa diversità e pluralità che sembrano far consistere la dottrina cristologica biblica in un certo numero di frammenti disparati per contenuto e forma?

Bisogna tener presente che il movimento cristiano primitivo non era culturalmente omogeneo: v’erano ambienti particolarmente ostili alla cultura dominante (che era lo ellenismo) in nome della fedeltà alla tradizione questa tendenza va sotto il nome di giudeocristianesimo. Ma l’incontro con quello che fin dal secolo scorso si usa chiamare «ellenismo» (nome posto in uso da Droysen), avvenne presto, rimanendone il cristianesimo ampiamente segnato, anche se sotto certi aspetti non l’ha accettato del tutto. La tendenza più marcata è il superamento del particolarismo culturale, verso un cosmopolitismo geografico e culturale, accompagnato — per dialettica interna — dal recupero di un inedito atteggiamento individualistico, quale tamponamento dello smarrimento di fronte alle dimensioni macroscopiche della nuova situazione.

All’interno della visione universale propria all’ellenismo, v’è, contemporanea all’apparire del cristianesimo, anche l’insorgenza di un’altra corrente o movimento: la gnosis, cioè l’assolutizzazione della «conoscenza» come mezzo unico di salvezza. E’ una tendenza che di fatto si costituisce sulla visione pessimistica del cosmo e della storia umana: questo «mondo materiale» è regno della tenebra, e del male, «pienezza del male» (come dice il Corpus Hermeticum, 6,4). L’uomo deve, con il soccorso di un rivelatore divino, recuperare la propria identità superiore, ricordando la sua «origine», ricongiungendosi, mediante la gnosi, col mondo celeste.

La «configurazione» dell’identità cristiana della prima generazione subirà gli influssi sia dell’ellenismo che della gnosi; ma allo stesso tempo elaborerà una sua visione di universalità, con un processo di inculturazione, che non è stato del tutto pacifico.

Ciò pone il problema, cui molti hanno cercato di dare una qualche soluzione: se sia mai possibile trovare un’unità, «un’unica teologia biblica, cresciuta da unica radice e che si mantenga con ininterrotta continuità». Tutta la vicenda della Leben-.Jesu-Forschung ha qui la sua giustificazione, e in molti hanno cercato di dare soluzioni.

La soluzione non può essere separata dal coinvolgimento dell’esperienza ecclesiale, la quale trova il suo cardine nell’evento morte/risurrezione e lo sviluppa di lì. E’ in ultima analisi il rapporto tra il Gesù della storia e il Gesù della fede che viene qui in risalto e di cui è piena la discussione cristologica recente. Rimane da ricordare anche che secondo la Dei verbum resta centrale la testimonianza dei quattro evangeli nel corpo degli scritti neotestamentari (Evangelici merito excellere...: DV 18).

La cristologia dei manuali, fino ai tempi recenti, è stata una cristologia dell’ontologia calcedonense; la dimensione storica del mistero di Cristo è stata sentita per lo più come un’appendice meno rilevante dal punto di vista teologico. Ne derivava un discorso ontologico e assiologico sul Signore, ma non una sottolineatura adeguata della sua centralità sul piano della storia della salvezza.

Non possiamo entrare in tutti gli aspetti vetero e neotestamentari della figura del Cristo, diciamo le figure, i simboli, i titoli,ecc.,con cui la comunità dei padri che attendevano (AT) e dei credenti che «hanno visto» (NT), ha cercato di ricordarsi e di esprimere la propria testimonianza su di lui. Tali figure non state inventate dalla primitiva comunità cristiana; ma si trovavano, già radicate nell’immaginario di Israele e pertanto possedevano un significato abbastanza delineato. Possiamo citare, ad esempio, figlio dell’uomo, servo, sommo sacerdote, logos, profeta, figlio Dio, messia, pastore, re, sapienza, Emmanuele, Salvatore e Redentore, ecc. Ciascuna figura riveste un significato proveniente da molteplici influssi esterni e da diverse tradizioni Il problema individuare quale figura o titolo può operare come «sintesi».

Sono molti i tentativi che cercano di individuare sostenibili interpretazioni in grado di armonizzare le differenze: sia attraverso la scelta di un titolo che possa fare da sintesi (per esempio, Regeard suggerisce Figlio di Dio); sia attraverso l’accentuazione:un titolo che meglio riesca ad esprimere un’interpretazione risposta delle attese degli uomini di oggi, senza scadere in riduzionismo antropologico (per esempio, L. Boff suggerisce il titolo liberatore 2. Ci pare che la nostra preoccupazione deve essere più attenta alle esigenze della «esperienza spirituale»; per cui noi ci limiteremo a riprendere il suggerimento di CM. Martini, che ci sembra suggestivo e utile alla Spiritualità.

Note

1) Ne raccomandiamo uno in particolare: quello che si trova in Mysterium Salutis, ai volumi V e VI in italiano (III in ted.). Ci riferiamo in particolare ai contributi di N. Füglister, Fondamenti veterotestamentari della cristologia del Nuovo Testamento, in Mysterium salutis, V, pp. 139-287 e R. Schnackenburg, Cristologia del Nuovo Testamento, in ibid., pp. 289-491.

2) E’ la tesi di fondo del suo libro Gesù Cristo liberatore.

 

III – I Padri

Nella giornata alquanto movimentata della risurrezione, secondo la narrazione di Luca, le tre «apparizioni» — dei due «uomini» alle donne (24,4), di Gesù ai due di Emmaus (24,15), e poi agli undici e agli altri (24,36) — conducono a trovare la chiave di interpretazione dei fatti «nuovi» e «incomprensibili» in ciò che era già stato detto e scritto: «da Mosè e da tutti i profeti in tutte le Scritture» (24,27), «nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi» (24,44), L’interpretazione «in prospettiva di Gesù Cristo» di tutta la tradizione non se l’è inventata la comunità dei suoi seguaci, forzando la storia secondo le esigenze a questa estranee, ma è un metodo «interpretativo» che Gesù stesso ha praticato e suggerito, prima e dopo la risurrezione. Si tratta di attualizzazione del progetto interno, di «senso pieno» di intuizioni e fatti, di arricchimento di una tradizione di letture preziose e di cui oggi meglio conosciamo le movenze3.

Gesù Stesso si presenta come «ermeneuta» delle Scritture: «aprendo loro la mente perché comprendessero» (Lc 24,25); proclamando che il testo si realizza in quel momento («oggi per voi si compie»: Lc 4,21) manifestando di voler realizzare le anticipazioni («deve compiersi in me questa parola della Scrittura»: Lc 22,37),ecc. Ancor più, è Gesù stesso che «si riconosce» in alcuni typoi dell’Antico Testamento e attesta di essere in «continuità» con loro.

Si tratta di personaggi storici, come Davide, Salomone, Elia, Eliseo, Isaia, Giona: cf. Mc 2,25-26; 4,12; 6,35ss; Mt 12,40-42; Lc 4, 25-27; o più recenti, come Giovanni il Battezzatore (Mc 9,13).

Si tratta di forme istituzionali e attività, come l’alleanza o il sacerdozio: Mt 12,6; Mc 14,24.

Si tratta di esperienze di Israele che ora si ripresentano in lui: Mt 4,1-11; Mc 12,10-11.

I disastri e le disgrazie, come anche l’incredulità e il rifiuto, si ripetono ora come in passato; Mc 13,14.24ss; Mt 11,23; 23, 28; Lc 21,24; 23,30.

Le speranze di un nuovo Israele a dimensioni universali stanno per compiersi nella sua chiesa: Mc 13,27; Mt 8,11; 24,31.

Ma la cosa più importante di tutte è tener conto preciso dell’ambiente storico-religioso in cui si è trovato Gesù, degli elementi vitali più influenti e delle forme principali di spiritualità in quell’ambiente.

1. Il contesto

Conoscere il contesto e vedere la sua osmosi con l’esperienza di Gesù, è la prima condizione per una ricerca autentica.

Il centro propulsore e unificante della spiritualità, vissuta in quel momento, ce Io indicano le fonti rabbiniche. Ricordiamo il detto attribuito dalle Pirqe Avot (Massime dei Padri) a Simone il Giusto, membro della grande Assemblea: «Il mondo poggia su tre cose; sulla Torah (cioè l’ammaestramento), sul servizio (il culto a Dio, ‘avodah) e sulle opere di misericordia (ghemilut chasadim4. Recentemente P. Grelot ha sostenuto — e sembra con buon fondamento — che l’attesa di un «mediatore di salvezza» non è centrale nella speranza giudaica, mentre il vero centro sarebbe costituito dal regno di Dio e dall’attaccamento alla Torah, intimamente tra loro connessi5.

La tradizionale concezione — teorica e pratica — del dato veterotestamentario come un complesso di «promesse» (o anche una serie di profezie) che a priori e con tutta lucidità, si riferiscono a Gesù di Nazaret e che in lui trovano un adempimento evidente e confermante per le aspettative dei discepoli, è oggi superata e insostenibile. L’abitudine a frammentare il testo biblico per trovarvi affermazioni anticipatrici (i «dicta probantia»), misconosce e anche forse tradisce il senso vero dei passi che utilizza, sradicandoli dal tessuto originario unitario nel quale solo possono essere perfettamente intesi.

Quello che va invece attestato e conservato è che l’evento di Cristo va interpretato «secondo» la Scrittura; la quale per noi è stata scritta. Bisogna allora individuare non tanto il puro dato letterario o terminologico, ma le categorie fondamentali, entro cui si può comprendere il Cristo redentore nel contesto di tutta la rivelazione. Ciò vale a dire che bisogna evidenziare le categorie «cristologiche» e le strutture «soteriologie» che si mostrano costitutive per un’elaborazione dell’idea di mediazione salvifica.

Più che la raccolta delle prefigurazioni, serve invece cogliere le intenzioni e le aspirazioni che conducono a certe categorie di «mediatore salvifico». E non dimenticare nemmeno gli archetipi mitici, prebiblici e extrabiblici, che possano aver dato il loro influsso.

2. Il fallimento

Un’altra importante osservazione da rilevare; che i tre maggiori tipi di mediatori di salvezza veterotestamentari: re, profeta, sacerdote (cui si dovrebbe aggiungere anche altri titoli o altre maniere di esprimere gli stessi titoli; angelo di JHWH, agnello, Figlio dell’uomo, sapienza, servo, unto, ecc.) non hanno una storia lineare e in espansione. Anzi conoscono divergenze all’interno secondo le varie situazioni storiche o le tragedie nazionali, conoscono discontinuità ed evoluzione, compreso l’inaridimento. Tanto che qualcuno ha detto che l’evoluzione della teologia di mediazione salvifica, sia nella forma della regalità, che in quella del sacerdozio, che in quella del profetismo, non raggiunge nei fatti nessun vertice: piuttosto; si rivela storia di un fallimento.

Ma questa storia di fallimento risulta definitivamente superata in Cristo Egli è compreso secondo il Nuovo Testamento come colui in cui si unificano tutti i tipi di mediatore antecedenti, sia celeste che regale, sacerdotale che profetico.

«Egli attua e unifica quei diversi aspetti escatologici che nell’Antico Testamento risultano ancora frammentati... Definitivamente superata risulta pure la storia del fallimento: in Cristo, in questo mediatore universale, che realizza e al contempo personifica il vero Israele, la teocrazia e la mediazione di salvezza JHWH ed Israele, Dio e l’uomo, si trovano così intimamente congiunti da escludere ormai per sempre ogni possibilità di dissociazione»6

In linea concreta fra gli elementi che strutturano la spiritualità ebraica bisogna anche ricordare; la preghiera, lo Shemah, e il digiuno, il culto e la prassi etica, i vari atteggiamenti verso la Torah, le forme di discepolato e di «compagnia» (i chaverim), le comunità, i poveri, il lavoro, la saggezza di vita.

Note

3) Cf. M. Cimosa, Lettura cristiana dell’Antico Testamento, in A. Bonora, La spiritualità dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 1987, pp. 451.514.

4) Pirqe Avot, ed. Y. Colombo, Roma 1977.

5) Cf. il suo libro La speranza ebraica al tempo di Gesù, Borla, Roma 1981.

6) N. Füglister, Fondamenti veterotestamentari della cristologia del Nuovo Testamento, in Mysterium Salutis, V, p. 285.

 

IV - La fisionomia ed il vissuto, spirituali, di Gesù

La fisionomia spirituale che emerge dal Nuovo Testamento circa il volto di Cristo, le linee di forza del suo messaggio e della sua esperienza, gli influssi che ha saputo esercitare immediatamente sui discepoli e attraverso essi sul primo nucleo dei credenti, tutto è oggi già abbastanza studiato. Ultimamente sono state meglio anche sottolineate le attese messianiche del tempo in cui Gesù di Nazaret visse e le idee forza della spiritualità del momento. Gli ultimi 40 anni di studi biblici sono in ciò un periodo di enorme progresso.

La questione sulla quale ancora si discute, ma che trova sempre meno oppositori: è se sia possibile indagare su quale sia stata la vita spirituale di Gesù di Nazaret, cioè il suo vissuto esperienziale di fronte a Dio.

Bultmann è del parere che voler conoscere Gesù secondo la sua individualità naturale sia motivato da un bisogno «carnale», (2Cor 5,16) che non può condurre alla fede vera. Per lui l’indifferenza voluta verso la personalità di Gesù è essenziale alla fede.

Ma oggi la tendenza in uso è quella di tentare di esplorare il vissuto di Gesù, al di là e al di sotto dei messaggio «confezionato. e trasmesso» dalla comunità dei seguaci, la quale lo ha fatto in. categorie non «asettiche». Diversi scrittori attuali di spiritualità biblica, con tutte le cautele del caso, hanno tentato di «ricostruire» il vissuto spirituale di Gesù, e anche la sua «proposta di spiritualità». È quello che hanno cercato di fare per esempio Guillet, Goffi, Fabris, con una certa ampiezza e buon esito. Con meno ampiezza e completezza Barbaglio e Dupont in alcuni studi recenti.

Per cui possiamo ora disporre di vari contributi, anche se alcuni di genere parziale, tesi a ricostruire l’esperienza religiosa — o il vissuto spirituale — di Gesù di Nazaret, da cui derivano anche le proposte (sue) di una nuova etica per i suoi discepoli, perché la condividano.

«Si nota una stretta correlazione, scrive Barbaglio7,a livello di Gesù storico, tra simboli religiosi e codici etici di vita; i primi fondano i secondi e questi traggono la loro giustificazione da quel]i. Il disvelamento del volto di Dio che stava impresso nella sua anima non era fine a se stesso, ma mirava a suscitare comportamenti e atteggiamenti conseguenti nei destinatari della sua parola e azione. Egli stesso si comportava in maniera coerente con le immagini religiose vive nella sua persona,e ad esse si riferiva quando intendeva giustificarsi davanti a precise contestazioni dei suoi critici... Parlando e operando disvelava la complessa immagine di Dio da cui era “agito”, affinché anche gli altri, appropriandosene ne fossero coerentemente animati nella loro vita».

Ci proponiamo ora di tracciare alcuni linee delle principali caratteristiche del vissuto spirituale di Gesù di Nazaret, con riferimento peculiare alle testimonianze dei Vangeli sinottici, senza alcuna pretesa di essere completi.

1. Identità spirituale di Gesù

In base alle testimonianze evangeliche, Giovanni il Battezzatore, che si riconosce precursore del «Messia» era propugnatore di una tendenza riformatrice antistituzionale, moderatamente innovatrice. Egli ha per punto focale l’imminenza del giudizio di Dio, e quindi insiste su gesti dì purificazione (il bagno purificatore) e la conversione degli atteggiamenti (Lc 3,3-18). Egli non è il solo a proporre una religiosità più dinamica e autentica. Altri proponevano cammini simili: si pensi al maestro fondatore della comunità di Qumrân e alla scuola rabbinica di Hillel. Con loro Gesù ha dei rapporti nella visione generale delle cose (per esempio, interiorizzazione), ma anche se ne distacca in maniera inattesa, come manifesta la crisi di Giovanni e dei discepoli nei suoi confronti (Mt 10, 3; Gv 6,66s).

Centrale elemento discriminante è l’annuncio del Regno, come in atto qui e ora, e attivo nella sua persona. «Cristo si presenta come I’autobasileia”, dice Origene. Il tema del Regno era uno dei più tradizionali nella liturgia del tempio e nell’assemblea sinagogale. Ma Gesù non fa riferimento a questi contesti per proclamarsi «realizzatore». E per una investitura profetica, secondo Luca, che Gesù prende l’iniziativa della proclamazione, e ciò avviene nella scena programmatica di Nazaret (Lc 4,18; Is 61,1).

Un atteggiamento spirituale di rilievo di Gesù è la sua esperienza di orante. Luca soprattutto rileva questo pregare con frequenza e in situazioni di vita molto diverse. Oltre al clima generale della preghiera, alla sobrietà degli atteggiamenti è importante sottolineare il valore del titolo Abba, che va ritenuto originale e il «movimento nello Spirito» (Lc 10,21-22). Tuttavia la sobrietà estrema sul suo «intimo», nonché i probabili ritocchi operati dalla mentalità della comunità, non consentono di ricostruire con tutta esattezza il «vissuto» di Gesù, anche se appaiono evidenti sia la sua libertà e la fiducia, che la profondità del rapporto figlio-padre.

2. L’immagine di Dio

È molto importante sapere quale immagine Gesù si fa e annuncia di Dio, perché qui sta uno dei focus della sua stessa spiritualità. Le circa 40 parabole sono forse lo strumento simbolico e intenzionale più utile a scoprirlo.8 «Dio di Gesù» che emerge attraverso le parabole è un Dio che si fa vicino, e in particolare si fa attento a tutti gli «emarginati». Dalla parabola della pecorella smarrita (Mt 18,12-14; Lc 15,4-7) a quella del figlio prodigo (Lc 15, 11-32), da quella degli operai alla vigna (Mt 20, 1-15) a quelle del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10-14), degli invitati alle nozze (Lc 14,16-24; Mt 22,2-10) e fino all’inno di giubilo (Mt 11,25-26), i testi offrono un’immagine di Dio dai tratti fra loro omogenei. Non un Dio dalla parte degli osservanti e dei pii arroganti, garante dei privilegi e della sapienza insuperbita. Gesù propone piuttosto un Dio che prende la parte degli esclusi, degli ultimi, dei semplici, dei peccatori.

«Il Dio di Gesù è un Dio che non si lascia annettere da una casta o da un gruppo chiuso. La sua maniera di essere il Dio di tutti lo fa anzitutto il Dio degli esclusi e di coloro per i quali la società religiosa benpensante non ha che disprezzo. Il discorso che Gesù tiene su Dio lo condurrà ben lontano, poiché in fin dei conti il Dio di Gesù Cristo sarà il Dio di un Messia crocifisso».9

Ma c’è anche un’altra immagine di Dio: è quella di un Dio che non accetta mezze misure, che esige la risposta totale dell’uomo. Una risposta di imitazione della sua bontà (cf. il servo impietoso: Mt 18,23-34), la fiducia anche di fronte al fallimento (cf. grano che muore: Mc 4,3-8), la certezza di una storia feconda anche se misteriosa (crescita della spiga: Mc 6, 26-32; cf. anche Mt 13,31-33; Lc 13,18-21). Il vertice comunque e insieme la profondità del rapporto figlio-padre si incentra nella vicenda pasquale, dalla preghiera del Getsemani al grido sulla croce. Nell’esperienza di abbandono di Dio, apparentemente assente, si manifesta la confidenza estrema nel Padre, congiunta con la volontà di perdono e di misericordia per tutti.

Così Gesù, che ha fatto insieme esperienza di un Dio vicino e nello stesso tempo assente, impone globalmente una spiritualità di «animosa fides» e di speranza disarmante, alimentata più dal fallimento che dalla vittoria immediata.

3. L’amore come progetto dl vita

A somiglianza degli altri maestri, anche Gesù identifica la dottrina di «tutta la legge e i profeti» (Mt 22,40 e parall.) nel precetto dell’amore, spinto però ad una radicalità estrema: fino al nemico, a colui che ci fa del male o ci odia. Un amore «smisurato» che è riconosciuto anzitutto in Dio misericordioso e che, per la relazione filiale — «perché siate figli del Padre vostro» (Mt 5,45; Lc 6,35) — si fa naturale atteggiamento dei discepoli.

«L’amore di Dio, vissuto nella relazione vitale di figlio-padre, non solo è un modello dell’amore tra gli uomini, ma è la fonte interiore delle nuove relazioni definite in termini di amore gratuito e universale».10

L’interiorizzazione di questo amore già era stata intuita da alcuni profeti, ma Gesù lo fonda sulla relazione profonda col Padre, dal quale si riceve come dono e dinamismo. E per questo può assumere dimensioni umanamente impossibili, come quella del perdono totale e gratuito, che a sua volta chiama ad entrare nella dinamica dell’amore anche il colpevole (Lc 7,47).

4. Rinnovamento dei rapporti nei gruppi sociali

Rientrano nella prospettiva religiosa di Gesù anche relazioni umane rinnovate: ma anche in questo caso si tratta di motivazione decisamente religiosa. I settori più evidenti sono i seguenti.

I rapporti coniugali, che si devono basare sulla fedeltà reciproca e indissolubile, come inscritta nel progetto creatore; ma la «chiamata» di Dio può giustificare e sostenere anche una situazione di solitudine affettiva, non priva di problemi anche se serena (Mc 10,28-30 e parall.).

I rapporti familiari, per un certo verso vengono ridimensionati nei confronti del primato della sequela di Cristo e della relazione di «famiglia» nata dalla fecondità della Parola (Mc 3,33-35). Ma anche si notano nella vita di Gesù degli elementi di affettuosità, i di attenzione al dolore e alle gioie delle famiglie amiche, come quelle di Lazzaro e di Pietro.

I rapporti sociali sembrano orientati in maniera contro-culturale, per la preminenza della cifra del «servo», che manifesta un rovesciamento dei ruoli e la preminenza degli emarginati nei confronti del Regno. I testi sulle beatitudini, sul rapporto con i peccatori, la rivalutazione dei bambini per entrare nel «Regno» ne sono una dimostrazione. Gesù stesso presenta la sua fisionomia come segnata dal modello del «servo» (cf. Mc 10,42-45).

«Gesù si è fatto “servo” all’interno del gruppo per libera scelta come prolungamento e attuazione dei suo essere “servo” davanti a Dio. La sua totale dedizione al regno di Dio si traduce nelle relazioni con i discepoli in uno stile di piena disponibilità. Di qui matura il modello alternativo dell’autorità fondata su “rapporti di amore”». 11

L’uso dei beni materiali occupa un evidente rilievo nella spiritualità di Gesù. Non si può certo affermare che Gesù ha provato la condizione di miseria o di schiavitù. Ha avuto, durante gli anni di attività pubblica, amici generosi e simpatizzanti che lo accoglievano; e nel suo gruppo c’erano disponibilità finanziarie (c’era una cassa comune: Gv 12,6) e gente facoltosa che lo sosteneva, come quel gruppo di donne che lo aiutavano «coi loro beni» (Lc 8, 1s). Ma è un fatto che il tema dei poveri e della vigilanza di fronte all’idolatria dei beni materiali, è frequente nei suoi sermoni e parabole. La ragione è certamente di origine religiosa: la preminen.za del regno di Dio su tutte le cose esige quindi una gerarchia di valori differente da quella della mentalità corrente.

5. Il vertice

Il vertice dell’esperienza spirituale e del modello di vita di Gesù si ha nella sua esperienza del limite e della morte violenta. Egli non era affatto indifferente per la vita: l’amava, la difendeva, strappava dal male i sofferenti, perfino strappava alla morte le sue prede. Godeva dell’amicizia sincera e anche della tavola ospitale: perché si trovava bene tra amici. Amante della vita e suo difensore, dovette, affrontare la violenza e perfino la morte, proprio come ultima tappa del suo scontro con tutto ciò che le produceva, magari ammantato di «pretesto» sacro. E si trattava di poteri economici, politici, religiosi, culturali .

Gesù «vive» la propria morte «consegnandosi» per restare fedele fino in fondo, come ultimo gesto di libertà nell’amore. E’ morto perché amava la vita: e l’amava tanto fino a metterla in gioco per recuperarla per tutti «Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per essere servo e dare la vita in riscatto per molti» (Mc 10,45)

La sua fedeltà non sta solo nel morire per noi, ma anche nell’inventare altre modalità, oltre la morte, per essere per noi vita e speranza assolute: e la istituzione dell‘eucaristia memoriale {del suo amore e del suo sangue «per la nuova alleanza», sta a dimostrare la fantasia creativa di colui che ci amò in maniera «divina».

«Perché le parole profetiche della cena divengano realtà fino alla fine de secoli bisogna che egli spiri e rimetta a Dio il suo spirito (Lc 23,46). Allora, spogliato di tutti i limiti e accolto dal Padre nella sua gloria, tutto quello che egli è, il suo corpo, la sua vita, le sue parole e i suoi gesti si trovano a portare fino alle estremità dell’universo e fino alla fine della storia la potenza dello Spirito (At 2,33). Dal costato aperto per sempre, dal corpo liberato dalla morte, nascono la chiesa e i sacramenti (Gv 19,34; 20, 22)».

6. Il «vissuto spirituale» di Gesù Risorto

Non c’è dubbio che l’esperienza spirituale di Gesù risorto rimane un mondo misterioso in cui non si penetra, perché è il mondo del Dio invisibile. Non è in continuità semplice con la vita di: Gesù, è un evento che appartiene ad un altro ordine, e non si può «umanamente» verificare. Attraverso la risurrezione Gesù di Nazaret passa nella vita definitiva e piena, è strappato alla nostra finitudine, che era anche la sua (volontariamente assunta). Proprio perché è un «evento escatologico», che va collocato nel Regno della fine, nel futuro della storia, esso va interpretato attraverso i «segni».

meno uomo di Gesù sofferente: egli ha ormai compiuto definitivamente la vocazione di uomo, la rivelazione dell’uomo in Gesù «nei giorni della sua carne». E’ il crocifisso che diventa risorto e il risorto rimane il crocifisso: come ricorda Gesù stesso a Tommaso (Gv 20,27) e come mostra la visione apocalittica dell’agnello immolato che riceve potenza, onore e gloria (Ap 5,9-l2).12

La risurrezione offre l’indicazione del senso misterico della vita di Gesù e anche della nostra esistenza nello Spirito.

«Nel corso della vita di Gesù la manifestazione del suo essere era inseparabile dal suo agire salvifico. Nel sacrificio della sua morte egli si è compiuto definitivamente come Figlio con la sua obbedienza, ma nello stesso tempo portava a compimento anche il ritorno dell’uomo verso Dio, in un amore più forte dell’odio e in un’offerta assoluta di riconciliazione. Nella sua risurrezione rimane la stessa solidarietà tra la persona e la missione: vi scopriamo ad un tempo l’identità di Gesù definitivamente manifestata e il compimento della sua missione di salvezza. La risurrezione ha una dimensione propriamente salvifica; ci rivela anche la profondità e la fecondità per la nostra salvezza di ciò che Gesù ha compiuto sulla croce».

È un orizzonte che già Paolo amava illustrare a più riprese, chiamando a vivere «da risorti», «in novità di vita», quale «nuovo impasto», cui Dio stesso ha messo mano. Ma oggi in modo peculiare si fissa l’attenzione sulla risurrezione come il paradigma chiave di tutta la vita ecclesiale e della genuina spiritualità cristiana.

Dice Guillet:

«Le parole di Gesù risuscitato non hanno niente di confidenza, nemmeno di conversazione; esse non mostrano le sue reazioni. Quando parla della sua passione ai discepoli di Emmaus, Gesù non ritorna sul dramma che ha vissuto, riprende l’insegnamento che aveva dato. E appena i suoi hanno ritrovato la fede, li abbandona affidando loro la missione: “Andate” (Mt 28,19). Così l’esperienza della fede cristiana non è la scoperta di un personaggio nuovo, ma al contrario la scoperta dell’identità fra Crocifisso e Risorto. E se il Crocifisso è ora Risorto, questo fatto interessa tutta l’umanità e deve essere annunciato ad ogni creatura. 13

Note

7) Bargaglio, La spiritualità, p. 68

8) Cf. CM. Martini, Perché Gesù parlava in parabole?, EDB-EMI, Bologna 1995.

9) Dupont, Le Dieu de Jésus, p. 329.

10) Fabris, La spirirtualità, p. 102.

11) Fabris, La spirirtualità, p. 15.

12) Cf. X. Léon Dufour, Risurrezione di Gesù e messaggio pasquale, Paoline, Roma, 1973.

13) Jésus, in DS 8, 1092.

 

 

V – Unitarietà dei Vangeli

Ci sembra abbastanza suggestivo, anche se rimane nell’ambito dell’ipotesi di interpretazione quanto propone a questo riguardo C. M. Martini. Egli tenta di cogliere una concatenazione unitaria nei quattro Vangeli, in maniera da mostrare il carattere progressivo del loro discorso, e i riflessi «esistenziali» che sembrano venire esplicitati.

Martini parte da una constatazione facilmente verificabile: spesso si trova nei testi del NT il richiamo alla progressiva maturazione del battezzato nella sua esperienza di fede. Talora, come in Atti 2, si parla esplicitamente di alcuni momenti successivi dell’introduzione nel mistero cristiano. Anche dopo il catecumenato. vi è un periodo di istruzione, collegato con una più intensa partecipazione alla vita comunitaria; come Ebrei attesta: v’è «insegnamento iniziale su Cristo», cui deve seguire una istruzione più completa e approfondita (Eb 6,1-6).

A questo punto si domanda se oltre alla coscienza evidente di un itinerario da percorrere, esisteva anche una qualche forma di«manuale» che introducesse alle varie tappe, che accompagnasse i particolari momenti della maturazione cristiana. Egli trova che i quattro Vangeli, diversi per motivi storici e redazionali che tutti conosciamo, possono essere letti — nella successione Marco-Matteo-Luca-Giovanni – come esempio di risposta a problemi o gradi diversi dell’esperienza del credente. Emerge così l’ipotesi di quattro momenti successivi della maturazione cristiana: iniziazione catecumenale, introduzione alla vita comunitaria, avviamento all’evangelizzazione e maturità contemplativa. Nel saggio citato Martini si limita a cogliere gli aspetti dell’appropriata «didascalia», mentre si potrebbero cercare anche altri suggerimenti: per esempio sulla preghiera, sui sacramenti, sui carismi, sulla diaconia.

1. Marco: il Vangelo del catecumeno. E’ la tappa della conversione: come cambiamento dell’orizzonte, capovolgimento di idee. Si tratta di far percorrere al catecumeno che conosce qualcosa dell’esperienza cristiana (ma con molto mistero), un itinerario che conduce ad un impatto diretto con il mistero di Cristo, alla scoperta in Gesù Cristo crocifisso del vero volto di Dio. Il pagano/ catecumeno che si avvicina al Vangelo può essere molto religioso, con mentalità, religiosa sovraccarica di «divinità»: deve scoprire Dio che non ci appartiene, che viene, che ci coinvolge, che dispone di noi, che non evita neppure la croce per nostro amore. Gesù col suo modo di vivere e morire ci mostra il vero volto del vero Dio. Di fronte a questa scena, come il centurione si deve prendere posizione: «Veramente costui era il Figlio di Dio!» (Mc 15,39).

La trasformazione interiore richiesta è espressa bene in Mc 7,21- 23: «Dal cuore nascono le intenzioni cattive». Soltanto col battesimo ci si libererà dalle complicità malvagie, riconoscendo di aver bisogno della salvezza autentica (cf. Mc 10,47).

2. Matteo: il manuale del catechista: perché contiene ben ordinato e suddiviso tutto il materiale con cui iniziare alla vita ecclesiale. Le grandi linee del mistero del Regno: il discorso della montagna (5-7); il discorso della missione (10); il discorso in parabole (13); il discorso ecclesiale (18); il discorso escatologico (24- 25). Il cristiano deve imparare cosa significa vivere da figlio di Dio nella chiesa visibile. Due chiavi di interpretazione possono essere Mt 28,20: «Ecco io sono con voi fino alla fine del mondo» e i testi del giudizio e del perdono (25,31-46; 18). Significa che il neobattezzato deve imparare che si deve riconoscere il Signore in colui che Dio ha inviato, e anche in colui che egli incontra nella sua comunità, nel perdono comunitario, nell’attenzione ai piccoli, nella mutua accoglienza. E questa la maniera di stare nella chiesa del Signore.

3. Luca: Il Vangelo del teologo. Ha di fronte il cristiano che si rende conto di aver abbracciato Cristo, di essere non solo in comunità d’amore, ma anche cosciente di stare nel mondo con persecuzioni e ostilità, di doversi spiegare, collaborare con altri «credenti indifferenti», con doverosi tagli verso le proprie radici (le rinunce). Importante è anche la relazione con la radice giudaica, cui sono state fatte le promesse. Qual è il senso e il compito di una comunità cristiana nel mondo? Attraverso il richiamo alla fraternità, al perdono, alla misericordia, alla preghiera (primo momento; fino al c. 9); attraverso il diradarsi dei miracoli e l’emergere di parole dure e intransigenti, invitanti a rischi difficili (dal c. 9 alla croce); attraverso il mistero della croce, culmine sconcertante e difficile da accettare: Luca vuole educare alla vera maturità. Solo una maturazione profonda che sa anche entrare nel mistero della croce è in grado di dire parole «autentiche», cariche di senso anche pér gli altri, i pagani. Luca vuole provare che tutto quello che sotto l’impulso del Vangelo si realizza è parte del piano di Dio. E questo vale anche per la diffusione delle comunità paoline nel mondo greco e romano. Esse sono frutto della «solidità» del Vangelo (asfàleia: 1Ts 5,3), sviluppo legittimo delle premesse poste da Gesù e dai dodici. Come si vede si alimenta una mentalità più ampia e aperta al mondo intero (di fronte al quale ci si pone anche attraverso un linguaggio che tenga conto delle categorie culturali altrui e delle tradizioni religiose già ricche di impulsi positivi).

4. Giovanni: il Vangelo dell’anziano. Il cristiano che è passato per una serie di esperienze, che hanno creato in lui molto spazio a Cristo, ha raggiunto una maturità solida: essa diviene come una «parola evangelica». E allora si potrebbe domandare: cosa significa ora tutto questo? C’è un elemento unitario? Giovanni non parla molto di riti, precetti, ma moltiplica le confessioni: che si concentrano in un’unica affermazione: il Padre ci dona il Figlio e il Figlio ci dona lo Spirito e in questo noi abbiamo tutto il succo dell’esperienza vissuta. La risposta al dono del Padre è la pistis, l’atteggiamento di fede, che non è gnosi, ma conoscenza sapienziale. Il quarto Vangelo educa a sentire la presenza dell’unico dono divino nella molteplicità delle esperienze ecclesiali. Con una misura che si può dire giustamente contemplativa, unificante, mistica. Il culmine per Giovanni è l’esperienza della gloria risplendente nella croce: quando lo Spirito dona la forza di offrirsi perdonando il rifiuto senza rimpianti, senza recriminazioni né risentimenti.

Seguendo questa prospettiva, si vede chiaramente che l’annuncio del Vangelo e la realizzazione di quanto esso propone si presenta come un’esperienza aperta, disponibile, al confronto, capace di dare spiegazioni con serenità e rispetto. Ma anche in grado di condurre - attraverso gradualità e proporzioni - al mistero profondo e alla fedeltà alla storia.

E conclude Martini:

«A un cristianesimo profetico, liberante, buttato nell’azione redentiva del prossimo, si oppone quasi come relitto del passato un cristianesimo mistico, essenziale, posto nella contemplazione di Dio. E noi vediamo dalla considerazione dei Vangeli, come tutti questi aspetti, senza divisioni, senza ambiguità sono integrati. Certamente prevale in Luca l’esperienza profetica e in Giovanni l’esperienza mistica. Ma ambedue si integrano nell’unità della persona, in una sintesi operativa originale, libera da opposizioni schematiche che, mi pare, ha molto da insegnare anche alle troppo facili mode da cui ci lasciamo prendere anche nella chiesa del nostro tempo»14.

Note

14) Mistica,p. 201.

Pubblicato in Teologia
La religiosità popolare
ed il Magistero contemporaneo
dicono di Lui

di Bruno Secondin

Affrontiamo un ulteriore approfondimento sull’attenzione a Gesù Cristo nel magistero conciliare e in quello pontificio. Un accenno viene fatto anzitutto alla ricchezza espressiva, carica di «pathos», ma anche di influssi culturali ed etnologici, che si incontra nella tradizione cristiana popolare. Poi passeremo ad analizzare le caratteristiche «cristocentriche» del Vaticano Il e infine di quello pontificio.

I. RELIGIOSITÀ POPOLARE

Il vissuto popolare cristiano ha notevolmente sviluppato il tema «Cristo», dando alle sue manifestazioni un’accentuazione degli elementi «umani», «emozionanti», capaci di riflettere situazioni umane quotidiane. Ma nello stesso tempo lo si può considerare quale spia di aneliti ben più profondi, sacramento di quella «sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere... Ben orientata, questa religiosità popolare può essere sempre più, per le nostre masse popolari, un vero incontro con Dio in Gesù Cristo1».

Anche questo è un settore in cui si sta notando un risorgere di interesse e di studi, anche se qualche anno fa c’era un interesse maggiormente vivace.

Per offrire una definizione possiamo dire

«La maniera con cui la fede, che si visibilizza in “religione”, può inserirsi nelle diverse culture e strati etnici, viene profondamente vissuta dal popolo e si manifesta in dottrina, rito, istituzione norme morali a carattere popolare, radicati nell’esperienza concreta».

Facciamo solo qualche accenno al volto di Cristo presente in questo vissuto popolare. Purtroppo sul tema non esistono monografie di rilievo sullo «specifico» cristologico delle pluriformi tradizioni in genere si tratta tutto «per modum unius». Eppure i misteri della vita di Cristo sono certamente il settore più notevole delle espressioni religiose popolari.

1. ITALIA MERIDIONALE

Queste sono le caratteristiche della figura di Cristo nella religiosità popolare del sud dell’Italia2.

Gesù è visto più che altro folkloristicamente. Frequenti sono i racconti popolari che iniziano: «Quando Gesù andava per il mondo...» Gesù appare un maestro di sapienza, che ha insegnamenti legati al problema della vita misera e insicura della gente, incerta nel cibo e nell’abitazione. A volte è presentato come sacralizzatore dei valori fondamentali della vita contadina: esempio, maledice chi disprezza il pane (così raro!). C’è anche il filone di carattere contestatario: Gesù è presentato in funzione critica, ironica, liberatrice di fronte ai soprusi dei potenti. 3

C’è anche una certa tradizione popolare che lo chiama perfino «primo socialista»: in opposizione al gruppo «clericale» (come ce lo presentano i Vangeli) e quasi una perenne denuncia ai modelli sociali dominanti. 4

Non dobbiamo però dimenticare che le forme di pietà più diffuse, in varie parti del sud Italia, presentano in effetti «Cristo morto» (del venerdì santo) come la figura tipo. Scrive, su questa immagine, Ruggieri:

«Al centro di questa religiosità (siciliana) sta la figura del Cristo sofferente o meglio ancora del Cristo morto. Ed è attorno al Cristo deposto dalla croce e accompagnato al sepolcro da sua madre addolorata che la religiosità siciliana ha creato le sue simbolizzazioni più consistenti.

In tali simbolizzazioni viene a manifestarsi il contenuto centrale di questa religiosità: la dignità cristiana della morte dell’uomo e della sofferenza di ogni donna... A nostro avviso occorre qui parlare, anche se con cautela, di una forma autentica della fede cristiana. Si tratta di una concentrazione della fede stessa, in alcuni aspetti soltanto della memoria storica del cristianesimo, dove diventa quasi ossessivo il tema della morte».

È come dire che sofferenza e morte si devono portare in silenzio. E continua:

«Il nucleo di questa fede popolare può quindi essere descritto come una specie di identificazione tra la sofferenza e la morte storica del Cristo e l’esperienza attuale della sofferenza e della morte dell’uomo»5

Ma in altre parti si incontra anche la rappresentazione del Cristo «risorto» (del giorno di pasqua): il quale nella piazza principale del paese incontra la Madre, fra l’emozione vivissima del popolo. Né mancano devozioni popolari anche a Gesù bambino, al Crocifisso piagato, all’eucaristia, ecc. 6

2. AMERICA LATINA

Qualcosa di simile a quanto detto per il sud dell’Italia anche se molto più ricco;e variegato, si ha in America Latina, per la quale però è indispensabile tener conto dell’influsso determinante dell’immagine spagnola (medievale, pretridentina) 7

L’incontro della cristologia «spagnola» con la sensibilità dell’indio, nel quadro della sconfitta e della oppressione, diede origine ad alcune grandi tipologie di cristologia. Secondo S. Trinidad esse sono:8

Cristologia di rassegnazione: centrata sull’immagine di Cristo vinto, sconfitto e sofferente. Essa rappresenta l’indio vinto, agonizzante: la croce, il dolore sono le condizioni della sua esistenza; deve rassegnarsi lui e le sue donne (la Vergine dei dolori);

Cristologia di dominazione: costruita sull’immagine del Cristo trionfante, «monarca celestiale», una specie di re spagnolo celeste, con la corona simile a lui. L’indio vi vede una «personificazione del re conquistatore»; e i re, «ferdinandi» terreni, saranno visti come incarnazione di quello celeste. L’«impotenza costituita» e il «potere costituito» si fondono in una singolare cristologia dell’oppressione;

Cristologia dell’emarginazione: essa ha come centro la figura di Gesù bambino, variante dell’oppressione. Richiama i bambini emarginati, che il «padrino» prende sotto la sua protezione, ma senza cambiare la loro situazione, né, da parte sua, il ruolo oppressivo.

Ma ci sono anche altre immagini molto diffuse: il sacro Cuore, l’eucaristia, il «Cristo golpista» (implicitamente presente nei tentativi di difesa dei «valori cristiani» come legittimazione del golpe); il «Cristo pacifista»: quello evocato da alcuni profeti come Pedro Claver, Antonio Montesinos, Bartolomé de las Casas...

Queste immagini - per quanto inquinate dai processi culturali e violenti del periodo dell’evangelizzazione - tuttavia rappresentano una base solida su cui fondare il mai finito processo di evangelizzazione. Più problematica la serie di figure «intimistiche», frutto della spiritualità privata e soggettiva, della fase più recente.

Una certa novità è costituita dall’immagine del Gesù Cristo liberatore, che sviluppa una cristologia del servo sofferente. 9 Esso viene a volte a contrapporsi - dice Hugo Assmann - alle diverse figure del Cristo della borghesia e della colonizzazione oppressiva.

Il conflitto tra le diverse e opposte «figure di Cristo» si ritrova anche nella cristologia di Puebla: vi si incontra sia l’immagine tradizionale (prevalente), sia una cristologia più biblica e storica. Il passaggio fondamentale sono i numeri 170-219: «La verità su Cristo salvatore che noi annunciamo».

Il titolo «Gesù Cristo liberatore» non vi si trova; ma si incontra nella parte finale del «messaggio» («Dio è presente, vivo, in Gesù Cristo liberatore, nel cuore dell’America Latina»), quando si parla dell’educazione cristiana (cf. n. 1031) e infine quando si parla di come presentare Cristo ai giovani (cf. n. 1183: «questo è il Cristo che deve essere presentato ai giovani come liberatore integrale»).

Sulla religiosità popolare Puebla apporta una modifica alla prospettiva con cui se n’era parlato a Medellin. In Medellin si parlava di «pastorale popolare», cioè di una pastorale che doveva raggiungere anche le classi popolari e le tradizioni religiose del popolo. Puebla invece, oltre a dare una descrizione più complessa e attenta della religiosità popolare, la descrive come «saggezza» del popolo, come elemento «costitutivo dell’essere e dell’identità» dell’America Latina, come potenziale di evangelizzazione, come punto di partenza della stessa evangelizzazione. 10

Circa le «immagini» di Cristo più diffuse, Puebla mette al primo posto «il culto al Cristo sofferente e al Cristo morto» (n. 912). Una delle preoccupazioni più volte espresse da Puebla è quella di evangelizzare la religiosità popolare, in modo che la figura di Cristo non sia «deformata» in nessun modo:

«È nostro dovere annunciare chiaramente, senza lasciare spazio a dubbi o equivoci, il mistero dell’Incarnazione: sia la divinità di Cristo così come la professa la chiesa, sia la realtà e la forza della sua dimensione umana e storica» (n. 175).

E aggiunge:

«Solidali con le sofferenze e le aspirazioni del nostro popolo, sentiamo l’urgenza di dargli ciò che è specificamente nostro: il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio. Sentiamo che è questa la “forza di Dio” (Rm 1,16), capace di trasformare la nostra realtà personale e sociale e di incamminarla verso la libertà e la fratellanza, verso la piena manifestazione del regno di Dio» (n. 181).


Note

1) Evangelii nuntiandi 48:EV5/1644.
Che cosa sia la religiosità popolare e in quale modo interessi ia
spiritualità lo abbiamo già altrove illustrato, per es. nella Voce
specifica; Religiosità popolare, in Dizionario di spiritualità dei laici, OR, Milano 1981, Il, pp. 211-223. Per un’analisi attenta ai contesto culturale; Religiosità popolare, in «Concilium», 22(1986), 4.

2) Buone indicazioni, anche di carattere pastorale in G. AGOSTINO, La pietà popolare come valore pastorale, Paoline, Alba 1987. Più teologico e un po’ «polemico», Religiosità popolare e teologia popolare, in «Communio» (it.), 95(1987).

3) M. MELIGRANA, Quando Gesù andava per il mondo, in «ldoc-internazionale», 7(1976), 5, pp. 30-40.

4) Cf. A. NESTI, «Gesù socialista», una tradizione popolare italiana
(1880- 1920), Claudiana, Torino 1974; R. CIPRIANI, il Cristo rosso. Riti e simboli, religione e politica nella cultura popolare, Janoa, Roma 1985; P. BOWMAN, Le Christ des barricades (1789-1848) Cerf, Paris 1987.

5) G. RUGGIERI, La fede popolare fra strategia ecclesiastica e bisogno religioso, in «Concilium» 22(185), p. 612.

6) Cf. V. Bo, Feste riti, magia e azione pastorale, EDB, Bologna 1983.

7) Per un primo aiproccio: CELAM, Iglesia y religiosidad popular en A. L.. Bogotà 1977; S. GALILEA-R. VIDALES,Cristologia y pastoral popular, Paulinas, Bogotà 1976; Jesùs: ni vencido ni monarca celestial (imàges de Jesucristo en América latina),
Tierra Nueva, Buenos Aires 1977 (riporta i testi di «Cristianismo y
Sociedad», 13(1975), pp; 43-44, con aggiunta di altri contributi); Quem
è Jesùs Cristo no Brasil?, Ed. Aste. São. Paolo t975: Espiritualidad de la Liberaciòn, in «Christus» (Mexico), dec. 1979/jen.1980 EI Cristo de mi tierra, in «Christus» (Mexico), mar/abr. 1985; J.C. SCANNONE (ed.), Sabiduria popular,simbolo y filosofia, Buenos Aires 1987.

8) I volti del Cristo latino americano, in «ldoc-interflazionale» 7(1976), 3-4, pp. 38-47.

9) Un bel testo C. MESTERS, Missione del popolo che soffre. Cittadella, Assisi 1982.

10) Cf. Puebla, pp. 444-469.



ALCUNE LINEE

Ci limitiamo qui a tracciare alcune linee principali del discorso cristologico del Vaticano II, senza pretendere di esaurire l’argomento.

1. Anzitutto un ritorno al Vangelo, al Gesù storico, concreto, in una prospettiva più ascendente che discendente. Dopo più di un millennio di cristologie «dall’alto», che parlavano cioè di Dio che si fa uomo, l’eterno che si fa tempo, l’infinito che si fa finito. Solo alcune eccezioni vi erano state, come il francescanesimo, in cui si notava una particolare attenzione all’umanità, in cui si svela progressivamente la dimensione divina. Il Vaticano Il così dà risalto in modo particolare al mistero della kénosis, del servo di JHWH. Un Cristo che accetta l’umanità di servizio, per questo si trova frequente la citazione di Mt 10,45: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire...» (e simili).

2. Si evidenzia anche il superamento di Calcedonia, considerata come base di partenza non eliminabile. Il concetto di Cristo calcedonense (una persona e due nature) non lo si trova mai. Ciò che invece si tende a fare è valorizzare, andare al di là di questo schema, coprire gli spazi verso il mistero di Cristo: Gesù di Nazaret è un personaggio che «disegna» e «manifesta» (non in assoluto però) il senso della storia, e questo è il suo mistero.

3. Il vero punto focale dell’insegnamento del concilio è la presenza di Cristo nella storia. Il tema del Regno amplifica l’orizzonte in cui si colloca lo stesso Cristo. La chiesa è relativizzata dal Regno, ma anche Cristo, che sembra essere visto come elemento funzionale a tale disegno piu ampio, anche se il suo ruolo vi e centrale, Molte volte si dice che il Cristo ricapitola le cose, le trasmette alla fine dei tempi al Padre. Cristo quindi non riduce l’attenzione su di sé, ma rimanda anche se stesso ad un disegno che appare più ampio. Il riferimento ai testi paolini qui è fondamentale (Efesini, Colossesi).

4. Cambia allora la posizione di Cristo rispetto alla totalità della storia. Cristo non è mai colui che annulla la storia, che si contrappone in modo assoluto ad essa, ma piuttosto colui che la recupera in pienezza in tutti i suoi valori. Questo dà adito a pensare che anche la chiesa deve camminare sulla stessa strada, senza animo assolutista e manicheo (come se fuori di lei tutto fosse cattivo o comunque sospetto: la «fuga mundi» si trasformerebbe così in ideologia ecclesiale) Il tema fondamentale e allora il ruolo di ricapitolatore di Cristo rispetto alla storia. Il testo degli Efesini gioca un ruolo privilegiato in questa prospettiva. Cristo e la chiesa portano il senso della somma, il compito di dare «dignità» ad ogni frammento, non quello di annullare quello che c’è (Ef 1,10 viene citato in: LG 3,48; AG 3; GS 38,45,58).

5. Nel Vaticano II non è mai separata la cristologia dalla soteriologia: Cristo misteriosa personalità e Cristo redentore e salvatore sono la stessa cosa, formano un tutt’uno. Natura e missione Sono profondamente integrati. Il concilio colloca l’annuncio di Gesù Cristo salvatore nell’ampio annuncio e orizzonte della storia della salvezza, di cui Cristo è «insieme il mediatore e la pienezza» (DV 15).

La conseguenza fondamentale per la chiesa è che: come Cristo, anch’essa deve relativizzare la sua «dignità» e essere anzitutto protesa in avanti, verso la missione. Come il Cristo è il servo di Dio, è il suo servitore, così deve essere la chiesa, a vantaggio dell’intera umanità.

6. La triplice dignità di Cristo, profeta, sacerdote e re, si riflette anche nella vita del cristiano: richiamando il primato del profetismo, e spostando l’aspetto della «regalità» all’ultimo posto. Si rovesciano le situazioni e le mentalità anche recenti: bisogna essere deboli e servitori, e allora si «conquista» a Dio la storia. Appare evidente il rifiuto totale della mentalità che pensa che occorra essere «potenti» per far meglio il bene. Si può notare che la riforma della chiesa («ecclesia semper reformanda»: cf. LG 7.8,40,65;UR 4,7,8) conduce ad una riflessione cristologica molto innovativa, da cui derivano poi le idee per la «riforma» Ma c’è anche dell’altro che vorrei proporre.

UNA PISTA PARTICOLARE

È quella che troviamo in Gaudium et spes, in particolare nei primi tre capitoli. Facendo un’analisi dei tre umanesimi emergenti, il concilio cerca di interpretarli alla luce di Cristo e di ripensare il mistero di Cristo sotto la provocazione di questi umanesimi/ messianismi. Ne risulta che il mistero di Cristo può mostrare una freschezza insospettata. Ecco alcuni spunti:

- Umanesimo individualista (c. I): è il più tradizionale nell’ambito cristiano, perché affronta temi esistenziali vicini alla mentalità umanistica: morte, dolore, coscienza, libertà, ecc. La risposta è: Cristo è rivelatore anche dell’uomo, è rivelatore dell’uomo nuovo, è lui stesso uomo nuovo e perfetto, che riscatta l’antica immagine deturpata nell’Eden. E di questo capitolo la famosa frase: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo... [Cristo] svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (n 22)

- Umanesimo collettivista (c. II): che evidenzia la solidarietà e la giustizia. Il testo mette in evidenza che Cristo ha «assunto» tutti gli uomini e tutto l’uomo non perché ha assunto una natura umana in astratto ma perchè si e messo in contatto con tutti, è divenuto solidale con tutti, specie i poveri e gli ultimi. C’è un’assicurazione insistente su questa presenza fra gli ultimi (e non fra i «primi», che sappiamo bene chi erano nel Vangelo: scribi, farisei, sacerdoti...). Importante è il n. 32 di carattere eminentemente cristologico.

- Umanesimo tecnico (c III) quello che esalta le possibilità di progresso e di manipolazione della materia da parte dell’«homo faber» Di fronte ai molti problemi emergenti occorre riscoprire Cristo quale ricapitolatore di tutte le cose, punto di convergenza in una restaurazione che interessa anche le realtà materiali: corpo, materia, tecnica. Importante il n. 39 che interpreta «cristicamente» le questioni messe in risalto.

Si potrebbe ancora continuare esemplificando anche in altri settori: si veda per es. l’applicazione al problema culturale (nn. 57-62), dove si mette in risalto il legame stretto tra fede e cultura e specificamente tra incarnazione del Verbo e cultura storicamente delimitata.

Tutto questo modo di procedere ha fatto scuola in questi anni. Fino ai nostri giorni, come dimostra anche il documento della Congregazione per la dottrina della fede, Libertà cristiana e liberazione (1986): esso, dopo aver fatto una lettura della condizione della libertà nel nostro tempo (c. I) e della tensione fra libertà e peccato (c. II), traccia alcune linee di interpretazione alla luce della rivelazione biblica (c. III), per poi dedurre atteggiamenti pratici. Un tale modo di procedere (che si potrebbe chiamare circolo ermeneutico) è ormai consolidato, e mostra che bisogna cercare il «volto» di Cristo sempre di nuovo, al di là degli schemi collaudati e ripetuti, per un nuovo slancio missionario e per una nuova esperienza di «andare incontro» a colui che è «oltre», «ci precede» sulle strade della «Galilea delle genti».

GIOVANNI PAOLO Il

Vogliamo dire qualche cosa sul magistero cristocentrico del papa Giovanni Paolo II. Sarebbe interessante esaminare anche il magistero degli episcopati nazionali o quello dei sinodi episcopali Ma preferiamo non dilungarci all’infinito.

Non c’è dubbio che Giovanni Paolo II ha rivolto una particolare attenzione alla centralità di Cristo. Questo comporta anche una particolare maniera di “illustrare” l’ecclesiologia: alla luce di una cristologia ben specifica e che la condiziona.

1. REDEMPTOR HOMINIS (4 marzo 1979)

Qualche mese dopo l’inizio del pontificato, appare l’enciclica programmatica: è abbastanza conosciuta, non mancano i commenti. Il pensiero cristologico viene esposto con intensa partecipazione personale: in pratica si tratta di una professione di fede in Cristo redentore dell’uomo, vivente e operante nella sua chiesa, suo centro e sua ragione di essere.

Lo schema cristologico lo possiamo individuare in questi punti:

- Gesù Cristo è un uomo (da Nazaret), storico, eguale a tutti gli uomini, ma con una singolarità specifica che è la spiegazione ultima del suo modo di vivere la storicità;

- La centralità di Cristo è sulla linea della scuola “francescana”: l’incarnazione redentiva non è solo atto riparatore. E’ anche un atto d’amore eterno di Dio, indipendentemente dal peccato. Esempi se ne incontrano nell’enciclica, per mezzo di citazioni paoline (es. nn. 1,7,8,9);

- Questa centralità è anche accesso unico alla verità. Da solo l’uomo è incapace di giungere alla verità. Cristo la dona nella medesima rivelazione del Padre e rende l’uomo capace di riceverla;

- Cristo è centro della storia, ultimo e definitivo nella vita dell’uomo e dell’universo. Egli è norma e criterio assoluto dell’esperienza cristiana nel mondo; egli è in «funzione» di tutto ciò che l’uomo cerca e attende.

Tra le fonti bibliche prevalgono: Vangelo di Giovanni (specie discorso sacerdotale) e le lettere paoline (Rm. e 1 e 2Cor).

2. UNA CARATTERISTICA

Tra i temi cristologici che variamente vengono sviluppati sottolineiamo: la «singolarità» storica e unica di Cristo, Cristo redentore del peccato, Cristo rivelatore dell’amore del Padre verso di noi. Tenendo presenti queste verità si dovrebbero ridimensionare le correnti cristiane che non danno molto peso all’unicità e «singolarità» storica di Cristo e anche le correnti che enfatizzano la realizzazione su scala mondiale della «liberazione» e non calcolano che il male sta dentro il cuore dell’uomo, nel suo egoismo .e nel suo orgoglio (su questo punto uno sviluppo maturo sarà la: Dives in misericordia). Da qui deriva che il discorso della chiesa sull’uomo sarà elemento centrale dell’annuncio ecclesiale di Gesù Cristo. E dovrà essere un discorso a favore dei diritti fondamentali dell’uomo, contro tutte le oppressioni, anche quelle che presumono di essere invece liberazione storica degli oppressi.

L’impegno missionario della chiesa, di fronte ai «germi del Verbo» e ai valori spirituali presenti in altre tradizioni religiose. La chiesa deve riconoscerli, ma lo saprà fare solo se vive autenticamente aperta a Cristo e ai suoi impulsi (RH 18).

L’attenzione più ampia viene data all’evento croce/risurrezione e al suo significato per la riconciliazione di Dio con l’uomo; più scarsa è l’attenzione alla vita terrena e storica di Gesù e alla portata redentrice di questa realtà storica concreta.

Una difficoltà è la non semplice conciliabilità tra le due vie:

«Gesù Cristo è la via principale della chiesa» (RH 13); e «Quest’uomo è la prima strada che la chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’incarnazione e della redenzione» (RH 14)».

Possiamo superare la dualità dialettica dicendo: La struttura fondante del documento è semplice, unica ragione vitale della chiesa è Cristo; ma Cristo è il nuovo Adamo, chiave del mistero di ogni uomo; e dunque è l’uomo la prima e fondamentale via della chiesa.

3. IL CRISTOCENTRISMO

Il suo pensiero «cristocentrico» lo possiamo seguire nei vari sviluppi attraverso le altre due encicliche teologiche fondamentali: Dives in misericordia (30 novembre 1980) e Dominum et vivificantem (18 maggio 1986).

Nella prima Dives in misericordia, ci presenta Gesù Cristo come la «rivelazione della misericordia» del Padre (n. 1), come incarnazione della misericordia» (n. 2) e come impegnato a «render presente il Padre come amore e misericordia» (n. 3). Più avanti altri due paragrafi sono dedicati al «mistero pasquale»: nel quale la «misericordia si rivela nella croce e nella risurrezione» (n. 7) e più forte del peccato (n. 8). Alla figura del Figlio del Padre misericordioso è associata, come è logico, anche la «madre della misericordia» (n. 9). L’impressione generale che si ricava da questa enciclica è che il tema antropologico religioso (uomo peccatore) sia prevalente e condizioni anche quello teologico-cristologico. Per qualcuno la visione «antropologica» di questa enciclica è piuttosto pessimista.

Nella seconda enciclica (Dominum et vivificantem) riappare con molta forza l’attesa «millenaristica» della fine del millennio, alla luce della quale viene proposta una nuova attenzione allo Spirito santo che sia:

«Una nuova scoperta di Dio nella sua trascendente realtà di Spirito santo, come Io presenta Gesù alla samaritana; il bisogno di adorarlo in spirito e verità; la speranza di trovare in lui il segreto dell’amore e la forza di una «nuova creazione: sì, proprio colui che dà la vita» (n. 2).

Poi tutta la prima parte è dedicata allo sviluppo di una pneumatologia in chiave trinitaria ed ecclesiale, come il titolo stesso avverte: «Lo Spirito del Padre e del Figlio, dato alla chiesa» (nn. 3-26). Le altre due parti sono dedicate più che altro alla riflessione delle forme e delle figure di peccato che dominano la nostra storia e all’opera di «purificazione» dello Spirito (parte II). Mentre la terza è tutta la chiarificazione del senso del «Giubileo del duemila» e delle indicazioni per prepararsi bene: recupero dell’uomo interiore, vita sacramentale intensa (specie eucaristica), esperienza di preghiera.

CONCLUSIONE

Il post-concilio ha sviluppato non solo nuove e interessanti prospettive cristologiche, ma anche ne ha fatto con maggior chiarezza il centro della vita cristiana. Questo può lasciare indifferente la metodologia e il concetto di «santità»? Non credo, ma anzi dovrebbe costringere a rivedere metodi e concetti: passando da un quadro di riferimento chiaramente «ecclesiologico» ad uno più «cristologico», da una cristologia devozionale ad una cristologia più biblica e insieme meglio acculturata.

In altre parole, l’esempio della santità non è «Dio santo», ma piuttosto Gesù, il «Santo di Dio». E la santità è chiaramente esperienza della «sequela» di Cristo, e non il raggiungere una «perfezione» astorica e astratta, modellata sul Dio «perfetto» e «impassibile», lontano dall’umano.

Deriva da qui anche una conseguenza: ad una cristologia «pluralistica» deve corrispondere una santità ricca di pluralismo.

Ha scritto uno studioso della spiritualità

«È accettato un pluralismo personale: diverse persone si sentono internamente spinte a esperienze e lavori diversi dentro l’unica comunità umana. Si accetta un po’ meno il pluralismo cronologico: in tempi distinti si devono cambiare gli accenti secondo necessità e possibilità richieste e concessi in tempi diversi. Si dimentica però il pluralismo geografico: non tutti i luoghi presentano la medesima problematica e, pertanto, non tutti possono utilizzare gli stessi schemi di vita. Una santità che dimenticasse queste differenze, o questo pluralismo, correrebbe pericolo di staticità, gregarismo e uniformismo».

Il settore, o la prospettiva che sembra si dovrebbe maggiormente sviluppare, si può individuare nella «dimensione politica e pubblica» della sequela di Cristo, santa e perfetta. Ne deriverebbe una deprivatizzazione del vivere cristiano e una maggiore sensibilità per una sequela che sia provocazione storica: cioè sostanziata di audacia e giustizia

Dice Puebla: «L’evangelizzazione dei poveri è stata per Gesù uno dei segni messianici, ed anche per noi sarà segno di autenticità evangelica» (Puebla, 1130); e ancora «La nostra condotta sociale è parte .integrante della nostra sequela di Cristo» (n. 476).

E anche un testo vaticano destinato ai religiosi dice: «I Vangeli tendono testimonianza a Cristo della fedeltà con cui ha adempiuto la missione per la quale lo Spirito l’aveva consacrato. Missione di evangelizzazione e redenzione umana che lo condusse a vivere col suo popolo, condividendone le vicende, che egli tuttavia illuminava e orientava, predicando e testimoniando il Vangelo di conversione al “regno di Dio” (Mc 1,15). La sua sconvolgente proposta delle “beatitudini” introduceva un radicale rinnovamento di prospettiva nella valutazione delle realtà temporali e nei rapporti umani e sociali, che egli voleva centrati su una giustizia-santità animata dalla nuova legge dell’amore.

Le sue scelte di vita segnano e qualificano particolarmente i religiosi, che fanno propria la stessa “forma di vita che il Figlio di Dio abbracciò quando venne nel mondo” (LO 44)».

Nella più recente enciclica, Sollicitudo rei socialis (1988), il grande tema della solidarietà, che tutta l’attraversa, trova la sua giustificazione non solo nell’interdipendenza crescente fra popoli, nazioni, risorse, conflitti e paure; ma soprattutto nella fede in Cristo redentore, riconciliatore degli uomini con Dio e centro nevralgico del cosmo (n. 31). Nella forza della sua vita donata, afferma l’enciclica, possiamo lottare contro divisioni ed egoismi, fragilità e ingiustizie. E’ questa una grazia ma anche un impegno (n. 40), una collaborazione aperta a tutti coloro che cercano il bene in nome dello «sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini». La solidarietà è una virtù cristiana (n. 40), genera come frutto genuino la pace (n. 39), si orienta verso tutte le dimensioni sociali, ma anzitutto si classifica come amore preferenziale per i poveri (n. 42), per i quali si fa primariamente amore e servizio (n. 46). E questa la più genuina imitazione di Cristo e la fedeltà autentica al suo programma (nn. 46,47). L’eucaristia, vertice della fede cristiana, ne è pegno e fermento: «Il Signore mediante l’eucaristia, sacramento e sacrificio, ci unisce con sé e ci unisce tra di noi... e uniti ci invia al mondo intero per dare testimonianza, con la fede e con le opere, dell’amore di Dio, preparando la venuta del suo Regno e anticipandolo nelle ombre del tempo presente» (n. 48).

Come si vede anche l’insegnamento «ufficiale» si pone la questione e suggerisce di fare attenzione, tirando le conseguenze logiche. Su questa stessa linea possiamo ritrovare una grande quantità di «nuovi testi» di catechismo, in cui la cristologia è presentata in categorie teologiche e antropologiche non puramente statiche e ripetitive.

Non si tratta di una novità estranea alla storia, perché la storia conosce queste aperture dinamiche e sociali, anche se sotto varie accentuazioni e progettualità. Perciò a questo punto si impone una «rilettura della storia» per cogliere i filoni «cristocentrici» : più ricchi e interpretare la varietà degli approcci al mistero di Cristo.

Lo faremo nei capitoli seguenti, dedicandoci a riconoscere la «molteplicità dei volti» di Cristo nella storia. Attraverso quest’ampia ricognizione, sarà facile riscontrare la notevole influenza delle culture, delle emozioni e delle utopie nel pluralismo di queste immagini e nelle risposte/proposte esistenziali di fronte al mistero di Cristo Gesù.

Pubblicato in Teologia
Mercoledì, 09 Gennaio 2008 23:34

La teologia e la pastorale riflettono (Bruno Secondin)

La teologia e la pastorale riflettono

di Bruno Secondin

Entriamo ora nella presentazione di alcune elaborazioni cristologiche più recenti, e in certo senso ancora aperte a sviluppi sia di necessaria maturazione, sia di perfezionamento e di consolidamento. Quelle che stiamo per presentare non esauriscono certo la gamma delle opzioni metodologiche riscontrabili, né le variazioni in atto in particolare nelle cristologie del terzo mondo.

Notiamo soprattutto che la forma «narrativa» della cristologia, come di tutta la teologia, sta sviluppando una felice sintesi fra culto e «imitatio Christi», tra linguaggio primario della fede e risposta ad una presenza esperimentata e contestualizzata in maniera nuova e medita.

L’interazione fra pietà o vissuto spirituale popolare e riflessione accademica o teologia sapiente è complicata. Ma non v’è dubbio che oggi si tende a prendere in seria considerazione l’esperienza religiosa, anche comunitaria, per «costruire» un discorso su Cristo che non sia puramente speculativo e astratto, ma sia la tematizzazione «organica» dell’incontro con Cristo, centro e senso plenario dell’esistenza, dei singoli e delle comunità.


TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

In questo tempo si parla molto della «teologia della liberazione», quando si vuole parlare della teologia latino-americana. Ma non si può negare che l’elaborazione teologica dell’America Latina non si riduce alla sola corrente della liberazione. Ci sono di fatto molteplici forme di discorso teologico, e quindi molteplici forme di ricerca cristologica: sia tradizionali che innovative.

1. ALCUNI PRESUPPOSTI TEOLOGICI

Per capire il perché del radicamento storico sociale di tutta l’elaborazione teologica latino-americana, si deve fare attenzione alla situazione di violenza istituzionalizzata e allo stato di oppressione/repressione che provocano nei credenti una risposta legata alla fede. Impegnarsi per l’uomo oppresso è considerato pertanto un vero initium fidei.

Inoltre bisogna fare attenzione a due connotazioni di partenza:

- Esiste un’«unica . storia», dalla creazione all’escatologia, e quindi qualsiasi impegno a favore dell’uomo si colloca - anche se inconsapevolmente - nei disegni di Dio per la salvezza del mondo;

- Verità è ciò che fa l’uomo, cioè ciò che lo realizza in pienezza. Allora il «processo di liberazione che sta fermentando tutto il continente si presenta come un locus ermeneutico1.

Questo è un modo nuovo di fare teologia. Ma notiamo bene che questo non vuol dire che la liberazione pratica si identifica col contenuto della fede. Quando si dice fede come prassi politica: si vuoI dire che la fede oggi in America Latina può essere percepita all’interno di una prassi liberante, vi si mescola, ma non vi è esaurita. E la teologia della liberazione è il momento della chiarificazione teorica e critica alla luce della Parola e delle scienze umane di quello che avviene. Quindi la finalità della teologia della liberazione è: «rilettura del messaggio evangelico partendo dalla prassi di liberazione» (G. Gutierrez).

Per questo possiamo dire che per capire la teologia della liberazione e la sua cristologia, bisogna porsi anzitutto nell’ambito di un’«esperienza spirituale» molto forte. Più che una «teoria pensata ed elaborata», essa è anzitutto una corrente di spiritualità (di vita nello Spirito), che trova nell’«elaborazione teologica rigorosa una tematizzazione solida e interpretativa. «Il nostro metodo è la nostra spiritualità» (G. Gutierrez).

Tanto è vero che G. Gutierrez dedicava già un paragrafo della sua opera più famosa alla «spiritualità della liberazione»2. Anche il suo libro recente Bere al proprio pozzo, è dedicato all’itinerario spirituale del suo popolo peruano.

L. Boff parla di «contemplativus in liberatione» e Sobrino di «santità politica», come «liberazione con spirito, in quanto si tratta di unificare spirito e pratica, spiritualità e impegno». Il suo ultimo libro sulla spiritualità è particolarmente ricco per questo nostro discorso3.

In sostanza possiamo dire che l’apporto cristologico prevale: specialmente il Gesù della storia, la sua esperienza tra gli uomini, le sue azioni e reazioni di fronte ai vari messianismi e alle varie manipolazioni del potere, specie se fatte in nome di Dio. Non escludendo il momento escatologico o trascendente dell’evento Cristo, ma piuttosto concentrandosi su quest’altro punto. Possiamo dire che si tratta dell’evidenziazione del «momento prassiologico del messaggio di Cristo» (L. Boff).

2. ALCUNE CARATTERTSTICHE COMUNI A TUTT I TEOLOGI

1. Critica sistematica e di fondo alla teologia europea (cioè la teologia accademica classica). E’ accusata di essere portatrice dell’ideologia della classe dominante, di essere evasiva e intimistica, segnata da rassegnazione e manipolazione. Inoltre la si accusa di procedere per categorie universalissime e concetti astratti, privi di rapporto organico con la realtà concreta e con la fatica storica di trovare nella prassi la luce della fede.

2. Occorre porsi nell’ottica degli oppressi, cioè dal punto di vista dell’emarginazione e della dipendenza: questa prospettiva assunta sul serio, provocherà uno specifico linguaggio e una specifica sensibilità, un senso di servizio storico e di liberazione. Quindi una cristologia neutrale viene considerata impossibile e improponibile, almeno attualmente.

3. Occorre tener. conto della grande ricchezza della «cristologia popolare», contenuta nella «religiosità popolare». Che però va stimata, apprezzata, ma anche aiutata a purificarsi e a reinterpretarsi, dando giusto rilievo alle esigenze del momento storico che viviamo e che impone con urgenza uno sforzo per la giustizia, la libertà e la speranza.

4. Secondo L. Boff bisogna tener in conto le quattro seguenti priorità ermeneutiche: primato dell’elemento antropologico su quello ecclesiale; primato dell’utopico sul puro fattuale; primato del sociale sul personale; primato dell’ortoprassi sull’ortodossia.

L. BOFF, J. SOBRINO, G. GUTIERREZ

Non possiamo presentare la molteplicità dei teologi e degli scrittori spirituali dell’America Latina. Anche se la cosa non sarebbe inutile. Ma ci limitiamo ad alcuni veloci accenni al pensiero di tre fra di essi, che ci sembrano significativi.

L. Boff: (1938- ), francescano brasiliano, autore di molte opere. Sul nostro tema dopo il Gesù Cristo liberatore, considerato in fondo «tradizionale» Boff è andato elaborando vari «frammenti», ma non ancora una «cristologia sistematica».

In sostanza egli rifiuta un’impostazione neutrale della cristologia: «Il nostro interesse si colloca nell’orizzonte della teologia della liberazione, della prigionia e della resistenza». Perciò privilegia il Gesù storico sul Gesù della fede: per il significato maggiore che quello può avere in senso «liberatorio» per l’America Latina.

Fra i titoli cristologici ereditati, che egli accetta e stima, il teologo francescano preferisce però quello di «liberatore». Infatti:

— La prassi di Gesù è una liberazione in marcia: è il regno di Dio che viene avanti e si fa esperienza di libertà;

— La conversione che Gesù richiede da coloro che lo ascoltano: è anzitutto la creazione di nuove maniere di rapportarsi reciprocamente, nuovi rapporti liberi e liberanti;

— La morte di Gesù: è il prezzo da pagare per la liberazione che fa fatica ad imporsi, ed anzi trova difficoltà e conflittualità;

— La risurrezione è irruzione anticipata della liberazione definitiva.

Da qui prende senso l’annuncio dell’insperato, della realizzazione di una parabola di riconciliazione, attraverso un processo di liberazione nel quale si paga un prezzo. La croce di Gesù e di tutti coloro che la riesperimentano è partecipazione alla grande «passio mundi». L’utopia non sta al di fuori, ma nel più profondo e oltre l’umano.

J. Sobrino (1933-) gesuita basco-salvadoregno4.Egli parte dalla rilevazione che la situazione storica in cui Gesù si è trovato, ha storicamente tante somiglianze con quella attuale dell’America Latina. E’ una situazione di peccato che si ripete. Perciò suggerisce una concentrazione cristologica: è in particolare nell’orizzonte dell’utopia del Regno che si può capire tutto il messaggio di Gesù. Il Regno fa irruzione nell’umano in e per Gesù:

«Impareremo a vedere cosa sia stato realmente il Regno per Gesù non solo da quanto si può ricavare dalla sua nozione di Regno, ma dalla stessa vita di Gesù a servizio del Regno»5

Per cui il discorso sul Regno parte da Gesù «storico» e si illumina con Cristo, specialmente con la sua risurrezione, che si rivela il vero paradigma della liberazione.

Gran parte del discorso di Sobrino è lo sviluppo di una cristologia incentrata sul Gesù della storia, sul suo impegno al servizio del «regno di Dio», sulla sua «fede» e sull’importanza della sua «via»: cioè la sequela (seguimiento), una parola chiave per Sobrino, ed elemento insostituibile per conoscere Cristo.

«I concetti possono e debbono presentare genericamente la verità di Cristo, ma perché tale verità generica divenga verità reale è necessaria la mediazione di qualcosa che non è pura conoscenza; occorre la realtà totale della vita, che include la prassi dell’amore e della speranza, in base alle quali, dal di dentro, il generico si concretizza. Questa totalità che non si riduce alla mera conoscenza, noi la chiamiamo sequela»

Ma hanno rilievo anche la preghiera di Gesù e l’esperienza della risurrezione.

La «sequela» è criterio della confessione cristologica reale e fondamento per una comprensione di Cristo da dentro: il «sacrificium vitae» è la consumazione del «sacrificium intellectus» che è l’atto di fede.

Pertanto la cristologia della liberazione - per usare un’espressione cara a Sobrino - non pretende di essere tutta la cristologia, con le sue questioni dogmatiche e storiche. Ma senza dubbio essa rappresenta una nuova riflessione ermeneutica creativa.

G. Gutierrez (1928-), teologo peruano, conosciuto specialmente per la sua Teologia de la Liberaciòn. La cristologia è stata sviluppata meno da Gutierrez rispetto ai due teologi precedenti. Possiamo notare che nella Teologia della liberazione la cristologia appare qua e là: per es. «Cristo e la piena liberazione», «Cristo liberatore». Ne La forza storica dei poveri ci sono sviluppi maggiori, specialmente su questi punti: «Cristo verità del Padre», «Cristo povero», i «Cristi flagellati delle Indie».

Nell’opera Bere al proprio pozzo, il discorso cristologico è centrale. Per lui la spiritualità cristiana è caratterizzata da tre punti cardine:

- Un incontro con il Signore, inteso come esperienza spirituale fontale;

- Una vita secondo lo Spirito (non in senso spiritualistico), come un vivere in accordo con i grandi valori del Regno: la vita, l’amore, la pace, la giustizia;

- Un’«avventura collettiva mossa dallo Spirito»secondo il paradigma dell’Esodo biblico.

E questo perché in America Latina «la spiritualità è un’avventura comunitaria. Quasi passi di un popolo che fa il suo proprio cammino nella sequela di Gesù attraverso la solitudine e le minacce del deserto. Questa esperienza spirituale è il pozzo al quale dobbiamo bere. O, forse, oggi, in America Latina, è il nostro calice, promessa di risurrezione».

Anche nell’ultima opera — Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente, che è in sostanza una riflessione sull’avventura spirituale di Giobbe — il richiamo a Cristo è evidenziato. Colpisce nella parte conclusiva l’applicazione della riflessione europea dopo gli orrori dei lager — di fronte al trauma dell’olocausto ci si è chiesti: «come parlare di Dio dopo Auschwitz?» — alla peculiare situazione peruana.

Egli si domanda: «come fare teologia dopo Ayacucho?». Cioè come

«trovare un linguaggio su Dio in mezzo alla fame di pane di milioni di esseri umani, all’umiliazione di razze considerate inferiori, alla discriminazione della donna, in particolare quella dei settori poveri, all’ingiustizia sociale elevata a sistema, alla persistente e alta mortalità infantile, ai “desaparecidos”, ai privati di libertà, alle sofferenze di popoli che lottano per il loro diritto alla vita, agli esiliati e rifugiati, al terrorismo di vario segno, alle fosse comuni piene di cadaveri di Ayacucho....

In conclusione, secondo un’analisi complessiva che ne traccia J. Sobrino, la figura di Cristo in America Latina è stata riscoperta, non a partire dalla riflessione teologica, ma fondamentalmente dalla «rilettura» del Vangelo a partire dal «mondo dei poveri». Le note caratteristiche di questa figura sono: la vicinanza, la liberazione, la contemporaneità, l’annuncio di gioia.

Va notato che una trattazione completa della «cristologia» nella teologia della liberazione, esigerebbe molta più informazione. Sia per le varie «teologie della liberazione» che si stanno sviluppando in altre parti del mondo. Si pensi all’area caraibica, alla teologia nera degli USA, alla teologia della liberazione in Sud Africa, in Filippine, India, Asia.

Per quanto riguarda invece la «reazione» europea a questa «teologia»si può constatare che il dialogo va crescendo e non mancano riflessioni serie sui cambiamenti che in Europa dovrebbero essere fatti non solo sul piano della prassi (apparteniamo alle potenze che opprimono), ma anche nel campo della teologia. Per accogliere come partner questi interlocutori, e non trattarli con sospetto o con aria di sufficienza.

Note

1) L. B0FF, Salvezza in Gesù Cristo e processo di liberazione, in «Concilium» 10(1974), p. 99.

2) GUTIERREZ, Teologia della liberazione pp. 202-207 1981.

3) J. SOBRINO, Tracce per una nuova spiritualità, Borla, Roma 1987 (titolo originale: Liberaciòn con espìritu..., SaI Terrae, Santander 1985). E’ di fatto una raccolta di articoli.

4) Fra le sue opere, la già citata Cristologia; di valore particolare Gesù in America Latina, pp. 11-89: Jesùs de Nazareth, in C. FLORJSTAN - J. TAMAYO (ed.), Conceptos fundamentales de Pastoral, Cristiandad, Madrid 1983, pp. 480-513; Tracce per una nuova spiritualità, Borla, Roma 1987. Su di lui: J. MARTORELL, Jon Sobrino: un proyecto de cristologia, in «Teologia Espiritual» 30(1986), pp. 261-283; e uno studio più recente con bibliografia aggiornata J. A. GUERRERO, Jesucristo, salvador y liberador (La cristologia de Jon Sobrino), in «Naturaleza y Gracia», 34 (1987), pp. 27-96.

5) Cristologia, p. 350.

CRISTOLOGIA AFRICANA

Accanto alla giovane ma già suggestiva riflessione cristologica latino-americana, dobbiamo riconoscere anche un interessante sviluppo della cristologia africana. Senza dubbio si tratta di una situazione ancor meno sviluppata di quella dell’America Latina, perché possiamo riconoscere facilmente la lunghezza del suo cammino: che non va oltre i due decenni. Ma va rilevato anche che proprio la specificità singolare dell’ambiente e della cultura africana – così differenti da quelli europei o di prolungata influenza europea - rende queste ricerche di «cammini nuovi» e di «linguaggi inculturati» dell’unico Vangelo di Cristo, un settore quanto mai interessante.

Bisognerebbe ricordare che l’Africa - più precisamente l’Africa mediterranea - nei primi secoli cristiani aveva già dato alcuni fra i più grandi teologi antichi: Tertulliano e Cipriano, Agostino e Origene il grande maestro della scuola di Alessandria, il monachesimo primitivo che ha in Pacomio il padre della «koinonia», ecc. Ma poi le invasioni, sia dei popoli barbari venuti dal nord Europa che degli arabi con l’islam, sradicarono ogni cosa. Oggi nel nord Africa la religione cristiana stenta a sopravvivere, in situazioni di quasi totale islamismo di stato. Mentre nell’Africa subsahariana e giù fino al Sudafrica l’attività di conquista coloniale del secolo scorso ha portato, assieme ai vari conquistatori europei, anche le forme religiose di costoro. Moltissime nazioni africane celebrano proprio in questi anni il primo centenario dell’arrivo dei primi missionari (europei).

Negli anni sessanta è iniziata la grande epoca della decolonizzazione: che di fatto ha destrutturato l’equilibrio vitale delle società africane, instaurando un’economia di sfruttamento nel solo interesse delle multinazionali. Nel contesto internazionale l’Africa rimane un continente circuito dalle potenze straniere, che le impongono vincoli d’ogni specie, saccheggiandone le ricchezze. Oggi l’Africa è «un continente che non si appartiene».

L’elaborazione di una specifica cristologia africana si deve vedere allora in questo contesto: di enorme miseria materiale, di dipendenza culturale ancora impressionante, di patrimonio etno-culturale di grande qualità e di lunghissima data. E’ infatti in questa ricchezza di elementi religiosi tradizionali, e insieme di una «Africa strangolata», che si può capire la forma originale di parlare di Cristo e di cercare un linguaggio che parli dalla vita e nella vita.

Nell’Africa del sud, il tema abituale dei teologi neri, come Sebalo Ntwasa e Basil Moore, è quello della distruzione del «Cristo bianco», rappresentante della razza bianca oppressora e dei suoi missionari venuti dall’Europa. Si legge nel manifesto di Hammanskraal:

«La teologia nera è una teologia del futuro dell’uomo nero alla luce del Cristo liberatore. Conseguentemente, noi respingiamo l’interpretazione deformata del messaggio cristiano imposta al popolo nero dalle chiese dominate dai bianchi».

Nelle altre nazioni e etnie africane si seguono a preferenza altre piste, soprattutto si usano altri «nomi» per capire e vivere il mistero di Cristo. Un libro prezioso è apparso di recente, anche in italiano - Cristologia africana6  - che raccoglie i molteplici frammenti della riflessione e della letteratura, delle credenze e dei simboli, dei «nomi» e delle «immagini» che si riscontrano nell’Africa subsahariana, in particolare di lingua francese.

Uno dei punti nevralgici dell’opera è quello di come poter chiamare, ossia «dare un nome» a Cristo, in maniera che diventi «familiare», accolto nella «casa culturale» dell’africano. Infatti è di interesse peculiare per gli africani trovare un nome africano per Gesù Cristo: tale cioè che permetta una migliore e più inculturata conoscenza del mistero stesso di Cristo. Nel libro si parla ampiamente dei titoli: capo, antenato o figlio maggiore, maestro di iniziazione, guaritore, e molti altri. E viene mostrato, per ognuno, quale possibilità v’è di essere in «relazione» con i contenuti del mistero», ma anche con il linguaggio esperienziale religioso delle etnie.

imposto dal movimento stesso dell’incarnazione, la divinità professata del Verbo incarnato non deve cadere nella pura e semplice assimilazione, ma diviene esercizio di esplorazione nella fede e di fedeltà alla fecondità inesauribile del mistero. E questo si chiama oggi inculturazione . forse la categoria che è più conforme all’elaborazione teologica e culturale della tradizione greco-latina. Mentre nel secondo caso - ché è appunto più prossimo all’universo religioso delle grandi religioni asiatiche (come abbiamo visto) e alla concezione religiosa tradizionale africana - si pone l’accento sul valore «cristologico» delle tradizioni religiose. In quanto Cristo viene ad essere il vertice il ricapitolatore della lunga catena di «grandi uomini» che hanno mantenuto vivo lo «spirito» del primo, l’originario progenitore della tribù, della etnia .

Non è sottovalutata neppure la dimensione «escatologica» del Cristo: come liberatore futuro e pienezza di vita nel secolo che viene. Essa è presente sia nel titolo di maestro di iniziazione, sia in quello di guaritore, sia in quello di liberatore. Ma rimane ancora da sviluppare con ulteriori apporti questa prospettiva, che è senza dubbio essenziale per una fedeltà al «mistero cristiano» nella sua completezza.

Note

6) Cristologia africana, Paoline, Cinisello Balsamo 1987. Un breve saggio anche in MOLONEY, African Christology, in «Theological Studies» 48(1987), pp. 505- 516.

CRISTOLOGIE «NUOVE»

Non vogliamo qui entrare nella valutazione critica di tutte le nuove cristologie, anche se il titolo sembra affermarlo. Piuttosto vogliamo dire qualcosa di alcune «nuove cristologie» - come quelle di Schillebeeckx, Hulsbosch, Schoonenberg, Küng, Duquoc - di cui però non abbiamo parlato, per non dilungarci troppo. Proponiamo una linea di valutazione, in generale.

Esse in buona parte si assomigliano per il tentativo di una valutazione critica di Calcedonia, e quindi tentano di riformulare in categorie nuove il suo insegnamento dogmatico, senza rinnegarlo. Loro affermazione è che bisogna «andare avanti da Calcedonia»: e in fondo oggi la cosa non fa molto problema. Dipende come si va avanti. In generale si constata che nella loro proposta di formulazione nuova e più adeguata della fede ci sono dei vantaggi e dei limiti.

1. Pericoli. Anzitutto vi è quello di un’interpretazione riduttiva del mistero. In quanto l’affermazione Cristo uomo-Dio sembra riduzione del mistero al dato antropologico. Non si vede bene espressa la preesistenza della persona divina. I vocaboli/categorie culturali che vengono impiegati sembrano non riuscire ad esprimere veramente il mistero, che va espresso e rispettato.

2. Vantaggi. Questi consistono nel richiamo ai dati «economici» (pro me) e non solo ontologici (in se). VuoI dire che ci è possibile così riflettere sul mistero di Cristo in modo da poter capire le leggi fondamentali su cui si costruisce il rapporto religioso Dio-uomo e su cui si struttura la storia della salvezza.

C’è poi il vantaggio di mettere in risalto che dire «Dio si è fatto uomo» vuol dire mostrare un evento che riguarda non solo la sfera umana, ma anche quella divina, un divenire presente cioè anche in Dio: ciò comporta uno sforzo per illustrare bene i significati. Altro vantaggio è anche quello di sollecitare ad una religione che si ponga nel mondo nella linea dell’incarnazione, cioè in pratica nella linea della promozione umana, in tutte le sue forme.

Altro vantaggio sta nella possibilità di leggere l’impegno di Dio come progressivo impegno di salvezza, anche dopo la venuta di Cristo. La diffusione del messaggio evangelico è progressiva e più intensa applicazione dell’economia dell’incarnazione nei vari momenti del progresso storico (culturale, politico, sociale...).

3. Si noti bene che questa economia non va dalla comunità a Dio, ma da Dio alla comunità. La storia si realizza quando l’uomo accetta Dio nella sua storia. Il cristianesimo non è una sociologia religiosa che diviene religione, ma una religione che sa suscitare aspetti socio-politici. Né si può mancare di evidenziare che il Dio con noi si manifesta nella gratuità, nella non-imposizione. E quindi risalta la prevalenza del servizio sull’autoaffermazione.

Idee molto simili si possono trovare anche in documenti «ufficiosi» ma di grande valore teologico, come il testo Questioni riguardanti la cristologia, della Commissione teologica internazionale.

SINTESI

Ci avviamo ora ad una valutazione complessiva e conclusiva dell’attuale stagione di studi e di riflessioni cristologici. Si tratta di alcune sottolineature generali che ci sembrano emergere con evidenza, in una sintesi finale7.

1. PROSPETTIVE GENERALI

Sono quelle che in fondo costituiscono alcuni dei più accentuati orientamenti nuovi .

1. Riconoscimento della storicità. Il pensiero storico attuale porta all’affermazione della «storicità» di tutte le proposizioni di fede e dei vari volti di Cristo. Non si può isolarli dal legame con l’ambiente storico culturale di ieri e di oggi. Il processo di ellenizzazione, di cui molto ci si lamenta, in effetti non è stato fatto senza una certa creatività; tuttavia fu un processo di inculturazione e quindi anche di «limitazione». Occorre rendersi conto dei condizionamenti storici, delle categorie mentali che ieri erano più statiche e oggi sono più dinamiche e funzionali.

Lo sviluppo del pensiero storico ha perciò liberato la cristologia anzitutto dalla sua stasi e creato giustamente la necessità di un rinnovamento costante e diciamo pure di un rinnovamento coraggioso. Occorre introdurre categorie dinamiche-funzionali anche nell’esistenza concreta del Verbo fatto uomo (sul suo sviluppo e il suo divenire se stesso).

Essere e storia sono strettamente collegati, non basta ribadire i dati di Calcedonia: Calcedonia deve essere punto di partenza, non mai eliminabile (come ha detto Rahner). Ma occorre anche assumere prospettive nuove sull’essere persona e sui condizionamenti che si verificano nel diventare realmente e totalmente persona.

2. L’interesse per il Nuovo Testamento. Il ripensamento della cristologia porta a riallacciarsi all’annuncio originario del Nuovo Testamento, ma anche ai legami con l’Antico Testamento e la letteratura detta «intertestamentaria». Con la conseguenza che l’immagine emergente dal Nuovo Testamento nei testi più antichi (es. i Vangeli) non corrisponde in tutto all’immagine neotestamentaria più tardiva: il Gesù prepasquale e il Cristo postpasquale sembrano a prima vista due entità ben diverse e non conciliabili. Per questo fin dall’epoca dell’illuminismo - di fronte alle accuse della «ricerca sulla vita di Gesù» (Leben-Jesu-Forschung) - si cerca di superare l’abisso profondo fra Cristo postpasquale e Gesù storico. La stagione ampia di questa «ricerca» non ha condotto veramente a dimostrare la storicità della fede posteriore in Cristo anche prima della proclamazione del dogma cristologico. In tutto si trova la mano della comunità postpasquale e della sua fede. E di conseguenza nel passato prossimo si negava che si potesse arrivare davvero al Gesù della storia tale e quale era stato: colpa degli strati, dei miti, delle teologie.

Solo in un secondo momento si troverà la via per arrivare al Gesù storico con sicurezza. Un geniale artefice del superamento delle difficoltà è stato E. Käsemann con le sue ricerche sul Gesù storico seguendo i cosiddetti metodi della differenza, dell’autorità, della disuguaglianza/somiglianza, ecc. Come dice Schilson: la cristologia posteriore può quindi intendersi come legittima spiegazione di un’esigenza contenuta nel Gesù terreno, esigenza che oltrepassa i limiti ordinari. Inoltre il «Gesù storico» resta necessariamente povero rispetto al «Gesù terreno». In altre parole la vita reale di Gesù era sicuramente più varia e più ricca di contenuto di quanto si può dimostrare storicamente accertato e accertabile.

3. Responsabilità pubblica della fede. L’annuncio di Cristo deve provocare l’uomo ad una risposta, attirano ad una nuova possibilità di vita e di esistenza (Bultmann). Ma deve anche avere un significato a livello comunitario: un peso sociale di critica e di incoraggiamento. Questo fa nascere la così detta «ermeneutica politica», che si sviluppa particolarmente in cristologia: mostrando la portata sociale del messaggio cristiano per l’epoca attuale.

Ciò porta a parlare: di soteriologia in chiave comunitaria e non solo individuale, della chiesa come istituzione critica fondata sulla «memoria passionis», dell’annuncio come di una memoria pericolosa per l’epoca attuale. In sostanza si ha l’accoglienza delle istanze migliori della teologia politica, della speranza, della liberazione.

Però tutte le cristologie che rivalutano la prassi messianica del Gesù storico corrono anche il rischio di fare di esso un nuovo mito e di sorvolare quelle implicanze della fede biblica in Cristo che raggiungono una maggiore profondità, e non sono esplicabili del tutto «prassiologicamente».

2. COMPITI

Si tratta di impegni evidenti per un rinnovamento della cristologia, secondo le attese contemporanee8.

1. Cristologia come storia (o anche «cristologia narrativa»). Questo vuole dire: mettere in risalto che la cristologia non può essere deducibile dai bisogni dell’uomo o della comunità, ma piuttosto essa si richiama, come narrazione, ad una storia realmente accaduta, in cui persona e causa sono intimamente legate e si identificano. Per cui nel Cristo terreno e glorificato abbiamo un’unica storia, un’unica vicenda, un unico itinerario. Cristologia dal basso e cristologia dall’alto sono superate.

La risurrezione e la gloria sono completamento e superamento della vita e dell’opera di Gesù terrestre. E la professione di fede postpasquale rende esplicito ciò che nascostamente già affiorava nella vita terrena: cioè la venuta del regno di amore di Dio. La conseguenza che Kasper suggerisce è di considerare l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo non come evento momentaneo, ma come avvenimento che si è compiuto una volta per sempre, e che tuttavia riserva ancora in sé una storia, che trova la sua pienezza nella morte/risurrezione di Gesù. Ciò esige essere meno rigidi della scolastica e parlare di un itinerario di Gesù, di uno sviluppo nella conoscenza della volontà del Padre, di un cammino nella sua fede: lui è «autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2).

2. Orizzonte universale. Ci vuole una cristologia in relazione coi problemi fondamentali, tali non solo dell’anima singola, ma di tutta l’umanità. Quindi non una dottrina adatta «per me» e basta; ma una dottrina sensibile alla dimensione storico-dinamica dell’ordine della realtà globale che riempia l’esistenza dell’uomo che ormai è attaccato non solo alla memoria ma anche alla speranza e al progetto (ha imparato il futuro).

La dimensione escatologica così forte nel kerigma di Cristo e nella comunità primitiva è andata presto perduta nella cristologia cresciuta in ambito ellenistico, che si preoccupava del senso e dell’unità del cosmo e non dei «due gradi» (secondo la carne e secondo lo Spirito: cf. Rm 1,3s). Con un’immagine di Dio immutabile e metafisicamente spiegato, incompatibile con la sofferenza, la tensione escatologica sparisce. L’unica aspirazione finirà per essere l’immortalità e l’impassibilità. Doti che si sottolineano maggiormente in Dio.

Dice Kasper:

«Come allora vi fu una legittima ellenizzazione della fede, così oggi che ci troviamo alla fine di una storia cristiana in cui è prevalso l’elemento occidentale-europeo e all’inizio di una storia mondiale, può aver luogo una legittima disellenizzazione del cristianesimo».9

Si deve passare da una visione prevalentemente statica ad una visione più storico-dinamica dell’ordine della realtà globale, ad una crescente coscienza della solidarietà, dell’interdipendenza, dell’«uomo» nel senso di uomini al plurale. Insomma una cristologia che sappia dire qualcosa al processo di solidarietà universale, di planetarizzazione dell’esistenza, di «mondialità» dell’etica.

La storia di Gesù deve diventare una ripresa del tema speranza, una concezione aperta dell’essere, essere-in-relazione, della persona come «divenire» progettuale. L’essere in sé, proprio della metafisica fa fatica a dare spiegazioni in una cultura dove si enfatizza l’essere-per-l’altro, e al Dio «motore immobile» si preferisce il dinamismo del «Dio-con-noi».

3. Dimensione pneumatologica. È la cosa forse più difficile da sviluppare bene. Secondo la Scrittura, Gesù è il Cristo in quanto è l’«unto» di Spirito santo. Per cui una cristologia corretta è quella che valorizza questo rapporto in maniera non debole. Gesù è colui che porta in sé la potenza di Dio che è lo Spirito, all’opera nell’antica alleanza e ancor più evidente e vivo nella nuova. Per cui diviene egli stesso «Spirito vivificante» (1Cor 15,45). Questo non consente tuttavia di cadere nell’eccesso opposto, vale a dire di fare della cristologia una funzione della pneumatologia (sarebbe adozionismo).

Possiamo anche dire che Gesù è la meta escatologica cui tende l’opera dello Spirito nel mondo. In lui Dio è già «tutto in ogni cosa» (1Cor 15,28). Ma il ruolo dello Spirito rimane ancora uno «spazio aperto»: egli è colui che tiene aperte le possibilità a nuovi sviluppi, è la continua novità, è promessa, caparra, «guida» (Gv 16,13) verso «verità inedite».

Una fedeltà allo Spirito «improvvisatore» favorirebbe un approfondimento non puramente statico della verità e un confronto più accogliente verso i problemi del tempo: espressi nei «segni dei tempi», ma anche nell’emergere dell’attenzione per i «semina Verbi» presenti nelle tradizioni religiose dei popoli.

Note

7) Per quanto riguarda questo paragrafo ci serviamo del saggio scritto da A. Schilson in A. SCHILSON--W.KASPER, Cristologie, oggi, Paideia, Brescia 1979, pp. 13-30.

8) Teniamo presente qui il contributo di Kasper, in SCHILSON-KASPER, Cristologie, pp. 143-162.

9) SCHILSON-KASPER, Cristologie, p. 152.

3. CONCLUSIONE

Abbiamo presentato evidentemente solo una parte di quello che è il panorama della teologia attuale, nel campo della cristologia. Ci sarebbe da aggiungere molto di più, in campi «teologici» affini. Per es. il notevole ritorno al «cristocentrismo» nella teologia morale, che di conseguenza influenza notevolmente la spiritualità, essendo questa molto spesso collegata alla struttura di quella.

Ci sarebbe poi ancora da dire qualcosa sulla concentrazione cristologica acculturata e biblicamente molto più seria che ha oggi la vita consacrata. Anche questo influisce direttamente sul recupero «cristocentrico» della spiritualità.

Due sono le accentuazioni «cristologiche» che maggiormente sì evidenziano negli ultimi tempi per la vita consacrata. Vivere come Cristo: la vita consacrata è continuazione/attuazione della vita di Cristo. Vivere come discepoli, alla sequela di Cristo, secondo le esigenze evangeliche. In entrambi i casi la meta finale è la «conformazione» a Cristo, espressa anche con la terminologia della «consacrazione» (che è eminentemente cristologica).

In America Latina nella «chiamata alla sequela radicale di Cristo» (Puebla 742-757) appaiono come imprescindibili queste dimensioni: la lotta per la giustizia, l’opzione evangelica preferenziale per i poveri, la collaborazione con le aspirazioni di liberazione del popolo oppresso. Esse sono le linee guida delle molteplici esperienze di «vita religiosa inserita».

Ci rimane ora ancora da esplorare che cosa la pastorale popolare, l’insegnamento conciliare e i frequenti discorsi e pronunciamenti pontifici hanno messo in evidenza nel campo della cristologia. Nel capitolo che seguirà intendiamo dedicarci a questa esplorazione, che completa la nostra panoramica e ci mostra da altri punti di osservazione la ricchezza dell’attuale stagione ecclesiale


Pubblicato in Teologia
Gesù nella ricerca teologica odierna

di Bruno Secondin


La nostra è una stagione di studi cristologici numerosi e anche qualche volta notevoli. Nella riformulazione attuale della fede, il mistero di Cristo ha un posto centrale, come è logico che avvenga. Egualmente le prospettive teologiche in questo settore sono molto varie, come anche le finalità che ciascuno dei teologi si pone nell’affrontare il problema Cristo.

Del resto un pluralismo notevole lo si riscontra già all’interno del Nuovo Testamento, anche se il nucleo centrale di ciò che si annuncia e si vive è sempre lo stesso e unico, immutabile: cioè Gesù Cristo uomo perfetto - Figlio incarnato di Dio - salvatore e capo di tutto il creato - nel quale gli uomini sono solidali con tutta la storia e con tutto il mondo.

E’ questa l’«insondabile ricchezza» di Cristo (Ef 3,9) mai esauribile. Ma tutto questo è presentato con accentuazioni diverse, già nei libri biblici, per esempio:

- a partire dall’esperienza storica che si è fatta, da quello che si è visto e conosciuto, toccato, dall’aver incontrato il Risorto, Signore, datore dello Spirito;

- oppure dall’alto: cioè a partire dai testi sapienziali (manifestazione della Parola, sapienza, Spirito, giustizia), o liturgici (sacerdozio, sacrificio, rito, sangue), o profetici (messia, servo, figlio dell’uomo, redentore, re davidico...).

Persona e causa si fondono in vario modo a seconda delle esigenze della comunità e degli intenti dello scrittore: così abbiamo la così detta «cristologia dal basso» (o dalla fine) e la «cristologia dall’alto» (o dall’inizio), la cristologia epifanica, la cristologia funzionale, ecc.

Nelle varie cristologie attuali l’intento spesso cercato è quello di proporre una visione cristologica che risponda alla sensibilità odierna, alle nostre prospettive socio-culturali, al contesto specifico di provenienza del teologo o dei lettori. Possiamo considerare tipico esempio programmatico quello di B. Forte, Gesù di Nazaret, Storia di Dio, Dio della storia, (1)che si propone di collocare la sua riflessione nell’ottica della società e della chiesa del meridione d’Italia. Ma non tutti sono convinti che ci sia riuscito, al di là delle proclamazioni di principio.

E’ fuor di dubbio comunque che il contesto storico-socio-religioso ha influito e influisce profondamente nelle varie elaborazioni e anche nelle correnti di spiritualità. (2)

Note

1) Paoline, Alba 1981.

2) Per un primo riscontro bibliografico generale: B. MONDIN, Le cristologie moderne, Paoline, Roma 1979; A. SCHOLSON-W. KASPER, Cristologie, oggi, Paideia, Brescia 1979; PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Bibbia e Cristologia, Paoline, Alba 1987. Per la spiritualità: C. RICHSTÂTTER, Christusfrömmigkeit in ihrer historischen Entfaltung, Kökln 1969; B. SECONDIN, Messaggio evangelico e culture, Paoline, Roma 1982.

ORTODOSSA

Non dobbiamo aspettarci novità rilevanti in questo settore. Sia nell’ambito dell’ortodossia geografica che in quello della diaspora (es. Meyendorf, Evdokimov, Florovskij, Losskij), in genere la prospettiva è quella della cristologia dall’alto: «Il Verbo si è fatto carne». Questo tema viene illustrato con particolare attenzione per la fedeltà verso la tradizione patristica e antico-conciliare (dei secoli d’oro della teologia orientale).

Importante è anche l’influsso del misticismo monastico e liturgico. Al centro è la divinità: nell’adorazione, contemplazione, partecipazione, redenzione come «indiamento» (sulla base di 2Pt 1,4: «participes naturae divinae») sta tutta la vita del credente. (3)

Interessante è anche la sua riflessione su Cristo «gloria del Padre» di P. Evdokimov, (4) per cui il volto definitivo di Cristo è quello glorioso della trasfigurazione e della risurrezione. Intende volto definitivo in senso ontologico di densità divina del Cristo. Anche J. Meyendorf, con la Cristologia ortodossa è un autore da ricordare: rifacendosi a Gregorio Palamas ripresenta la modalità della redenzione dell’uomo nel Cristo come partecipazione alla divinità. Tale partecipazione è essenzialmente nucleo centrale della natura umana e non solo dono divino.

Interessante è la linea della «sofia cristologica»: che ha radici fin dai primi secoli cristiani, ma che è stata ripresa e rivalutata in questo secolo da vari autori. «Le sofiologie dei teologi russi moderni si iscrivono nella linea della theòria physikè e della visione pasquale del mondo; loro scopo è di rendere spirituale la fisica dei nostri giorni, le scienze naturali e le teorie cosmiche che ne derivano».

Noi accenniamo a tre rappresentanti moderni.

V. Soloviev (+ 1900): ispirandosi al misticismo con tinte di origenismo e gnosticismo, e prendendo le categorie dell’idealismo tedesco (Schelling, Fichte), sviluppa una teologia «teandrica., concentrando la sua attenzione al momento dell’incarnazione di Cristo; l’incarnazione viene pertanto concepita come un evento che si realizza nel cuore dell’uomo.

Tale evento abbraccia tutto ciò che è umano, collocando la storia umana nella prospettiva dell’universale cristificazione.

«Così il Cristo-Dio-Uomo, si compie nel Cristo-Dio-Umanità. Quindi la sofiologia di Soloviev si giustifica in quanto collegata col teandrismo, ossia Dio che si fa uomo, il Logos che assume la natura dell’uomo e rende possibile la «sofiologia» divina che si fa presente nell’umanità»

Si può sottolineare, con Vladimir Losskij, che nella tradizione ortodossa la vita cristiana si definisce come «vita in Cristo» più che come «imitazione di Cristo». Cristo non è solo un ideale morale da riprodurre, ma la vita stessa dell’universo e il nodo di tutta l’esistenza.

P. Florenskij (+ 1943) scienziato, astronomo e teologo: sviluppa le idee di Soloviev, affermando che la “sofia” è la grande radice della creatura totale, e l’uomo che vuole mantenersi in uno stato vitale deve lasciarsi lavorare da essa che è «l’angelo custode del creato». Afferma con convinzione che l’ideale dell’ascesi cristiana non sta nel disprezzo del mondo, ma nella gioiosa sua accettazione e nello sforzo per rendere il mondo più ricco innalzandolo a un livello superiore fino alla piena trasfigurazione.

S. Bulgakov (+ 1944). La sua teologia gravita particolarmente attorno alla cristologia: «La Parola si è fatta carne». La sua riflessione sulla sofia divina e creata è di grande qualità teologico-spirituale.

Tra la sofia divina e la realtà creata esiste un nesso non solo di creaturalità: quella divina ha fatto dal nulla il mondo. Ma anche un’attrazione: nel senso che v’è nel mondo creato un divenire,un emergere, uno svilupparsi, un giungere alla sua conclusione, come un cammino verso la pienezza.

Il Verbo, come natura divina che si autorivela, assume la sofia creata, dalla carne incorrotta della vergine Maria e fa uscire la nostra sofia deteriorata verso lo stadio primigenio, la riporta verso la deificazione, cui la creazione tendeva per intrinseca esigenza già all’inizio, a prescindere dal peccato. Bulgakov vede l’inizio della storia della salvezza dell’uomo nel momento dell’annunciazione, quando lo Spirito santo non soltanto discende per la concezione e per il parto divino, ma resta in Maria con tutte le sue Virtù; resta con lei per tutti i secoli con tutta la forza dell’annunciazione ed eternamente.

Notiamo che nella chiesa orientale non c’è una theologia crucis ampiamente sviluppata (avvicinabile a quella luterana per es.). La croce infatti, è veduta essenzialmente collegata con la creazione, l’incarnazione e la risurrezione. Essa è parte di un processo globale in cui si pongono in grande evidenza gli aspetti soprattutto positivi.

Scrive Evdokimov:

«Se si penetra fino al cuore della spiritualità ortodossa, vi si trova anzitutto la sensazione viva dell’irruzione trionfante della vita eterna, della vittoria sulla morte, sull’inferno: è il soffio del messaggio evangelico portato dalla gioia pasquale (La novità dello Spirito».

Così il segno della gloria inonda la croce, la quale è presentata “gemmata”, indicando con ciò il trionfo e la trasfigurazione dell’evento del Calvario.

Pur con questo aspetto “ottimista”, notevole è il legame posto nella teologia orientale contemporanea tra Calvario e la Trinità: molto più che la tragedia dell’uomo, il Calvario appare come l’espressione della tragedia divina, il calarsi tra di noi del dramma intimo della Trinità, della passione dolorosa di Dio, per cui la croce è da un lato il prolungamento nel tempo dell’intimo mistero eterno del dolore di Dio; e dall’altro è l’eternizzarsi della sofferenza umana del Cristo.

Note

3) Per un primo veloce approccio: T. SPIDLIK, Gesù nella pietà dei cristiani orientali, in Gesù Cristo mistero e presenza, Teresianum, Roma 1971, pp. 385-406; L. GNILKA, Cristologie del mondo ortodosso, in Il Salvatore e la Vergine-Maria, Marianum-EDB, Roma-Bologna 1981, pp. 137-187; B. SCHULTZE, Pensatori russi di fronte a Cristo, 3 voll. Firenze, 1947-1949; D.I. CIOBOTEA, Jésus Christ, vie du monde. Une approche théologico-spirituelle orthodoxe, in « Contacts » 35 (1983), pp. 99-126.

4) Cristo nel pensiero russo, Città Nuova, Roma 1972.

PROTESTANTE

Tutta la teologia cristologica della chiesa protestante si radica nella centralità della croce di Cristo. Già Lutero aveva insegnato: «In Christo crucifixo est vera theologia et cognitio Dei». In quest’affermazione e nella teologia che ne deriva sta una verità certissima: la croce è il criterio della sequela autentica. Ma anche la risurrezione fa parte intrinseca dell’esperienza del dolore: la morte è vissuta fino in fondo, ma anche è vinta, nello stesso movimento.

Noi ci limitiamo a ricordare alcune delle posizioni cristologiche più rilevanti.

R. Bultmann (+ 1976). Per questo teologo centrale del nostro secolo, bisogna superare tutte le affermazioni dottrinali ereditate, per scoprire i meccanismi di mitizzazione della comunità primitiva, e arrivare alla convinzione che «storicamente» Gesù ci è praticamennte ignoto. Col metodo storico-morfologico (form-geschichtlich) Bultmann analizza i Vangeli, separa le pericopi che li compongono secondo i diversi generi letterari, le raggruppa poi nuovamente e ottiene, in tal modo, diverse raffigurazioni di Gesù, dettate dalle molteplici esigenze della comunità primitiva (esigenza catechetica, polemica, apologetica, esorcistica, missionaria, ecc.). Ma le strutture espressive sotto le quali la comunità primitiva ha sepolto il nucleo primitivo della fede sono tante: per ritrovarlo bisogna «demitizzare e demetafisicare». Fa parte del mito tutta la struttura supernaturalistica del Nuovo Testamento.

Quello che vale, e che la comunità ci ha voluto trasmettere, è l’incontro personale del credente con Cristo: solo chi assume una disposizione esistenziale può scoprire il vero nucleo della cristologia. Attraverso il kerigma si è interpellati, si è spinti verso il futuro, a decidersi, a capire/capirsi in Cristo e quindi ad abbandonarsi a lui con obbedienza sfiduciale.

La continuità tra Gesù e i credenti si spiega così:

- Da una parte Gesù non ha insegnato una dottrina sulla sua persona, ma ha messo l’accento sul fatto che la sua persona era un qualcosa di deisivo, portatrice della parola decisiva di Dio;

- Da parte della comunità: essa ha un legame storico con Gesù, ma il suo annuncio non è una speculazione sulla «persona» di Gesù, ma piuttosto «appello per una decisione esistenziale a favore di questa parola decisiva di Dio in Gesù».

H. Braun: radicalizza la demitizzazione, riducendo la cristologia ad antropologia. Per lui il centro del messaggio cristologico è una comprensione di se stesso che l’uomo continuamente fa: parlare di Cristo e annunciare Cristo (nella varia angolatura e novità) serve al convincimento per l’uomo che nei suoi rapporti di fraternità, nel suo non esaltarsi, non usare prepotenza, nel diffondere invece fraternità, Gesù continua ad operare come salvatore.

G. Ebeling: segue vari indirizzi, ma prevale quello esistenzialista. Egli si domanda: su che cosa si fonda la fede in Gesù Cristo dei primi? Altra preoccupazione sua è quella di ricondurre la cristologia esplicita a quella implicita , al Gesù storico, per scoprire cosa in Gesù fu espresso come Parola normativa. In questo punto è chiaramente contro il suo maestro Bultmann.

La salvezza si basa su un incontro fra persone sulla base della Parola, che spinge alla scommessa della fede.

K. Barth (+ 1977) A lui per certi aspetti si potrebbe accostare anche quanto dice Balthasar sul mysterium paschale: pur partendo da prospettive diverse, arriva a risultati simili con i suoi studi famosi, fra cui emerge Die kirchliche Dogmatik, iniziata nel 1932, incompiuta. A noi interessa specialmente I/I e 2.

Egli sostiene che non è possibile fare un discorso teologico se non a partire dall’evento Cristo. Sviluppare la cristologia implica un coinvolgimento dell’intero discorso trinitario: perché la professione cristologica pervade, forgia nel loro contenuto e valore tutte le affermazioni su Dio.

La teologia della manifestazione di Dio che si autoabbandona, postula necessariamente un’attenzione al rapporto Padre-Figlio, che è animato da amore e fedeltà fino alla totale obbedienza di kenosis.

H. Richard Niebuhr (+ 1962). Da non confondere col fratello Reinhold. Ricordiamo di lui specialmente Christ and Culture.

Egli colloca la sua riflessione teologica nel contesto esistenziale della storia. Dire che il Verbo si è fatto carne, cioè condizione umana fino in fondo, ciò vuol dire affermare che egli si è fatto storia. E la sua efficacia sarà reale se di fatto trasformerà la nostra storia: conoscenza storica di Gesù e storia cristocentrica della comunità dei fedeli sono fondamentali.

È Cristo che fonda sia l’unità di fede cristocentrica sia il pluralismo delle cristologie e delle immagini storiche che lo ricordano. Ma Niebuhr esclude un’interpretazione puramente storicistica del mistero di Cristo: per comprenderlo davvero non ci si può fermare alla storia «esterna», occorre il salto della «fede», che è salto nel cuore della storia di Gesù e nostra.

D. Bonhoeffer (+ 1945). Per questo teologo/pastore (5) la figura di Gesù che bisogna prediligere non è il wie(come), o il dass (il fatto), ma il wer (la persona): cioè la figura dell’uomo della carità spinta fino alla dedizione totale nell’esistere-per-gli-altri.

Si legge in una lettera dalla prigionia:

«L’esistere per gli altri di Gesù è la presa di coscienza della trascendenza. Dalla libertà da se stesso, dall’”esistenza per gli altri”, fino alla morte scaturiscono l’onnipotenza, l’onnipresenza, l’onniscienza. Fede è partecipazione a questo essere di Gesù (incarnazione es croce, risurrezione). Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto religioso, con l’Essere più alto, più potente, più buono. Questa non è vera, autentica trascendenza; il nostro rapporto con Dio è una nuova vita nell’”esistere per gli altri, nella partecipazione all’essere di Cristo”».

A queste posizioni Bonhoeffer era giunto attraverso un’attenta considerazione dell’impatto di Cristo sulla vita attuale: solo un impatto «provocatorio» e impegnato può avere un senso in una storia che sembra la negazione del senso profondo della venuta del Redentore. Solo seguendolo nel dono totale agli altri può avere un senso credere in lui e parlare di lui. Altrimenti si riduce Dio al ruolo di Lükkenbüsser (tappabuchi) per bisogno di superare la insecuritas. In questa «theologia crucis» che indica l’impotenza di Dio in funzione della potenza dell’uomo - «nel Crocifisso Dio si depotenzia, per lasciare all’uomo la sua potenza» - Dio sembra dissolversi in una forza di liberazione storica, senza spazio né per la risurrezione, né per una qualsiasi «ecclesiologia» specifica.

W. Pannenberg (1925-). Possiamo chiamarlo il propositore della cristologia della risurrezione. Opera notevole: Cristologia. Rifiuta, con altri chiamati della «sinistra bultmanniana», lo scetticismo storico, rivendicando assoluta priorità all’elemento storico su quello esistenziale. Con più forza di Cullmann, afferma il carattere obiettivo della storia della salvezza.

Egli preferisce non muovere «dalle parole e dalle opere» (cioè l’attività) di Gesù, ma dalla sua risurrezione. Questo il suo ragionamento: il quadro della storia di una persona lo si comprende solo alla fine, quando tutti i frammenti si possono collegare in unità e si possono ricongiungere in un significato globale unitario.

O. Cullmann (1902-1999). Questo grande esegeta rifiuta e contesta la posizione di Bultmann, e sostiene clic la storia fa parte del nucleo essenziale della rivelazione cristiana: perché gli eventi storici sono il fondamento della salvezza evangelica. (6) L’evento centrale della rivelazione - egli preferisce chiamarla storia della salvezza (Heilsgeschichte): questo termine ha fatto fortuna dopo di lui - è Gesù Cristo. Egli dà senso a tutto quello che procede, ma non esaurisce tutto il percorso della storia: anzi dà piuttosto un nuovo «senso completo» ad essa, in quanto egli costituisce la vittoria definitiva.

Secondo Cullmann, per una, completa ed essenziale conoscenza della cristologia bisogna passare per certe tappe:

«La vita e la morte di Gesù; le sue allusioni alla propria consapevolezza; l’esperienza pasquale dei discepoli; l’esperienza del Signore presente; la riflessione compiuta, sotto la guida dello Spirito, circa i rapporti soteriologici delle funzioni di Cristo separate cronologicamente; le quali, dal punto di vista della rivelazione vengono fatte risalire fino alla creazione».

La sua è una cristologia essenzialmente storica, che rifiuta qualsiasi apriori filosofico e qualsiasi cristologia metafisica. Sembra però che lo studio delle azioni di Cristo, vada a scapito talora della considerazione sulla struttura ontologica di Cristo, cioè della sua persona, come Verbo incarnato.

Circa il prolungamento della storia della salvezza nel tempo della chiesa:

«L’attesa resta dunque come nel giudaismo. Si continua ad attendere dall’avvenire quanto ne attendevano gli ebrei. Ma il centro della storia non è più lo stesso. Il centro è raggiunto, ma la fine deve ancora venire.

J. Moltmann (1926-). Egli assumendo l’escatologia a principio ermeneutico della cristologia, (7) la sottopone ad una «rivoluzione copernicana»: essa non è più sviluppata alla luce del passato, ma del futuro; non in base a quanto è già accaduto, ma di quanto deve accadere. Croce e risurrezione sono i due pilastri successivamente messi in luce in chiave escatologica e di proclamazione pubblico-politica. La risurrezione - contrariamente al pensiero di Barth che pensava il futuro come svelamento di ciò che già c’era - non è solo svelamento, ma compimento finale. E quindi rimane un futuro in arrivo, una riserva definitiva che spinge alla trasformazione.

L’immagine autentica di Dio è quella di «potenza del futuro» inteso come dono e novità: questa immagine apre un dialogo tra fede cristiana e «speranze terrestri» (secolari). E un evento dato in promessa, ma rinvia alla vita e all’opera terrena di Gesù, specie alla croce.

Gesù non è tanto colui che è posto nella gloria, ma piuttosto l’annunciatore del futuro che è promesso e che verrà. Egli funge da conferma della pienezza ultima. Allora la croce si presenta come riassunto dell’intera vicenda di Gesù. Del resto così la prevedeva tutto l’AT; così si vede emergere dal contrasto con il potere del tempo e con gli schemi religioso-politici.

Ecco un suo testo significativo:

«Facendosi uomo in Gesù di Nazaret, Dio si immerge non soltanto nella finitezza dell’uomo, ma anche, con la morte in croce, nella situazione di abbandono da Dio che l’uomo esperimenta... Nessuno dovrà fingere, apparire diverso da quello che è, per cogliere la comunione che lo stringe al Dio umano. Potrà abbandonare tutte le finzioni e sembianze, e in questo umano diventare quegli che in verità è. Inoltre il Dio crocifisso gli si rende vicino nello stato di abbandono sofferto da ciascun uomo. Non esiste isolamento o reiezione che egli non abbia assunto sulla croce di Gesù. Non c’è bisogno di alcun tentativo di giustificazione, nemmeno di autoaccuse demolitrici per avvicinarsi a lui.

L’abbandonato da Dio e reietto può accettarsi là dove conosce il Dio crocifisso, che in lui già vive e che lo accetta. Se Dio si è assunta la morte in croce, ha pure assunto l’intera vita e l’esistenza concreta con l’intera e concreta sua morte. Senza limiti e condizioni l’uomo è accolto nella vita e nella sofferenza, nella morte e risurrezione di Dio, e prende vitalmente parte, nella fede, della pienezza di Dio. Non esiste nulla che lo possa escludere dalla situazione di Dio: dal dolore del Padre, dall’amore del Figlio e dall’impulso dello Spirito»

Certo che la verità di tutto questo sta nella luce della risurrezione e Moltmann lo nota chiaramente:

«La risurrezione non svuota la croce (1Cor 11,17), ma la riempie di escatologia e di significato salvifico».

Note

5) Si ricordi la sua opera Resistenza e resa (lettere dal carcere), Queriniana, Brescia 1971; Sequela, Queriniana, Brescia 1971; Wer ist und wer war Jesus Christus, Hamburg 1962.

6) Ricordiarno di CULLMANN, Cristo e il tempo, EDB, Bologna 1965; Cristologia del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 1970; Il mistero della redenzione nella storia, EDB, Bologna 1966.

7) Si vedano le sue opere Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970 e Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 1973.






CATTOLICA

Anche in questo settore si deve dire che oggi si lavora molto per una riscoperta, una rilettura, una rivalorizzazione dell’umanità di Cristo, in parte oscurata in passato dall’enfasi sulla «divinità» di Cristo. Per qualcano ci troviamo perfino in uno sbilancio «cristocentrico», a scapito di un corretto equilibrio fra teocentrismo e cristocentrismo.

Il cattolicesimo rifiutando il divorzio tra fede e ragione, insisteva nei secoli recenti sul modo dell’unione della divinità e dell’umanità del Verbo incarnato. Lo shok della modernità ha avuto spazio vero nel cattolicesimo all’inizio del secolo con la crisi modernista. A partire dagli anni ‘60 la teologia cattolica e protestante dialogano strettamente. Un momento comunque di grande rilancio del ripensamento cristologico è stato il XV centenario del concilio di Calcedonia (451).

Le fratture mortali che avevano imbrigliato la cristologia fino ai tempi moderni erano:

- Frattura tra studio biblico e studio cristologico, che portava questo all’enfasi sulla riflessione metafisica e anche all’uso puramente strumentale dei testi biblici;

- Frattura tra rivelazione di Dio offerta in Gesù Cristo e la ricerca umana che si costituisce in autonomia assoluta;

- Frattura tra il Gesù della storia, Dio con noi e fonte della salvezza, e il Cristo della fede, che ha invece significato e valenze universali e attuali.

Molto articolato è il quadro epistemologico dell’odierna cristologia e soteriologia.

Si possono individuare otto categorie evidenti dell’odierna cristologia:

1. Dimensione biblica: precisione esagerata nel cercare le basi storiche e teologiche nei testi biblici;

2. Dimensione storico-salvifica pone in risalto gli eventi della vita di Gesù, in particolare quelli pasquali;

3. Dimensione pasquale: tutto gira attorno a questo punto cardine e tutto da qui si spiega;

4. Dimensione pneumatico-ecclesiale la continuità dell’evento Cristo nella chiesa attraverso l’opera dello Spirito santo e le vicende del tempo;

5. Dimensione esistenziale-personalistica: che chiama in causa la vitale comunione interpersonale col Cristo, fonte della salvezza totale dell’uomo;

6. Dimensione soteriologico-prassica che accentua quei contesti in cui la non salvezza emerge, e quindi l’impatto che la salvezza ha su di essi;

7. Dimensione ecumenica: ci sono dei sintomi fra cattolici e protestanti; rimane quasi nullo l’incontro con l’ortodossia;

8. Dimensione pluralistica: in quanto esprime una varietà di approcci e di ottiche (culturali, geografiche, linguistiche).

Se si vuole una enumerazione dello spettro delle cristologie Cattoliche contemporanee, si può ricordare: la cristologia cosmica di Teilhard de Chardin e quella trascendentale di K. Rahner; quella della dualità di P. Schoonenberg e quella estetica di H.U.v. Balthasar; quella politica di J.B. Metz e quella della liberazione di G. Gutierrez, L. Boff, J. Sobrino; quella cristiano-marxista di F. Belo, quella storica di W. Kasper e quella storico-biblica di L. Bouyer; quella metafisica-dinamica di J. Galot e quella metadogmatica di H. Küng e di E. SchilIebeeckx .

Teilhard de Chardin (1881-1955). Vuole armonizzare scienza e cristianesimo e ritrovare Cristo come centro organico di un universo in evoluzione. (8)

Secondo questo scienziato, filosofo e mistico, l’incarnazione deve essere legata alla stessa linea evolutiva della materia e della storia dell’uomo. Possiamo parlare di una cristologia nell’orizzonte della cosmologia. Secondo lui il cammino della scienza non può più essere quello dell’analisi, ma quello della sintesi, perché l’analisi porta alla frantumazione del pensiero. Si rende allora possibile e necessaria la convergenza su Cristo, perché lui appare come centro organico di tutto l’universo.

«Cristo rispetto al mondo non è un accessorio aggiunto, un ornamento, un re di quelli che facciamo noi, un padrone... Egli è l’alfa e I’omega, il principio e la fine, la prima pietra e la chiave di volta, la pienezza e colui che riempie. Egli è colui che completa e che a tutto dà consistenza. Verso di lui e attraverso di lui, vita e luce interiore del mondo, nel pianto e nella fatica, la convergenza universale di tutto il creato. Egli è il centro unico, prezioso e consistente, che brilla sull’apice futuro del mondo, sul polo opposto della zona oscura in eterna diminuzione in cui si avventura la nostra scienza quando scende per la strada della materia e del passato». (9)

Da questo punto di vista solamente la cristologia apre alla scienza il cammino per elaborare la cosmologia, per ricercare e trovare il senso intrinseco di tutta la realtà. E l’incarnazione ha un significato tutto particolare: «in quo omnia constant» (Col 1,17).

Anche se rimane sempre il sospetto di uno spiritualismo mistico e visionario, il suo influsso è stato sentito parecchio nella teologia dell’epoca conciliare

K. Rahner (+ 1984): possiamo parlare per lui di cristologia nell’orizzonte di una nuova comprensione dell’antropologia. La sua proposta è nota anche col nome di «cristologia trascendentale».

Per Rahner l’uomo mira all’appello salvifico dal suo interno: e porta l’esempio dell’amore mai soddisfatto, del morire, dello sperare. In Gesù queste aspirazioni si fanno pienezza: Dio si fa dono all’uomo aperto alla pienezza; e l’uomo si fa in Cristo un sì vero e obbedienziale al Padre, che è pienezza definitiva.

Si potrebbe essere del parere che Rahner cade nell’ontologismo e nell’idealismo. Ma egli è cosciente di queste possibili accuse e spiega che i suoi concetti di Salvatore-assoluto, Dio-uomo, Logos incarnato, sono possibili solo perché di fatto il cristianesimo riconosce già in Cristo la presenza di tale realtà.

«Nel delineare in maniera apriorica tale cristologia trascendentale eravamo coscienti che tale lavoro è storicamente possibile solo perché già esiste il cristianesimo, la fede effettiva in Gesù io quanto Cristo, solo perché l’umanità ha già fatto esperienza storica della realtà di questa idea trascendentale». (11)

Questo porta ad affermare che l’evento di Gesù di Nazaret dà luogo alla riflessione teologica trascendentale, e non il contrario: che sarebbe idealismo e astoricismo. L’esistenza concreta dell’uomo si deve definire come disponibilità all’ascolto e all’obbedienza verso Dio, ossia egli è «potentia oboedientialis» alla parola di Dio. Perciò se l’uomo si consegna a Dio liberamente, questo non diminuisce la sua libertà né il suo essere uomo, poiché Dio non è né estraneo, né concorrente all’uomo e alla sua libertà, ma è la garanzia alla sua libertà e sua meta.

L’antropologia figura quindi come «cristologia incompiuta», imperfetta, da realizzarsi in pienezza; mentre la cristologia appare come descrizione di un essere umano eccezionalmente completo e riuscito. La storia e la teologia della storia aiutano a concepire l’esistere come processo verso l’immediatezza di Dio, sostenuta dalla sua autocomunicazione liberamente donata. Dio può giustamente essere chiamato «il futuro dell’uomo».

J. B. Metz (1928- ). È il più noto rappresentante della teologia politica. Interessante è la parabola del teologo di Münster. Egli passa attraverso una triplice prospettiva, messa in luce successivamente. E’ importante notare che quando dice «teologia politica», per politica non si deve intendere un nostalgico ritorno all’integrismo, ma una teologia orientata all’azione, capace di sostenere un ruolo attivo nella «polis».

b. L’annuncio della salvezza come «memoria passionis, mortis et resurrectionis Jesu Christi». La fede è memoria, memoria della scelta per i poveri, che Gesù fece. Si tratta di attualizzare nel contesto storico, socio-politico in cui i cristiani vivono, tale forma di vita. La forma storica di Gesù di Nazaret vittima e vincitore, fa diventare il cristianesimo memoria pericolosa, liberatrice e redentrice di Gesù Cristo di fronte alla società. La chiesa dovrebbe essere un luogo di parola pericolosa e sovversiva, basata sulla «maniera storica della scelta di Dio per i poveri».

c. La salvezza come sequela della prassi messianica di Gesù. E questa l’ultima fase della parabola migliore di Metz. In essa convergono narratività e sequela, mistica e prassi «politica» nella struttura dell’esistenza cristiana, definita come sequela.

Non va dimenticata un’obiezione molto seria: le comunità cristiane primitive erano poco interessate alle condizioni sociali. Ciò che contava era la salvezza degli individui. L’atteggiamento di fronte al mondo consisteva in un «indifferentismo eroico» (Troeltsch). Paolo si potrebbe addirittura chiamare un tipico conservatore. Come inserisce la teologia politica questo fatto nella sua teoria?

La teologia politica sottolinea soprattutto la funzione della «sfida» (challenge). Oltre a questa esiste il compito del «conforto» che certamente ha una base evangelica. Il conforto è necessariamente congiunto con la ricerca del senso in situazioni inevitabili, e quindi ha un effetto anche «legittimante». Quale equilibrio intende stabilire la teologia politica tra comfort e challenge? Cioè tra legittimazione e profezia critica?

Altra osservazione è che alla «teologia politica» non è seguita una nuova militanza, ma nei fatti una rinascita del religioso e un bisogno nuovo di «sacro».

Un giudizio comunque globale su Metz e la sua «teologia politica» mostra che appare ridotta la valorizzazione dei gesti e detti del Gesù della storia - egli però valorizza molto I amore nella morte/risurrezione - e non è spiegata questa «sequela» in una società pluralistica e planetaria

Con queste ultime indicazioni di Metz e della sua proposta di «teologia politica», che ha trovato ampia eco e attenzione nella coscienza cristiana degli anni ‘70, si è venuta manifestando l’esigenza che la fecondità della rivelazione storica compiuta in Cristo sia di continuo rilanciata tra gli uomini dalla chiesa, con la sua testimonianza di vita, con la sua denuncia profetica con la sua riserva «critica» di fronte ai messianismi intramondani, con tutti i segni di amore e di carità, di servizio e di solidarietà di lotta per la giustizia e la liberazione. Questi «segni» saranno la messa in opera della vittoria della risurrezione su ogni violenza e ogni disperazione. La «memoria» che il cristiano conserva con tutta fedeltà è una memoria aperta al futuro, rivolta al futuro. Contro i trionfalismi facili essa ricorda la «morte» del Figlio di Dio in croce, in uno scontro insanabile fra differenti visioni e progetti di vita. Contro l’angoscia e la paura essa ricorda il rovesciamento misterioso della risurrezione, la libertà totale anticipata nella risurrezione del Cristo.


Note

8) Per una conoscenza più ampia, R. GIBELLINI, Teilhard de Chardin, l’opera e le interpretazioni, Queriniana, Brescia 1981; La spiritualità di Teilhard de Chardin, Cittadella, Assisi 1972; A. AMATO, La cristologia cosmica di Teilhard de Chardin, in Problemi attuali di cristologia, LAS, Roma 1975, pp. 95-123; I. BERGERON A.M. ERNST, Le Christ universel et l’évolution selon Teilhard de Chardin, Cerf, Paris 1986.

9) TEILHARD DE CHARDIN, Science et Christ, Oeuvres, IX, pp. 60s.

10) La bibliografia su Rahner non è poca. Un’ottima autopresentazione della cristologia di Rahner si ha alla voce Gesù Cristo, in Sacramentum Mundi, Morcelliana, Brescia 1975, IV, p. 181-223. Per gli studi: I. SANNA,Cristologia antropologica di Karl Rahner, Paoline, Roma 1970; M. GESTEIRA GARZA,La Cristologìa de Karl Rahner, in «Estudios Trinitarios», 21(1987), pp. 61-93.

11) Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Alba 1977, p. 298.

Pubblicato in Teologia
Gesù nelle grandi confessioni
e nelle ideologie

di Bruno Secondin

ISLAM

Gesù rimane sempre «sorpassato» da Maometto, l’ultimo e il più grande dei profeti. Ancora oggi non è assolutamente ammissibile per l’islam non solo l’incarnazione nel tempo del Dio unico e invisibile; ma anche la morte in croce del Figlio di Dio. Un profeta non può essere lasciato da Dio nell’umiliazione.

È importante notare che ciò che l’islam pensa e crede di Gesù è radicato in certi capitoli del Corano, in particolare quelli che trattano di Gesù e della sua madre Maria. Essi rimangono ancora oggi fattore determinante e centrale del giudizio islamico su Gesù Da qui deriva una notevole stima sia del cristianesimo - considerato religione rivelata da Dio - che di Cristo, considerato mandato da Dio, taumaturgo, originato da nascita verginale, portato in cielo col corpo (ma senza soffrire la morte).

Maria è l’unica donna citata per nome nel Corano - da lei prende nome perfino un capitolo del testo - e che insieme a Cristo ha goduto di particolare simpatia e venerazione nei secoli tra i musulmani1. Ma sempre alla luce e nell’orizzonte generale di quello che il Corano dice di loro.

Nel Corano sono anche descritte qualità distintive dei «seguaci di Cristo»: mitezza e misericordia, assenza di superbia, attenzione ininterrotta alla preghiera, liberalità nelle elemosine e attesa dell’ultimo giorno. In questo senso di vita cristiana come «ascesa» mediante la povertà, la mitezza e l’umiltà si è anche sviluppata e tramandata l’immagine di Gesù nell’islam.

Inoltre oggi si tende a studiare ancor di più la «cristologia» del Corano perché la sua «teologia» riflette la posizione del giudeo-cristianesimo: cioè la cristologia siriaca e semitica dei primi secoli (che privilegia la categoria del servo, come appunto fa il Corano), che poi abbiamo perduto, con la «ellenizzazione».

Un fatto nuovo rispetto alla storia è l’attuale interesse nell’islam per il così detto Vangelo di Barnaba: un testo italiano e spagnolo, databile al secolo XVII (edito però in questo secolo), ma che pretende essere una traduzione di un testo scritto al tempo di Gesù, dal suo discepolo Barnaba. Ciò che ci interessa è come Gesù è presentato: è un Gesù musulmano, ma in stile simile a quello dei Vangeli canonici cristiani. Non contiene nulla che sconcerti un musulmano: né la divinità di Gesù, né la crocifissione, né affermazioni che non siano nell’ortodossia del Corano. C’è di più: l’annuncio chiaro ed esplicito della venuta d’un profeta dopo Gesù, con la rivelazione perfetta2.

Ma se nel Corano Gesù viene chiamato «Parola» di Dio e annunciatore del «Vangelo», come possono i musulmani disinteressarsi di questo Messia e del suo Vangelo?

Fra i teologi musulmani, citiamo Mahmoud M. Ayoubl

«Noi vediamo perciò che - come il Cristo della fede e della speranza cristiana - il Gesù del Corano e della successiva pietà musulmana è molto più di un semplice essere umano e di un semplice banditore di un libro. Mentre il Gesù dell’islam non è il Cristo della cristianità, il Cristo del Vangelo parla spesso attraverso il semplice, umano Gesù della pietà musulmana»3.

Purtroppo le attuali situazioni di conflitto e di tensione fra nazioni cristiane/occidentali e nazioni/culture islamiche hanno fatto crescere tra i musulmani un fondamentalismo esasperato, che non c’era nella storia passata, in questa forma almeno.

Note

(1) Un recente interessante contributo in Maria nell’ebraismo e nell’islam oggi, Marianum-EDB, Roma-Bologna 1987.

(2) Il testo: L. CIRILLO-M. FREMAUX, Évangile de Barnabé Recherches sur la composition etl’origine. Texte et traduction, Paris 1977. Una valutazione cristiana:.J. SLOMP, The Gospel in Dispute. A crirical Evaluation of the first french Translation, with the italian Text and Introduclion of the so-called Gospel of Barnabas, in «Islamocristiana», 4(1978), pp. 67-111.

(3) E’un noto teologo musulmano, che ora vive in America. La frase è ripresa da un suo saggio in «The Muslim World» 66(1976), p. 187.

BUDDISMO

Gesù appare una grande «personalità», supremo maestro della via alla saggezza sconosciuta, che ha tante somiglianze con Budda4. E un’ammirazione che però non intende accettare gli aspetti «divini» di Gesù. Si tace di fronte alla «divinità per natura».

Non mancano delle proposte di «rivedere le formule cristologiche» per i cristiani che vivono in un contesto culturale buddista. Per es. il gesuita singalese A. Pieris5 insiste soprattutto sulla lotta per essere povero e la lotta a favore del povero.

Noi citiamo alcuni passaggi dal grosso saggio di H. Küng sulle religioni6.

Il primo testo è la ripresa di una considerazione, molto audace per vero, ma suggestiva, di un teologo americano.

«Quello che ha da dire il teologo americano John Cobb ... dovrebbe far riflettere: “Il buddismo shin non ha ancora affrontato la crisi del rapporto tra storia e fede. Se esso si confronta con questa crisi, i suoi problemi si presentano, sotto parecchi aspetti, più pressanti di quelli di fronte ai quali si è trovato il cristianesimo; la sua base è infatti ancora più lontana dal corso reale della storia. Esso può certamente trovare molti appoggi nel Budda e nella storia del buddismo, ma là dove la sua dottrina è più caratteristica esso trova un appoggio minimo in questa tradizione, che precede lo stesso Shinran».

Poi Cobb compie: un grande passo, che certamente solo pochi buddisti sono disposti a imitare:

«Tuttavia, niente nell’autocomprensione buddista presuppone la necessaria ammissione che la storia cercata possa venir trovata soltanto in India o nell’Asia orientale. Al contrario, il buddismo tende all’universalità. Pure esso richiede una visione inclusiva di tutte le cose,e oggi una tale visione deve abbracciare la storia universale. Ma la storia universale comprende anche la storia di Israele e l’evento Gesù. Quella storia che comprende la visione cristiana della benevolenza di Dio, sostiene anche la concezione, propria del buddismo shin, della sapienza e della compassione, che caratterizzano la realtà ultima... Appena questo atteggiamento [di sospetto e di difesa] venga superato realmente, non esiste più un motivo di principio perché i buddisti non possano accogliere anche il passato palestinese, come hanno accolto quello indiano. E’ più in Palestina che in India che la storia, quando venga letta come incentrata in Gesù, offre la base più solida per la fede, e che noi veniamo redenti dalla grazia ia virtù della fede».

Ed ancora:

«Quando impara a conoscere la figura del Budda, che fu un uomo che pensava in maniera elitaria, il cristiano avvertirà la grande sfida a mettere radicalmente in questione e a ristrutturare la propria vita orientata forse troppo sul successo e sull’attivismo. Viceversa, quando il buddista accetta di confrontarsi con Gesù di Nazaret, con il Cristo, che aveva compassione del popolo e accoglieva i falliti, percepirà un invito a superare “per il bene di tutti gli uomini” la divisione in due classi dei credenti, a dare al laico, ritenuto inferiore, non soltanto una funzione di secondo grado, ma anche un accesso diretto alla liberazione, un diritto e una dignità propri, a venire in aiuto dei deboli, degli sfortunati e degli sfruttati, per trasformare proprio in questo modo il mondo qui e ora, nella compassione e nell’amore, per il bene di tutti».

Note

(4) Cf. lo studio di P. NGUYEN VAN T0T, Le Bouddha etle Christ, Urbaniana Press, Roma 1987.

(5) A. PIERIS, Buddismo: sfida ai cristiani, in «Concilium», 22(1986), pp. 97s. Per un’analisi più ampia:: rimandiamo ad un importante numero di «Concilium», 14(1978) 6: Buddismo e cristianesimo.

6) H. KÜNG, Cristianesimo e religioni universali, Mondadori, Milano 1986, pp. 513s e 424. Nella prima citazione egli si riferisce allopera di. COBB, Beyond Dialogue. Toward a Mutual Transformation of Chrislianity and Buddhism, 1982, pp. 139-140.

INDUISMO

Qui il rapporto è invece molto più complesso e anche la letteratura è abbondante. C’è un fatto molto interessante: l’affermazione frequente di molti convertiti dall’ induismo al cristianesimo, e anche di molti cristiani profondamente «induizzati», i quali dicono che il Vangelo non sarà mai compreso appieno sinché esso non riceverà anche l’interpretazione «induista». Questo lo si dice specialmente al riguardo del Vangelo di Giovanni: «I cristiani non riusciranno a capire il Vangelo di san Giovanni se non quando l’India sarà cristiana». In generale possiamo dire che:

— Gesù Cristo si innesta bene nella religione bhakti, un ramo non secondario dell’induismo, praticamente tutta la religione del popolo indù. Il motivo di fondo è che la religione bhakti si basa su un dialogo d’amore tra il fedele e il suo Dio (o Krisna o Visnu o Siva), in maniera non dissimile da quello che può avvenire per il cristianesimo per un cristiano «medio».

— Gesù Cristo - trasportato nella visione indù - avrebbe così una funzione simile a quella di Krisna e sarebbe visto come un’avatara di Visnu. La Bhagavad-gita e alcuni Purâna sono essenzialmente i testi della bhakti a cui si ispira una simile visione.

I primi tentativi consapevoli di collaborazione tra cristianesimo e induismo risalgono all’opera missionaria di Roberto de Nobili (1577-1656), esempio di un’autentica inculturazione: si fece brahmino, imparò le lingue sanscrito e tamil, accettò le caste e l’intoccabilità. Altro pioniere è stato Bartolomeo Ziegenbalg (1683-1719), tedesco luterano.

Ma soprattutto importante va ritenuto il ruolo del rinascimento indù del XIX secolo. Esso raggiunse l’apice nel «Brahmo Samaj» fondato da Raja Ram Mohan Roy (1830). Si volle rinnovare l’induismo nel senso di un monoteismo ispirato ai Vedanta e al discorso della montagna, con chiari obiettivi umanistici.

Altre figure che emergono: Keshab Chander Sen (Cristo è un «orientale», logos della nuova creazione); Ramakrishna (1836-1886) (e il suo discepolo continuatore del movimento: Vivekananda), estatico grandissimo, ebbe anche una visione di Cristo. Considerò Gesù come un orientale, dei più grandi maestri di tutti i tempi, a ragione chiamato Dio. Gli europei lo avrebbero interpretato male e abusivamente trasformato in un testimone di una storia missionaria imperialista; è invece maestro dell’interiorità e dei senza patria.

Altri nomi da ricordare: Mahatma Gandhi: per lui Cristo non è un monopolio del cristianesimo, ma un modello per tutti gli uomini, specie in alcuni principi: come la forza della verità, la non violenza, il servizio al prossimo. Vinobba (discepolo di Gandhi): Gesù fu il più grande dei satyagrahi: cioè di coloro che credono nella forza della verità e si impegnano per essa.

Da parte cristiana va notata l’esperienza di «inculturazione» (attraverso gli Ashrams cristiani) di J. Monchanin (+1957), H. Le Saux (Swami Abhishiktananda + 1973; che nel 1968 si ritirò sull’Himalaya a fare l’eremita), Bede Griffiths (autore del libro noto: Ritorno al centro).

Una menzione particolare anche per R. Panikkar, nel suo libro noto, Il Cristo sconosciuto dell'Induismo7: egli sviluppa un notevole parallelismo tra Cristo e Isvara (creatore, signore e manifestazione suprema di Brahman).

Interessante anche il caso del Giappone: dove si riscontrano sia condizioni culturali favorevoli al messaggio cristiano, sia un profondo e quasi «insuperabile» sentimento di rifiuto della visione cristiana.

Note

(7) Vita e Pensiero, Milano 1976.


NEO-MARXISMO

Non è curiosità inutile rivolgere uno sguardo anche nel campo marxista e ascoltare cosa hanno da dire su Gesù Cristo coloro che credono nella visione marxista della storia e dei progetti: è una visione materialistica e atea per principio. Ma vi sono anche a volte interessi culturali per la figura di Cristo che possono dire qualcosa.

Vi sono sì - e ancora tantissimi - marxisti che negano storicità alla figura storica di Gesù, lavorando a smontare la credibilità dei testi e delle fonti. In questo più che Engels e Bauer, maestro indiscusso e caposcuola classico è Karl Kautsky, con l’opera Der Ursprung des Christentums, Kautsky spiega l’insorgere, il chiarificarsi e la definitiva fisionomia del cristianesimo non come derivante da Cristo (che non si sa se è esistito), ma da cause storiche; oppressioni, schiavitù, ribellione. Gesù è per lui un «ribelle», che ha tentato un colpo di stato; nell’orto degli olivi il gruppo (che era armato) era pronto al colpo di mano, da una posizione strategicamente importante. Ma la cosa fallì, anche per il tradimento di Giuda. Il Vangelo è «storicizzazione» di speranze rivoluzionarie che di fatto non si realizzarono. Subentrò invece l’istituzione, che a sua volta divenne potenza e oppressione. «Non fu la fede nella risurrezione del Crocifisso che ha creato la comunità e gli ha dato vigore; ma, al contrario, la vitalità della comunità creò la fede nella sopravvivenza del suo Messia»8.

Ci sono altri studiosi (non russi) che accettano la storicità (sostanziale) delle testimonianze, e vogliono trovare in Gesù un insegnamento che non sia monopolio del solo cristianesimo.9 Questi sono soprattutto coloro che sono chiamati neo-marxisti; da catalogare più come filosofi che critici storici. Fra questi vogliamo ricordarne alcuni.

E. Bloch (1885-1977); autore dell’opera in tre volumi Das Prinzip Hoffnung10. L’idea da tener presente è che, per Bloch, l’uomo è connotato dalla categoria del poter-essere, dalla continua tensione verso ili futuro. «Homo absconditus» è il titolo che egli usa; significa identità non ancora svelata (quindi in cammino, nomade), da inventare in un qualcosa non ancora realizzato. Nella religione, specie quella ebraico-cristiana egli scopre (come tanti altri marxisti) anche un’alienazione; ma soprattutto una tensione verso il futuro, il «regno», verso un avvenire migliore.

Gesù per Bloch non pare relegabile al dolce rabbi nazareno: egli è piuttosto un ribelle, colui che si mette contro ogni forma di schiavitù, pagando anche il prezzo di questa ribellione; che è la croce. La croce non è - come per i cristiani - «gesto supremo d’amore e di fedeltà» al Padre, ma viene dal di dentro dei conflitti: come ultimo segno di una ribellione allo statu quo che non può essere sopportato, ma che bisogna pagare con l’eliminazione fisica. Con plastiche immagini Bloch parla di Gesù come eschaton, come speranza mai domata, come Prometeo che ruba il fuoco agli dèi (e viene inchiodato sulla roccia), a favore dei poveri, o come «serpente» che invita «eritis sicut deus».

V. Gardavsky (cecoslovacco). Anch’egli sviluppa il concetto di Gesù come modello aperto di umanità e ricorre alla concezione veterotestamentaria dell’uomo come essere storico aperto, soggetto di azione creatrice, come Giacobbe incapace di sopportare il ruolo di secondogenito, e «lottatore» perfino contro Dio per strappargli la benedizione. Così appare come la massima incarnazione dell’ideale di un uomo dalle infinite possibilità, in continua esperienza di autotrascendimento. La sua riflessione è legata al momento politico della Cecoslovacchia del 1968

R. Garaudy (francese), filosofo marxista dissidente, oggi passato all’islam. Egli si muove sempre sulla linea dell’autotrascendimento. Per lui l’uomo ha per qualità primaria la capacità di autotrascendenza, la capacità di rompere il cerchio dell’ordine costituito, egli è libertà, progetto, creatività continua. Questa qualità/situazione di fondo è anche un’impresa da compiere: e questo lo porta a superare anche le strutture del socialismo storico. In Gesù si ritrova questa verità di un Dio che non si rassegna, ma con amore rischia, andando incontro al superamento continuo di ogni schema rigido. Nel suo morire e risorgere egli è appello al superamento di ogni limite, anche della morte, come annuncio che tutto è possibile. Ogni nostra azione rivoluzionaria e nuova rende vivente tra noi lui, Gesù di Nazaret.

Ha scritto in un saggio:

«Ogni qualvolta riusciamo a romperla con il nostro vivere di routine, con la nostra tendenza alla rassegnazione, con la nostra facilità a cedere, con le nostre alienazioni nei confronti dell’ordine costituito o della nostra meschina individualità, e grazie a tale rottura, riusciamo a compiere un atto creativo sia in campo artistico o scientifico; sia nell’azione rivoluzionaria o nell’amore: ogni qualvolta contribuiamo con qualcosa di nuovo alla realizzazione della vita umana il Cristo è vivente in noi; da noi e tramite noi si continua la creazione. La risurrezione si compie ogni giorno».

M. Machovec (cecoslovacco): ricordiamo di lui l’opera Gesù per gli atei. Egli parla con grande simpatia di Gesù, anche se utilizza le categorie teologiche post-bultmanniane (dalla cristologia diretta a quella indiretta), ma mette in dubbio un gran numero di dati evangelici. Egli legge la vicenda Gesù con un’ottica «marxista» attenta ai rapporti fra classi sociali.

Senza dubbio appare affascinato dalla personalità di Gesù, e ne sottolinea il tema della povertà-ricchezza che si associa strettamente anche con l’esaltazione dell’infanzia, come situazione non alienata, tempo di libertà e mitezza; amore-non violenza: un amore radicale che raggiunge una profondità straordinaria, come appare dal precetto dell’amore anche verso il nemico; lotta al fariseismo.

L. Kolakovski (polacco), fra l’altro autore di Senso e non senso della tradizione Cristiana. Presenta Gesù come un «profeta e un riformatore». Egli dice di muoversi da un punto di vista puramente filosofico, come laico, fuori delle chiese, attento al posto di Gesù nella cultura europea in generale (cita ad es. Pascal, Hegel, Kierkegaard, Nietzsche, ecc.). Individua nell’insegnamento di Gesù «cinque nuove regole»: abolizione della legge a favore dell’amore; non violenza. nei rapporti umani; non di solo pane vive l’uomo (cioè ci sono anche altri valori); abolizione dell’idea di popolo eletto (cioè Dio ora è accessibile a tutti); precarietà dell’esistenza umana.

Osservazioni. Per riuscire a capire l’interesse dei «neo-marxisti» per la figura storica di Gesù Cristo, non si deve dimenticare che essi si sono trovati di fronte alla crisi di «ispirazione» del marxismo, e al bisogno di riscoprire il soggetto, il senso della vita, la dimensione «trascendente» dell’uomo. Per questo il messaggio etico di Gesù, specie l’enfasi sull’amore, sull’uguaglianza, sul valore della persona, sulla resistenza al male fino a morire, li attrae e sembra loro un modello di «correzione» anche per il marxismo. Horkheimer direbbe che si tratta della «nostalgia del totalmente Altro», come nostalgia «di perfetta e consumata giustizia».

Di recente anche altri valori vengono presi in seria considerazione, come la pietà, il perdono, la misericordia, il peccato, l’amore, Lo ha dimostrato il simposio di Budapest (8-10 settembre 1986) su «Società e valori etici», organizzato dal Segretariato vaticano per i non credenti e dall’Accademia ungherese per le scienze.

Possiamo dire che queste considerazioni proposte dai neo- marxisti hanno un certo interesse e senz’altro hanno influito sulla cultura e sulla stessa teologia in tempi recenti.

Tirando un po’ di conclusioni, possiamo dire che la linea neomarxista, sommata ad altri elementi filosofici, psicologici, culturali, e anche a specifici impulsi «teologici» - come quello di Bonhoeffer: Gesù come «uomo per gli altri» - ha trovato accoglienza e sviluppo (in termini più specificamente cristiani) in non poche riflessioni dei teologi attuali. Citiamo per tutte la «teologia della speranza», esplicitamente ispirata a Bloch, per attestazione dello stesso Moltmann.

Echi e analogie si ritrovano anche nella teologia politica, nella teologia della rivoluzione, in alcuni testi della teologia della liberazione (non i più noti). In particolare per quanto riguarda la comune preoccupazione di delineare una fisionomia di Gesù ricca di sovversività, vittima dei giochi e degli interessi dei potenti, simbolo di tutti gli oppressi della storia, ribelle che vuole e vive una prassi diversa, uomo che muore-risorge come supremo testimone dell’alterità, e la cui memoria rimane pericolosa e sovversiva. Di tutto questo avremo modo più avanti di offrire indicazioni maggiormente puntuali.

L’enfasi su Gesù «uomo libero e aperto» ha contagiato, per osmosi culturale, anche il linguaggio catechetico, gli schemi omiletici, perfino molti testi di meditazione. E questo è un interessante apporto della cultura attuale alla spiritualità cristiana. Ma dobbiamo fare attenzione a conservare completa la verità su Gesù Cristo e non ridurla solo ad alcuni, interessanti, stimoli prassiologici o antropologici.

Il dialogo interreligioso ha infine condotto a rileggere la verità che sta prima e oltre la formulazione «dogmatica» dei concili, per sceverare gli elementi ancora non «fissati» in formule, eppure preziosi e vitali. Perché anche a tutti i popoli e alle tradizioni sia concesso di «vedere Gesù» (cf. Gv 12,21) ed essere accolti da lui con il «giubilo nello Spirito», e così possano guardare a colui che, «innalzato da terra, attira tutti a sé» (cf. Gv 12,32), e credendo alla luce «diventare figli della luce» (Gv 12,36).

Il Cristo è destinato «a ricapitolare tutte le cose» (Ef 1,10), perché le ha riscattate col suo sangue sulla croce; ma anche perché tutto è stato «eletto in lui fin dalla fondazione del mondo» (Ef 1,4) e tutto esiste «in vista di lui» (Col 1,16s). Con l’incarnazione il Verbo ricapitola in sé, in modo visibile, il primato sul cosmo intero, che gli apparteneva in modo invisibile.

Le ricerche e i «cammini» delle religioni abramitiche, come le «vie» e i «sentieri» delle grandi religioni asiatiche o delle tradizioni a sfondo cosmico o animista, ci hanno fatto vedere quanto siano numerosi e preziosi i «semi del Verbo» e i segni di santità, e quanto numerosi siano coloro «che lo cercano con cuore sincero».

Di tutto questo Cristo è artefice e pienezza, spiegazione e fondamento, misteriosa presenza e talora anche figura deformata; rimane implicito soprattutto redentore e signore. Alla nostra epoca tocca «assecondare» gli impulsi dello Spirito, mediante il dialogo rispettoso e sincero, e condurre alla piena realizzazione questa signoria universale di Cristo (cf. GS 92).


Note

(8) KAUTSKY, Der Ursprung, p. 400

(9) Per una migliore e diretta conoscenza cf.: J.M. LOCHMAN, Gesù o Prometeo?, Cittadella, Assisi 1975; T. PRÖPPER, Jésus: raison et foui, Desclée, Paris 1978; I.FETSCHER-M. MACHOVEC, Marxisti di fronte a Gesù, Queriniana, Brescia 1976.

(10) Sono tre volumi editi a Berlino (est) negli anni 1954-1959. Tenere presenti anche Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1971 e Religione in eredità, Queriniana. Brescia 1979.

Pubblicato in Teologia
C –GESU’ CRISTO PRESSO GLI EBREI
ED ALTROVE

di Bruno Secondin

L’interesse per Gesù e per il suo messaggio di salvezza e di sapienza ha da sempre superato le frontiere della sua comunità costituita e storicamente definita. La curiosità per questa figura «straordinaria» ha preso i sapienti fin dalla prima ora, e ne sono stati sovente affascinanti, senza tuttavia per questo entrare tra i suoi «seguaci»

Nel nostro tempo questo «interesse» e questo «fascino» continuano a mantenersi vivi. Passiamo in rassegna alcuni settori.

I

... Gesù l’ebreo

Non c’è dubbio che in questi anni è andato crescendo l’interesse per la figura storica di Gesù e per il suo significato «spirituale» negli ambienti religiosi ebrei culturalmente più sensibili al dialogo con la religione cristiana. Soprattutto importante è stato il tentativo di recuperare la figura di Gesù alla cultura ebraica del tempo e di riscoprire la «simpatia» che tanti rabbini ebrei hanno avuto per questo famoso «rabbino».

Si è arrivati così a leggere in forme nuove il ruolo del cristianesimo di fronte all’ebraismo. La «giudaicità» di Gesù affascina oggi sia gli ebrei che i cristiani. Per questi è un recupero dell’umanità storica di Gesù, del suo rapporto con la cultura e le sue forme regionali, del riflettersi in lui dei vari movimenti messianici. Per gli ebrei è come una «reclamazione» della ebraicità di Gesù, un «bringing home» di questo famoso rabbi.

Per capire la novità e anche la causa dell’ostilità storica fra i due gruppi, bisogna non dimenticare la situazione conflittuale cui furono sottoposti gli ebrei per secoli: da una parte l’accusa di deicidio e dall’altra la persistente pressione per indurli a «conversione».

Gesù e la sua croce nella storia sono diventati per gli ebrei il segno/sintesi della sopraffazione e delle violenze. Solo alcuni isolati e ammirevoli dissenzienti - come Maimonide (1135-1204) che riconosce come «provvidenziale» il cristianesimo - andavano oltre le solite accuse raccolte e diffuse nelle famose Tôledôth Yéshü (Vita di Gesù) piene di leggende infamanti (Gesù figlio di Pantèra...). Tali testi (la loro origine risale al sec. VIII) sono una specie di anti-evangelo, diffusi in ebraico e yiddish, erano molto conosciute negli stati popolari e spesso venivano letti durante la veglia di natale. (1)

Di recente ha preso l’avvio uno studio più esatto delle «concezioni» ebraiche (e anche islamiche) di Gesù nel medioevo, contestualizzando con maggiore cura le affermazioni nelle situazioni di conflitto, di polemiche culturali, di interessi economici, di modelli di società. E appare un mondo finora sconosciuto, in cui il rifiuto dell’accettazione di Gesù e della sua «chiesa» ha molteplici ragioni, non tutte senza peso. Si pensi alle critiche dei giudei e dei musulmani medievali della Spagna a certe forme «cristiane» di praticare la fede in Gesù Cristo, con fanatismo sanguinario.

Nel secolo scorso, quando i ghetti si smantellarono e cominciò una storia nuova per gli ebrei, più rispetto e libertà anche per loro, qualcuno comincia a riconoscere il valore spirituale dell’insegnamento del rabbi di Nazaret. Così H. Graetz, grande studioso ebreo, che riconosce in Gesù «nobiltà di cuore, profonda serietà morale e santità di vita», ma la cui stima viene contestata nell’ambiente ebraico. Così C.G. Montefiore, che lo definisce un autentico «profeta».

Il movimento sionista - cioè il grande revival del ritorno alla terra dei padri - con la fine del sentimento di emarginazione e di insicurezza, conduce più facilmente a riconoscere in Gesù di Nazaret un grande figlio di Israele. Ammiratori di Gesù sono tra gli altri: Moshé Hess, Max Nordau, Max Bodenheimer, Theodor Herzl, Klausner Joseph («Gesù è un grande artista delle parabole»).

Le conseguenze della visita storica del papa alla sinagoga di Roma (13 aprile 1986) sono ancora da verificare, sul piano di eventuale «riflesso» nella cristologia. Per ora però si possono meglio valutare le conseguenze di dialogo e collaborazione provocate dal paragrafo 4 della dichiarazione Nostra aetate del concilio Vaticano Il.

Sono tanti coloro che dal lato dell’ebraismo rileggono la vicenda Gesù.

Citiamo alcuni autori che si sono distinti in particolare su questo tema.

Jules Isaac (+ 1965): con la sua opera. Gesù e lsraele (2) inaugura una nuova era nei rapporti reciproci. E’ un invito ad una rimeditazione più equilibrata e onesta degli scritti neotestamentari. L’opera si divide in quattro sezioni: Gesù detto «il Cristo» era ebreo secondo la carne e la cultura; predicò il «Vangelo» nella sinagoga ebraica e nei luoghi sacri ebraici, fu in buone relazioni con il suo popolo, esclusa una piccola minoranza fanatica che lo condannò; del crimine di deicidio è imputabile una minoranza di «collaborazionisti» invasa da orgoglio dottorale, mentre il vero ebraismo non ha consegnato Gesù al potere occupante. Tipico tono dell’opera è quello del rispetto e dell’attenzione a tutte le fonti, per riscoprire la profondità ebraica di Gesù e del suo messaggio.

Martin Buber (+ 1965): l’autore dei famosissimi Racconti dei Chassidim. Egli affermava in una conferenza a Gerusalemme (1948): «lo credo fermamente che la comunità ebraica, nel corso della sua rinascita. riconoscerà Gesù.

Shalom Ben-Chorin: sostenitore dell’ebraismo progressivo e del dialogo ebraico-cristiano e autore di un famoso libro: Fratello Gesù. (3) Gesù vi appare come un maestro giudaico, vicino alla linea dei farisei, che ha proposto l’interiorizzazione della Legge condensandola nell’amore.

Pinchas Lapìde: autore del libro Ist das nichtJosephs Sohin? Jesus in heutigen Judentum.. Questo teologo ebreo ha dimostrato, anche con altri studi e pubblicazioni, come oggi fra gli ebrei sia altissimo l’interesse per Gesù di Nazaret:.

Egli sviluppa anche la ricerca sulle opinioni dei rabbini circa Gesù: e da questo studio sulle testimonianze di 18 secoli risulta evidente la stima per la qualità sapienziale del «rabbi» di Nazaret. In un dialogo con Hans Küng egli ebbe a dire:

«Il fratello Gesù viene finalmente riportato a casa come compagno, come connazionale e consanguineo... anzi, perfino come sionista e compagno di lotta». (4)

Franz Rosenzweig (+ 1929): interessante la sua teoria nella difficile opera La stella della redenzione, di recente tradotta in italiano. (5) Prendendo lo spunto dai due triangoli incrociati della «stella davidica» egli vede che l’ebraismo rappresenta la santa vita che anticipa l’eterna pienezza della redenzione: il popolo ebraico per questa vita è chiamato a star fuori del tempo, è da sempre presso Dio. Il cristianesimo invece rappresenta la via, perché il cristiano cammina nel tempo e nello spazio e, camminando, conduce al Padre i pagani attraverso il Figlio. Con riferimento alla stella davidica, l’ebraismo è il fuoco che brucia in eterno, mentre il cristianesimo è l’insieme dei raggi che sono lanciati, in tutte le direzioni.

«Davanti a Dio dunque, entrambi, ebreo e cristiano, sono lavoratori intenti ad una stessa opera. Egli non può far a meno di nessuno dei due. Tra i due egli ha posto inimicizia in ogni tempo e tuttavia li ha legati l’uno all’altro reciprocamente nel modo più stretto...". (6)

David Flusser: con l’opera Jesus egli vuole recuperare le radici ebraiche e anche la personalità profetica e l’originalità dell’amore ai poveri e agli emarginati (e anche ai nemici) di Gesù. Egli difende decisamente la storicità della vicenda di Gesù, e anche la specificità («gli influssi ricevuti da Gesù non bastano a spiegare tutto il suo comportamento morale sulla dottrina dell’amore»). Accetta anche la situazione gloriosa del Cristo:

«Non abbiamo alcun motivo di dubitare che il crocifisso sia veramente “apparso” a Pietro, poi ai dodici, poi a più di 500 fratelli alla volta!...., poi a Giacomo e a tutti gli apostoli». (7)Anche se trascura Giovanni (non lo ritiene storico) e rifiuta di accettare le opere di potenza, il Gesù di Flusser appare un profeta impegnato per la conversione individuale e radicale a Dio, tuttavia non il Salvatore dell’umanità. Accetta però che Gesù si sia autoidentificato coni il «Figlio dell’uomo» di Daniele, senza che sia accettabile il «Figlio di Dio» in senso cristiano. In sostanza Flusser si interroga continuamente sul significato della figura e accetta che si «possa scrivere una vita di Gesù».

Molti altri nomi si potrebbero citare: Robert Aron con l’interessante operetta Gli anni oscuri di Gesù, Paul Winter, Samuel Sandmel, Harvey FaIk , letterati come Shalôm Asch (autore del romanzo Il Nazareno), Max Brod. J. Sinclair, J. Bor, A. Chouraqui (noto traduttore del NT in bellissimo francese). Infine il grande artista Marc Chagall che ha più volte dipinto la crocifissione, ma come «simbolo» del destino del popolo ebraico, non come segno «cristiano» .

Infine un fenomeno che sta suscitando parecchio interesse è il moltiplicarsi di gruppi di ebrei che permanendo nell’ambito ebraico, considerano Gesù come Messia vero: si chiamano Jews for Jesus. Si trovano diffusi in particolare in California.


Osservazioni

In conclusione quello che per un ebreo medio oggi può essere ammesso circa Gesù, è che si può considerare un grande profeta di Dio, maestro di sapienza, dalla morale elevata, che nella tradizione spesso è stato molto stimato, e che oggi ancor di più si può stimare, come una figura «eccezionale» della storia ebraica.

Però del «Verbo fatto ebreo» si continua a lamentare la trasformazione - ad opera di Paolo specialmente (cf. R. Aron) - della figura e del messaggio di Gesù in un qualcosa di «universale», però de-ebreizzato, e fatto figura teologica, rispondente ai canoni ellenistici. E qui il contrasto non è sanabile.

Note
1) Un’antologia dei testi: J.P. Osier, L’évangile du ghetto, ou comment les juifs se racontaient Jésus, Berg International, Paris 1984, importante per le varie redazioni delle Tôledôth. In italiano c’è anche R. Di Segni, Il Vangelo del ghetto, Newton Compton, Milano 1985, con intenti simili al precedente. Per un primo approccio più panoramico cf. Ben-Chorin, Jesus im Judentum, Wuppertal 1970, specie pp. 7-46.


2) Ed. Italiana Cardini, Firenze 1976 (originale tedesco 1948).

3) Morcelliana, Brescia 1985. originale tedesco: Bruder Jesus, der Nazarener in jüdiscer Sicht, Paul List, München 1967.

4) H. Küng-P.Lapide, Gesù segno di contraddizione. Un dialogo ebraico-cristiano, Queriniana, Brescia 1980, p. 15.

5) Marietti, Casale Monferrato, 1985.

6) Rosenzweig, La stella, pp.444-445.

7) Gesù, p. 165.

II

... ed altrove…..

Bisogna chiarire subito una cosa: che in questo settore si può cadere facilmente nell’equivoco: o del riduttivismo (disprezzo dei valori altrui) o del parallelismo (somiglianze che non sono omogenee). Perciò poniamo alcune indicazioni di partenza.

Le domande vitali che l’uomo si pone. si ritrovano praticamente con eguale frequenza in tutte le religioni: sono le domande sulla nostra origine, sulla morte, sul dolore, sulla felicità, ecc. Dall’esperienza ellenistica, alle Svetasvara Upanishad (1,1) e alla Nostra aetate, (n. 1): ovunque sono espresse praticamente con gli stessi termini. Citiamo da questo ultimo testo:

«Gli uomini delle varie religioni attendono la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» (NÆ 1).

Alla varietà delle domande religiose - seppur consonanti - corrisponde la pluralità della forma delle risposte. Qui nasce storicamente la varietà delle religioni, che risentono sia della peculiarità etnica (genio dei popoli), sia delle condizioni ecologiche, storiche, culturali, sia della presenza di leaders influenti, ecc.

Il cristiano che si incontra con la molteplicità e la varietà delle forme di religione, ha spesso rifiutato globalmente tutto, ritenendolo inutile e «estraneo”, o superstizione. Oggi il problema si pone invece in termini nuovi, molto interessanti, che propongono una possibile convergenza di tutta la varietà verso l’unità.

Nei documenti conciliari vengono riconosciuti «elementi di verità e di grazia» (AG 9) anzitutto a livello di persone seguaci di altre religioni, e anche come dati oggettivi propri delle stesse tradizioni religiose: «riti e culture» (LG 17), «iniziative religiose» (AG 3), «ricchezze che Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli» e si riscontrano nelle loro «tradizioni religiose» (AG 11). E inoltre mostra una consapevolezza importante dell’influenza universale dello Spirito santo in tutto il mondo. «Indubbiamente lo Spirito santo operava nel mondo già prima che Cristo fosse glorificato» (AG 4). Lo Spirito chiama tutti gli uomini a Cristo, col Vangelo predicato, con i «semina Verbi» sparsi ovunque (AG 15) e offrendo a tutti «nel modo che Dio conosce.., la possibilità di venire a contatto col mistero pasquale» (GS 22). Forse il passaggio più «cattolico» del concilio sta nel paragrafo 92 di Gaudium et spes dedicato al dialogo fra tutti gli uomini, attraverso quattro cerchi concentrici. Termina accennando «a tutti coloro che credono in Dio e che conservano nelle loro tradizioni preziosi elementi religiosi e umani». E si augura che «un dialogo fiducioso possa condurre tutti noi ad accettare con fedeltà gli impulsi dello Spirito e portarli a compimento con alacrità». Il dialogo interreligioso appare elemento costitutivo intrinseco alla missione della chiesa.

Esempi recenti di testimoni profetici di questo incontro - da Ch. de Foucauld a Monchanin, da Peryguère a Le Saux, a Griffiths, ecc. — rendono questo discorso sempre più fecondo e carico di promesse.

Per il cristiano il centro dell’universo e della storia è Cristo Gesù: per cui la figura del «pantocrator» esprime bene il ruolo centrale rispetto ad ogni esperienza religiosa. Ma oggi questa universalità non è solo un concetto più o meno astratto e vago, è di fatto diventato un grosso problema; di fronte alla vitalità e al dialogo con le altre religioni.

Si parla oggi di «Cristo dentro le religioni»: è la posizione assunta dal concilio, specialmente in Nostra aetate e anche espressa dal teologo K. Rahner sui «cristiani anonimi». Ci sono tuttavia delle resistenze, perché questo fa delle altre religioni una «praeparatio evangelica», cioè del materiale grezzo che viene assorbito dal cristianesimo, una volta che il Vangelo sarà annunciato. E quindi le altre religioni hanno un valore subordinato e secondario, in fondo.

Altri parlano di «Cristo al di sopra delle religioni»: in questo modo di vedere le altre religioni non sono pura preparazione evangelica, ma di fatto sono autentiche «vie di salvezza», al di fuori dell’esperienza «chiesa cristiana». Questo toglierebbe a Cristo la normatività unica e ultima, perché Dio avrebbe da dire e da fare più di quanto non sia stato detto e fatto in Cristo. Il pluralismo di «figure» religiose sarebbe volontà di Dio, e Cristo sarebbe né contro, né sopra, ma «insieme» con le altre religioni. I diversi sentieri, quasi vie differenziate di salvezza, «portano» a Dio, e non più solo a Cristo.

C’è infine la «teologia della liberazione» delle religioni: che accentua il criterio della capacità non tanto di «affermare» verità e unicità, ma di «migliorare» la storia dell’umanità. Quindi il valore unico di Cristo si misura su questa capacità di essere l’unico che «libera» oppure di essere in compagnia di altri efficaci «liberatori». Quest’ultima posizione di fatto rinnega completamente quello che la rivelazione su Gesù Cristo (gli Evangeli) afferma in maniera non equivoca: che cioè egli è l’unico «liberatore» definitivo.

Mi pare meglio accettabile la posizione di chi suggerisce anche una lettura universalistica del messaggio biblico (che è attestata specialmente nelle correnti sapienziali), in modo da riuscire a cogliere le «tracce di Dio» o i cosiddetti «semina Verbi» in mezzo alle molteplici tradizioni religiose le quali risalgono a Dio, perché lui ne è l’autore.

Come bene spiega Rossano (8) le varie «risposte religiose» possono considerarsi risposta a quell’ interiore «instinctus Dei invitantis» con il quale Dio chiama tutti gli uomini a sé. C’è un tempo prima di Cristo e un tempo dopo Cristo: ma non esiste un tempo senza salvezza (Unheilzeit ) e un tempo con la salvezza (Heilzeit). La così detta «economia sapienziale» - cioè l’azione salvifica di Dio tramite la Sapienza e il suo Spirito - è attestata ampiamente sia nell’Antico Testamento che nel Nuovo. Si pensi alle molteplici alleanze attestate nel Pentateuco dal codice sacerdotale. Si pensi a testi come questi: «Dio ama i popoli» (Dt 33,3), è «amante della vita» (Sap 11,26), «la terra è piena del suo amore» (Sal 32,5), «la potenza di Dio riempie l’universo» (Sap 1,7; Pro 8,31).

Per quanto riguarda il Nuovo Testamento, soprattutto Giovanni e Paolo hanno assunto il criterio dell’universale sovranità di Cristo. Nella lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi Cristo è proclamato fondamento e chiave di volta di tutta la storia: tutto fu creato in lui, tutto sussiste in lui, tutto tende alla conciliazione ultima in lui (Col 1,15-20; Ef 1,10). Sempre secondo Paolo lo Spirito opera per la giustificazione in ogni uomo che opera il bene e che segue la legge dell’amore (Rm 2,25-29; cf. At 10,34-35). Ancor più splendida la testimonianza di Giovanni: nel prologo l’azione del Verbo è descritta come «presenza» nel mondo, «illuminazione» e vita spirituale per tutti (Gv 1,9). Nell’Apocalisse Cristo è «il Primo e l’Ultimo, il Vivente» (1,18), agnello vittorioso prima della fondazione del mondo (5,13) e nel libro che tiene in mano sono segnati i destini della storia (5,6-9).

La riflessione teologica di questi anni ha cercato di percorrere la strada degli epiteti cristologici come Logos, sapienza, manifestazione, ecc., per valorizzare tutto il patrimonio di «beni spirituali e morali» e i valori socio-culturali (NÆ 5) che si trovano nell’universo religioso delle grandi tradizioni religiose mondiali. E’ una riflessione ancora aperta e che già i Padri fecero (come Giustino, Ireneo, Clemente Alessandrino, Origine, Agostino, Gregorio Nisseno), ma rimangono da affrontare molti settori.

Non solo quello del riconoscimento di Gesù Cristo come «rivelatore e salvatore unico», ma anche quello del valore dei «libri sacri», degli «archetipi religiosi» propri dell’antropologia universale, dell’apporto delle religioni alla fede in Cristo e all’esperienza cristiana della salvezza. Si tratta cioè di un apporto di esplicitazione soltanto, o di scoperta di valenze nuove non ancora percepite, o vi sono addirittura degli elementi «nuovi» da «assumere»?

Così il dialogo interreligioso diviene un processo di annuncio e di ascolto, di accoglienza e di offerta: e non una pura presa di coscienza delle differenze esistenti, storiche ed esistenziali. Come appunto viene suggerito anche da documenti ufficiali più recenti.

Evangelii nuntiandi (n. 53) a riguardo delle altre religioni ossserva:

«Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a pregare a generazioni di persone».

E in un altro documento recente, del Segretariato per le religioni non cristiane, che offre delle «riflessioni e orientamenti» per il dialogo interreligioso dice:

«A un livello più profondo, uomini radicati nelle proprie tradizioni religiose possono condividere la loro esperienza di preghiera, di contemplazione, di fede e di impegno, espressioni e vie della ricerca dell’Assoluto».

Il valore di quello che altre religioni possono dire oggi di Gesù Cristo (o arricchire il già detto) deve essere visto in questa prospettiva: che tenga conto delle ricchezze espressive e sacre delle altrui tradizioni, della capacità di ciascuna tradizione di assimilare in maniera creativa il messaggio di Cristo. L’esperienza del resto s’è già verificata per tutto l’occidente nei secoli IV e seguenti, e si sta ripetendo nei luoghi dove l’inculturazione spinge verso nuove «sintesi».

E’ tutto ancora da verificare l’impatto storico della grande riunione, ad Assisi dell’ottobre 1986, dei rappresentanti delle varie religioni del mondo. Ma certamente quell’esperienza ha aperto la strada ad una forma nuova di dialogo fra le religioni, e di rapporto tra religioni e storia comune.

È interessante che siano soprattutto gli asiatici e gli africani a sentire questo problema in maniera intensa. Essi amano oggi parlare di «Christus cosmicus», cioè «universale». Mentre la teologia occidentale ha posto l’accento di più sulla persona storica di Gesù di Nazaret e sulla chiesa come istituzione storica, la giovane teologia asiatica e africana è più attenta a cogliere le implicazioni universali del «primato» di Cristo.

Scrive il teologo dello Sri Lanka, Tissa Balasuriya (9):

«Cristo il Signore implica una dimensione di essere molto più vasta che non Gesù di Nazaret, sebbene Gesù sia il Cristo».

Lo studio di alcuni passi del Nuovo Testamento (es. Ef 1 e Col 1) in cui si parla del pieno compimento della rivelazione divina nella universale signoria del Risorto, invita ad una visione «cristica» di tutta la realtà. umana e cosmica.

Se una teologia centrata sulla figura di Gesù e la fondazione storica della chiesa ha indotto i cristiani - argomenta Balasuriya - a reclamare un monopolio su Dio, ritenendosi gli unici depositari della salvezza, la riflessione sul primato di Cristo e l’universale presenza del suo Spirito conduce a ripensare la creazione nei termini della presenza di Cristo in tutta la realtà creata. Se è vero il «disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10), allora bisogna cercare il messaggio di Dio in tutti gli strati dell’esistenza: storica, cosmica, sociale, individuale.

C’è una «teoprassi» nei valori «religiosi» dei popoli: tale patrimonio deve essere capito, assunto, letto in Cristo, purificato in lui. Bisogna far attenzione per non confondere l’universalità di Cristo come unico mediatore con la universalità del cristianesimo come religione storica.

Dice un altro teologo asiatico, A. Pieris: se la chiesa vuole conoscere e mostrare il «volto asiatico di Cristo», deve

«essere abbastanza umile da farsi battezzare nel Giordano della religiosità asiatica e abbastanza forte da essere crocifissa sulla croce della povertà asiatica»

La religiosità profonda e ricca dell’Asia e la sua immensa povertà (80% dei poveri del mondo) sono l’impasto per una chiesa cristiana a misura dell’Asia? Egli sostiene anche che vi sono quattro modelli di inculturazione: cultura e religione (latino); filosofia e religione (greco): questi sono impraticabili nel contesto asiatico. Il terzo: religioni cosmiche (animiste) e cristianesimo (nordeuropeo): potrebbe andare bene in Asia, ma per pochi ormai; altre grandi religioni sono già arrivate. E sono le religioni «metacosmiche»: cioè con una realtà trascendente che agisce in maniera immanente nel cosmo e nell’uomo, attraverso l’agape (amore redentore) e la gnosis (conoscenza salvatrice). Per cui conclude che il modello monastico è il più vicino al genio asiatico: per la solidarietà con i poveri (agape) e per la comprensione del linguaggio dei monaci (gnosis) asiatici.

Interessante è anche la «Minjung Theology», cioè la teologia coreana che ritiene il «popolo» (= minjung) come soggetto della storia. La «Minjung Theology» non intende essere né una teologia politica coreana, né una teologia coreana della liberazione. Essa si basa sulla convinzione che il messaggio cristiano si radica nell’esperienza storica e culturale di un popolo. Uno dei termini usati è han (da cui anche «Theology of han»): significa il sentimento collettivo del popolo oppresso, carico di tutti i soprusi e le violenze, è la «giusta indignazione» che permane oltre i tiranni e le tragedie, e indica una coscienza collettiva messianica di speranza e libertà.

In linea generale: si può dire che nelle grandi religioni non cristiane, Gesù Cristo è visto non solo come via all’uomo maturo e realizzato, ma anche come via a Dio, come mediazione al trascendente e al divino.


Note

8) P. Rossano, Teologia delle religioni: un problema contemporaneo, in R. Latourelle, (ed.), Problemi e prospettive di Teologia fondamentale. Queriniana, Brescia 1980, pp. 359-377.

9) Teologia planetaria.

Pubblicato in Teologia
Mercoledì, 21 Febbraio 2007 01:10

I volti storici di Gesù (Bruno Secondin)

B - I SUOI VOLTI STORICI

di Bruno Secondin

Quale immagine di Cristo è l'autentica?

H. Küng, nel suo noto libro Essere cristiani, ce ne offre una sintesi suggestiva.

"È il giovane imberbe, bonario pastore dell'arte paleocristiana o il barbuto trionfante Imperator o Cosmocrator della tarda iconografia relativa al culto imperiale, aulico-rigido, inaccessibile, minacciosamente maestoso sullo sfondo dorato dell'eternità? E' il Beau-Dieu di Chàrtres o il misterioso Salvatore tedesco? E' il Cristo re e giudice del mondo, troneggiante in croce sui portali e nelle absidi romaniche, o l'uomo dolente raffigurato con crudo realismo nel "Christus in Elend" di Dürer e nell'unica crocifissione superstite di Grünewald? È il protagonista della "Disputa" di Raffaello, dall'impassibile bellezza, o l'umano moribondo di Michelangelo? E' il sublime sofferente di Velàsquez o la figura torturata dagli spasimi di EI Greco? Sono i ritratti salottieri, impregnati di spirito illuministico, di Rosalba Carriera e di un Fritsch, in cui muove un elegante filosofo popolare, o le edulcorate rappresentazioni del cuore di Gesù nel tardo barocco cattolico? E' il Gesù del diciottesimo secolo, il giardiniere o farmacista che somministra la polvere delle virtù o il classicistico Redentore del danese Thorwaldsen. che scandalizzò il suo compatriota Kierkegaard eliminando Io "scandalo della croce?"

È il Gesù umano, mite ed esausto, dei nazareni tedeschi e francesi e dei preraffaelliti inglesi o è il Cristo, calato in ben altre atmosfere, degli artisti del ventesimo secolo, i vari Beckmann, Corinth, Nolde, Maserel, Rouault, Picasso, Barlach, Chagall?

Né meno diverse sono le teologie che sottendono le immagini. Quale cristologia è l'autentica?

È, nell'antichità, il Cristo del vescovo Ireneo di Lione o del suo discepolo Ippolito (antipapa di Callisto), quello del geniale compilatore greco Origene o dell'eloquente giurista latino Tertulliano? E' il Cristo dello storiografo e vescovo costantiniano Eusebio o quello di Antonio, il padre del deserto egiziano; quello di Agostino?

E nel medioevo, il Cristo del neoplatonico Giovanni Scoto Eriugena o quello dell'acuto dialettico Abelardo, quello delle tanto commentate sentenze di Pietro Lombardo o quello delle prediche sul Cantico dei cantici di Bernardo di Clairvaux? E' il Cristo di Tommaso d'Aquino o quello di Francesco d'Assisi, quello del potente Innocenzo III o quello degli eretici valdesi e albigesi da lui combattuti

E', nell'età moderna, il Cristo dei riformatori o quello dei papi romani, quello di Erasmo di Rotterdam o quello di Ignazio di Loyola, quello degli inquisitori spagnoli o quello dei mistici spagnoli da loro perseguitati? È il Cristo dei filosofi-teologi dell'idealismo tedesco, di Fichte, Schelling, Hegel, o quello del teologo-antifilosofo Kierkagaard? E' quello della scuola cattolica, storico-speculativa, di Tübingen o quello dei teologi gesuiti e neoscolastici del Vaticano I, quello dei movimenti di risveglio protestante nel secolo XIX o quello dell'esegesi liberale dei secoli XIX e XX, quello di Romano Guardini o quello di Karl Adam,di Karl Barth o di Rudolf Bultmann, di Paul Tillich, di Teilhard de Chardin o di Billy Graham?

Quante le teste, tante le immagini di Cristo? La devozione continua ancora oggi a fornire le più disparate risposte alla domanda: quale Cristo? Che cosa significa Cristo per me?"



I

Il rischio di deformazioni

Come si vede, in circolazione ne esistono mille diversi volti, a volte addirittura contraddittori. C'è il Cristo semplice della pietà popolare e c'è il Cristo sofisticato degli studiosi; c'è il Cristo tranquillizzante di certo cristianesimo borghese e c'è il Cristo rivoluzionario dei moti di ribellione; c'è il Cristo delle "barricate" e quello "socialista" caro a tanta tradizione popolare italiana, e c'è il Cristo tutto spirituale dei movimenti carismatici. Ognuno lo ha "scritto" o dipinto o scolpito o cantato con volti diversi.

La maggior parte di queste immagini sono legittime, nella misura in cui mettono in luce un aspetto vero di Cristo. Ma c'è anche il rischio di una manipolazione. Soprattutto esiste il rischio che siano i cristiani stessi, nella loro ricerca di Cristo, a manipolarlo o deformarlo, magari anche inconsciamente, con la scusa di attualizzarlo o di modernizzarlo.

Un rischio sempre presente, soprattutto nei momenti di transizione culturale come il nostro: per incarnarlo in nuove culture, rischiamo di snaturarlo o di falsificarlo. Per farne una proiezione di sé, la giustificazione dei nostri progetti e delle nostre opzioni, un ideale ritagliato a nostra misura e per nostro consumo.

Ma nonostante questo rischio di manipolazione, anche la nostra epoca deve "dare il nome" a Gesù (Mt 16,13-16).

Lasciarsi guidare dalle ragioni che dall'alto ci vengono suggerite, ma anche lasciarsi provocare dalle nuove condizioni culturali, che "possono stimolare lo spirito ad una più accurata e profonda intelligenza della fede. Infatti gli studi recenti e le nuove scoperte delle scienze, della storia e della filosofia, suscitano nuovi problemi che comportano conseguenze anche per la vita pratica ed esigono anche dai teologi nuove indagini" (GS 62).

II

... I suoi ritorni

Che si stia vivendo una stagione cristologica particolarmente produttiva, forse in parte anche creativa e paragonabile alla stagione dei grandi concili o al tempo della scolastica migliore, sono in molti a sostenerlo. Sintomi ve ne sono tanti, sia sul piano della ricerca teorica, sia nell'ambito dell'esperienza vissuta e perfino anche nell'espressione artistica.

In fondo la nostra epoca, connotata da una profonda transizione culturale, per naturale esigenza comporta un'ulteriore elaborazione di tutte le sintesi teoriche e una nuova ricognizione degli orizzonti di riferimento attraverso il ritorno al fondamento.

Come premessa diciamo anche che una tale "concentrazione cristologica" - dopo qualche anno di enfasi ecclesiologica - potrebbe anche rischiare di mettere in ombra una necessaria attenzione al tema "Dio", a motivo dell'assorbimento del tutto in Gesù Cristo. Un'afasia sul Dio Padre di Gesù Cristo la si nota comunque nella teoria e nella pratica: molti possono essere detti "cristomonisti" puri. Perfino il concilio Vaticano Il è apparso a qualcuno come tendente al "cristomonismo".

Le varie tappe del passato e del presente rappresentano ciascuna uno stadio del divenire e del realizzarsi della spiritualità cristiana, un atteggiamento della coscienza collettiva nel suo prendere posizione davanti al mistero di Cristo.

Il Gesù della nuova "religiosità"

È apparso di recente uno studio molto ampio e documentato del teologo francese J. Vernette sulla presenza di Gesù nelle molteplici forme di ricerca religiosa del nostro tempo che egli chiama con espressione sintetica "nuova religiosità" Questo studio ha evidentemente una prospettiva più che altro europea (e francese in particolare). Ma dimostra bene come di fatto numerose "religioni selvagge" stanno fiorendo all'interno del deperimento delle grandi forme ecclesiali istituzionali.

1.CARATTERISTICHE GENERALI

Possiamo evidenziare, nel quadro d'insieme, alcune figure "cristologiche" emergenti:

- Ritorno delle questione religiosa come centrale nel senso della vita: Gesù e il suo messaggio ri-divengono una referenza per la condotta individuale e sociale;

- L'universalismo delle religioni e nomadismo religioso: Gesù si incontra in ognuna delle tappe dell'itinerario: un Gesù dai molti volti;

- Modificazioni delle strutture istituzionali di certe religioni stabilite, per creare spazi di "accoglienza" per le nuove sensibilità: il discorso dottrinale su Gesù si modifica, si fa meno rigido; la metà dei cattolici europei non crede nella divinità di Gesù;

- Estensione del pluralismo religioso, verso un pensiero aperto e tollerante: Gesù diviene un pezzo mobile e banalizzato che si fa entrare nel puzzle religioso più diverso;

- Apparizioni di "nuove religioni", trasversali rispetto alle tipologie esistenti, in nome della religione universale come esigenza di una nuova era (che sarà quella dell'Acquario).

Qual è la fisionomia dominante di Gesù Cristo in questa deriva del fenomeno religioso? Per Vernette si tratta di due grandi famiglie spirituali, due visioni globali della persona di Gesù.

La prima famiglia è costituita dai dissidenti del tronco biblico e giudeo-cristiano. L'intento è di vivere con decisione e conversione totale per Gesù, "accettare Gesù come salvatore", "dire di sì a Gesù". Chiaramente il registro ascetico è dominante, in atteggiamento anche di contro-cultura verso le tendenze permissive della società e anche della chiesa.

La seconda famiglia ha la tendenza a "leggere" il ruolo di Cristo in Gesù di Nazaret, e quindi ad interpretarlo in prospettiva cosmica, in chiave di interpretazione, di maestro e guida. L'incarnazione di Dio in Gesù non è che un caso particolare: la manifestazione di uno "strato" (incarnazione) del divino cosmico.

Gesù fa parte dell'energia cosmica, dell'unità sostanziale dell'universo. E il linguaggio usato è quello simbolico ed esoterico, con grande importanza all'elemento femminino, ai poteri psichici, di guarigione, medianici.

2.IL JESUS MOVEMENT

Un interessante momento di questa "Gerusalemme selvaggia" può essere considerato il Jesus Movement. E' in America dell'ovest - a San Francisco specialmente, rivelatosi in questi decenni come "laboratorio" del prossimo futuro - che nasce, sulle speranze e i sogni falliti di rivoluzione e libertà istintuale, un nuovo interesse per Gesù. Gli studiosi indicano gli anni di nascita intorno al 1966/1967:, e il momento culminante verso il 1971. Molti "figli dei fiori", delusi dalla droga e dal sesso libero, scoprono in Gesù un nuovo ideale e una maniera originale di vivere liberi e alternativi.

Quello che nel 1971 la rivista internazionale"Time" chiamerà Jesus' revolution, comprende tutti i movimenti giovanili che dal 1967 si diffondono in America dall'ovest all'est e poi passano in Europa: è tutto un arcipelago di movimenti e manifestazioni ambivalenti ed entusiasti, che hanno lo scopo di ritrovare un senso alla vita e di superare nella presentazione di Gesù i vecchi schemi.

3.ALCUNI GRUPPI PIU' NOTI

Il fenomeno è stato studiato e si distinguono alcuni gruppi più significativi:

a. Hippies cristiani. Sono l'ala più dinamica e spettacolare del movimento. Si distinguono: "Jesus people" - "Jesus freaks" - "Street Christians" e altri. Sono fondamentalisti: l'unica via di salvezza è tornare a Gesù e a Dio; entusiasmarsi soprattutto per Gesù, come ce lo presentano i "libri sacri".

b. Straigt People (gente diritta, onesta): è di carattere borghese. Sono giovani inseriti in campus universitari, organizzano grandi manifestazioni, propongono un cambiamento radicale, ma di carattere più che altro intimista.

c. Movimento carismatico: da non confondere con l'attuale "movimento carismatico". E' una frangia che cerca di valorizzare nella vita cristiana il dono dello Spirito santo e il ruolo dei carismi

Possiamo anche aggiungere i Children of God, che deriva dagli hippies, ma è finito in sètta.

4.OSSERVAZIONI

Tutto il fenomeno è interessante, anche se oggi ormai è superato. Si tratta di un Dio sperimentabile in diretta, cosmico, che si può vedere in faccia. I suoi effetti però perdurano, in quanto ha messo in circolazione la "protesta" contro il Cristo "ecclesiale" definito e congelato in schemi intoccabili e monopolizzato dalle chiese.

Sottolineiamo alcuni aspetti peculiari, circa la figura di Gesù, che:

- Appare come simbolo di un senso pieno e totale della vita: come amico, uomo libero, capace di emozioni comuni, controcorrente;

- E segno della gioia di vivere, del primato della prassi sopra gli schemi teorici, della festa e dell'utopia (rimane dimenticato/rimosso il fatto doloroso della sua morte);

- E via per un contatto immediato con il divino: e ciò porta all'entusiasmo, all'attesa collettiva del suo ritorno. Amare Cristo è entrare nell'avventura della sua attesa;

- Appare come profeta in difesa dell'uomo, di tutti gli uomini, specialmente dei socialmente emarginati, di coloro che sono alla deriva sociale.

5. ALCUNI LIMITI

Non mancano però dei problemi che bisogna sottolineare:

  • Indifferenza per la divinità di Gesù;
  • Superamento della relazione tra Cristo e la sua chiesa attraverso gli "strumenti salvifici" l'essere "chiesa" si riduce al fare esperienza "insieme";
  • Prevalenza dell'emotivo, dell'irrazionale, della soddisfazione dei bisogni di gratificazione, ricerca di "consolazione" dopo il crollo dei miti e dei progetti collettivi che si sono rivelati un fallimento (per es. Vietnam, New Deal, ecc.).

Comunque sta di fatto che attraverso questo movimento Gesù è diventato un prodotto di consumo, rompendo il "monopolio religioso/chiesastico" della sua figura e del suo messaggio. Questa dilacerazione dei confini antecedentemente riconosciuti - cioè la proprietà della figura di Cristo riservata alle organizzazioni "costituite" - è una delle matrici dell'attuale fede in Cristo ma non nella chiesa.

III

... Nella cultura

Il nostro secolo è forse uno dei più ricchi di presenza cristologica nella letteratura e nello spettacolo. Basterebbe citare dei nomi come: Mauriac, Papini, Bulgakov, Dostoiewsky, Green, Böll. Bernanos, Dürrenmatt.

Chi non conosce i nomi e le opere famose di Pasternak (Doctor Zivago), Burgess (L'uomo di Nazareth; originale Jesus Christ and the Love Game), Silone (L'avventura di un povero cristiano), Messori (Ipotesi su Gesù)? Oppure Lettere di Nicodemo di Dobraczynski, Una favola di Faulkner, Getsémani di Saviane, Il grande pescatore di Douglas?

Salvo qualche eccezione, non si tratta di opere esplicitamente dedicate a Gesù, ma piuttosto all'esperienza di odissea, di smarrimento, di misterioso viaggio di ritorno alle sorgenti, ai significati primari, alla salvezza oltre il vuoto e il fallimento o la morte. Si definiscono come testimonianze sul Jesus redivivus.

Per un primo orientamento in tutto questo settore ci appare interessante da segnalare la duplice antologia di J. Imbach su Dio e su Gesù Cristo nella letteratura contemporanea. In questo secondo testo egli studia una trentina di autori (romanzieri), riportandone anche dei testi suggestivi, e analizzando il contenuto delle opere secondo sei categorie interpretative: romanzi tradizionali su Gesù, rispecchiamenti, tracce, attualizzazioni, atteggiamenti, istantanee.

Ancora un filone interessante che sarebbe da analizzare nel campo della letteratura è quello dell'epica e del simbolico, come si trova per esempio nelle opere letterarie di E Kafka, Thomas Mann, J.R.R, Tolkien, J. Barth.

Per gli spettacoli e i films: fin dalle origini dell'arte cinematografica si trovano opere su Gesù Cristo: nella linea tradizionale, perché non si osava andare oltre i canoni della religiosità diffusa. Spettacoli tradizionali si sono realizzati anche nei tempi a noi più vicini: esempio Il Re dei re, La tunica, il segno della croce. Ma chi non conosce le opere di Bresson, Au hazard, Balthazar, o Nazarin di Buňuel?

Una menzione a parte meritano alcuni lavori cinematografici:

- Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1965), da leggersi in legame con La ricotta (1962). Gesù è il profeta del sottoproletariato, Pasolini ha in mente il suo Friuli, la religiosità e la mentalità dei friulani dove lui era cresciuto. E' un Gesù rigoroso, tagliente, anti-sistema.

- Il Messia di Rossellini (1975): è un Gesù modesto e comune, dalla parola sapiente; ma non sembra affatto essere il salvatore atteso.

- Gesù di Nazareth di Zeffirelli (1977). Il giudizio su questo lavoro non è unanime. E' certo un Gesù familiare, in cui molti si ritrovano. Predominano delle scene raffinate ed eleganti nelle immagini. Non abbiamo accenti di reazione violenta contro i potenti. Sembra che il mistero sia appiattito e semplificato a livello di romanzo per il grosso pubblico.

Un'osservazione generale: tutti oscillano fra l'introspezione dei sentimenti più genuini di un personaggio così misterioso e la spettacolarità plateale e a volte decadente o kitsch. Al di là delle molte critiche che si possono fare, è certo che tali spettacoli fanno grande effetto sul pubblico. Inoltre si deve sottolineare che spesso le tendenze teologiche o culturali del momento si riscontrano nei prodotti, in maniera spesso fin troppo evidente: così è stata per la polemica antiborghese. per il superman, per l'uomo affascinante e misterioso, per il ribelle contro l'abuso del sacro, ecc.

Un caso a parte è costituito dalla Sindone: le ricerche scientifiche di questi anni, specialmente dopo la sua "esposizione" nel 1977/'78, ne hanno fatto un elemento di spettacolarità del tutto originale. Dobbiamo tener presente che non è tanto in gioco il "mistero" della morte del Signore, quanto la possibilità di poter "ricostruire" la sua immagine, con tutte le risorse tecniche attuali: ciò è molto conforme all'attuale cultura dell'immagine. Anche Dio diviene "immagine" suggestiva e reale, sia attraverso il cinema, che attraverso la traccia della Sindone".

... nei movimenti ecclesiali

Uno dei fenomeni più interessanti e fecondi della vita della chiesa negli ultimi vent'anni è il moltiplicarsi di gruppi, di movimenti, di associazioni: con vari interessi ecclesiali e differenti modalità di approccio all'esperienza religiosa e all'incontro con Cristo. Nella storia della chiesa il fenomeno di questo genere si è ripetuto altre volte: e sempre in situazioni di transizioni culturali, di ripensamento sulle vecchie formule e di creazione di nuove sintesi vitali. In ognuno di questi tornanti storici, questi gruppi e movimenti hanno dovuto anche misurarsi col "volto ereditato di Cristo" e quindi inventare nuove vie di approccio al suo mistero e alla sua sequela. Così è stato nei secoli III e IV, XII e XIII, XV e XVI, XIX e XX.

Molto si parla e anche si discute circa la "funzione ecclesiale" di queste nuove esperienze di apostolato, di evangelizzazione o di spiritualità. Molto meno si studia la differente prospettiva teologica - nel nostro caso cristologica - che li anima. Sarebbe invece un campo molto interessante, anche se molto difficile da esplorare data la reticenza e la "segretezza" che molti fra essi praticano per quanto riguarda lo schema teologico di tutta l'esperienza. Si conosce solo quello che gli stessi movimenti "permettono" che filtri. Quindi non sempre si tratta di elementi oggettivi e sostanziali.

Facciamo qualche accenno alla "cristologia " fenomenologicamente prevalente nei vari gruppi (alcuni solo).

- Rinnovamento carismatico: Gesù è soprattutto il Risorto, il Signore vivente e veniente, suo dono prezioso è lo Spirito con i carismi; egli comunica a noi anche il potere contro il "male". L'assemblea di preghiera (schema centrale) è una esperienza di lode al Signore nella gioia e in clima di attesa dei suoi doni di luce e di grazia.

- Neocatecumenato: il centro dell'annuncio del kerigma è Gesù Cristo, colui che è Parola totale, adempimento delle promesse, padrone della nostra vita. C'è una centralità dell'esperienza pasquale come è stata vissuta dal popolo ebreo e da Cristo stesso: il credente se ne deve appropriare. La croce, la sofferenza, il "servo" sono enfaticamente sottolineati. La "comunità" si riunisce attorno alla Parola e alla pasqua.

- Comunione e liberazione: Gesù Cristo è un "Qualcuno" che si è incontrato, che ci prende per mano, che ci dà la possibilità di una storia nuova. ci "pianta" in una storia nuova. Nella chiesa si vive e si cammina per una conoscenza reciproca in lui e per una presenza specifica caratterizzata e fondata sulla sua presenza . La comunità ecclesiale è sua presenza in mezzo alla storia.

- Comunità ecclesiali di base (CEB): al di là della loro molteplicità e diversità, possiamo notare questi elementi che le caratterizzano come "presenza di Cristo": l'ascolto della Parola, la centralità dell'eucaristia, la sottolineatura dei titoli cristologici: povero, emarginato, servo, paziente, profeta, sapienza del popolo, testimone di pace e giustizia, liberatore.

- Focolarini: sono noti alcuni elementi come: "Gesù in mezzo", Gesù abbandonato, la meditazione della "parola di vita".

- Cursillos de cristiandad: loro scopo è dare all'adulto battezzato la possibilità di riascoltare il lieto annunzio del Vangelo del Signore, e di poterlo vivere in comunità attraverso incontri periodici e verifiche (ultreya, per es.).

- Movimento oasi: si propone di far vivere all'insegna del cristianesimo "senza sconti"; chiede di servire Cristo, essere disponibili per Cristo, consegnarsi a Cristo, rispondere sì a tutto quello che dice, che fa, che chiede, comunque lo chieda; e servire gli altri, tutti gli altri.

- Comunità dell'arche (di J. Vanier): condividere la povertà e l'infelicità del povero e del minorato psichico e fisico, nel quale è presente Gesù.

- Fraternità Charles de Foucauld: privilegiano specialmente alcuni elementi dell'esperienza storica di Gesù di Nazaret: Betlemme, Nazaret, la croce (salvatore nella sofferenza e nell'abbandono). La centralità dell'adorazione eucaristica nella semplicità è un'altra caratteristica nota.

- Gruppi di volontariato (es. in Italia Gruppo Abele, Capodarco, ecc.): Gesù è sentito come l'amico dei poveri e degli esclusi, il "simbolo" di tutti gli ultimi dei senza dignità. La sua dimensione umana concreta (uomo povero, fuori delle sicurezze, affidato a Dio) è molto accentuata. Vi è anche la ricerca di un senso totale della vita al servizio dei suoi "poveri".

Osservazioni: come si può notare, ogni gruppo o movimento - seppure attraverso differenti accentuazioni - persegue un suo approccio all'esperienza di Gesù Cristo. Alcuni sono più a carattere misticheggiante, altri più a carattere sociale: ma tutti fanno asse portante sulla sequela di Cristo, in un contesto di comunità, di evangelismo più o meno fondamentalista, con alcune accentuazioni ecclesiali specifiche, oscillando tra solidarietà con gli ultimi e "comunità calorosa".

Questa ricchezza di esperienze e di itinerari può considerarsi oggi un fenomeno interessante e forse anche una provocazione per tutti gli schemi di spiritualità, che sono accentuatamente individualisti, e mancano più o meno vistosamente della dimensione comunitaria, del riferimento alla dimensione ecclesiale al mistero, dell'attenzione intelligente alla storia, specie la storia dei "senza dignità".

Si può anche notare che delle dimensioni costitutive e permanenti del mistero cristiano (trinitaria - ecclesiale - biblica - dogmatica - storica - antropologica - escatologica) questi movimenti ne mettono in rilievo soprattutto alcune, anche se centrali:

- ecclesiale: tutto ciò che è chiesa è generato dalla forza/presenza di Cristo;

- antropologica: Gesù Cristo rinnova dal profondo l'uomo e lo "spiega" (cf. GS 22);

- storica: ogni approccio a Cristo deve essere "contestuato" per essere vero.

Delle altre dimensioni solo alcuni accentuano quella biblica. Problema, in particolare, ci sembra facciano:

- La mancanza di approfondimento del contesto storico-sociale del Cristo, per cogliere la forza del cambio e il senso "innovativo" di certe sue maniere di fare. Di fatto nei movimenti spesso Cristo è destoricizzato;

- L' eccessiva preoccupazione "ecclesiocentrica": per esigenze di farsi "riconoscere" e ottenere l'approvazione. Pare che la maggiore preoccupazione sia quella di essere "del numero" di quelli che sono lodati e "invitati" nelle occasioni solenni.

Si è trattato sin qui di un universo disorganico, pervaso da fermenti, ma anche da mode, consumista, ma anche tormentato da inquietudini. ricco (di entusiasmi e giovanilismo, ma anche alla ricerca dei significati meno effimeri.

Tuttavia già ci consente di affermare la centralità della figura di Cristo nella nostra stagione culturale ed ecclesiale. E allo stesso tempo tutto ciò postula una verifica, a più ampio raggio, della stessa centralità, attraverso lo studio dei grandi gruppi religiosi, le grandi correnti ideologiche, i principali protagonisti del discorso religioso, in particolare nell'ambito cristiano.

Pubblicato in Teologia

A – GESÙ CRISTO,
FINE DELLA STORIA UMANA
di Bruno Secondin

Il redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri delle civiltà, il centro del cosmo e delle aspirazioni dell’umanità (cf. GS 45).

La corsa gloriosa della Parola (2Ts 3,1) dalla creazione all’eschaton ha come centro l’avvento sulla terra di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio. Il suo messaggio e la sua vicenda hanno segnato gli ultimi due millenni in maniera unica: egli è stato il vero protagonista di progetti e valori, fermenti e speranze collettive, resistenze e utopie religiose.

Ogni epoca storica - non solo quella attuale - si è trovata nella necessità e nel rischioso compito di colmare il divario fra le generazioni e gli strati culturali, a provare ed esperimentare formule «cristologiche» culturalmente nuove o più vicine alle generazioni più giovani. Ma ancor più frequente è stata l’esperienza di un dialogo vitale con le culture periodicamente emergenti o già ricche di grande maturità.

Nel primo caso non è mancato il rischio di ricorrere ad una ortodossia irrigidita o di vedere talora mutilata la rivelazione nelle sue esigenze di autenticità e nella gerarchia dei suoi contenuti vincolanti. Sono le note tendenze al fondamentalismo dogmatico o al riduzionismo per paura della radicalità evangelica. Il compromesso o l’esasperazione della tradizione sono sempre deleteri per la stessa radicalità evangelica.

Nel secondo caso - specie nei momenti di grandi trasformazioni sociali - si è trattato di un cammino in compagnia delle culture, e delle loro trasmigrazioni, per dare e ricevere, riconoscere e seminare, criticare e purificare. Si è così realizzata la possibilità anche per la precedente «sintesi», di uscire dai propri limiti (culturali o linguistici) e trascenderli, per una migliore e più significativa «cattolicità».

I

Dalla memoria la profezia

Dobbiamo ritrovare la creatività apostolica e la potenza profetica dei primi discepoli per affrontare le nuove culture», ha detto Giovanni Paolo II al Pontificio consiglio per la cultura (18 gennaio 1983). Ma è un compito per niente facile.

In effetti le enormi trasmigrazioni culturali cui partecipano le nostre generazioni hanno da un pezzo scompaginato la simbiosi fra Vangelo e cultura, fra linguaggio comune e valori religiosi, fra modelli di comportamento e di riferimento e progetti cristiani. A tal punto che si può veramente parlare di una plasmazione nuova di tutto il sistema di evangelizzazione ereditato. Quei «molteplici rapporti tra messaggio della salvezza e cultura umana» (GS 58) che avevano consentito alle generazioni precedenti di raggiungere una quasi totale omogeneità cristiana, si stanno rivelando oggi difficili. se non addirittura impossibili.

La nuova generazione e la nuova cultura emergente, sono dominate dalla fattualità, dalla libertà creatrice e istintuale, che portano alla crisi di ogni riferimento, alla così detta «identità stabile», per sposare la civiltà della dimenticanza (come dice Heidegger). E il ritardo culturale di tutto il sistema comunicativo ecclesiale conduce all’impotenza crescente nell’evolversi della cultura, e all’incapacità a confessare e testimoniare Gesù Cristo come salvatore della storia e del cosmo, pienezza delle attese di liberazione e di pace fra i nostri contemporanei.

Notiamo:

«Per ciascuna cultura è presente il dinamismo pasquale, della morte e della risurrezione, grazie al quale la chiesa si può arricchire, ma anche tutto il genere umano. Bisogna perciò che nei battezzati si risvegli il senso critico per giudicare i germogli di vita e di morte nascosti nel inondo. Una evangelizzazione che non arrivasse al cuore della cultura sarebbe solamente superficiale e vuota. Infatti una fede che non permeasse la cultura non sarebbe pienamente recepita, né rettamente compresa, né vitalmente assimilata (cf. Giovanni Paolo Il, Al popolo belga, 20 maggio 1985)». (1)

Tradizione e comunicazione

Non si può negare che oggi le possibilità di comunicazione sono enormi: ma non è la mancanza di comunicazione che fa problema, quanto piuttosto il suo processo di elaborazione e i suoi contenuti. In effetti la densità di comunicazione si trasforma - in progressione geometrica - in vera e propria anemia di autenticità personalizzante e comunicativa. Le parole certamente corrono, ma il dialogo è soffocato e ristagna: tutto è trasformato in res quantificabile sulla base degli interessi pan-economici (acquirente, consumatore, numero statistico, mezzo di scambio...).

In tale regime non è per nulla agevole parlare e pensare la propria fede in termini acculturati.

Se la parola fa esistere l’uomo e lo qualifica socialmente, ma poi tale parola diventa monopolio operativo di pochi e passività di molti, anche la Parola di vita rischia di affogare nel marasma del verbalismo ubiquitario. Oppure verrà asservita a progettualità che si fondano sulla dominanza degli uni sugli altri, anche se in forme religiose.

Il molteplice caos che imperversa a livello di evidenze etiche, di appartenenze sociali, di valori guida, esige non solo di resistere alla mercificazione del Logos, operata sulla base delle emozioni effimere o di sensazioni magico-taumaturgiche. Ma postula anche una riscrittura dell’intera sintassi dell’evangelizzazione secondo condizioni culturali nuove.

La babele dei linguaggi che caratterizza la nostra stagione, non consente l’uso innocente del linguaggio tradizionale: perché spesso si tratta di codici culturali obsoleti o ipostatizzati in altri contesti sociali, oggi scomparsi. Piuttosto esige una decodificazione del nostro bagaglio culturale di evangelizzazione, per distinguervi i dinamismi vitali e i rivestimenti caduchi, per cogliere la Parola e discernere la sua presenza fra le parole.

La legge “incarnatoria”

L’incontro con la cultura e le culture può essere una grande sfida, ma di fatto è anche una grande promessa per la fede cristiana, e oltre tutto corrisponde ad un’esperienza più volte vissuta dalla comunità del Signore. Sappiamo bene che la rivelazione divina ha una «struttura incarnatoria». La Bibbia stessa ne dà esempio dalla prima pagina fino all’ultima: dal racconto della creazione all’immaginario apocalittico, troviamo attestata la presenza ed evidente l’osmosi con le culture antiche della Mesopotamia, dei babilonesi, degli egiziani, e poi dei greci e infine dei romani.

Quando il Verbo si è fatto carne ha assunto le forme della cultura ebraica del suo tempo: che era essa stessa frutto di stratificazioni diverse nel tempo e nei valori.

Poi il messaggio evangelico, annunciato in lingua e mentalità ebraico-aramaica, è stato trascritto (e reinterpretato) in greco e progressivamente ha assunto modelli latini, siriaci, bizantini, ecc. Infine prendendo forma attraverso le successive ondate biologiche ed etniche, ha attraversato le culture occidentali impregnandole profondamente, ma anche ricevendone strumenti per una esplicitazione eccellente.

Dice Gaudium et spes:

«La chiesa, vivendo nel corso dei secoli in condizioni diverse, si è servita delle differenti culture, per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo ed approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multiforme comunità dei fedeli. Ma allo stesso tempo, inviata a tutti i popoli di qualsiasi tempo e di qualsiasi luogo. la chiesa non si lega in modo esclusivo e indissolubile a nessuna stirpe o nazione, a nessun particolare modo di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente. Fedele alla propria tradizione e nello stesso tempo cosciente della sua missione universale, è in grado di entrare in comunione con le diverse forme di cultura; tale comunione arricchisce tanto la chiesa stessa quanto le varie culture».

Oggi tenta di esprimersi nelle lingue e negli elementi vitali delle culture di tutti i popoli. Il compito grandioso e creativo del prossimo millennio sarà il processo di penetrazione evangelica nelle culture dell’Africa e dell’Asia. Di fatto è appena all’inizio, ma già si intuiscono sviluppi fecondi!

Negli ultimi anni abbiamo visto esplodere, dentro il quadro collaudato della cultura umanistica dell’occidente, una cultura materiale ed efficientistica - la così detta cultura delle mani - che sgretola l’antica sintesi e porta ad un enorme pluralismo ideologico e culturale mai incontrato nel passato. E questo comporta una nuova stagione di annuncio e maturazione del Vangelo.

Noi sappiamo bene che la pluralità delle culture non è una maledizione, perché anch’essa è frutto della crescita dell’umanità (nonostante i limiti reali). La pluralità riflette la ricchezza senza misura della verità: e il disegno di Dio è riconciliare in Cristo la molteplicità delle cose (cf. Ef.10; Col 1,20).

Il divorzio o la rottura fra Vangelo e cultura è il dramma della nostra epoca (cf. Ef 20), ma la soluzione non è quella di voltarsi indietro e rimpiangere l’antico connubio o risuscitare l’antica «cristianità». Piuttosto, come suggerisce Puebla:

«Fare attenzione verso dove si dirige il movimento generale della cultura, più che guardare al retaggio del passato; guardare alle espressioni attualmente in vigore, più che a quelle puramente folkloriche» (n.398)

Solo così è possibile individuare le nuove «sintesi» che stanno emergendo, vivendole da protagonisti e non da distratti spettatori («la vita non è uno sport da spettatori») e fermentarle con l’annuncio di Cristo. Il termine nuovo dell’evangelizzazione è l’incu!turazione: tutti ne parlano e significa appunto l’esperienza di compagnia e crescita insieme alle culture, dal loro interno, orientandole e arricchendole. Questa trasformazione delle culture è un’esigenza intrinseca e necessaria del principio teologico secondo cui Cristo è l’unico Salvatore e senza di lui nulla può salvarsi.

Dice la Evangelii nuntiandi:

«Raggiungere e trasformare, con la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero. le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno di salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo: occorre evangelizzare - non in una maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura e le culture dell’uomo» (nn. 19-20).

Tutto l’umano è destinato ad essere penetrato da Cristo, dalla sua azione liberatrice, dalla sua pienezza ultima, e trovare in lui dignità e consistenza, per virtù della vita vera che comunica il Verbo di vita.

Rimane sempre valido nell’ordine pastorale il principio formulato già da sant’Ireneo: «Ciò che non viene assunto non viene neppure redento». Gesù è la via al Padre, e tutta l’umanità deve passare per la strada della sua carne gloriosa, per essere un unico e cosmico «Amen!» con lui al Padre.

Karl Rahner, nella sua vecchiaia - facendosi carico di certe nuove esigenze molto diffuse - ha detto circa l’annuncio cristologico:

«La chiesa deve mantenere, difendere e proclamare il suo dogma cristologico (e naturalmente lo farà). Tuttavia penso anche che questo annuncio dovrebbe avvenire in modo da giungere più facilmente di quanto non sia oggi. Infatti l’annuncio effettivo ha, non come tesi esplicita ma come “ambiente”, una tonalità di carattere monofisita e questo causa le difficoltà della fede in Gesù Cristo che non dovrebbero esistere».

E aggiunge ancora:

«La mia opinione è questa: che qualora fosse predicata in maniera più viva e naturale la vera semplice autonoma sperimentabile umanità di Cristo, in forza della quale - come professa la chiesa - egli è consostanziale con noi; e qualora nella predicazione non si facesse di Gesù, sia pure non intenzionalmente ma di fatto, un Dio nella livrea di uomo; qualora... si proclamasse con più chiarezza, vivacità e convinzione il dogma di Calcedonia della permanente distinzione di divinità e umanità nella persona concreta di Gesù; qualora.., si presentasse, ad esempio, senza complessi, Gesù come un ebreo del suo tempo, quell’ebreo che egli era: qualora si tenesse in conto più apertamente, almeno entro determinate circostanze, anche di uno sviluppo personale di Gesù nonostante il fatto di trovarsi costantemente in unità col Logos: ecco io penso che allora la proclamazione del dogma permanente della chiesa, per quanto riguarda la cristologia, potrebbe diventare più facile... Forse vi sono teologi che, presi da un grandioso entusiasmo per la loro fede, si sentono superiori a questi problemi; ma io non vorrei far parte di essi, bensì sforzarmi di evitare costantemente, per quanto è possibile, questi malintesi o difficoltà inerenti alle affermazioni di fede, perché la fede cristiana non sia resa per la gente più pesante di quanto necessario, perché questo peso sia il peso della fede e non il peso che, hanno aggiunto alla fede teologi pigri e antiquati». (2)


1) Le propositiones, si trovano pubblicate integralmente in varie riviste. Noi citiamo dalla rivista «Regno-documenti» 32(1987), 21, pp. 700-709. Nello stesso fascicolo si trovano anche altri testi importanti del sinodo dei laici. Una raccolta organica dei documenti SYNODE ÈVÊQUES 1987, Les laïcs dans l’Église et dans le monde. Leur vocation et leur mission ans après Vatican II, Centurion-Cerf, Paris 1987. 2) Regno-documenti 26 (1981), II pp. 364-372.

2) Regno-documenti 26 (1981) II pp. 364-372.

II

Gesù Cristo al Centro

«Non c’è vera evangelizzazione se il Nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non sono proclamati. La storia della chiesa, a partire dal discorso di Pietro la mattina della pentecoste, si mescola e si confonde con questo annuncio» (EN, n. 21).

Non c’è dubbio che l’annuncio di Gesù, salvezza dell’uomo e rivelazione suprema di Dio, e la ricerca di forme e vie per vivere esperienzialmente questa verità dominano tutti i secoli della storia della chiesa, anche la storia dell’umanità dei due millenni dell’era cristiana. Oggi si può affermare che non c’è persona nel mondo civile che non abbia qualche nozione o informazione su Gesù di Nazaret, questo personaggio davvero unico nella storia.

Senza Gesù non vi sarebbe il cristianesimo, e senza il cristianesimo l’occidente e il mondo intero mancherebbero di una componente unica della loro storia. Non solo la vita spirituale, ma anche l’arte, la cultura, la stessa vita politica, tutta la tradizione sociale sono state toccate intimamente dal messaggio di Gesù e dalla presenza dei suoi messaggeri con le loro organizzazioni. Basta pensare a ciò che sono state e sono tuttora per l’occidente e per le culture che da esso hanno preso forma, la dialettica stato-chiesa, fede-cultura, religione-umanismi, e la missione universale del cristianesimo. Per non dire dei grandi temi del pensiero e dell’etica: come fede e ragione, libertà e destino, peccato e salvezza, natura e grazia, vita presente e vita futura. Ai quali si deve aggiungere la ricerca sul significato della storia e della vita umana. In occidente e in buona parte del mondo, molto rimanda a Gesù di Nazaret e alla sua chiesa: dall’arte alla letteratura, dalla geografia all’identità nazionale, dalle istituzioni ai linguaggi, dai progetti alle tragedie collettive.

La grandezza dell’uomo Gesù

Da lui l’uomo, in qualunque individuo si voglia esprimere, è stato esaltato ai vertici dei valori. Da lui il singolo è stato abilitato a rivendicare la propria dignità e libertà di coscienza di fronte a ogni genere di potere autocratico e di costrizione sociale. Per questo la persona di Gesù ha sempre goduto di una riverenza incondizionata: e nulla lascia presagire che diminuirà nelle generazioni che ancora verranno.

Gesù è stato oggetto di amore e di venerazione, ma anche di avversione radicale durante la vita come pochi altri uomini; ma nessuno come lui ha contato dopo di sé tanti che l’hanno seguito fino a morire per restargli fedeli.

Studiosi e critici di ogni tendenza hanno tentato negli ultimi due secoli di intaccarne la sincerità e la consistenza, ma la loro ricerca sulla testimonianza, per quanto frammentata. è servita ad illuminare ancor meglio la figura storica di Gesù, che emerge nella sua unicità. Anzi essa appare irriducibile, sotto qualunque aspetto, alle stesse realizzazioni che si appellano a lui. Si potrebbe quasi dire che in verità ogni generazione scopre «tratti ispirativi» nuovi di Gesù, lasciandone altri alle generazioni che verranno.

I suoi rapporti con gli uomini e le donne, con i ricchi e i poveri, con i potenti e con i deboli, con chi soffre e con chi è nella gioia, con chi patisce ingiustizia e con chi invece la compie. sono diventati delle categorie emblematiche universali della perfezione morale stessa.

Soltanto figure come Mosè, Budda, Maometto, Confucio, variamente controllabili dagli storici. possono parzialmente essergli avvicinate. Ma per quanto si sa , nessuno ha osato dire ciò che invece Gesù ha detto con insistenza e sconcertando non pochi: di essere il Figlio di Dio.

Nessuno ha avuto una storia pari alla sua. La sua persona e il suo messaggio hanno influenzato e influenzano le stesse grandi religioni del mondo.

In particolare sono le sue parole che non hanno eguali. Si è potuto affermare che in Gesù la parola ha raggiunto il massimo della sua intensità e capacità espressiva. Si pensi al discorso della montagna o alle parabole del Regno. Forse anche per questo i discepoli l’hanno salutato come il Logos, la parola divina diventata carne per comunicarsi agli uomini.

Ma come tutti sappiamo l’annunzio, la relazione vitale. l’esperienza con Gesù non hanno sempre avuto le medesime tonalità e mediazioni. Ogni epoca ha riascoltato la domanda provocatoria: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15), e vi ha dato risposte sempre nuove, sempre legate alla sensibilità culturale, alle prospettive globali dell’esistenza umana e dell’autocoscienza ecclesiale.

Così è stato durante la storia antica e così si verifica ancora oggi. Infatti anche i nostri ultimi decenni segnano chiaramente una dilatazione delle questioni cristologiche a carattere soprattutto globale: e così nascono le nuove cristologie, di cui parleremo brevemente.

E’ tanto vero questo, che qualcuno ha sollevato con violenza la questione, se negli ultimi secoli non si sia verificata un’apoteosi del cristocentrismo che ha sbilanciato la bipolarità secolare teocentrismo/cristocentrismo. Due teologi francesi, J. Milet e C. Duquoc, hanno richiamato l’attenzione su queste punto, il primo, in verità, in maniera piuttosto polemica.

Due secoli di studio

Per quasi 1700 anni la questione storica della cristologia è stata praticamente pacifica. Ma verso la metà del 1700 la pacifica situazione viene interrotta dalla grande discussione sulla storicità di Gesù. Questa è stata certamente una delle cause della iperconcentrazione della riflessione e delle ricerche su Cristo.

Possiamo riassumere brevemente i motivi della discussione sulla storicità in quattro interrogativi:

- Tutti i fatti straordinari narrati dal Vangelo sono razionalmente possibili?

- In caso di risposta affermativa, è possibile, partendo dai racconti evangelici, considerati storici, giungere ad una ricostruzione della vita di Gesù?

- In caso di risposta negativa, è egualmente ricostruibile, attraverso i racconti che sono stati tramandati, l’immagine storica di Gesù?

- Nel caso in cui Gesù storico non fosse raggiungibile, sarebbe ancora possibile essere cristiani?

Il nocciolo della questione trova la sua origine nell’esigenza di razionalità spinta fino al radicalismo, che fu propria del sec. XVIII, detto secolo dei lumi.

Di fatto tutto il problema è sorto non per l’uso indebito di metodi critici alla Scrittura, ma dal rifiuto di accettare il monopolio assoluto della chiesa nei suoi argomenti culturali. E questo ha portato ad aprire perfino il dossier Scrittura e Gesù Cristo: due settori chiave e assolutizzati ipostaticamente. Così Gesù storico diventa un elemento «sovversivo» rispetto alla figura del Gesù ecclesiale: uno strumento di libertà.

Alcuni nomi vanno ricordati: Herman Samuel Reimarus (+ 1768): il suo principio storico è: solo ciò che è razionalmente accettabile può definirsi storico, il resto è «mito». Per lui Gesù era un israelita intento a suscitare un movimento politico-militare contro i romani oppressori; mentre i suoi seguaci, di fronte al fallimento del Maestro, continuarono la sua memoria in senso religioso, predicando che il suo scopo era stato quello di portare agli uomini la salvezza puramente spirituale.

Altro nome è David Friedrich Strauss (+ 1874): secondo lui fu riversata su Gesù - che in fondo non era che un semplice uomo - la ricchezza immaginativa della lunga attesa messianica presente nel popolo ebraico e ispirata agli attributi che le Scritture davano al Messia. Gli rispose, con argomentazioni cattoliche, Johan Baptist Kuhn mostrando la storicità dei testi.

Altro nome da ricordare è Martin Koehler che suggerì di distinguere nel Gesù dei Vangeli i due aspetti: storico/documentaristico (historisch) e storico/vitalistico (geschichtlich). Il primo riguarda il passato ed è comune a qualsiasi altro personaggio storico; il secondo riguarda il presente come risultato dell’influsso derivato dal passato ed è specifico del nostro tema, come lettura di Cristo nella fede. I due aspetti in fondo sono sempre presenti e non ha alcun senso volerli separare, almeno a livello di esperienza cristiana.

Su queste premesse si introducono poi tutti i grandi esegeti e teologi del nostro secolo, a cominciare da Bultmann, caposcuola di tutta una nuova impostazione del discorso su Gesù: sottolineando soprattutto la linea del Gesù della fede.


Pubblicato in Teologia

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