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Martedì, 25 Ottobre 2005 17:10

LA GLOBALIZZAZIONE DELLA SCHIAVITU'

LA GLOBALIZZAZIONE DELLA SCHIAVITU'
di Sandro Calvani, Serena Buccini, Adriana Ruiz Restrepo 

 

La schiavitù, piaga e malattia mentale dell'umanità, ha accompagnato il genere umano per secoli. Oggi nell'immaginario collettivo la schiavitù è qualcosa di esotico e comunque appartenente al passato.Le cronache moderne dicono invece che ben poco è cambiato.

La storia di un neonato venduto agli inizi di luglio 2005 a Napoli per 300 euro, dimostra che non sono cambiati neanche i prezzi di mercato e che fanno poca differenza anche le distanze geografiche e le diversità culturali. Infatti 300 euro è anche il prezzo di una bambina di dieci anni da avviare al giro della prostituzione in Myanmar e in Thailandia.

La data ufficia!e di abolizione della schiavitù, quella che si celebra tradizionalmente, è il 1848.

In realtà, la tratta di persone, intesa come possesso e commercializzazione di esseri umani, è cambiata molto lungo i secoli, ma in pratica non è mai finita.



[…]



I nuovi schiavi


Oggi è possibile identificare due modelli di tratta di persone. Il primo, il traffico a scopo di lucro, consiste nel contrabbando di migranti clandestini; ovvero nel facilitare l'ingresso illegale, a volte anche il soggiorno, di soggetti che decidono di emigrare, spesso accettando di pagare somme ingenti in cambio di un servizio di trasporto in condizioni quasi sempre disumane e degradanti.

L'altro tipo di traffico di persone, propriamente detto, riguarda lavoratori spesso ignari, soprattutto donne e minori, a fini di sfruttamento sessuale o di altra indole. Questa forma di traffico implica generalmente la presenza di un'organizzazione capillare che attraverso l'uso di mezzi illeciti (come la violenza, la truffa, la minaccia), riduce le sue vittime in condizioni analoghe alla schiavitù e trae grossi profitti dal loro sfruttamento. La struttura criminale serve essenzialmente a organizzare il trasferimento delle vittime dal loro paese d'origine ad un altro, prevedendo dunque una fase di reclutamento, una di trasporto, e una finale di collocamento e di controllo delle attività delle persone ridotte in condizioni di schiavitù.

Le nuove schiavitù assumono forme distinte, adatte alle nuove domande del mercato. In pratica i nuovi schiavi sono impiegati nella mendicità organizzata, nel sesso a pagamento, nel matrimonio servile, nel lavoro forzato, nella servitù domestica, nell'adozione illegale e nel traffico di organi.



[…]



La distruzione della dignità


Gli esperti che hanno studiato le centinaia di espressioni locali del traffico di persone hanno identificato alcune forme di impatto diretto molto dannoso per lo sviluppo umano.

La violazione dei diritti umani fondamentali distrugge la dignità della persona e dimostra a chi vive in quell'ambiente che in realtà anche la persona umana può essere trattata come una merce.

Il traffico di persone distrugge il tessuto sociale di una comunità. Le vittime perdono la protezione delle reti sociali tradizionali, della famiglia e non sanno a chi rivolgersi per riprendere in mano il proprio futuro. li trauma che ne deriva può essere irreversibile e a vita.

La tratta priva i paesi in via di sviluppo di risorse umane qualificate, producendo effetti negativi sul mercato del lavoro. La produttività futura del paese subisce l'effetto negativo della tratta che lascia gli anziani senza assistenza e i bambini senza genitori che si occupino della loro crescita ed educazione. Insomma, quando una percentuale importante dei lavoratori sono vittime della tratta, lo sviluppo del loro paese subisce gravi ritardi.

Ci sono anche costi pesanti nel campo della salute pubblica. Oltre alle malattie sessualmente trasmissibili, soprattutto l'Aids, si sono osservate insonnia, depressione, ansietà, sindromi da stress post-traumatico, tossico dipendenze, etc... Le condizioni di vita in ambienti insalubri e sovraffollati favoriscono l'insorgere di malattie dovute a scarsa igiene, come scabbia, tubercolosi e malattie infettive.

I conflitti armati interni, le guerre, i disastri naturali possono offrire condizioni favorevoli per un'epidemia di traffici di persone. Ma possono anche essere l'effetto indiretto della perdita di governabilità in paesi dove la tratta di persone è cresciuta a livelli preoccupanti. Stati falliti e traffici di persone sono spesso alleati nel causare una pessima condizione di sicurezza umana.



[…]



Come fermare la schiavitù globale?


Dal 1948 al 2000, nonostante gli sforzi compiuti, il fenomeno, non solo non è diminuito, ma anzi è cresciuto, a causa del sempre maggiore coinvolgimento delle organizzazioni criminali, attratte dalla prospettiva di ingenti guadagni. li carattere internazionale, oggi davvero globale, del traffico di persone contribuisce ad ostacolare un'efficace repressione di questi reati.

Insoddisfatta dell'inefficacia dei trattati pre-esistenti, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite decise nel 1998 di incaricare un Comitato ad hoc che elaborasse una convenzione contro il crimine organizzato transnazionale e degli strumenti addizionali più efficaci e stringenti relativi al traffico di donne e bambini ed a quello di migranti.

Grazie ad una forte volontà politica internazionale la nuova Convenzione globale contro il crimine organizzato internazionale ha trovato un rapido consenso. Chiamata anche Convenzione di Palermo - dove è entrata in vigore il 25 dicembre 2003 - ha ottenuto 117 stati firmatari, di cui 85 l'hanno già ratificata. La ratifica italiana si trova attualmente in discussione presso il parlamento.

Il Protocollo contro il traffico di persone della Convenzione di Palermo (vedi box) afferma la necessità di un approccio ampio e internazionale nei paesi di origine, transito e destinazione che includa misure di prevenzione, di sanzione e soprattutto di protezione delle vittime con particolare attenzione ai diritti umani riconosciuti loro internazionalmente.

Il protocollo chiarisce cosa si intende per "tratta di persone" nel nuovo secolo: il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l'ospitare o l'accogliere individui, ricorrendo alla minaccia o all'uso della forza o ad altre forme di costrizione, al sequestro, alla frode, all'inganno, all'abuso di potere o di una situazione di vulnerabilità o all'offerta di denaro per ottenere il consenso di una persona che abbia autorità su un'altra, con fini di sfruttamento.

Nello specifico, si proibiscono lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di speculazione sempre in campo sessuale, i lavori o servizi forzati, la schiavitù o le pratiche analoghe, l'asservimento e l'espianto di organi. Si specifica enfaticamente che il consenso prestato da una delle vittime per una delle attività menzionate non verrà considerato rilevante quando sia stato carpito con uno dei mezzi sopra indicati.

I minori di 18 anni coinvolti nel traffico saranno sempre considerati come vittime.

Nello specificare le forme essenziali di protezione delle vittime il protocollo dispone che siano loro offerte informazioni sui procedimenti legali pertinenti, assistenza mirata a consentire che le loro opinioni e preoccupazioni siano esaminate durante le varie tappe giudiziali.

Sono previste anche misure per il recupero fisico, psicologico e sociale, tra cui un alloggio adeguato, la consulenza legale sui propri diritti, l'assistenza medica, psicologica e materiale, opportunità d'impiego, educative e di formazione e la possibilità di ricevere un indennizzo per i danni subiti. Nella valutazione concernente le misure applicabili nel caso concreto, si deve tener conto dell’età, del sesso e delle necessità speciali delle vittime, con particolare attenzione ai minori.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 24 Dicembre 2004 00:31

Europa e Islam: due identità smarrite

Europa e Islam:
 due identità smarrite
di Sandro Magister
da www.chiesa.espressonline.it

(abstract)

È uscito da pochi giorni in Italia un libro su occidente e Islam che è una lettura d’obbligo anche per i diplomatici vaticani. È stampato da Vita & Pensiero, l’editrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ne è autore Roger Scruton, filosofo e saggista inglese, già professore al Birkbeck College di Londa e alla Boston University. Il titolo originale è "The West and the Rest". La versione italiana, "L’Occidente e gli altri", è apparsa nella collana di geopolitica dell’Alta Scuola di Economia e di Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica diretta da Vittorio E. Parsi, che è anche editorialista del quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire", ed esperto di fiducia del cardinal Camillo Ruini.

Già le primissime righe del libro vanno contro i canoni del politicamente corretto: "La famosa tesi di Samuel Huntington secondo la quale alla guerra fredda sarebbe seguito uno scontro di civiltà ha più credibilità oggi di quanta ne avesse nel 1993, quando fu avanzata per la prima volta". Ma assai più ricco di sorprese è il seguito. Se la libertà di cui si fa vanto la civiltà occidentale comprende anche il rifiuto di sé — e Scruton riserva a questa pervasiva cultura del rifiuto uno dei suoi capitoli più fiammeggianti — allora "si tratta di una civiltà volta alla sua stessa distruzione". Viceversa l’Islam si definisce non in termini di libertà ma di sottomissione: e anche questa sottomissione è autodistruttiva. È prigioniera di un testo sacro, il Corano, che finché continua a essere letto al di fuori del tempo e della storia fa di ogni musulmano uno sradicato. Nella prefazione all’edizione italiana del volume, Khaled Fouad Allam — acuto intellettuale della diaspora musulmana, algerino con cittadinanza italiana — convalida in pieno questa condizione di smarrimento di sé dell’Islam nella modernità.
 
E non è tutto. A giudizio di Scruton, ciò che rende ancora più esplosivo lo scontro tra le due civiltà è l’avanzata della globalizzazione. Essa diffonde nelle nazioni musulmane immagini, prodotti e figure delle democrazie occidentali secolarizzate, sia in quanto hanno di attrattivo e vincente, per ricchezza e potere tecnologico, sia in quanto hanno di vacillante e morente sul terreno della cultura e dell’identità collettiva. Scrive Scruton: "Lo spettacolo della libertà e della ricchezza occidentali, che si accompagna al declino dell’occidente e allo sgretolarsi delle sue fedi, provoca necessariamente, in chi invidia il primo e disprezza i secondi, un cocente desiderio di punire". Altri passaggi folgoranti del suo libro sono quelli che criticano la tendenza a dar vita a legislazioni transnazionali, a corti penali internazionali, alla stessa Unione Europea come superstato, in realtà "nuova mano invisibile dell’imperialismo" ed "espressione politica della cultura del rifiuto". A giudizio di Scruton solo la giurisdizione territoriale e le fedeltà nazionali possono fondare una cittadinanza condivisa e ospitale, anche per il musulmano. In occidente sono gli Stati Uniti a tener ferma questa consapevolezza: "Il trionfo dell’America è stato di persuadere ondate di immigrati a rinunziare a tutti i legami conflittuali e a identificarsi con quel paese, quella terra, quel grande esperimento di insediamento, e a partecipare alla sua difesa comune".
 
Il cristianesimo è indicato da Scruton come elemento essenziale di questa cittadinanza capace di dare identità all’occidente e di accomunarlo agli altri, sia pure nella diversità delle fedi. Esso "dice al cristiano di guardare l’altro non come una minaccia ma come un invito all’accoglienza". Ma, allo stesso tempo, il cristianesimo impone di difendere chi è aggredito. Perché la predicazione di Gesù è predicazione di pace, non però pacifista: "L’idea di perdono, simboleggiata dalla croce, distingue l’eredità cristiana da quella musulmana. Cristo ci ordina persino, quando siamo aggrediti, di porgere l’altra guancia, allora incarno la virtù cristiana della mansuetudine. Ma se mi è stato dato in custodia un bambino che viene aggredito, e porgo l’altra guancia del bambino, divengo complice della violenza. Questo è il modo in cui il cristiano dovrebbe comprendere il diritto alla difesa, ed è come esso è inteso nelle teorie medievali della guerra giusta. Il diritto alla difesa nasce dalle obbligazioni nei confronti degli altri. Sei obbligato a proteggere coloro il cui destino è sotto la tua custodia. Un leader politico che porge non la sua guancia ma la nostra, si rende partecipe della successiva aggressione. Perseguendo l’aggressore, anche in maniera violenta, il politico serve la causa della pace e anche quella del perdono, del quale la giustizia è lo strumento" (*). Pagina dopo pagina, Scruton mette a nudo grandezze e miserie dell’occidente di oggi, a tu per tu con la sfida islamica. Con argomentazioni spesso controcorrente.

(*) — N.d.r: il precetto evangelico di porgere l’altra guancia è stato troppo spesso guardato come un messaggio assurdo e impraticabile; troppe altre volte sono stati fatti tentativi penosi o maldestri di adattarlo ai propri interessi o alle proprie idee. Che cosa vuole dire Gesù con questa espressione? Per comprenderla in pieno dobbiamo rileggere la frase che Gesù dice al sommo sacerdote quando questo, durante l’interrogatorio notturno in casa sua, lo schiaffeggia: "Se ho parlato male, dimostrami dove è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti ?" (Gv 18,23). Dunque Gesù reagisce non porgendo l’altra guancia, ma facendo una domanda; quale è dunque il significato della sua frase a un tempo famosa e controversa? È, a nostro avviso: non opporti al nemico lasciandoti trascinare sul piano del malvagio. Reagisci, come cristiano saggio, vivo e creativo, così da creare una situazione nuova che faccia riflettere il nemico. Il cristiano dunque ricorrerà alla violenza per difendere i deboli o per mettere il nemico nella impossibilità di nuocere unicamente e soltanto se nessun altro modo o nessun’altra strada sono stati efficaci...


Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 22 Dicembre 2004 13:48

Atto unico sul pentecostalismo

tto unico sul pentecotismo

sembrerebbe quasi un fiorire di esperienze del tipo “credere, obbedire, non combattere” per una crescita anche umana

Le chiese pentecostali hanno saputo prosperare in un paese dove un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà, con una ricetta molto semplice: ascoltano,consolano ed aiutano spesso materialmente. Questi luoghi di culto sono pieni. Alle spese della Chiesa cattolica che fa però il suo mea culpa. Un reportage da Belém, capitale dell’Amazzonia.

La città di Belém. Situata nel delta del Rio delle Amazzoni, Belém,capitale dello stato del Parà, è una città di 1,5 milioni di abitanti. Porta di entrata, e soprattutto di uscita, del commercio amazzonico, essa ha conosciuto un’età dell’oro al tempo del boom della gomma, fra il 1860 ed il 1910. Dopo di che la città è entrata in una lunga fase di recessione. Cominciò ad uscirne con la politica di colonizzazione dell’Amazzonia iniziata alla fine degli anni 1960. Ma questo “miracolo economico” non ha approfittato a tutti. Oggi, i servizi, il commercio, le piccole attività di sussistenza costituiscono l’occupazione degli abitanti. Quasi la metà di loro è stata relegata nelle zone soggette ad inondazione.

Una domenica a Belém nell’ Amazzonia brasiliana. Una notte calda scende sulla città. Un autobus pieno è lanciato sull’Avenida Almirante Barroso - immensa ferita aperta al cuore della città, saturata di gas, bordata di edifici lebbrosi - vibra, ruggisce e cigola. Lungo l’Avenida delle grandi insegne segnalano i luoghi dove le chiese pentecostali chiamano i loro fedeli a radunarsi per calmare i loro mali: “Centro di guarigione delle malattie incurabili”, “Valle dellabenedizione”, “Tenda dei miracoli”… Ad ogni fermata dell’autobus, sale un gruppo di piccoli venditori che prova ad offrire chewing gum, biscotti, cioccolata. Gli affari importanti di questo ricchissimo paese si trattano in altri luoghi … Qui, è chiamato sviluppo, lo sfruttamento frenetico e caotico delle risorse da cui trae profitto soltanto un piccolo numero. Per gli umili, questo “progresso” significa soprattutto sradicamento, precarietà, sofferenza …

Il pastore Gilberto.

Mi dirigo verso il Satellite, un quartiere diseredato della periferia. È sulla strada, in un ex-locale notturno (un dancing), che il Pastore Gilberto dell’Assemblea di Dio ha messo la sua chiesa. L’Assemblea di Dio è la più importante istituzione pentecostale del Brasile: la prima è nata in 1911 a Belém per iniziativa di due missionari battisti svedesi che venivano dagli Stati Uniti.

Gilberto non è rappresentativo del clero di questa chiesa, conosciuto per la sua austerità morale e per le sue prese di posizione tradizionaliste. Non nasconde il suo percorso  personale tumultuoso. Perché il pastore Gilberto fu un trafficante di droga e un pericoloso gangster.  Si è convertito all’età di 20 anni mentre era su un letto di ospedale con due pallottole sotto la pelle… Dagli anni di galera, Gilberto ha tratto un senso del contatto fraterno e una autorità spirituale incontestabili. Questa sera, presiede il culto con un tamburello in mano, è un culto molto animato che mescola canti, testimonianze ( di una ex-prostituta e di un carceriere), sermoni infiammati “dialogati”con l’assemblea che interviene,reagisce, approva.

La forza di queste chiese risiede anzitutto nel fatto che il fedele vi è accolto personalmente ed esce dell’anonimato al momento in cui vi entra” commenta il padre Ronaldo, sacerdote cattolico di Belém osservatore attento dello sviluppo dei pentecostalisti. “Mentre il cattolico medio può partecipare alla messa rimanendo nella solitudine totale.”

Martedì, ore 19. a Ananindeua, nella vicina periferia, fra gallerie commerciali e fast food, l’immensa cattedrale dorata della Chiesa universale del Regno di Dio, “l’Universal” si riempie velocemente. In un paese che non è noto per il senso dell’ordine, sono colpito dalla pulizia dei luoghi e per l’organizzazione. I fedeli sono accolti all’entrata da un battaglione di pastori, uomini e donne, e dai loro assistenti in uniforma. Questi postano accompagnano i nuovi arrivanti per evitare ogni disordine. In poco tempo i 4700 posti sono occupati. Ci sono molte persone in piedi. Siamo quindi più di cinquemila persone nell’edificio quando comincia una cerimonia sbalorditiva di esorcismo collettivo.

Sul palco un pastore va e viene arringando la folla che reagisce come un solo uomo ad alcune delle sue parole: “oggi, dice lui, prenderemo il vostro problema alla sua radice”. Poi inizia il rituale: “Pensate al vostro problema, concentratevi su di lui … Tenete in mano le foto di quelli e quelle che volete proteggere o oggetti che a loro appartengono…”.Una foresta di braccia si alza. Viene infine il momento dell’esorcismo. Il discorso dell’ufficiante diventa sempre più spezzettato, In un certo senso sempre più aggressivo. Interpella gli spiriti maligni, chiedendo loro di manifestarsi, diuscire dai corpi: “Tu che hai trasformati in inferno la vita di questa famiglia, tu che ti dedichi ai riti abominevoli alla porta dei cimiteri, mostra il tuo volto nel nome di Dio onnipotente.” Gliassistenti percorrono i corridoi trasversali, osservano attentamente i fedeli, si avvicinano a loro se notano cambiamenti nel comportamento…

Perché fra poco le persone cominciano adandare in trance. Qua e là uomini e donne crollano urlando, immediatamente presi in carico dai pastori che cominciano a pronunciare, a bassa voce, ai loro orecchi parole di esorcismo. La tensione è al suo vertice. Nell’assemblea di 5000 persone che è in combattimento col demonio, c’è una energia palpabile, un soffio potente che si sente in crescendo. Fanno salire sul palco i posseduti, che si contorcono violentemente. Il pastore principale fa una intervista in diretta al diavolo… Si avvicina aduna donna e le chiede suo nome. “Lucifer” risponde in un rantolo. Segue una successione di ingiurie. Poi l’ufficiante scongigge lo spirito maligno effettuando tre passi in direzione della donna che crolla bruscamente.

Sedute per doni

“Dell’isteria collettiva e del teatro” ,commenta il P. Ronaldo. “E abbiamo prove ci sono persone pagate per fingere.” Forse. Ma questi rituali sono notevolmente ben condotti e se ne esce sentendosi come risanati. Si capisce come la gente con problemi insolubili possa trovarci conforto.

Più tardi, dopo l’esorcismo, i pastori dell’Universal organizzano una seduta per i doni dove i fedeli sono invitati a rivaleggiare in generosità tra vigorosi applausi che sfidano il diavolo e rinforzano economicamente il patrimonio della loro Chiesa . “E funziona bene” …secondo Rosa Marga Rohte, pastore della Chiesa luterana che ha fatto un lavoro universitario sullo sviluppo dei pentecostali a Belem. “Alcune di queste chiese sono ricchissime relativamente agli edifici che costruiscono ed al benessere in cui vivono alcuni pastori. Qui si tocca quella che viene chiamata “Teologia della Prosperità” e chi si potrebbe riassumere così: “il mio successo materiale è il segno del mio successo spirituale. Se sono ricco, significa che sono nella verità e che Dio mi ricompensa.” Una curiosa lettura del Vangelo, ma che corrisponde bene a una convinzione che viene appunto dalle Chiese nord-americane. Di vuole una religione dei risultati e dei riti che producono effetti immediati, che guariscono e che danno la forza di affrontare i problemi di sopravivenza.”

Giovedì, un pomeriggio di caldo equatoriale, la sala di attesa del dispensario di “Terra Firme”, uno dei quartieri più poveri della città, è piena di bambini accompagnati da loro mamme. Questo “posto di sanità” come si dice qua, è di proprietà della Chiesa Avventista del Settimo Giorno. Vi viene curato gratuitamente un elevato numero di bambini ogni giorno. I locali sono esigui ma l’organizzazione è efficace. Gli Avventisti non sono propriamente pentecostali. Sono piuttosto come quelli chiamati in Brasile: Chiese evangeliche missionarie, confessioni cioè protestanti tradizionali : battisti, luterani, metodisti… A causa però di alcuni di alcuni suoi metodi e pratiche, la Chiesa avventista si avvicina dai pentecostali. Dal suo modo, ad esempio, diinvestire in campo sociale e politico. Ma soprattutto, è laChiesa del Vangelo Quadrangolare che ha dato negli anni 70, il segnale dell’entrata in politica di questi gruppi. La città è piena di grandi cartelloni colorati del sorridente pastore Giosuè Bengtson, un notabile della Chiesa Quadrangolare e deputato federale, di ci si festeggia il compleanno. “Se la presenza dei pentecostali nelle istituzioni dello Stato del Parànon è massiccia, spiega Hanny Amoras, responsabile del servizio-stampa dell’Assemblea legislativa, essa è significativa. Hanno tre deputati su quarantuno e uno di loro ha già occupato il posto di presidente di questa assemblea. Hanno ugualmente tre deputati federali (all’assemblea nazionale di Brasilia) sui diciassette dello Stato del Parà e quattro dei trentatè consiglieri municipali di Belem.”

Clientelismo

Quasi una metà di questi rappresentanti viene dall’Assemblea di Dio, l’altra dalla Quadrangolare. La loro azione politica è pituttosto clientelare. Cercano di ottenere favori per loro fedeli: impieghi, viaggi, protesi per handicappati… Succede anche che i deputati, da tutte chiese, si uniscano per ostacolare il voto di disposizioni che ritengono immorali. Ma non sembra che abbiano un progetto politico ben definito. Tuttavia, si inquieta P. Ronaldo, “ il loro peso elettorale, il loro modo di investire massicciamente nei media ed i loro metodi settari cominciano a porre dei problemi.” Questo prete mi accoglie in una vasta canonica silenziosa al centro della città. Sulle mura, sfilano pie immagini e foto di vescovi. In un corridorio oscuro, passa velocemente una religiosa con un bicchiere d’acqua fresca su un piatto. Il rumore stressante della città non sembra giungere in questo luogo.

Uno risveglio in ritardo.

La Chiesa cattolica, sola maestra nel passato, ha i mezzi per contrapporsi a questa marea del pentecostalismo che rappresenta ora in alcuni quartieri della Grande Belem il 20 percento della popolazione ? “Non abbiamo saputo accogliere l’angoscia ed il malessere dei più vulnerabili, confessa P. Ronaldo, non abbiamo personalizzato le nostre relazioni con i fedeli. Ma la dura lezione è stata appresa, e stiamo entrando in una fase di ri-evangelizzazione”… Ri-evangelizzazione che si ispira spesso alle pratiche pentecostali: liturgie più vive, più piene di calore umano, più partecipative, un’azione pastorale con più autentico senso ecclesiale .

La Chiesa cattolica si sveglia po’ tardi, commenta Isabela, una professoressa di francese che dichiara di essere stata guarita dall’epilessia in una assemblea pentecostale. “Molto tempo fa, in molti luoghi, la Chiesa cattolica ha perduto il contatto con le popolazioni più diseredate che si sentono ugualmente abbandonate dai servizi pubblici. Qui, a Nuova Marituba,il campo è stato completamente occupato dai pentecostali che inquadrano i giovani, ostacolano l’istallarsi del traffico di droga, organizzano la solidarietà.”

Sabato pomeriggio, gli abitanti di questo nuovo quartiere della periferia nelle loro piccole case ascoltano la radio a tutto volume.Le strade di terra hanno buchi profondi e pozzanghere di fango, perché piove ogni giorno a Belém. Non ci sono luci sulle strade pubbliche e la spazzatura si accumula aspettando la fluttuante buona volontà dei rarissimi ed imprevedibili servizi pubblici.

Subito, in una casa vicina, un canto collettivo si alza e si fa sentire, punteggiato dal battere le mani e da voci fragorose. “Il figlio del vicino è ammalato, spiega Isabela, allora la gente della Quadrangolare si è mobilitata per pregare e cantare per lui.”

Frederic Pagès

N.B. traduzione ed adattamento, a cura di Damien Diouf, dall’omonimo articolo pubblicato sul n° 1/03 di Le Monde des Religions

Il sottotitolo è del coordinatore del sito, che invita le persone interessate ad intervenire sul Forum, nel sito stesso, di Mondo Oggi-geopolitico

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 13 Agosto 2004 15:04

COME CAMBIA LA GEOGRAFIA DEL MONDO

Gli atlanti geografici, con le loro tradizionali carte politiche e fisiche - queste ultime ormai sempre più sostituite da fotografie satellitari- rappresentano ancora il volto reale del pianeta Terra?

I dati fisici - le montagne, i mari, i fiumi - sono sostanzialmente immutati, anzi meglio definiti, ma quei colori che formano un variopinto mosaico, identificando gli Stati nei loro confini come portatori di valori nazionali ed unitari, quanto sono ancora i veri protagonisti della scena mondiale?

Se la prima Società delle Nazioni , nata nel 1919 a Parigi, contava su 42 stati, l'Organizzazione delle Nazioni Unite ne raccoglie oggi ben 191. In poco meno di un secolo, cioè, sotto la spinta della decolonizzazione e degli avvenimenti, le tessere del mosaico si sono quasi quintuplicate. Questa moltiplicazione ha paradossalmente facilitato l'emergere di processi di senso opposto quali la internazionalizzazione e la globalizzazione, fenomeni che postulano una rivisitazione del modo di intendere la geografia politica ed economica del pianeta

Oggi, occorre tener conto e dare spazio a realtà transnazionali - organizzazioni internazionali , organismi interstatuali, raggruppamenti regionali, grandi regioni transfrontaliere, imprese multinazionali- che acquistano sempre più peso rispetto agli equilibri tradizionali ancorati agli stati e ancor più ne rivendicano nella Comunità mondiale, in nome della loro capacità di produrre benessere per l'uomo, assicurando maggior competitività e mercati più ampi alle economie dei singoli stati.

Le trasformazioni nel nostro modo di essere e di porci in rapporto con gli altri, dovute alle interrelazioni sempre più strette tra paesi e popoli, alla circolazione sempre più veloce e penetrante dell'informazione, pongono nuovi interrogativi sulle prospettive della società umana. Ci inducono ineluttabilmente a riflettere sul futuro delle forme storiche di aggregazione ed organizzazione della società umana , tendenti a basarsi non più esclusivamente sul radicamento su di un territorio fisicamente definito, ma sull'identificazione in comuni interessi.

Si affaccia sempre più insistentemente alla ribalta il cosiddetto “glocal”, ossia il “globale localizzato”, che vede nella persona non più solo “il cittadino di uno stato”, ma un individuo caratterizzato da una pluralità di appartenenze economiche e culturali, derivanti non solo dal nuovo rapporto tra il locale e globale, ma dalla riorganizzazione che il processo di globalizzazione richiede alla comunità internazionale, nella direzione di una de-localizzazione tale da introdurre necessariamente nuove forme di aggregazione e una modifica degli schemi organizzativi territoriali degli stati e della esclusività ed unicità de rapporto di cittadinanza . Ad esempio, si parla sempre più di una cittadinanza europea comune ai popoli dei 15 - e domani 25- Stati membri dell'Unione Europea, che affianca quella nazionale per sottolineare l'unicità di uno spazio comune - economico, giuridico, monetario- in cui coesiste con le singole identità nazionali viste come fattore di arricchimento, ma si parla anche di “regioni europee” che travalicano i confini statuali.

Se si guardano con attenzione l'evoluzione internazionale e l'impatto globale dei problemi politici, economici e sociali che caratterizzano i nostri giorni, le profonde trasformazioni delle strutture delle società occidentali ormai post-industriali e del nostro modo di vivere e di sentire, ci si rende conto delle dimensioni ed implicazioni del processo avviato.

Occorre perciò capire dove vogliamo andare ed individuare i modi con cui governare la tendenza, scongiurando meccanicismi e tecnicismi che finirebbero per impoverire l'umanità intera dei suoi valori fondamentali e a cancellare ogni forma di solidarietà.

Questo quadro complesso ed in continua evoluzione richiede saggezza, che -come insegna la Bibbia- non è solo conoscenza ma soprattutto discernimento. In una società sempre più fondata sull'efficienza e sull'immagine, in un mondo che sollecita tempi di reazione sempre più rapidi, in cui tutto è a portata di internet, occorre rinunciare alla scorciatoia del villaggio globale e trovare il tempo per riflettere e farsi una propria idea su quanto ci frastorna.

Ci occorrono sia conoscenza che capacità critica, intesa come una metodologia della conoscenza fondata sulla analisi di una situazione in base ai diversi elementi che contribuiscono a determinarla, siano essi politici od economici, storici o culturali, etnici o religiosi, naturali o sociali tutto ciò per comprendere meglio quanto accade intorno a noi senza delegare altri a farlo per noi.

Sono tutte realtà che nel mondo di oggi non possono più rappresentare il riservato dominio di specialisti, ma un patrimonio di conoscenze basilare per agire sul grande palcoscenico del pianeta, dove tutto e tutti finiscono per essere fatalmente interdipendenti, dove benessere, progresso e pace inevitabilmente possono misurarsi e concretizzarsi soltanto su scala planetaria.

Giuseppe Panocchia
ambasciatore, europeista,esperto del mondo arabo
Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 18 Febbraio 2011 21:38

Governo Lula, è ora di forzare il limite

La riforma agraria è un programma del governo diretto a risolvere un problema e occorre dunque partire dalla definizione di questo problema: un punto controverso in Brasile. Gli economisti neoliberisti negano l'esistenza di un problema agrario, perché partono dalla definizione classica secondo cui la questione agraria è un ostacolo alla penetrazione del capitalismo nelle campagne.

Noi crediamo, invece, che la questione agraria sia il modo per riscattare la grande povertà del popolo, perché la struttura agraria è alla base di una piramide sociale in cui un piccolo gruppo domina su tutta la popolazione. La struttura agraria è una fabbrica di miseria.

Da questa struttura dipende un modello agricolo che in Brasile viene molto esaltato, perché è ad alta produttività e perché consente alti livelli di esportazione. Non si considera, tuttavia, che questo modello genera miseria, crea dipendenza tecnologica e provoca un'aggressione violenta all'ambiente. Bisogna cambiare il modello, ma perché questo avvenga è necessario che il contadino abbia più forza. L'obiettivo del piano nazionale di riforma agraria era proprio quello di dare forza al contadino, perché in futuro possa fare pressione per un modello più giusto, equilibrato e rispettoso della natura. (…)

(…) Il Piano si proponeva di raggiungere un milione di famiglie in quattro anni, ciascuna delle quali dovrebbe ricevere una media di 30 ettari (secondo la natura del terreno), per un totale di 30 milioni di ettari di terra da distribuire. Le famiglie che hanno bisogno di terra sono in realtà molte di più: circa 4 milioni e mezzo. Ma già con un milione di famiglie insediate, a nostro giudizio, la struttura agraria verrebbe intaccata, provocando uno squilibrio virtuoso, una reazione a catena che permetterebbe ai contadini di acquistare forza. Tutto questo sarebbe costato 8 miliardi di dollari e avrebbe creato 3 milioni e mezzo di posti di lavoro permanenti con un reddito pari a tre salari minimi e mezzo a famiglia: una somma sufficiente a garantire una vita degna. Tuttavia, questo si scontrava con la raccomandazione del Fondo Monetario Internazionale di accantonare una somma pari al 4.25% del Pil, che è una quantità di denaro enorme. E il governo, per timore di rappresaglie, ha deciso allora di ridurre il piano a 520mila famiglie, poco più della metà: un buon programma, ma che non consente quella massa critica necessaria per colpire il latifondo, che è all'origine di tutto il problema della povertà in Brasile, un'origine anche culturale, politica, sociale.


Un'economia blindata
In Brasile si è avuto un grande processo di costruzione dell'economia nazionale, accompagnato da misure di protezione dell'industria locale. Dal 1930 al 1980 si è sviluppato nel Paese un parco industriale completo, finché la mondializzazione neoliberista non gli ha inferto un colpo fortissimo. Nel 1989, Lula si presentò come candidato presidenziale impegnandosi a portare avanti il processo di costruzione nazionale. Ma Lula venne sconfitto. E iniziò così un processo di apertura irresponsabile dell'economia brasiliana, che poi è finito nelle mani di Fernando Henrique Cardoso. Il governo Cardoso ha blindato l'economia brasiliana in modo tale che se viene spezzato un elemento si rischia di rompere tutto.
A mio giudizio Lula ha compiuto un errore: quello di impegnarsi in campagna elettorale a rispettare gli accordi internazionali firmati da Fernando Henrique Cardoso. L'équipe di consiglieri di Lula evidentemente non conosceva la profondità della blindatura operata da Cardoso. Se Lula viola uno di questi accordi la sua credibilità internazionale cade e il denaro straniero che sostiene la macroeconomia si dilegua.
Io credo che Lula stia sbagliando a non affrontare il Fondo Monetario Internazionale. Adotta una posizione prudente, nel timore che, se si scontrasse con la comunità finanziaria internazionale, subirebbe una rappresaglia che avrebbe come conseguenza l'aumento dell'inflazione e della disoccupazione: un problema molto serio di governabilità. Ma un Paese non può vivere sotto ricatto. E credo che il popolo darebbe un fortissimo sostegno a Lula. (…)

Forzare il limite
Ho fatto parte del governo Goulart, progettando la riforma agraria del 1964. In quella occasione ci fu uno scontro tra il popolo e le forze interne ed esterne che volevano impedire il cambiamento. E la parola chiave era "limite". Io ero nella posizione di forzare il limite ma con molto timore. Anche oggi ci chiediamo se non sia stato imprudente forzare quel limite, perché a causa di ciò abbiamo avuto 20 anni di dittatura militare. Ma è anche vero che in questi anni si è formata nella Chiesa cattolica una coscienza liberatrice, è nato un sindacato vero come la Cut, è nato l'Mst. Oggi la situazione sociale del Brasile è molto più avanzata che nel 1964. E il dramma è lo stesso.
La mia posizione è che sarebbe necessario forzare il limite. Potrebbero esserci conseguenze negative, fatto che giustifica la prudenza di Lula. Il problema è nel limite di quella prudenza. Io credo che forse dovrebbe essere meno prudente.


Un vuoto preoccupante
Lula aveva suscitato enormi aspettative e queste aspettative si stanno ridimensionando. Ma per il popolo più povero Lula è ancora una speranza. Quando un addetto delle pulizie dell'aeroporto ha trovato una borsa con 30mila dollari e l'ha restituita, il direttore gli ha chiesto che premio avrebbe voluto: "Vorrei stringere la mano a Lula", ha risposto. Perché una cosa è quello che penso io, uomo politicizzato, un'altra è quello che pensano i milioni di brasiliani delle classi povere. Io penso che un giorno questa gente si solleverà e se noi avessimo un pensiero articolato e alternativo da offrire potremmo andargli incontro. Perché una cosa è certa: nessuna nazione può diventare indipendente senza affrontare problemi, senza vivere momenti di crisi e di lotta. (…)
Se il popolo perdesse speranza in Lula, il vuoto sarebbe brutale. Nel 1954, quando Getulio Vargas venne ucciso, il popolo brasiliano scese in strada. Ci riunimmo in una casa con un padre domenicano che era stato consigliere di Giovanni XXIII al Concilio. Ed egli disse: "questo è un popolo infantile che sta piangendo la morte di suo padre. Si lamenterà, si indignerà, protesterà, ma, poiché non ha orientamento politico, non ha un'organizzazione capace di dare una parola d'ordine, si stancherà e tornerà a casa. E se piove tornerà anche prima". E piovve! "Questo popolo cercherà un nuovo padre e se non avrà risposta fra dieci anni si troverà sotto una dittatura militare". Era il 24 agosto del '54 (il golpe contro Goulart avvenne il 31 marzo del 1964, ndt). Si sbagliò di appena sei mesi. Oggi, se Lula non riuscisse a dare una riposta, la forza capace di orientare politicamente il popolo esiste. E dunque il quadro istituzionale del Paese si modificherebbe, verso destra o verso sinistra. Sarebbe un vuoto preoccupante, perché non si sa quale direzione potrebbe prendere.

Un progetto asfissiato
Il progetto Fame Zero si presenta come un programma non meramente assistenzialista: doveva partire da un piano assistenziale per diventare poi un progetto strutturale. Si è però trovato asfissiato per due motivi: la mancanza di risorse (quando un medico prescrive una dose di penicillina, non serve a niente somministrare una dose di molto inferiore. Se però si volesse dare la dose giusta ci si scontrerebbe con l'Fmi) e il tentativo di fare una cosa che è impossibile con la miseria: quello di registrarla. Con una certa ingenuità, i responsabili del progetto, preoccupati del clientelismo politico e della corruzione che hanno caratterizzato tanti programmi assistenziali, volevano registrare tutto per dimostrare la loro correttezza. Ma così per un anno hanno potuto fare solo questo.


La 25.ma ora
Ho scritto un articolo dal titolo "La 25.ma", in cui sostengo che Lula si sta avvicinando alla 24.ma ora. Alla 25.ma non c'è più niente da fare. Lula deve fare qualcosa subito. E deve essere qualcosa di forte. Io credo che dovrebbe cambiare l'équipe economica del governo. La politica è fatta di simboli, di gesti. Il popolo aspetta un gesto e questo gesto non arriva ancora.

di Plinio de Arruda Sampaio

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 14 Maggio 2004 22:36

COMMERCIO ITALIANO DI ARMI: A TUTTI DI PIU’

Da “Adista Notizie n 31 del 1-1-04”

In un periodo in cui non si fa che parlare di recessione economica e di declino, è significativo che l'unico settore industriale che non conosce argine alla propria espansione sia quello del commercio delle armi. Lo conferma la relazione annuale presentata all'inizio di aprile dal governo al Parlamento. Dalla sua lettura, emerge che il 2003 è stato un ennesimo anno record per l'export italiano di armi: il numero di contratti autorizzati l'anno scorso dal governo ha raggiunto la cifra di 1 miliardo e 282 milioni di euro, addirittura il 40% in più rispetto al 2002 (quando ci fermammo a 920 milioni). "Fra le autorizzazioni rilasciate - è scritto nella relazione governativa - oltre a non esserci alcun Paese rientrante nelle categorie indicate dall'art. 1 della legge 185 (ossia Paesi belligeranti, regimi liberticidi, ecc., ndr) il governo ha mantenuto una posizione di cautela verso i Paesi in stato di tensione".

Eppure, spulciando la lista dei Paesi che acquistano i nostri armamenti, la presenza di "clienti" che sono da anni nel mirino delle istituzioni internazionali e delle associazioni che si battono per i diritti umani, rivela una realtà ben diversa. Dopo la Grecia, che si piazza al primo posto con commesse per quasi 250 milioni di euro (si tratta dell'acquisto di aerei da trasporto C-27 dell'Alenia Aeronautica), nel rapporto vengono dichiarati 166 milioni di commesse belliche (spesi principalmente per l'acquisto di siluri navali), autorizzate per la vendita di armi alla Malaysia, retta da un governo autoritario che applica la legge islamica e la tortura e oggetto di una risoluzione del Parlamento europeo nel 2002 per una legge che consente la detenzione senza processo fino a due anni, rinnovabile in modo indefinito, per qualsiasi persona ritenuta una minaccia alla sicurezza. Il terzo posto, con 127 milioni di commesse, spetta alla Cina, da sempre nell'occhio del ciclone per le violazioni dei diritti umani a causa delle quali l'Unione europea, sin dall'epoca di Tienanmen, ha stabilito, nei suoi confronti, l'embargo alla vendita di armi. Quarto posto per l'Arabia Saudita, cui l'Italia ha venduto 109 milioni di armi, Paese in cui sono proibiti partiti politici, sindacati, associazioni indipendenti di qualsiasi tipo, e le donne sono discriminate al punto da non poter neanche guidare l'automobile. Dopo la Francia (88 milioni per l'acquisto di sistemi radar), ci sono 70 milioni di euro spesi dal Pakistan (dotatosi pochi anni fa di armamenti atomici), 49 dalla Polonia, 41 dalla Danimarca, 37 da Usa e Finlandia. Minori importi riguardano altri Stati assai "chiacchierati": l'Egitto (10 milioni) dove, anche secondo l'Onu, la pratica della tortura è all'ordine del giorno; la Turchia (8 milioni), il cui ingresso nella Ue è ancora sub judice proprio a causa delle continue violazioni dei diritti umani; il Messico (7 milioni), accusato per la dura repressione in Chiapas e la violazione dei diritti delle minoranze indigene, e Israele (3 milioni), la cui politica di occupazione dei territori palestinesi è stata ripetutamente condannata dalle risoluzioni dell'Onu. Inoltre, le nostre armi arrivano anche in Siria, Paese inserito dagli Usa nella lista degli "Stati canaglia" che sostengono il terrorismo internazionale, in India (che possiede armi atomiche), Nigeria e Tunisia.

Un altro capitolo è quello delle transazioni bancarie autorizzate dal Ministero dell'Economia per il commercio di materiale bellico: tra gli istituti di credito coinvolti in queste operazioni, ci sono Banca di Roma, Gruppo bancario S. Paolo Imi, Banca Intesa, Société Générale e la Bnl: insieme, hanno negoziato il 75% di tutte le operazioni autorizzate. Nella relazione del governo risulta ancora la presenza, tra le cosiddette "Banche armate", di Unicredito, che pure, a maggio del 2001, cedendo alle pressioni della campagna promossa, tra gli altri, dalle riviste "Missione oggi", "Mosaico di pace" e "Nigrizia", annunciò di non voler più sostenere le esportazioni di armi.
Quelli contenuti nella relazione, sono "dati quanto mai preoccupanti" - afferma Giorgio Beretta della "Campagna banche armate" per il controllo dell'export di armi italiane. Soprattutto, sostiene Beretta, non si capisce, "in base a quali leggi l'attuale governo possa concedere autorizzazioni per esportare armi alla Cina", poiché la recente riforma della legge 185 prevede "che l'Italia non esporti armi a Paesi 'nei cui confronti sia stato dichiarato l'embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte delle Nazioni Unite o dell'Unione europea'".
A ciò che emerge dalla lettura della relazione annuale del governo al Parlamento vanno aggiunti i dati elaborati dalla Camera di commercio di Milano, secondo i quali le esportazioni di armi italiane, negli ultimi dieci anni, sono cresciute del 94%. La capitale italiana del settore è Brescia, la città dove si è appena svolta Exa (v. notizia seguente), l'annuale fiera mondiale delle armi leggere: la "leonessa d'Italia" da sola copre il 32% del totale delle esportazioni.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

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