Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Sono assai vetuste le origini del Cristianesimo in Armenia. La tradizione le fa risalire agli apostoli Taddeo e Bartolomeo. La critica moderna ha potuto avvisare tracce di predicazione cristiana già a partire dalla seconda metà del II secolo.

Domenica, 21 Ottobre 2007 17:42

Il Vangelo in Alaska (Michail Oleosa)

LA STORIA
Il Vangelo in Alaska

di p. Michail Oleosa

Pubblichiamo un estratto della relazione su «San German di Nuovo Valamo e l’evangelizzazione degli aleuti di Kodjak» tenuta a Bose durante il Convegno ecumenico del 2006.

Dopo decenni di esplorazioni e contatti commerciali, gli uomini di frontiera incominciarono ad avventurarsi nei territori degli aleuti, gli indigeni dell’arcipelago di Kodjak nell’Alaska centro-meridionale. Nel 1784 un massacro di centinaia di nativi segnò l’inizio del sistematico sfruttamento della regione da parte della Compagnia russa d’America. All’avamposto commerciale fu associata una missione monastica, che al sovrintendente locale, Aleksandr Baranov, dovette sembrare una vera e propria intrusione. Gli aleuti avevano infatti intuito che questi uomini vestiti di nero li difendevano dai soprusi dei mercanti russi. I monaci, accusati d’incitamento alla ribellione, furono arrestati e allontanati.

A Kodjak rimase padre German. Costretto a ritirarsi nella foresta, il monaco si costruì un piccolo eremo, dove col tempo diede vita a una scuola per i bambini aleuti, iniziando un dialogo di amore e reciproca conoscenza, che conquistò il cuore degli indigeni. La vita religiosa degli aleuti è incentrata sul rispetto del potere spirituale, il Sua, che anima tutte le cose viventi e custodisce l’armonia cosmica. Se l’equilibrio tra uomini e animali è turbato, ci sono gli sciamani che, dopo un viaggio iniziatico nell’oltretomba, ricompongono la disarmonia.

Quando la figlia del prete di Kodjak si ammalò, fu proprio padre German a inviarle uno sciamano perché la guarisse. Aveva intuito che la fede cristiana non era la distruzione o la sostituzione delle antiche tradizioni spirituali degli aleuti, ma il loro compimento. La liturgia ortodossa affiancava le antiche cerimonie religiose che celebravano e ringraziavano il Sua, la forza vitale presente in ogni creatura, ma Cristo stesso è la Vita! I Sua sono Gesù che offre se stesso per la vita del mondo, sono i Lógoi, derivati da Cristo-Logos, di cui parla Massimo il Confessore. Cristiano è infatti «colui che, ovunque guardi, vede Cristo e gioisce in lui» (A. Schmemann). Proprio questa visione aveva permesso ai monaci di presentare il cristianesimo quale compimento di tutto ciò che è buono, vero, onesto e bello nella cultura aleuta, facilitandone il passaggio alla fede cristiana.

Più di trentacinque anni fa mi capitò di leggere la Vita di German a una scolaresca di bambini aleuti. «Tutte queste cose le sappiamo!», si lamentavano. Ma quando arrivai alla fine della biografia, furono sbalorditi. « È morto?!», chiesero. «Sì, è detto qui: “Padre German morì il 13 dicembre 1834”». «Impossibile! - esclamarono -. I nostri genitori e i nostri nonni lo conoscono!».

A loro modo, i bambini avevano ragione. Padre German è vivo in Cristo e con Cristo, e anche in mezzo al suo popolo.

(da Mondo e Missione, gennaio 2007)

Domenica, 21 Ottobre 2007 17:22

Con gli occhi del Vangelo (Filippo Di Giacomo)

Non esiste nessuna prigione corporale per chi riesce a guardare la propria vita con gli occhi aperti del Vangelo.

Dialogo ecumenico

Relazioni inter-ortodosse ed ecumenismo

di Andrea Pacini





Le relazioni ecumeniche tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse sembra stiano attraversando un periodo di miglioramento e di maggiore distensione rispetto all’ultimo decennio trascorso. Si tratta di una distensione concretamente testimoniata anche da alcuni importanti eventi, quali la ripresa - nello scorso mese di settembre - dei lavori della Commissione internazionale di dialogo teologico e - in occasione della festa di sant’Andrea lo scorso 30 novembre - la visita fraterna di papa Benedetto XVI al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, nonché il clima più disteso - o almeno meno conflittuale - che si respira nei rapporti tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa russa. Ci si può chiedere tuttavia se questo processo di distensione, in sé senz’altro positivo, si sviluppi su un fondamento solido, o se rimanga in qualche modo su un piano ancora superficiale e necessiti di un più profondo radicamento.
 
E’ chiaro infatti che alcune questioni che hanno complicato non poco i rapporti ecumenici tra ortodossia e cattolicesimo, come quella dello statuto teologico delle Chiese greco-cattoliche, rimangono ancora non risolte; se la sospensione della discussione su tale argomento ha avuto l’innegabile risultato positivo di consentire la ripresa del dialogo teologico, resta il fatto che non aver raggiunto una soluzione condivisa significa che tale punto nodale potrà riemergere come causa di conflittualità nel presente e nel futuro. Tale rischio si prospetta anche perché non si tratta di un problema di ordine puramente teorico, bensì con diretto riferimento esistenziale, dal momento che coinvolge Chiese vive, che convivono all’interno di Stati a maggioranza ortodossa.

Esiste tuttavia un’altra questione, forse meno nota al vasto pubblico, che ha recentemente influenzato le relazioni ecumeniche cattolico-ortodosse e che è destinata a esercitare un’influenza rilevante anche nel futuro: si tratta dei rapporti interni all’ortodossia, ovvero delle relazioni inter-ortodosse, caratterizzate da tensioni non irrilevanti, che si ripercuotono anche sull’ecumenismo.

Dal momento infatti che la comunione ecclesiale ortodossa è costituita da un insieme di Chiese autonome (normalmente, ma non sempre, di rango patriarcale), le relazioni tra le diverse Chiese svolgono un ruolo essenziale per esprimere una posizione univoca e condivisa o, al contrario, frammentaria. E’ un dato di fatto che con gli inizi degli anni ‘90 e la fine dei governi comunisti nell’Europa orientale, il rinnovato ruolo delle Chiese ortodosse di quei Paesi, in particolare della Chiesa ortodossa russa, ha riacutizzato un’antica e non risolta competizione tra il patriarcato di Mosca e il patriarcato di Costantinopoli. La motivazione di tale competizione non è irrilevante, perché riguarda il ruolo e l’esercizio dell’autorità primaziale all’interno della comunione ortodossa. Com’è noto la tradizione orientale riconosce alla sede di Costantinopoli il rango primaziale, che comporta in particolare la prerogativa di concedere lo statuto di autonomia e di autocefalia a nuove Chiese ortodosse e il diritto di appello al patriarcato ecumenico da parte di Chiese ortodosse che abbiano contenziosi reciproci, nonché da parte di singoli chierici che abbiano contenziosi con la propria giurisdizione ecclesiastica.

Il patriarcato di Mosca non intende riconoscere tali prerogative al patriarcato di Costantinopoli, e spesso ha posto atti unilaterali in cui ha assunto prerogative di tipo primaziale che secondo la tradizione spettano al patriarcato ecumenico, quali la concessione dello statuto di autocefalia alle Chiese ortodosse di Cina, Giappone e America (Stati Uniti), e, più recentemente, il rifiuto della mediazione di Costantinopoli per risolvere la crisi interna all’ortodossia ucraina. Ultimamente la competizione tra Mosca e Costantinopoli ha trovato ulteriori elementi di aggravamento in rapporto alla diaspora russa in Europa occidentale. Qui infatti, in seguito alla rivoluzione sovietica, si sono costituiti forti nuclei di emigrati russi, che si sono organizzati in due giurisdizioni ecclesiastiche, di cui una - la diocesi del Chersoneso - dipende da Mosca e l’altra - che ha il maggior numero di parrocchie - costituisce l’esarcato russo dipendente dal patriarcato di Costantinopoli. Quest’ultimo era stato fondato negli anni ‘20 del secolo XX per un’esplicita volontà di sottrarsi alla giurisdizione di una Chiesa russa che si riteneva compromessa con il governo sovietico.

L’esarcato russo ha svolto e svolge un ruolo fondamentale sul piano delle relazioni ecumeniche e come “ponte” culturale e teologico tra l’Occidente cristiano cattolico e protestante e l’Oriente ortodosso. L’istituto teologico San Sergio che da esso dipende è l’istituzione teologica ortodossa più impegnata in tali campi. Grazie al suo impulso le relazioni ecumeniche con l’ortodossia in tutta Europa hanno conosciuto progressi assai importanti. Tuttavia da circa tre anni il patriarcato di Mosca ha cercato di espandere la sua influenza sulla diaspora di origine russa, partendo dalla Gran Bretagna, dove ha invitato le due giurisdizioni a unificarsi riconoscendosi dipendenti dal patriarcato di Mosca. La strategia, messa in atto anche grazie a nuovi gruppi di immigrati russi giunti in Gran Bretagna, mirava a erodere molte prerogative di autonomia di cui godevano le parrocchie e le diocesi “russe” in terra britannica; inoltre il patriarcato russo ha cercato di diffondere la propria linea teologica e culturale, decisamente meno aperta a una ricerca teologica nuova, a una maggiore autonomia locale e a relazioni ecumeniche ricche e costruttive.

Di fronte a queste prospettive i fedeli e buona parte della gerarchia locale hanno protestato, ottenendo nel 2002 il trasferimento del vescovo ausiliare appena nominato proveniente dalla Russia. La situazione è ulteriormente precipitata nella primavera del 2006, quando a fronte della linea promossa dal patriarcato di Mosca, lo stesso vescovo Basilio - successore del noto vescovo Anthony Bloom nella guida pastorale della giurisdizione britannica del patriarcato russo - ha chiesto al proprio patriarca di passare personalmente all’esarcato russo della giurisdizione di Costantinopoli - che mantiene l’apertura teologica, pastorale ed ecumenica tipica dell’ortodossia dell’Europa occidentale - e di lasciare che potessero seguirlo le parrocchie che lo volessero. La risposta del patriarcato di Mosca è stata l’immediata sospensione a divinis. Il vescovo Basilio si è allora appellato al patriarca di Costantinopoli, che ha riconosciuto come anticanonica la procedura da cui era stato colpito e lo ha accolto nella propria giurisdizione con le parrocchie che intendono seguirlo.

Per il patriarcato di Mosca si è trattato di uno smacco notevole, anche perché tutte le principali Chiese ortodosse - con l’eccezione del patriarca di Antiochia - si sono dichiarate solidali con il vescovo Basilio e la decisione del patriarca ecumenico. Per il patriarcato di Mosca la volontà di espandere la propria influenza sulla diaspora europea si è dimostrata un’arma a doppio taglio, a fronte della notevole differenza di prospettiva culturale, teologica e pastorale tra la porzione maggioritaria dell’ortodossia dell’Europa occidentale - specialmente quella di antico insediamento - e le posizioni teologiche e culturali della Chiesa ortodossa russa attuale. Questo spiega perché anche in occasione del recente incontro della Commissione di dialogo teologico cattolico-ortodossa il capo della delegazione russa abbia contestato in modo violento la responsabilità primaziale di Costantinopoli e le connesse prerogative, senza per altro ottenere alcun successo, perché anche in quell’occasione le altre Chiese ortodosse si sono mostrate solidali con Costantinopoli. L’insieme di queste vicende tuttavia coinvolge anche l’ecumenismo inteso come efficace cammino verso l’unità: forti elementi di competizione e di disgregazione interni a una confessione non possono infatti che ulteriormente complicare i processi di riconciliazione e di dialogo ecumenici interconfessionali.

(da Vita Pastorale, gennaio 2007)

Viaggio alla scoperta delle altre religioni

Un raggio della verità che illumina tutti

di Marino Parodi

La conoscenza delle religioni diverse da quella cristiana si impone a chiunque voglia conoscere il mondo, ma in particolare ai cristiani. Ciò non soltanto a seguito del fenomeno della globalizzazione, grazie al quale circolano regolarmente, con rapidità sino a poco tempo fa impensabile, messaggi di ogni genere, ivi compresi quelli di natura religiosa. Un’altra importante motivazione di fondo consiste nel fatto che il cristiano, per sua stessa natura portato a porre l’anima e quindi l’esigenza spirituale al centro del proprio pensare, sentire e agire, non può non interrogarsi sui mille messaggi di natura chiaramente o vagamente religiosa che circolano nel mondo di oggi un po’ a tutti i livelli. Un mondo che, a Dio piacendo, ha smentito clamorosamente ogni funesta profezia di "eclissi" o "tramonto" del sacro, imperante negli ultimi decenni.

L’umanità del terzo millennio è profondamente assetata di spiritualità e di sacro, insomma di Dio. Questo è un dato di fatto innegabile, del quale, ci pare, tutti i cristiani hanno motivo di rallegrarsi. Altro discorso, estremamente complesso, è poi quello di constatare dove questa ricerca sacrosanta e naturalissima vada a finire. A maggior ragione, noi cristiani non possiamo non interrogarci. E, di conseguenza, deciderci a informarci.

«Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono»

Ancora una volta, la prospettiva più autenticamente cristiana e, al tempo stesso, più scientifica, come risulterà sempre più chiaro man mano che esploreremo i vari pianeti dell’affascinante galassia religiosa, è già indicata dallo stesso Vangelo.

Si tratta di trovare l’equilibrio tra due opposte esigenze: quella di conciliare la consapevolezza del fatto che Cristo è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), con l’altra affermazione evangelica, laddove lo stesso Cristo ci rassicura: «Chi non è contro di noi, è per noi» (Mc 9,40). Un’indicazione assai illuminante, alla quale san Paolo fa eco invitandoci a «esaminare ogni cosa e tenere ciò che è buono» (1Ts 5,21). Cristo ci precisa ancora, parlando dello Spirito, che «il vento soffia dove vuole» (Gv 3,8).

Va da sé che si tratta di un equilibrio non sempre facile da trovare, ma non vi è altra strada.

Nel corso del nostro "viaggio" cercheremo, per quanto possibile, di includere quasi tutte le tappe fondamentali del panorama religioso contemporaneo (il "quasi" è obbligatorio, giacché per affrontarle tutte occorrerebbero spazi e tempi ben maggiori). Seguiremo un ordine in linea di massima cronologico, partendo dalle religioni più antiche, assumendo come punto di riferimento il periodo della loro nascita, per quanto la datazione sia non di rado assai approssimativa.

Così passeremo in rassegna, oltre all’ebraismo e ai pilastri della spiritualità orientale (islamismo, al quale per ovvie ragioni dedicheremo un’attenzione particolare, induismo, buddismo e altri ancora), pure certe forme di spiritualità (ad esempio esoterismo e sciamanesimo), le quali, pur vantando radici antichissime, si sono riproposte all’attenzione generale negli ultimi decenni.

Ci atterremo ad alcune indicazioni di massima che corrispondono poi a una sorta di minuscolo vademecum necessario al cristiano che si prepara ad affrontare il viaggio alla scoperta delle altre religioni.

Superare i pregiudizi e la paura del confronto

Innanzitutto, sgombrare il campo, ossia la mente, da ogni pregiudizio. È facile identificare l’islam col fanatismo e il buddismo col rifiuto del mondo, ma tutto ciò non è assolutamente vero. L’apertura di mente e di cuore costituisce dunque la conditio sine qua non per il cristiano che voglia accostarsi allo studio delle altre religioni. «Non abbiate paura»: la storica esortazione di Giovanni Paolo II, rimasta scolpita nel cuore di chi sa quanti milioni di uomini e donne di ogni razza e religione, si adatta perfettamente allo scopo.

Sicuramente egli stesso non ebbe paura di confrontarsi con le altre religioni: anzi, se si è rivelato e confermato maestro universale, al di là dei confini religiosi e culturali, ciò è di sicuro dovuto anche alla capacità di conciliare ciò che a molti sembra, a torto, la quadratura del cerchio (pur essendo un compito certamente non facile da gestire): ossia fedeltà assoluta al Vangelo da un lato, nella consapevolezza della sua originalità, apertura totale di mente e di cuore alle altre religioni dall’altro.

Il mutato e più rilassato clima nei rapporti tra cristianesimo e altre religioni è sicuramente in buona misura da ricondurre all’insegnamento e alla testimonianza di Giovanni Paolo II, il quale non temette di compiere allo scopo gesti clamorosi, noncurante dello scandalo che inevitabilmente avrebbe suscitato tra i ben pensanti: come il fatto di inginocchiarsi e pregare in una moschea.

Del resto, il rifiuto del dialogo, o addirittura di conoscere l’altro, in definitiva non nasce forse dalla paura? Paura di non possedere in effetti quella verità, di cui si pretende di sbandierare l’esclusiva? Insomma, il sospetto che dietro tanto bigottismo si nasconda in definitiva una fede in realtà insicura e infantile pare tutt’altro che azzardato.

L’esercizio vigile e sapiente di una "coscienza osservante"

In secondo luogo, passo che è logica conseguenza del precedente, occorre accostarsi all’esperienza religiosa altrui collocandola nel contesto storico e culturale di cui essa è al tempo stesso madre e figlia, evitando cioè di applicarle schemi che sono tipici del nostro mondo. In altre parole, esercitare quella che la psicologia di orientamento più avanzato chiama, con termine preso a prestito dalla saggezza orientale, "coscienza osservante". Ossia, osservare senza giudicare, operazione tanto indispensabile quanto difficile, almeno, in quei casi (tutto sommato neppure poi così frequenti) in cui prendere atto di certe realtà come primo impulso non può che suscitare una riprovazione nella nostra coscienza di cristiani e di occidentali. È il caso, ad esempio, del sistema indiano delle "caste".

A relativizzare l’imbarazzo aiuterà comunque un dato confortante: proprio a seguito di un processo di maturazione spirituale portato avanti a livello di opinione pubblica mondiale da svariati fattori, un po’ tutte le religioni tendono a concentrarsi sulla ricerca spirituale, la quale di tutte costituisce poi l’anima, per tralasciare gli aspetti maggiormente legati a fattori storici e culturali (ancora una volta, l’esempio delle "caste" indiane non potrebbe essere più calzante).

Ciò va detto esplicitamente e con forza senza voler negare o minimizzare il deleterio fenomeno dei "fondamentalismi", i quali sono peraltro destinati a sgonfiarsi sempre più man mano che ci si concentra, appunto, su ciò che unisce, invece di sottolineare ciò che divide.

Al di là del "rumore" mediatico, verso differenti approcci al divino

In terzo luogo, occorre mantenere costantemente tale apertura curiosa e benevola, verrebbe voglia di dire, man mano che si procede nella ricerca. Mai dare nulla per scontato, insomma, mai pretendere di aver "compreso tutto" e mai banalizzare. Osservazione assai meno ovvia di quanto si potrebbe pensare se si tiene presente che viviamo nell’epoca dei talk show e del bombardamento mediatico, in cui alla quantità dell’informazione spesso non corrisponde affatto la qualità. Capita spesso che vengano intervistati certi soloni i quali, più che dell’assai complesso mondo religioso e spirituale, del quale pretendono di sapere tutto, sembrano invece esperti dell’arte di intrufolarsi in tutte le platee televisive possibili e immaginabili.

Le sorprese, insomma, possono sempre arrivare. Occorre infatti tenere presente che l’esperienza religiosa e spirituale è per sua natura evolutiva e dinamica: la stessa Chiesa cattolica non ha forse riscoperto in tempi recenti valori quali tolleranza o la libertà religiosa, i quali, benché scritti nel Dna del cristianesimo e abbondantemente praticati all’epoca delle sue origini, erano finiti negli ultimi secoli nel dimenticatoio, a seguito di complesse vicende storiche?

Il discorso si chiarirà man mano che ci addentreremo nelle varie tappe del nostro viaggio e si rivelerà interessante in quanto che scopriremo la diversità dell’approccio al divino di svariate altre scuole rispetto al cristianesimo. Un caso clamoroso riguarda a tal proposito la natura del buddismo, circa il quale si sente spesso dire che «non è una religione». Tale affermazione è al tempo stesso vera e falsa, a seconda della prospettiva che si sceglie di condividere.

Tutto infatti dipende da ciò che si intende per "religione": se con questo termine, infatti, intendiamo riferirci al rapporto con un Dio "trascendente" – ossia altro rispetto all’universo e agli esseri umani, dei quali viene considerato Creatore –, l’affermazione è da considerarsi vera, in quanto tale approccio, tipico delle tre grandi "religioni del Libro" (ebraismo, cristianesimo e islamismo) è estraneo non solo al buddismo, ma a tutta la cultura dell’Estremo Oriente (fatte salve le eccezioni che vedremo a suo tempo). Se invece per "religione" si intende, genericamente, la ricerca del divino, allora il buddismo si può senz’altro considerare una religione.

Partire dal comune e fecondo terreno dell’esperienza spirituale

In quarto luogo – si tratta veramente di un punto cruciale e decisivo – occorre tener presente che, al di là delle notevoli, innegabili e a tratti addirittura abissali differenze a livello di temi certo non trascurabili – quali la concezione dell’uomo, del suo posto nell’universo e in alcuni casi addirittura del suo destino eterno –, resta comunque un terreno di importanza fondamentale nel quale tutte le religioni si incontrano. Ossia, quello dell’esperienza spirituale a livello più profondo, dell’ineffabile incontro col divino che culmina nella mistica.

Il dialogo presuppone innanzitutto la consapevolezza della propria identità: "dialogare" significa aprirsi a un confronto costruttivo che permette di scoprire punti comuni. Tutto ciò non avrebbe senso, se le posizioni fossero già identiche o anche soltanto molto simili.

Infine, essere disposti a imparare dagli altri, ossia, per dirla in termini brutali, a "farsi furbi". Si tratta di un discorso particolarmente importante e urgente per gli operatori pastorali. Mi spiego: il cristianesimo è per sua stessa natura completo, in grado di rispondere in pieno a tutte le esigenze dell’uomo. Se poi vi sono nel mondo, specialmente in alcuni Paesi europei, sempre più cristiani affascinati da altre religioni – discorso bilanciato, sul piano numerico, dalla sostanziale tenuta del cristianesimo nei Paesi occidentali, la quale in alcuni di questi è addirittura un’avanzata, nonché dai suoi passi da gigante in tanti Paesi in via di sviluppo – ciò significa che siamo noi a mancare di vivacità e consapevolezza.

Infatti, se il buddismo e l’induismo fanno presa su molti per la loro obiettiva profondità spirituale, ciò non può che essere uno stimolo per noi, per conoscere e proporre la nostra spiritualità, la quale non può certo essere considerata da meno. Il discorso si fa particolarmente cruciale in un Paese come il nostro, dove, a causa di complesse vicende storiche, si ha troppo spesso l’impressione che la spiritualità cristiana venga messa in ombra a opera di non pochi operatori pastorali, specialmente in alto loco, a beneficio dell’insistenza su tematiche morali, sociali e politiche. A buon intenditor...

Una provocazione dal Concilio,ancora valida e attualissima

Per concludere, un piccolo promemoria per i cultori dell’ortodossia a oltranza: vale sicuramente la pena di citare qualche passo di quel magnifico documento che è la dichiarazione Nostra aetate, sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane. Il documento, che risale al concilio Vaticano II, è tanto più illuminante se si pensa che, redatto quarant’anni orsono, suona estremamente attuale.

«Nel nostro tempo», si dice nel testo conciliare, «in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, e anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino» (NA 1).

E ancora, prima di ricordare, ovviamente, la propria missione di «annunciare il Cristo, che è via, verità e vita (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose» (NA 2), il Concilio afferma che «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste [ossia nelle religioni altre rispetto al cristianesimo] religioni. Infatti essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Di conseguenza «essa esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovino in essi» (NA 2).

(da Vita Pastorale n. 3, 2007)

Condizioni per incontrare il Signore

Un invito. Impariamo a pregare

 


Le riflessioni che qui pubblichiamo sono tratte da un opuscolo scritto a mano intitolato Impariamo a pregare. L’autore vive da alcuni anni una specie di vita eremitica. Ciò che propone è perciò frutto della sua esperienza, o meglio, del suo cammino spirituale. Si chiama p. Franco. Dietro di sé ha una storia interessante che merita di essere conosciuta, poiché manifesta quanto sono mirabili le vie di Dio, e creative quelle dello Spirito. È lui stesso a raccontarcela.

Mercoledì, 17 Ottobre 2007 02:19

Guglielmo di Saint-Thierry (Robert Thomas)

Guglielmo di Saint-Thierry

di Robert Thomas

Guglielmo di Saint-Thierry, nato a Liegi verso il 1085 da nobile famiglia, lascia il suo paese e va a studiare in Francia, probabilmente a Laon. Rinunciando poi, alla vita universitaria entra, nel 1113, nell’abbazia benedettina di St. Nicaise a Reims. Sei anni dopo, è eletto abate di Saint-Thierry, vicino a Reims.

Da quel momento si trova impegnato dai doveri del suo mandato: la direzione dei suoi monaci, l’amministrazione del monastero, le relazioni esterne Mentre egli compone le sue prime opere, fra cui la “Contemplazione di Dio”, è coinvolto nelle controversie teologiche del suo tempo e preso dal desiderio di rinnovamento che animava le abbazie della regione.

Ma Guglielmo non è un uomo d’affari. E’ un appassionato di Dio: egli. aspira al riposo, alla solitudine con Dio,a lunghe ore di preghiera. Fin dal 1116-1118, aveva incontrato a Clairvaux, San Bernardo e, la bellezza della vita cistercense lo aveva affascinato. Nacque così uno stretto legame di amicizia fra i due uomini. E da quel momento Guglielmo viene assorbito da un ideale molto alto che vorrebbe comunicare attorno a lui. Questo ideale è Bernardo e la vita che questi conduce. Nel 1124, desidera raggiungere il suo amico e vivere presso di lui nella solitudine di Clairvaux; ma Bernardo gli si oppone.

Per undici anni Guglielmo lavorerà alla riforma del suo monastero e di quelli della sua provincia, pur continuando la redazione delle sue opere fino, al giorno in cui, nel 1135, non badando ai consigli dì Bernardo, lascia Saint-Thierry per entrare nell’Abbazia cistercense di Signy, nelle Ardenne.

Lontano da tutto, nel mezzo dei ”campi e dei faggi “ può finalmente dedicarsi a Dio, consacrarsi alla contemplazione. Le opere letterarie si succedono a ritmo accelerato. Gli ultimi anni della sua vita sono divisi fra la difesa della fede cattolica contro alcuni innovatori troppo arditi e la composizione di opere spirituali per le anime avide di perfezione - come per esempio l’ammirevole “Lettera ai Certosini del Monte di Dio “ detta anche “Lettera d’Oro “, un vero trattato sulla solitudine e sulla vita monastica, che formò generazioni di monaci e che san Luigi Gonzaga, sapeva quasi a memoria. Contemporaneamente incomincia a scrivere la vita del suo amico Bernardo. Ma muore l’8 settembre 1148, prima di poter completare l’opera.

Lui che aveva tanto anelato all’incontro con Dio, poteva infine entrare in quella vita eterna dove è possibile vedere colui che si ama e amare colui che si vede.

IL VOLTO DI DIO

Guglielmo di Saint-Thierry,è un uomo affascinato da Dio, consumato dal suo desiderio. Una parola sgorgata dal fondo del suo cuore in una delle sue “Meditazioni”, “il petto gonfio del tuo desiderio “, lo dipinge ammirevolmente. Guglielmo è un uomo appassionato del volto di Dio. Anche quest’altra confessione, che in un’altra delle sue “Meditazioni” rivolge a Dio “brucio dal desiderio di vedere il tuo volto“, lo definisce molto bene.

La sua visione di Dio prende forma in questa espressione biblica di volto di Dio. Facendo affidamento alle parole dei salmi, egli cerca il volto di Dio, vi si ripara e vi si nasconde, è inondato dalla sua luce, la consulta per sapere quel che deve fare e come deve giudicare. Il volto di Dio, è Dio nella sua intima natura, Dio visto faccia a faccia : la visione beatifica nell’al di là, e, fin da quaggiù ciò che ci avvicina maggiormente.

La faccia di Dio, è la conoscenza faccia a faccia, quella che l’Apostolo definisce :“ Allora conoscerò come sono conosciuto. Ora vediamo come in uno specchio in maniera confusa, ma più tardi vedremo faccia a faccia: noi lo vedremo così come Egli è. “ ( 1 Co 13-12 )

L’uomo, fatto per Dio

Ricercare il volto di Dio, cioè l’intimità con Dio, ecco la vocazione dell’uomo:

Si cerca di continuo quaggiù questo volto attraverso l’innocenza delle mani e la purezza del cuore, ciò è la pietà Chi non la possiede ha ricevuto invano la sua anima. La sua vita è inutile o addirittura non vive del tutto, dato che è per vivere di questa vita che ha ricevuto la sua anima.

L’uomo è fatto per Dio: soltanto in lui può trovare l’appagamento di tutti i suoi desideri di pienezza e di felicità.

E, dato che l’uomo è fatto per Dio, Dio lo attrae irresistibilmente: questo bisogno di Dio è inscritto nella natura. Guglielmo dichiara tre volte nelle sue opere, prendendo d’altronde quasi parola per parola un testo di sant’Agostino, che Dio “ affascina l’uomo “, lo strappa da se stesso con il desiderio che gli ispira di possederlo un giorno.

E’ per te, per andare verso di te, che siamo stati creati.

Colui che cerca qualcosa al di là o al di sopra di te, preferendolo a te, cerca invano, nulla è migliore di te.

L’uomo è fatto per Dio: questo non soltanto è insito nella sua stessa natura di creatura, ma anche nella sua storia, per ciò che riguarda il passato,il presente e l’avvenire.

L’uomo, immagine di Dio

Guglielmo ricorda la storia dell’umanità di fronte a Dio, un po’ dappertutto nel susseguirsi delle sue opere, ma in modo particolare nel suo trattato “ Natura e dignità dell’amore.”

Dio ha creato l’uomo a sua immagine, a immagine delle tre Persone divine, della Trinità. A immagine di Dio che è Padre, Figlio, e Spirito, l’uomo è memoria, intelligenza,volontà. Ha la capacità e il felice obbligo di ricordare sempre Dio, di pensare a lui, di amarlo. Così l’uomo è stato creato contemplativo, rivolto sempre a Dio col ricordo, il pensiero, l’amore.

Ciò che sopratutto Dio attendeva da lui era l’amore. Come san Agostino, Guglielmo fà osservare che ogni essere ha un “peso” che di solito lo trascina verso il basso, se si lascia un oggetto questo cade per terra. Tuttavia certi esseri, come la fiamma, sono attratti verso l’alto. E’ così per l’amore: emanato da Dio, come una favilla che sfugge dal focolare, ha tendenza a risalire verso Dio.

Ma libero e sottomesso alla tentazione, l’uomo ha peccato. Egli ha voluto “ essere come Dio “ in un modo sregolato. Allora questa anima bella, che risplendeva della bellezza di Dio guardandola con amore, è stata sfigurata : più nessun ricordo, più nessun pensiero, più nessun amore di Dio. Ecco l’uomo rivolto in maniera disordinata verso la creatura. Invece della rassomiglianza divina ha preso quella degli animali senza ragione: “L’uomo, mentre era in onore non ha capito: si è posto al rango degli animali senza regione, è divenuto simile a loro.” Così Guglielmo interpretava il ritornello del salmo 49, nel suo testo latino.

Fortunatamente il Figlio, che nella Trinità è l’immagine del Padre, si è proposto di salvare l’uomo. Si è incarnato, si è messo a parità dell’uomo e gli ha detto; hai voluto essere come Dio; ora io solo, lo sono veramente,immagine perfetta del Padre e suo simile. Ebbene,eccomi! Imitami, diventa la mia immagine e sarai salvato.

Non è un cammino facile,perchè imitare Gesù, vuol dire passare per la croce per raggiungerlo in cielo. Ma infine, grazie a Gesù Cristo, il cammino è ritrovato e la porta del cielo è aperta. Là in cielo l’uomo, acquisterà la perfetta rassomiglianza con Dio. Sarà la sua perfetta immagine: “Noi saremo simili a lui, perchè lo vedremo così come egli è”. ( 1 Gv. 3-2)

Raggiungere Dio

Come è possibile che l’uomo raggiunga Dio? Risalendo,anzitutto dalle creature al Creatore. Ecco, ciò che Guglielmo scrive nel suo libro "Della contemplazione di Dio":

Tutte le tue gentilezze vanno incontro a colui che sospira per te. Dal cielo e dalla terra, e attraverso tutte le tue creature, esse affluiscono verso di me e mi colmano, o Signore adorabile e amabile, in ogni cosa! E più esse ti proclamano e dimostrano la tua amabilità, più attizzano l’ardore del mio amore verso di te...
Questo è l’esercizio continuo della mia anima appoggiandomi con tutte le mie forze sulle tue ricchezze e sulle tue gentilezze, come ci si appoggia sui piedi e sulle mani, cerco di salire sino a te , in te, Amore supremo, sommo Bene!

Questo testo è senz’altro l’unico in cui Guglielmo parla chiaramente della conoscenza delle creature per risalire a quella di Dio.

Più volentieri parla di risalire a Dio, partendo da se stesso. L’uomo non è infatti una creatura, e anzi, un’immagine di Dio ? E l’anima creata ad immagine di Dio, è come il suo specchio. Conoscersi è dunque conoscere Dio attraverso la propria immagine. All’anima che è evasa da se stessa e si è dissipata, il Signore rivolge questo rimprovero:

Sei uscita da te stessa perchè non ti conosci. Impara a conoscerti, o mia immagine. Potrai, così, conoscere me, di cui sei l’immagine. E, in te, mi ritroverai.

Ma è soprattutto per merito dell’incarnazione del Figlio, grazie a quest’uomo che è Dio, che si può conoscere Dio stesso. Dio si è messo alla nostra portata:

Si poteva immaginare migliore sistemazione, più meravigliosa disposizione per facilitare l’uomo in ascesa verso il suo Dio ? Invece di dover giungere all’altare salendo dei gradini, troverebbe il terreno livellato dalla sua rassomiglianza ( la natura umana del Cristo simile alla nostra); potrebbe tranquillamente avvicinarsi ad un uomo simile a lui, che dalla soglia gli direbbe:” Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv. 10—30)”.

Conoscere Dio come egli è

Raggiungere Dio e conoscerlo attraverso le sue creature, anche se si tratta di se stessi,anche se si tratta della santa umanità del Cristo, è ancora e sempre avvicinarlo attraverso una immagine. E’ ben vederlo in un certo qual modo, ma non ancora faccia a faccia. E’ possibile in questo mondo, questo raggiungimento diretto di Dio? Ecco in breve, la risposta di Guglielmo: E’ assolutamente impossibile . Dio ha dichiarato a Mosè : Nessuno può vedermi e continuare a vivere (Es. 33-20). E tuttavia quando, sotto l’azione dello Spirito Santo, l’amore è “illuminato“ esso diventa un vero senso - Guglielmo lo definisce “il senso dell’amore illuminato”, - e percepisce in un certo modo Dio “tale e quale è”.

Per far sì che un senso corporale percepisca un oggetto, è necessario che, subendo un’impressione si trasformi, in un certo qual modo, in ciò che percepisce. Così l’anima percependo la bontà di Dio per mezzo dell’amore, diventa buona, di questa bontà e, in questo modo, percepisce e conosce Dio che è essenzialmente buono. Una tale conoscenza oltrepassa di molto ogni conoscenza intellettuale:

E’ permesso e possibile all’uomo dotato di ragione di pensare a volte a certe perfezioni divine e di scrutarle - come per esempio la delicatezza della sua bontà, la potenza della sua forza... Ma la sua stessa essenza è assolutamente inaccessibile al pensiero. “Soltanto il senso dell’amore illuminato può, in un certo qual modo, raggiungerla “…

Dio è lui stesso la sua propria vita, e questa vita è divinità, eternità, grandezza, bontà e forza. Esiste e sussiste in sé stessa, dilaga in ogni luogo per la sua immensità e, per la sua eternità, da ogni tempo che potrebbe contenere la ragione o l’immaginazione. La sua verità, la sua eccellenza sfidano ogni fatto da qualsiasi fonte esso venga. Pertanto “il senso dell’amore illuminato e umile, lo raggiunge sicuramente più che qualsiasi pensiero della ragione”.

Non è la visione beatifica, ma ciò che può maggiormente avvicinarvisi quaggiù. Queste linee del Commento al Cantico dei Cantici lo affermano senza ambiguità:

Al momento di questa visita divina, saltano il muro di questa vita mortale sembra separare ancora lo Sposo e la sposa dal bacio perfetto (che è l’unione perfetta del cielo).

Alla fine del suo “Enigma sulla fede”, Guglielmo prende da sant’Agostino la preghiera finale del suo trattato “Sulla Trinità” pur cambiandolo un po’. Vi mette il suo tono personale e lo conclude così:

Che mi ricordi sempre di te, che sempre ti ricordi e ti ami. Un giorno infine, o Dio Trinità, a forza di ricordarmi fedelmente di te e amandoti sinceramente, tu mi rifarai a tua immagine a quella immagine alla quale mi avevi creato.

Tale è la visione di Dio in Guglielmo di Saint-Thierry :un Dio che, nel suo amore prepara l’uomo a contemplarlo faccia a faccia, e che suscita in lui il desiderio di possederlo,di vederlo, di amarlo - ciò che per Guglielmo fa tutt’uno. Un Dio che si è avvicinato all’uomo dandogli il proprio Figlio, la propria immagine; ed il suo Spirito, il suo amore.

L’ITINERARIO VERSO DIO

Vedere Dio è lo scopo della vita cristiana. Ma per vedere Dio bisogna essere puri: Cristo lo ha detto nel Vangelo. Guglielmo all’inizio della sua opera “Sulla contemplazione di Dio” esclama:

Signore mostraci il tuo volto e noi saremo salvi! (S. 79) Ma ahimè, ahimè! Signore, com’è temerario, disordinato, presuntuoso, pretendere di vedere Dio con cuore impuro!

Tutta la spiritualità di Guglielmo di Saint-Thierry consiste in un distacco progressivo dalle cose materiali, in una purificazione sempre più grande del cuore, per giungere fin da quaggiù, a vedere Dio in un faccia a faccia che, pur non essendo quello dell’eternità è tuttavia nella stessa linea e lo prepara.

Le tre tappe della vita spirituale

Nella sua “ Lettera ai fratelli del Monte di Dio “, Guglielmo distingue tre “stati” o gradi nel cammino spirituale, e quindi nell’avvicinamento a Dio, che sono altrettanti gradi di purificazione e di spiritualizzazione: lo “ stato sensitivo “ (che chiama animale dal latino anima), lo”stato ragionevole” e lo “stato spirituale”.

Lo stato sensitivo - Il principiante nella vita spirituale ha ancora un animo debole. E’ trattenuto da tutto ciò che colpisce i sensi: è superficiale, e gli manca l’introspezione.

Ha bisogno di un maestro, di un padre spirituale che se ne prenda cura e che gli imponga l’obbedienza e la mortificazione. Tali sono i due rimedi che raccomanda vivamente Guglielmo di Saint-Thierry: poiché quest’uomo non è ancora guidato dalla sua ragione, ma dai suoi sensi è il giudizio del maestro spirituale che lo guiderà: è necessario che gli obbedisca. A questa prima spogliazione se ne aggiungerà un’altra: il maestro gli imporrà anche mortificazioni corporali, farà “digiunare“ tutti i suoi sensi.

Lo stato ragionevole - Così guidato e poco a poco purificato, questo uomo comincia a essere padrone di se stesso. La sua ragione si rafforza: non si lascia più dominare da tutte le sue impressioni. A quest’anima virilizzata Guglielmo da ora il nome di “animus. “ Ma questo “stato ragionevole”’ non è per installarvisi: l’ascesa continua. E’ durante questa tappa che si fortifica l’anima virile, padrona di sé e del suo corpo; che continua la purificazione non solo dalle cattive inclinazioni, ma anche da tutto ciò ch’è troppo solamente sensitivo, che ostacola l’anima e intralcia la visione di Dio.

E’ nel profondo dell’anima e con la grazia di Dio, che si compie questo lavoro di sgombero delle creature e di se stesso, questa morte del “vecchio uomo“. L’anima si sottomette a tutta una disciplina interiore per controllare e regolare i suoi pensieri. E non è cosa da poco: quanti pensieri passano per la testa in un giorno! Così, poco a poco ci si interiorizza.

Lo stato spirituale - A un certo momento lo Spirito Santo interviene in modo speciale. Era già certamente all’opera in tutto questo lavoro di purificazione e nei numerosi sforzi che l’anima compiva per essere tutta a Dio, ma ora agirà secondo il “suo modo” che è il modo divino. L’anima non farà, ma si lascerà fare. Il suo sforzo consisterà piuttosto a lasciarsi fare - e non è così facile come lo si potrebbe pensare! L’anima si controlla con severità per assicurarsi che la sua volontà è consona a quella di Dio. Ma sopratutto lo Spirito Santo, nei momenti che afferra l’anima la rende conforme a Dio in modo speciale. La rassomiglianza con lui si accentua stupendamente: quest’uomo diventa sempre più immagine di Dio. Irradia questa presa di possesso di Dio. E’ diventato spirituale.

Tutto questo lungo itinerario, lo si comprende, è una purificazione progressiva. Da “sensibile“ si è passato al “ragionevole“ e dal ragionevole allo “spirituale“. Il principiante, molto “terrestre”’ si è innalzato poco a poco , con la grazia di Dio, al di sopra di ciò che prima l’attirava con forza. E’ stato portato a riflettere maggiormente, a rientrare in se stesso, cioè a raccogliersi. Si è liberato dal bisogno di vedere e comprendere tutto, di ricercare i propri comodi in tutto. Lo Spirito Santo, vedendo quest’uomo così purificato, l’ha spinto a lasciare le molteplici riflessioni, la mescolanza delle idee per semplificarlo e dargli un po’ della semplicità di Dio. L’unità si è sostituita poco a poco alla molteplicità. Quest’uomo ora, aspira a un’unica cosa: essere con Dio, solo con lui, più che possibile. “Chi ha Dio con sé, dice Guglielmo, non è mai meno solo di quando è solo.”

Disposizioni interne

Le disposizioni interne che raccomanda Guglielmo di Saint-Thierry sono già state esposte nelle pagine precedenti. Diamo qui, soltanto qualche elemento nuovo.

Per prima cosa notiamo l’attitudine di “generosità“. Guglielmo la raccomanda vivamente:

Da tutti voi, si esige la perfezione, ma non la stessa da ognuno. Se cominci, comincia perfettamente bene. Se hai già realizzato qualche progresso, anche in ciò comportati perfettamente. Se in qualcosa hai raggiunto la perfezione misurati con te stesso e dì con l’Apostolo: “ Non però che io abbia già conquistato il premio o che sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo. Questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù.” (Fil. 3,l2-14)

Da notare anche l’attitudine di vigilanza su se stessi: il modo migliore per conoscersi. Certamente bisogna dimenticarsi, superarsi, ma Guglielmo insiste sulla conoscenza di sé stessi, sulla vigilanza da esercitare sui propri pensieri:

Secondo il precetto dell’Apostolo, “bada a te stesso con la più grande cura,”e, per poter avere sempre gli occhi su di te, distoglili da tutto il resto. Occupati di te stesso: hai in te stesso, un motivo considerevole di occupazione.

Questo brano è tratto dalla “Lettera ai Fratelli“. Eccone un altro nella stessa linea :

Impara a dirigerti, a regolare la tua vita, il tuo comportamento, a giudicarti, ad accusarti, a biasimarti spesso, a non lasciarti andare senza punizione...
Al mattino renditi conto della notte passata e stabilisci un programma da realizzare durante il giorno che comincia. Alla sera esigi il resoconto del giorno trascorso e traccia il piano per la notte che arriva. Controllato così rigorosamente non avrai mai del tempo libero per scherzare.

Guglielmo raccomanda anche il distacco assoluto. Questa attitudine non è contraria a quella precedente: il dovere di dimenticare il creato e di dimenticarsi per occuparsi soltanto di Dio si accorda perfettamente con la vigilanza su se stessi. Guglielmo, nel suo trattato “Natura e dignità dell’amore“, descrive in questo modo l’ultima tappa dell’ascesi verso Dio:

Nell’abbandonare il proprio corpo e tutte le preoccupazioni e i tormenti corporali, l’anima dimentica tutto ciò che non è Dio. Essa non si occupa d’altro che di Dio. Ritiene che esista soltanto: Dio e lei, e dice: Il mio diletto è per me ed io per lui (Ct. 2,16) “ Fuori di te nulla brano sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore, ma la roccia del mio cuore è Dio, e Dio la mia sorte per sempre.”(S .72)

Tale è quindi la spiritualità di Guglielmo di Saint-Thierry purificarsi per unirsi a Dio, vederlo e possederlo. E’, possiamo aggiungere, purificare, strofinare, far brillare l’immagine di Dio; rettificare ciò che l’ha danneggiata; modellarsi su Gesù, che è immagine del Padre, e diventare sempre più immagine di Dio, imitandone le sue virtù, le sue attitudini, le sue disposizioni.

TRE FORME DI ORAZIONE

Guglielmo è un uomo di preghiera, si è dedicato all’orazione, come ne danno testimonianza le sue “Meditazioni” e altre preghiere. Ha scritto sull’orazione e non nasconde il suo desiderio di formare i principianti alla preghiera interiore. Vuole loro insegnare il cammino da seguire per giungere “all’orazione spirituale”.

Per quali strade li conduce? Quali consigli dà sul modo di praticare l’orazione e, sormontare le difficoltà?...

Lasciare tutto

Venite, scaliamo la montagna del Signore, saliamo alla dimora del Dio di Giacobbe, e ci insegnerà le sue vie. Intenzioni, desideri, pensieri, sentimenti, tutte le mie intime energie, venite! Scaliamo la montagna, conquistiamo il luogo dove il Signore vede e si lascia vedere! Preoccupazioni, sollecitudini, inquietudini, fatiche, oppressioni penose aspettatemi qui. Dopo aver adorato ritorneremo a voi.

E’ con questa esortazione che inizia il trattato sulla “ Contemplazione di Dio.” Per Guglielmo si tratta di lasciare da parte, quando si vuol fare orazione, tutto ciò che può impegnare il cuore e lo spirito, e di slanciarsi verso Dio. Spesso servirà da trampolino una parola della Scrittura - come questa Venite, scaliamo la montagna del Signore...”

Questo invito insistente di lasciare tutto al momento dell’orazione non ha che uno scopo: permettere a colui che prega di essere totalmente a Dio, attento a lui, unicamente occupato a conoscerlo ed amarlo.

Guglielmo distingue tre forme di orazione, che corrispondono a tre tappe della vita spirituale già menzionate:l’orazione immaginativa, l’orazione meditativa, l’orazione spirituale.

L’orazione immaginativa

Questa prima forma di orazione è quella del principiante nelle vie dell’orazione, dell’uomo che vive a livello di ciò che cade sotto i suoi sensi. Non potendo afferrare Dio in se stesso, lo raggiunge attraverso la vita, la creazione che lo circonda, l’esistenza concreta di Cristo, così come l’immagina.

Durante l’orazione si applica a considerare una scena del Vangelo, a rappresentarsela a viverla come se fosse presente in attore e non in semplice spettatore. Citiamo un brano caratteristico della Xa Meditazione dove Guglielmo entra in scena:

Non avendo ancora oltrepassato la tappa elementare della mia immaginazione propensa al sensibile, tu permetti, tu accetti volentieri che la mia povera anima, ancora debole, segua la propria natura concentrando la sua immaginazione sulle tue umiliazioni. Così abbraccio la mangiatoia che ti ha visto nascere, adoro la tua santa infanzia, bacio i piedi di colui che è sospeso al legno della Croce, metto la mia mano al posto dei chiodi gridando: “ Mio Signore e mio Dio!...Adoro ciò che con l’aiuto dell’immaginazione: vedo, sento, tocco, del Verbo di Vita.

Ogni orazione del principiante è così incentrata sulla persona di Cristo - di Cristo conosciuto, anzitutto nella sua umanità. E’ per questo che Guglielmo domanda di dare al novizio letture, meditazioni, dove egli possa rappresentarsi con l’immaginazione, le azioni del Salvatore.

Al principiante in Cristo, sarà più proficuo e sicuro, proporre, come soggetto di lettura e di meditazione, le azioni del nostro Redentore. Gli si insegnerà a scoprire una lezione di umiltà, uno stimolo all’amore e agli slanci affettuosi…
Bisogna anche, certamente insegnargli a innalzare nell’orazione il suo cuore, a pregare in modo spirituale, a distaccarsi il più possibile dalle immagini materiali e corporali...
Ma ripetiamolo, sarà più proficuo e sicuro proporre a questo principiante, come soggetto di meditazione e di orazione, la umanità del Signore, la sua nascita, la sua passione, la sua risurrezione. Così, questo spirito ancora debole, che sa solo pensare a realtà materiali e corporali, avrà un oggetto dove fissarsi, qualcosa alla sua portata, a cui potrà aderire con uno sguardo affettuoso… Pur rappresentandosi Dio sotto sembianza umana non si allontana abusivamente dalla verità. Purché la sua fede non allontani Dio dall’uomo, potrà un giorno raggiungere Dio attraverso l’uomo. (nell’umanità di Cristo).

Questo metodo di orazione raccomandato da Guglielmo di Saint-Thierry, è una vera iniziazione alla vita divina: è attraverso Cristo, immagine del Dio invisibile che si raggiunge il Padre.

Accade a volte che, partendo da questa rappresentazione umana di Cristo, l’anima si trova illuminata, infiammata: lo Spirito Santo la invade e le concede di provare un’esperienza autentica della bontà di Dio. E’ ben questa una “orazione spirituale” anche se non sia ancora giunta a questo punto.

L’orazione meditativa

Per eccellente che sia questa prima forma di orazione, non è che una tappa. Perchè si tratta di lasciar cadere poco a poco, tutte queste rappresentazioni, e di “slanciarsi nelle cose dello spirito.” In altre parole, far posto alla meditazione,ai pensieri di fede, e all’espressione i sentimenti intimi:

Questo modo di pregare prende di solito, il suo soggetto da una verità di fede, da un articolo del Simbolo (Credo). Allora ciò che si crede fedelmente in conformità alla fede cristiana, lo si ama in piena verità e semplicità, e la rappresentazione immaginativa delle azioni del Signore Gesù, si trasforma in un sentimento profondo.

Si medita su tale disposizione di Cristo, su tale perfezione di Dio, tale verità di fede che si sperimenta interiormente. Si parla a Cristo, lo si ascolta, si cerca di conoscerlo e di amarlo in un modo migliore. Gli si esprimono i sentimenti del proprio cuore gioia, riconoscenza, fiducia, abbandono. . .Questa orazione “ è uno slancio affettuoso dell’uomo che si unisce a Dio, un colloquio semplice e pieno di abbandono.”

Parla, Signore,ogni tanto al cuore del tuo servo e fa si che le tue consolazioni rallegrino la mia anima! Insegnami a parlarti spesso, a confidarti, mio Signore Dio e Padre, tutta la mia miseria ed i miei bisogni. Fa che ti ami più che me stesso, e che non mi preoccupi affatto di ciò che tu potrai fare di me, purché io faccia ciò che è gradito ai tuoi occhi.

E’ sufficiente sfogliare le “Meditazioni” di Guglielmo per capire come meditasse durante le sue orazioni, si meravigliasse, esultasse, si dimenticasse, si perdesse in Dio. Così questa meditazione , che termina con un ardente aspirazione alla vita eterna, in una ammirevole invocazione allo Spirito Santo:

O Amore, o Fuoco, o Carità, vieni in noi! Sii guida e fiaccola, fuoco ardente e purificatore dei nostri peccati! Paracleto, Consolatore, nostro avvocato e sostegno nella nostra causa.
Scoprici ciò che crediamo, infondici ciò che speriamo! Che possiamo ripeterti:” Il mio cuore te l’ha detto: il mio viso ti ha cercato!” (S. 27,8)

Ma, a questo punto della vita di preghiera, essa non è ancora sempre un’espressione interiore. A volte è l’aridità:

Come lo sparviero che tende le ali verso il mezzogiorno, io tendo le mani a te, Signore, e la mia anima è d’innanzi a te, come terra arida.

Qualche volta le distrazioni ci assalgono. Guglielmo le conosce e, più di una volta ne parla. Per ripetere sempre che la preghiera è innanzi tutto una offerta di sé, un sacrificio offerto a Dio, che non è incompatibile con le distrazioni. Evoca Abramo che doveva scacciare gli uccelli rapaci che si abbattevano sulle vittime immolate (cf. Gn. 15,11): è l’immagine della preghiera quando si è talmente presi dalle distrazioni ch’essa diventa soltanto un combattimento.

Bisogna leggere la sua IXa’Meditazione’ dove lotta contro le distrazioni con una tale energia, fino a che la calma non sia tornata:

Ora ogni traccia di fitta nebbia è sparita. Rivolgo a te, o Luce di verità, occhi più chiari.. .Nascosto nel segreto del tuo viso comincio a parlarti con tutta intimità e familiarità, ti svelo tutti i recessi della mia coscienza. Avendomi tolto questa tunica di pelle che tu avevi dato ad Adamo per coprire la sua vergogna, eccomi nudo davanti a te, tale quale mi hai creato. Tu vedi le mie ferite, dalle recenti alle più antiche. Non ti nascondo nulla, ti mostro il bene che è opera tua, e il male che è opera mia.

L’orazione spirituale

Un giorno, Dio interviene più chiaramente e abitualmente. Numerosi sono i testi in cui Guglielmo parla del passaggio dall’orazione meditativa all’ “orazione spirituale”. Si considerava Cristo in Croce, si meditava il suo amore, ed ecco per l’anima una luce stupefacente sull’amore infinito di Dio:

Non è più una comprensione, frutto faticoso del nostro sforzo umano; non si tratta nemmeno di un battito d’occhi dei nostro spirito accecato dalla tua luce, ma di una tranquilla sperimentazione del tuo amore.
L’anima, tutta illuminata, resta immobile per godere della presenza di Dio tanto quanto è permesso.

Più di una volta Guglielmo nota che, in questi momenti, lo Spirito Santo invade, attira l’anima, stimola il suo amore, e ama in lei:

L’anima è invasa da un fiume di gioia così impetuoso che le sembra di vederti “tale quale sei”, mentre con piacere medita il bene che ci hai dimostrato nell’ammirevole mistero della tua passione. Bene tanto grande quanto te. Bene che è te stesso.
L’anima allora, colma di amore afferra e contiene l’Incomprensibile e l’Incontenibile; comprende l’Incomprensibile. In realtà essa è più catturata di quanto catturi, perchè chi cattura in lei, non è lei stessa, ma lo stesso Amore, che è lo Spirito Santo.

Questa irruzione dello Spirito Santo è un felice sconvolgimento interiore; è un’esperienza spirituale completamente nuova, una trasformazione nel più intimo dell’essere, una vita che invade tatto. L’anima diventa una risplendente immagine divina, è come divinizzata.

Senza dubbio, quando questa esperienza sarà finita, la luce non brillerà più, ma l’anima ne resterà segnata. Quando Guglielmo commenta la frase della sposa del Cantico dei Cantici;”Bruna sono ma bella” la interpreta: dopo la grazia dell’unione, dopo l’esperienza di Dio, non sono più illuminata, sono di nuovo senza fulgore;conservo però, la nuova bellezza che mi è stata data.

Guglielmo non tralascia mai di dire che questa preghiera spirituale non dipende da noi; essa è un dono di Dio. Non sempre l’uomo “spirituale” ne fa l’esperienza. Quando allora non ci viene data, umilmente e senza paura di sbagliare, bisogna accettare di ritornare a un’orazione più semplice.

Così come lo stato ragionevole deve normalmente raggiungere lo stato spirituale, altrettanto è impossibile che lo stato spirituale non ritorni, ogni tanto, a quello ragionevole. Essere senza interruzione sotto l’impulso dello Spirito non è di questa vita.

In altre parole, qualche volta si ritornerà a una scena del Vangelo, ci si rappresenterà Cristo nella sua umanità, si mediterà una verità di fede. Ciò che fa spesso Guglielmo che, lungi dal mettersi fra gli “spirituali“, si pone umilmente fra “le anime deboli”.

A Dio non piace del resto che Guglielmo non sia uno Spirituale! Più o meno a sua insaputa, dimostra attraversi i suoi scritti sull’esperienza di Dio, sull’azione e l’irruzione dello Spirito Santo nell’anima, di essere familiare a queste grazie di unione. Testimoni questi due ultimi testi che dimostrano a che altezze s’innalzava Guglielmo. Lo Spirito Santo fa partecipare l’anima a ciò che è lui stesso : legame d’amore del Padre e del Figlio nella Trinità.

Così è la stupefacente condiscendenza del Creatore per la sua creatura: l’uomo si trova messo, in un certo senso, in questo abbraccio e in questo bacio fra il Padre e il Figlio che è lo Spirito Santo. Si vede unito a Dio da questa stessa Carità che fa l’unione del Padre e del Figlio.

Giunta a questo stadio, l’anima vuole solo ciò che Dio vuole. Essa è matura per questa ultima rassomiglianza a Dio, che Guglielmo chiama l’“unità” di spirito.

Si chiama “unità di spirito“ non solamente perchè lo Spirito Santo la realizza o vi dispone lo spirito dell’uomo, ma. perchè è lo Spirito Santo, lui stesso, Dio-Carità.
In effetti, essa si produce, quando Colui che è l’Amore del Padre e del Figlio, la loro unità, la loro soavità, il loro legame, il loro bacio il loro abbraccio... diventa per l’uomo rispetto a Dio, ciò che in virtù dell’unione consustanziale è per il Figlio verso il Padre e per il Padre verso il Figlio. (o meglio il legame vivente dell’amore).
Quando la coscienza fortunata si trova presa nell’abbraccio del Padre e del Figlio, quando in un modo ineffabile, inesprimibile, l’uomo di Dio merita di diventare, non certo Dio, ma ciò che Dio è per natura: ecco ciò che diventa l’uomo per la grazia.

L’ ORAZIONE NELLA VITA

Per Guglielmo di Saint-Thierry, orazione e vita si richiamano mutualmente e si compenetrano. L’orazione impregna la vita cristiana e tende a divenire continua; e poco a poco la vita cristiana viene trasformata dalla preghiera.

Momenti di preghiera nella giornata

Guglielmo, è chiaro, consacra ogni giorno del tempo alla preghiera . Le sue “ Meditazioni “ e altre preghiere che ci ha lasciato non sono composizioni cerebrali: esse sono l’eco della sua anima, vissute prima di essere scritte. Egli ci insegna a fare altrettanto, a riservare dei tempi di preghiera nelle nostre giornate.

In modo speciale raccomanda una pratica ai suoi occhi molto preziosa: la meditazione quotidiana della Passione di Cristo.

Chiunque ha il sentimento del Cristo sa quanto è vantaggioso alla pietà cristiana, conveniente al servitore di Dio, consacrare ogni giorno un po’ di tempo a rivivere attentamente nel proprio cuore i benefici della Passione di Cristo e della Redenzione per “assaporarli deliziosamente nell’intimo della propria anima e fissarle fedelmente nella propria memoria”.

Queste ultime righe possono sorprendere; esse hanno infatti, un enorme importanza nel pensiero di Guglielmo. Questa meditazione sulla morte e risurrezione del Cristo consiste in un ricordo appassionato e pieno di fede di tutto ciò che il Signore ha sofferto nella sua Passione. Per Guglielmo si tratta di una vera “comunione“, di una “comunione spirituale. E’ sicuro, non vi si riceve fisicamente il corpo e il sangue di Cristo, come nell’Eucaristia, ma la “grazia del sacramento”‘ vi è donata.

Questa “celebrazione” intima, Guglielmo la ricollega non al sacerdozio ministeriale, ma al sacerdozio battesimale di tutti i fedeli:

La celebrazione rituale di questa santa e venerabile commemorazione (la messa), in luoghi e tempi stabiliti è riservata ad alcuni uomini rivestiti di questo ministero. Ma ciò che ne costituisce la realtà spirituale è alla portata di tutti i cristiani a cui s’indirizzano queste parole: “ Voi, proprio voi, siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perchè proclami le opere meravigliose di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce.” (IPt. 2,9) E’ possibile quindi a tutti i cristiani di fare questa celebrazione, di servirsene,di appropriarsene per la propria salvezza in tutti i tempi e in tutti i luoghi. L’unica condizione richiesta è uno slancio di amore.

Guglielmo insiste su questa “ comunione spirituale “ con stupefacente vigore - e sa quel che dice, questo teologo sperimentato ed allo stesso tempo mistico eccezionale :

Se lo desideri, si, se lo desideri veramente, è a tua disposizione a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ogni volta che ti ricordi di ciò che Cristo ha sofferto per te, ogni volta che applichi la tua anima a questa considerazione con fede e affetto, tu mangi il suo corpo e bevi Il suo sangue.

Verso un’orazione continua

Chi pratica l’orazione, sente il bisogno di dedicarsi ancora di più all’orazione, di trasformare la sue giornate e le sue azioni, in una preghiera continua.

In un modo molto concreto, Guglielmo, nella sua “Lettera ai fratelli”, dimostra come anche gli esercizi più “corporali” della giornata - il sonno, i pasti, il lavoro manuale, - possono esser vissuti pur continuando il contatto con Dio, pur rimanendo alla sua presenza. E’ una specie di preghiera continua che ingloba anche i più umili dettagli della vita.

Così, al momento di coricarsi, consiglia di portare con se un pensiero di fede e di addormentarsi con lui. Con molto giudizio osserva che ci si addormenterà tranquillamente, che il riposo sarà pacifico e il risveglio facile e piacevole. Col pensiero della fede che è continuato per tutta la notte, al risveglio si ritrova il proprio slancio e si è pronti a “ritornare a ciò da cui non si è completamente usciti”: l’unione con Dio

Quando stai per addormentarti, porta sempre con te nella tua memoria o nel tuo pensiero qualcosa che ti permetterà di addormentarti tranquillamente, che a volte influenzerà persino i tuoi sogni, e che accogliendoti al tuo risveglio ti restituirà lo slancio del giorno prima.

Lo stesso per i pasti. Guglielmo raccomanda di mantenere la presenza di Dio, di nutrire la propria anima così come si nutre il proprio corpo.

Quando mangi non dedicarti esclusivamente al cibo. Ma, mentre il tuo corpo prende il suo cibo, che la punta della tua anima non trascuri il proprio. Che rimuggini e assimili un pensiero attinto al ricordo della bontà infinita di Dio, o una parola della Scrittura : la tua anima ne sarà nutrita mentre la mediterà o, semplicemente se ne ricorderà.

Quanto al lavoro manuale, se è necessario per guadagnarsi da vivere, ha anche il vantaggio di procurare allo spirito un certo riposo. Ma non deve essere occasione di distrazione. Nel pensiero di Guglielmo, il lavoro manuale assicura non solo la continuità, ma anche l’intensificazione della vita di unione con Dio:

Avrà meno lo scopo di ricreare lo spirito che di assicurare agli sforzi spirituali la conservazione, l’aumento della loro gioia. Lo spirito si riposa un momento, ma non si rilassa mai.

I benefici nella vita cristiana

In chi prega l’anima e il corpo sono segnati dall’orazione. Per prima cosa l’anima anela a una grande purezza. La prima cosa che Dio fa a chi si avvicina a lui è quella di aprire il cammino dell’unione con lui. E per questo Dio lo purifica: il più piccolo attaccamento, fosse anche solo un filo, sarebbe un ostacolo a questa unione . Così Dio ispira all’anima che è assidua alla - orazione il desiderio di una grande purezza:

La sposa che aspira alla visione di Dio,desidera avere un cuore puro, una coscienza pura, una sensibilità pura, una intelligenza pura, una purezza totale.

Nello stesso tempo l'anima conosce un accrescimento delle altre virtù. Guglielmo nel suo "Specchio della fede" ci mostra che le tentazioni che assalgono l’uomo sono di due specie: sensualità per la carne, orgoglio per lo spirito. Per vincere le prime è necessario ricorrere alle mortificazioni corporali; per vincere le seconde bisogna cercare “aiuto: nell’orazione, nella lettura, nella meditazione”. Si lotterà così contro l’orgoglio, meditando sull’umiltà del Salvatore chiedendogli la grazia della conversione...

E’ sopratutto nell’esperienza mistica, quando la grazia si impadronisce dell’anima che le virtù acquistano tutta la loro portata. In particolare le virtù della fede, della speranza e della carità , ma anche le altre, come la pazienza e l’umiltà ricevono un forte impulso. Se contempliamo il Verbo fatto carne, umiliato sofferente, non sorprende che l’anima si accenda del più intenso desiderio di assomigliargli :

Impossibile vedere il Bene supremo senza amarlo. Impossibile non amarlo per tutto il tempo che ci è concesso di vederlo. Così vero che poco a poco l’amore dell’uomo perviene a una certa rassomiglianza con un altro Amore: quello che ha indotto Dio a farsi simile all’uomo prendendo l’umiliazione della condizione umana. E questo per stabilire l’uomo in uno stato di somiglianza con Dio, facendolo partecipare alla sua vita divina per mezzo della glorificazione.
A quest’uomo sembra dolce, allora, essere associato all’umiliazione della somma Maestà,diventare povero della povertà del Figlio di Dio, conformarsi alla divina Sapienza, vivere interiormente i comportamenti di nostro Signore Gesù Cristo.

L’orazione non solo favorisce la crescita delle virtù, ma agisce anche sul corpo stesso. Più di una volta Guglielmo constata che quando l’anima ha incontrato Dio in una grazia di unione, in una esperienza intima, il corpo si spiritualizza e irradia qualcosa dell’anima. Parlando dei monaci di Signy o di Clairvaux, Guglielmo scrive;

La luce che brilla nel loro interno, si riflette con tutta naturalezza , sui loro visi. Essa comunica ai loro lineamenti, a ogni loro comportamento una ammirevole semplicità: :e quasi una provocazione del tuo amore... Perfino i loro corpi prendono un aspetto spirituale, i loro visi angelici riflettono una bellezza unica.

Se è vero che Guglielmo di Saint—Thierry è stato un Maestro di vita spirituale, una guida eminente per tutti quei monaci che al XII° secolo, lo hanno conosciuto e amato, hanno gustato le sue opere e “bevuto“ le sue parole, oggi ancora per chi legge assiduamente i suoi scritti e lo prega, può diventare un maestro un padre spirituale, un amico. Una guida nelle vie dell’orazione.


Lo Spirito Santo nella vita della Chiesa

di P. Pelagio Visentin osb

Non è tanto facile parlare dello Spirito Santo: tutti conoscono la definizione del «grande Dimenticato», come si è detto, e da vari anni si sta cercando di rimediare a questa carenza della teologia e della spiritualità occidentale. Tutti sanno infatti che i nostri fratelli separati d’Oriente, in particolare, sono molto sensibili a questo tema e trovano che la nostra teologia e, per conseguenza, anche la nostra spiritualità sono piuttosto povere a questo riguardo.

Già Leone XIII con alcune classiche encicliche sullo Spirito Santo ha tentato di rimediare a questa insufficienza teologica; anche il concilio Vaticano II ha dato preziosi elementi per un approfondimento ed un arricchimento della riflessione cristiana sullo Spirito Santo. Dobbiamo però essere sinceri e dire che c’è ancora molto da indagare e da meditare perché la teologia dello Spirito Santo sia veramente una realtà viva e presente.

1. La «Chiesa di pentecoste» e lo Spinto Santo 

Per nostra fortuna lo Spirito Santo è presente anche quando noi non ci pensiamo, ma è ovvio che una presa di coscienza più immediata potrebbe essere un grande aiuto anche per la Chiesa di oggi. Penso che il rinnovamento della Chiesa, oggi come domani e sempre, non potrà essere ottenuto soltanto aggiornandosi alle esigenze ed ai segni dei tempi, ma tornando ad uno studio, ad una riflessione, ad una meditazione profonda su quello che vuol dire il dono dello Spirito Santo da parte di Gesù, l’ultimo dono che egli ci ha la sciato prima di salire al cielo.

E per questo credo che la Chiesa, di oggi e di sempre, abbia bisogno di pensare al suo primo modello inarrivabile: quella che potremmo definire la «Chiesa di pentecoste», la comunità di pentecoste, dove il dono dello Spirito era ancora un elemento freschissimo, nuovo.

I Vangeli ci hanno narrato prima di tutto la discesa dello Spirito Santo sul Signore Gesù. Già nell’incarnazione l’arcangelo Gabriele diceva alla Madonna: «lo Spirito Santo scenderà su di te e ti riempirà della sua forza divina»; poi lo Spirito Santo scende su Gesù al Giordano.

Dopo i Vangeli, il libro classico, fondamentale a questo riguardo è, come tutti sanno, il libro degli Atti degli Apostoli, dove si narrano le varie discese dello Spirito Santo sopra la Chiesa, sopra la comunità dei discepoli di Gesù. Siamo quindi in continuità con i Vangeli, anzi gli stessi Atti degli Apostoli sono stati definiti «il Vangelo dello Spirito Santo».

Questo libro, scritto da Luca, nel capitolo 2 narra prima di tutto la discesa spettacolare nel mattino di pentecoste; poi, successivamente, ripetute volte, ricorda ua venuta, un dono, una missione dello Spirito Santo: sopra Pietro e Giovanni con la comunità dopo la persecuzione (4, 31); nel caso di Filippo, che aveva battezzato in Samaria, quando gli Apostoli vanno poi a dare lo Spirito Santo (8,17); importantissima è la discesa dello Spirito Santo nella casa di Cornelio, dopo la predicazione di Pietro (10,44); infine su un gruppo di discepoli a Efeso (19,6).

Parecchie volte Luca ritorna su questo dono che è conferito a tutti. E’ stato notato anche che tutte queste discese dello Spirito Santo hanno alcune tematiche fondamentali in comune: per esempio lo Spirito discende là dove una comunità di fratelli è unita, e per accrescere questa unione. La mattina di pentecoste i discepoli erano tutti «congregati in unum», in unità di spirito: lo Spirito discende ed aumenta, intensifica questa unità. Lo Spirito scende volentieri dove trova la Chiesa in preghiera come nel Cenacolo dove è in attesa del dono dello Spirito.

La venuta dello Spirito Santo è messa in connessione col battesimo come un suo completamento, cioè quello che chiamiamo oggi la cresima o la confermazione. Altro nesso con la parola di Dio, che ha una forza irresistibile, un’espansione missionaria proprio per il dono dello Spirito. Infine coi carismi: dove c’è lo Spirito c’è abbondanza di carismi.

Ecco dunque che la Chiesa di pentecoste è tutta permeata, vivificata da questa presenza, da questo dono dello Spirito ed è proprio la sua venuta che inaugura e porta a maturità la nuova comunità messianica. Si può dire che la Chiesa è nata già quando Gesù ha chiamato i discepoli; oppure che la Chiesa è nata, secondo la teologia dei Padri, da Cristo che si offre sulla croce, dal suo costato aperto dalla lancia. Tutto questo rimane vero, però la Chiesa appare come un fatto pubblico e solenne, si presenta davanti al mondo precisamente la mattina di pentecoste.

E avviene veramente qualche cosa di grandioso. questa Chiesa, che era nata prima nel cuore di Gesù ed era limitata ad un piccolo gruppo, diventa la vera comunità della nuova economia ed il discorso di Pietro la mattina di pentecoste spiega precisamente perché essa è la nuova comunità messianica: quel dono dello Spirito Santo che i profeti avevano predetto e promesso tante volte, adesso è disceso con abbondanza su tutti i presenti e questo, Pietro spiega, vuol dire che sono arrivati i tempi messianici, definitivi.

Lo Spirito è la garanzia, ormai, della presenza e dell’azione di Dio, azione permanente. Ireneo riassumerà meravigliosamente questa fede della Chiesa: « Ubi Spiritus, ibi Ecclesia» una bellissima, sintetica definizione della Chiesa. Egli in lotta con gli gnostici, voleva dire che lo Spirito non si comunica per via esoterica, segreta, di certi discepoli che pretendevano di avere rivelazioni attraverso canali particolari, ma piuttosto attraverso la trasmissione ufficiale della Chiesa, quella apostolica, attraverso i successori degli Apostoli in particolare. La Chiesa diventerà d’ora innanzi una dimora stabile dello Spirito Santo, il segno permanente di questa azione divina in mezzo agli uomini.

Del resto questa connessione dello Spirito Santo con la Chiesa la ricordiamo continuamente anche negli articoli del Credo. Purtroppo parecchi fedeli, quando recitano il Credo pensano forse che esso sia una lista, un elenco di verità indipendenti una dall’altra o pensano anche che non vi sia un nesso logico tra i vari articoli del Credo. Lo studio storico più approfondito dimostra invece che il Credo non è un elenco di verità ordinate secondo un principio sistematico, ma piuttosto presenta la storia salvifica, l’opera creatrice del Padre; segue l’opera del Figlio, incarnato, morto e risorto; e finalmente si arriva all’ultima parte del Credo, allo Spirito Santo.

Ora subito dopo il «Credo nello Spirito Santo» si aggiunge «Credo la santa Chiesa cattolica»: non vi è un accostamento soltanto casuale, una giustapposizione, ma un nesso profondo perché per lo Spirito Santo esiste la Chiesa, e la Chiesa è santa proprio per l’azione dello Spirito Santo. Segue la «remissione dei peccati» perché è precisamente lo Spirito Santo, come vedremo più avanti, che santifica e rimette i peccati, purifica la Chiesa.

Si passa poi a «risurrezione della carne», la vita escatologica di cui lo Spirito Santo è la primizia, la caparra. Tutto dunque è articolato secondo la storia salvifica.

Si vuol esprimere una connessione in radice, fondamentale tra la Chiesa e il dono dello Spirito Santo. Proprio allora vediamo che quel piccolo gruppo, quel manipolo di discepoli di Gesù poteva sembrare, ad un osservatore esterno, una piccola setta separatista dal giudaismo ufficiale: diventa invece la Chiesa «cattolica», cioè universale, portatrice di una salvezza universale che abbraccia il mondo intero.

Se leggiamo attentamente i primi capitoli degli Atti degli Apostoli, troviamo narrata una vicenda meravigliosa: nessun giudeo avrebbe avuto il coraggio allora di aprire la Chiesa al torrente impetuoso dei gentili, se non fosse avvenuto quello che è avvenuto la mattina di pentecoste, col dono delle lingue, in cui lo Spirito Santo prendeva possesso di tutte le razze, di tutte le culture.

Ancora più significativo su questo tema specifico, il fatto riferito nei capitoli 10-11 degli Atti degli Apostoli, dove si narra la piccola ma importante pentecoste nella casa di Cornelio, quando Pietro parla e poi «cadde» lo Spirito Santo sui presenti approvando la sua apertura ai gentili, il suo coraggio di ammettere anche i gentili alla pari, nella Chiesa, con tutti i fratelli giudaizzanti.

Osservano molto bene gli specialisti degli Atti che quei capitoli, in cui è narrata in tutti i particolari la vicenda di Pietro che - dopo la visione del lenzuolo a loppe e dopo il battesimo di Cornelio - deve giustificarsi a Gerusalemme davanti ai giudeo-cristiani di quello che aveva fatto, proprio quei capitoli sono estremamente importanti: sono la cerniera tra la prima parte degli Atti in cui il perno è Pietro e la seconda parte, in cui entra in scena Paolo.

Luca, abilissimo, da discepolo di Paolo, indirettamente polemizza contro i giudaizzanti e vuol far capire che non è stato Paolo a portare questa novità, ma è stato Pietro, nella casa di Cornelio, che ha avuto questa rivelazione: lo Spirito Santo stesso ha preso possesso ormai definitivo di tutti i popoli: allora la Chiesa è nata universale, per questo dono dello Spirito Santo.

Nell’economia dell’incarnazione anche Gesù si chiama Paraclito. «Vi manderò un altro Paraclito», egli dice: Gesù era l’assistente a fianco degli Apostoli e quindi interveniva personalmente per tutti i loro bisogni. Egli promette però «un altro Paraclito», un altro assistente: all’economia dell’incarnazione succede ora l’economia dello Spirito Santo, non per antitesi ma per un compimento, da quando Cristo, ormai, è partito per il cielo.

Senza dubbio Gesù non ha abbandonato la Chiesa, è sempre vivo e presente in essa, ma agisce in un altro modo, su un altro piano, in parte servendosi di mezzi visibili, sacramentali, che prolungano la sua umanità, concreta, appartenente al nostro mondo e in parte attraverso il flusso misterioso, segreto dello Spirito Santo: la sua presenza e la sua azione, quindi, sono diverse, ma non meno reali ed efficaci.

ad agire in un altro modo Tertulliano ha scritto una frase mirabile, sempre sintetica e forte come è nel suo stile, ossia che Gesù, partendo, ha lasciato vicariam vim Spiritus sui, ha lasciato la vis vicaria, la forza che doveva agire al posto suo, svolgendo la missione stessa che egli aveva svolto fino allora in mezzo ai fratelli, nella sua Chiesa.

Questa Chiesa di pentecoste, con la sua fisionomia autentica, dovrà essere sempre il punto di riferimento, il paradigma a cui la Chiesa dovrà rifarsi continuamente, ogni volta che vuole rinnovarsi in profondità oggi e sempre.

2. La Chiesa e lo spirito di unità

Vediamo ora più specificatamente che cosa fa lo Spirito Santo nella Chiesa. Sempre in modo molto sintetico, globale, panoramico.

soltanto conquista da parte nostra ma dono, al quale poi dobbiamo adeguarci anche con le nostre virtù e con il nostro sforzo, la nostra collaborazione personale.

Lo stesso identico Spirito che era presente nel Cristo Capo (ricordiamo che la sua umanità era piena di Spirito Santo), si diffonde d’ora innanzi come dono pasquale in tutto il corpo della Chiesa: lo Spirito Santo diventa così precisamente l’anima della Chiesa, come dice la tradizione cristiana, il motore segreto, la molla che muove la Chiesa. Oppure sarà l’Io fondamentale, quello che sant’Agostino ha chiamato una mystica persona: un tema ricco e profondo.

La Chiesa è una “mistica persona” grazie a quest’unica presenza, invisibile e misteriosa ma reale, che unifica tutta la Chiesa: lo Spirito Santo. Un tema che un teologo recente, in un libro edito adesso anche in italiano, ha sviluppato ampiamente.

Del resto la Mystici corporis ha riassunto splendidamente la teologia tradizionale patristica quando ha detto che lo Spirito Santo è «totus in Capite, totus in Corpore, totus in singulis membris». Lo Spirito nella sua pienezza era in Cristo, adesso «totus» è presente nella Chiesa, «tutto» è presente anche in ogni singolo membro. E’ questo che fa «una la Chiesa, perché la sua anima profonda è questa presenza attiva dello Spirito Santo.

Dunque lo Spirito, adesso, dovrà animare e vivificare tutto all’interno della Chiesa. Unifica il singolo uomo sul piano personale e morale, in quanto in noi c’è una componente fisica e una spirituale e ci sentiamo attirati da tante passioni, da tanti interessi. Soltanto lo Spirito riesce a purificarci e a unificarci per farci vivere «secondo lo Spirito», direbbe Paolo, secondo cioè la vita nuova che viene da Dio.

E’ lo Spirito che purifica e ci unifica col dono dell’amore, ma lo Spirito opera anche l’unità sul piano sociale, ecclesiale unifica tutte le membra, col capo che è Cristo e le unifica nei corpo l’una all’altra, sulla linea orizzontale, per dire così. Lo Spirito che nella vita trinitaria è il «nexus amoris» o il «vinculum amoris» tra il Padre e il Figlio, crea anche nella Chiesa un vincolo profondo di ciascuno con il Capo-Cristo e anche tra noi. Ecco l’unità creata in profondità dallo Spirito Santo.

Nel dono di pentecoste vediamo come questo Spirito diventa efficacemente un dono di tutti, un bene di tutti, senza più distinzioni di razza, di sesso, di età, di condizione sociale.

Basta ricordare la profezia di Gioele, che Pietro cita nel giorno di pentecoste: «Sopra i miei servi e le mie serve, sopra i giovani e i vecchi...»: tutti profeteranno, tutti avranno questo dono della profezia dallo Spirito Santo presente. E’ interessante sottolineare che non c’è alcun riguardo al sesso e all’età (due volte si dice: «ancillas meais»: in riferimento alle donne). Quello che prima nell’A. Testamento, era un dono saltuario, di tanto in tanto, di alcuni privilegiati, diventa un bene comune permanente.

Questa verità, però, naturalmente, non toglie che lo Spirito Santo abbia anche un particolare dono, un carisma per i pastori della Chiesa, proprio con la funzione di servire all’unità. Tutti collaborano, tutti devono convergere verso questa unità profonda.

E questa unità, naturalmente, non è soltanto estrinseca, o poggiante su qualche elemento (potrebbe essere il diritto canonico, o la lingua latina come tanti pensavano ritenendo questi elementi quasi essenziali). Non sono i mezzi esterni soltanto a produrre l’unità, ma è questa anima interiore, questa carità questo vincolo di amore, frutto della presenza attiva dello Spirito.

E questa l’unità della Chiesa, in una profondità tale che diventa per noi misteriosa.

Il giorno di pentecoste lo Spirito Santo è sceso su tutti, prima sugli Apostoli, poi su tutto il corpo della Chiesa. Noi cattolici però affermiamo che lo Spirito Santo agisce anche mediante le istituzioni da lui volute: i pastori hanno ricevuto un triplice deposito - della fede, dei sacramenti, dell’autorità - proprio per un dono divino. Gli Atti degli Apostoli ricordano precisamente che accanto al dono comune, di tutta la Chiesa, c’è anche qualche dono e ruolo particolare: per esempio per l’elezione di Mattia, oppure in Atti 1,2 dove si dice che Gesù ha scelto gli Apostoli «per Spiritum Sanctum».

L’azione speciale diventa chiarissima al capo 13, quando lo Spirito Santo dice alla comunità cristiana: «Separatemi, mettetemi da parte Paolo e Barnaba per la missione che io darò loro»; oppure con Giacomo, al capo 6: un’altra volta lo Spirito Santo interviene per illuminare e dirimere una questione particolare. Chi non ricorda poi il discorso di Paolo agli anziani di Efeso, quando dice loro: «Lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a reggere la Chiesa di Dio» (20, 28)? C’è, dunque, un’azione, una presenza, un dono dello Spirito Santo a tutta la Chiesa, senza nessuna distinzione, ma c’è anche una presenza, un dono particolare per alcuni che hanno una funzione, un ministero da svolgere dentro la Chiesa. Toccherà precisamente all’azione segreta ma delicatissima dello Spirito Santo unificare, far servire all’unità tanto il principio dell’autorità quanto i carismi.

E’ vero che nel passato, nella teologia occidentale, i carismi sono stati un po’ dimenticati; tutta l’attenzione era rivolta all’aspetto istituzione, all’aspetto gerarchico: la storia invece dimostra che molti rinnovamenti spirituali della Chiesa sono avvenuti non per una iniziativa dall’alto, ma da un dono suscitato dal basso. Chi non ricorda san Francesco d’Assisi? Anche il movimento monastico è venuto dallo Spirito Santo che spira in tutto il corpo della Chiesa e la rinnova, quando crede opportuno. E’ avvenuto diverse volte questo fenomeno nella storia.

Paolo, però, che è il grande teologo dei carismi, sa anche relativizzarli: di fronte alla carità, per esempio, che è il dono supremo, dice: «Cercate il dono più alto che è la carità» fra le virtù teologali o altre manifestazioni straordinarie (1 Cor 12,31). E sa anche subordinarli al principio dell’autorità apostolica: difatti proprio nella Chiesa di Corinto interviene per regolare il buon uso di questi carismi.

Non è vero, dunque, che la Chiesa, come sembra da un recente libro di Hans Küng, nella comunità di Corinto appaia soltanto carismatica, in quanto Paolo, proprio in quella Chiesa interviene per regolare lo svolgimento della vita carismatica e perciò fa appello alla sua autorità apostolica. La Chiesa ha dunque il compito di vigilare, di esaminare.

Naturalmente Paolo dice anche che non bisogna estinguere il dono dello Spirito, ma saper discernere, accettare tutto quello che di buono spira nel corpo della Chiesa... E proprio perché tanto l’autorità della Chiesa quanto i carismi derivano da uno stesso Spirito, è impossibile, per sé, sul piano obiettivo, un conflitto tra loro; quindi una ribellione, una rottura, la nascita di una setta non sono carismi autentici, non si può dire che ne abbiano la vera fisionomia.

Unità, però, non vuol sempre dire uniformità ed alle volte - anche questo appartiene alla storia della Chiesa - ci sono delle tensioni feconde che aiutano il cammino, l’approfondimento di certe verità nella Chiesa, naturalmente sempre nella carità e nel dialogo. Così possiamo trovare il punto di equilibrio, ma è lo Spirito Santo con la sua presenza che deve salvaguardare l’unità e la più ricca varietà nella vita della Chiesa.

Aggiungiamo tuttavia che la Chiesa non ha mai il monopolio dello Spirito Santo in modo da usarne come vuole, né si identifica totalmente con lo Spirito Santo, perché la Chiesa è fatta anche di uomini e peccatori. Lo Spirito spira sempre dove vuole e sappiamo - anche per una affermazione esplicita del Vaticano II nel decreto sull’ecumenismo, n. 3 - che agisce anche al di là dei confini istituzionali e quindi è presente un’azione, un dono dello Spirito Santo anche presso i nostri fratelli non cattolici, perché lo Spirito Santo conserva sempre la sua libertà sovrana di agire dove vuole. Naturalmente se lo Spirito Santo agisce anche nelle comunità separate, è proprio per stimolarle e stimolarci tutti verso l’unità.

3. La Chiesa e lo spirito di verità

Vediamo ora un altro aspetto: la presenza dello Spirito Santo nell’ambito della verità.

Lo stesso Spirito, che scruta le profondità di Dio, come dice Paolo (1 Cor 2,10) quello che «ha parlato per mezzo dei profeti», si è servito di loro come strumenti (non tanto meccanicamente, ma rispettando il loro stile, la loro personalità), quello Spirito che riempiva l’umanità del Verbo incarnato, è presente anche oggi nella Chiesa, che deve proclamare questo messaggio al mondo, deve portare a tutti la parola di Dio, deve illustrarla, interpretarla.

Certo, è il Verbo la parola totale e definitiva inviata al mondo, ma lo Spirito è dato proprio perché questo dono della parola continui ad agire e lo Spirito Santo agisce tanto in chi predica e propone autorevolmente la parola da parte di Dio, col magistero ufficiale della Chiesa, se volete, quanto in chi ascolta. Anzi, sarebbe inutile che la Chiesa predicasse, portasse questo messaggio, se lo Spirito non agisse nel cuore di quelli che devono accogliere questo messaggio di fede: è lo Spirito che genera la fede nel cuore e quindi lo apre ad accogliere la parola di Dio.

La Dei verbum al n. 12 ha detto molto bene, ispirandosi ai Padri: «Bisogna leggere ed ascoltare la Scrittura con lo stesso Spirito, o sotto l’influsso dello stesso Spirito che ha ispirato la prima volta gli autori sacri». Se non è lui che apre il cuore, che tocca l’intimo dell’anima perché penetri la parola, il seme del Verbum Dei, e perché sia fecondo nell’anima, è inutile la predicazione esterna. Ecco quindi l’azione dello Spirito nella Chiesa dalla parte di chi predica e dalla parte di chi ascolta.

E’ compito speciale dello Spirito Santo inoltre attualizzare la parola di Dio, perché non rimanga un passato ma una forza attiva e presente. Tocca allo stesso Spirito personalizzare quella parola e ciò avviene quando il cristiano si trova sotto l’impressione netta e profonda che questa parola è rivolta a lui personalmente, in quel momento. Così pure lo Spirito Santo aiuta a interiorizzarla, cioè a farne alimento della propria vita, qualche cosa che continua a risuonare, a penetrare dentro, altrimenti «invano - direbbe sant’Agostino - risuona fuori il Verbum”.

La Scrittura presenta il nostro atteggiamento di fronte al messaggio con termini assai significativi, che sarebbero da meditare uno per uno: è un invito, un’offerta, una proposta, una attrazione, una rivelazione interiore, un’unzione dello Spirito. Siamo ben lontani da una trasmissione scolastica di nozioni, quando invece si tratta di una azione molto più intima, profonda e segreta.

Lo Spirito Santo con la grazia «preveniente» agisce nel momento in cui il cuore deve aprirsi al senso della fede, egli produce una mozione interiore all’anima perché aderisca alla verità, inevidente per se stessa, e quindi anche nell’oscurità sappia aderire alla parola di Dio, sull’autorità di Dio che parla. Lo Spirito Santo aiuta anche la crescita, la penetrazione, l’assimilazione interiore e così agisce anche perché ci sia una comprensione e applicazione sempre nuova delle verità eterne lungo tutto il cammino della Chiesa. Vedi le applicazioni concrete del Vangelo di oggi per esempio nel campo sociale.

E’ stato definito molto bene e in base agli stessi testi scritturistici: lo Spirito Santo è una memoria vivente che richiama nella Chiesa le verità che Gesù ha portato, la parola di Dio. Di fatto Gesù ha detto: «suggeret vobis omnia» (Gv 14,26), egli vi richiamerà alla mente quello che vi ho detto, vi annunzierà il futuro e vi farà penetrare dentro la verità. Così egli assisterà il magistero della Chiesa, perché, in certi momenti più solenni non erri, perché custodisca ed interpreti autorevolmente il deposito della rivelazione: «visum est Spiritui Sancto et nobis» (At 15,28) - è la definizione del concilio di Gerusalemme -. Analogamente egli agisce anche nel sensus fidei del popolo cristiano, diffuso in tutto il corpo della Chiesa, per uno sviluppo omogeneo della verità, che deve essere sempre fedele al dato, cioè a ciò che Dio ha consegnato una volta per sempre alla Chiesa.

Ma, mentre è fedele al dato, è anche sempre aperto a una crescita indefinita perché non finiremo mai di penetrare questa verità meravigliosa. Tutto questo intrecciarsi invisibile della causa divina con l’apporto dell’intelligenza umana, aiuta la Chiesa a scoprire sempre nuovi aspetti della verità.

E’ precisamente dono dello Spirito l’equilibrio dove si risolve una antinomia apparente: non l’atteggiamento di coloro che oggi si chiamerebbero i conservatori, i fissisti, i quali ritengono che tutto è stato risolto una volta per sempre, tutto è chiarito e penetrato; ma neanche l’altro atteggiamento antitetico dove tutto è sempre da rifare col relativismo che attende dal progresso storico nuove verità sconosciute. Si tratta invece di conciliare la fedeltà completa, profonda al dato rivelato con la novità imprevedibile della luce divina che si proietta sulle cose umane, e su tutto il cammino della storia. Qui possono affiorare aspetti nuovi della verità che prima sfuggivano: lo Spirito è sempre nuovo e rinnovatore.

4. La Chiesa e lo spirito di santità

Un quarto aspetto: lo Spirito Santo che è santità e amore all’interno della vita trinitaria, deve agire anche sotto questo aspetto nella Chiesa, anzi dipende da lui il fiorire della santità della Chiesa. E’ evidente che qui la santità non è soltanto una santità morale, di virtù, conquista da parte nostra, è una santità ontologica in quanto partecipazione alla vita divina, comunione con Dio, dal momento che Dio ha preso possesso di quest’anima o di questo popolo.

«Eritis mihi populus peculiaris. (cf. Dt 7,6), cioè che io ho messo da parte per santificarvi in particolare. Lo Spirito Santo così sarà presente in ogni santificazione ed in ogni consacrazione. Quando Dio comunica qualche cosa della sua vita divina, della sua santità, ecco che troviamo presente lo Spirito, anche se la nostra teologia scolastica occidentale non ne ha tenuto conto abbastanza. E’ impossibile, per esempio, dal punto di vista della teologia orientale, spiegare la grazia sacramentale di tutti i sacramenti senza un riferimento immediato allo Spirito Santo.

Si potrebbe illustrare questa verità cominciando dal battesimo. Giovanni Battista ha parlato del battesimo «in acqua e Spirito Santo» (cf, Gv 1,33) e nel Giordano scende su Gesù proprio lo Spirito Santo. Nella liturgia del sabato santo diciamo splendidamente: «Discenda nella pienezza su questa fonte la virtus dello Spirito Santo»: dipende da qui la forza rigeneratrice e santificatrice del battesimo. E lui il creatore, lui il rinnovatore. E come nel battesimo tanto più nella cresima che è il tema illustrato da altri.

Il sacramento della penitenza: lo cito subito perché è un prolungamento del battesimo. Anche qui la presenza dello Spirito Santo è presenza necessaria. Ricordiamo che proprio la sera di pasqua Gesù ha detto: «Ricevete lo Spirito Santo; a quelli a cui rimetterete i peccati saranno rimessi» (Gv 20,22-23): ecco lo Spirito per rimettere i peccati, e in positivo farci partecipi della santità divina. E un’orazione pasquale alla fine dice esplicitamente: «Quia ipse est remissio omnium peccatorum”.

I nostri fratelli orientali hanno vivissimo il senso, proprio nella prassi penitenziale, di questa presenza dello Spirito a tal punto che certe volte - e qui forse noi latini non saremmo d’accordo ma bisognerebbe fare un discorso molto più a fondo sulla loro teologia - attribuirono il potere di rimettere i peccati anche a «dei pneumatici o carismatici», per la grazia dello Spirito che riempiva la loro vita anche senza essere sacerdoti.

E’ ovvio il discorso anche per l’eucaristia. Dopo le nuove anafore, tutti sappiamo, per grazia di Dio, come è tornata esplicita la invocazione (epiclesi) dello Spirito Santo prima di consacrare i doni e dopo la consacrazione dei doni, sui presenti che devono partecipare ai frutti dell’eucaristia.

Si può affermare altrettanto a proposito dei sacramenti sociali, per esempio il sacramento dell’ordine. Avviene sempre con l’imposizione delle mani e l’invocazione: «Emitte.Spiritum tuum». Il concilio di Trento ha definito che se qualcuno affermerà che inutilmente, o a vuoto, il vescovo dice: «Ricevi lo Spirito Santo, sia anatema», cioè sia scomunicato. Il sacramento dell’ordine è dunque legato all’azione profonda dello Spirito Santo.

Vale anche per il matrimonio. Se il matrimonio è un vincolo d’amore soprannaturale che lega due battezzati per la vita e per la morte, non ci può essere un nuovo legame d’amore che stringe due battezzati se non viene dallo Spirito Santo che è il nesso, il vincolo profondo anche tra le persone della Trinità.

Tutti i sacramenti dunque hanno questa presenza attiva dello Spirito Santo che nella Chiesa ci rende partecipi della vita divina attraverso questi canali, come è lui che unifica la nostra preghiera con quella del Figlio. La vera preghiera cristiana, nel suo carattere specifico, è una preghiera filiale, in quanto «tutti quanti siamo figli nell’unico Figlio». Perciò è lo Spirito che grida nel nostro cuore: «Abba, Padre» (cf. Gai 4,6).

Noi non sappiamo come pregare, dice Paolo (cf. Rm 8,26), è lo Spirito Santo che prega in noi, profondamente. Quindi è proprio lo Spirito che fa della nostra preghiera una sola preghiera con quella di Cristo, il Figlio che è infallibilmente ascoltato dal Padre. Così pure è lo Spirito Santo che fa della nostra offerta all’altare una sola offerta con quella di Cristo; è lo Spirito Santo che fa del sacrificio della nostra vita un solo sacrificio con quello di Cristo. E’ lui che unifica sempre le membra al Capo, in ogni momento della loro vita, specialmente nel momento della preghiera. Tutta la vita quindi diventa una liturgia, un’offerta continua a Dio, fino direi alle vette mistiche più alte.

C’è un volume delle rivelazioni di santa Maria Maddalena de’ Pazzi ricevute proprio nella settimana di pentecoste. Partendo dai testi liturgici, dallo Spirito Santo, si eleva su su fino alla contemplazione meravigliosa dell’intervento dello Spirito che nell’anima produce quest’intima unione con Dio, questa preghiera più elevata, più pura.

5. La Chiesa e lo spirito dl libertà

Un ultimo elemento. La Chiesa ha ricevuto lo Spirito Santo anche in quanto Spirito di libertà.

Nell’ambiente dove viveva Cristo tutta la salvezza si faceva consistere nella rigida osservanza della legge mosaica. La fedeltà alla legge era come la mediazione salvifica per gli ebrei, mentre nella nuova economia si è salvi per la fede in Cristo che ci dona il suo Spirito e ci restituisce, come direbbe san Paolo, alla libertà dei figli di Dio (cf. Gal 4,31).

La redenzione presentata in termini di liberazione, che oggi desta tanto interesse se è bene intesa, è profonda e Paolo ha affermato: « Ubi Spiritus, ibi libertas»: «dove c’è lo Spirito Santo, lì c’è la libertà» (2 Cor 3,17).

È precisamente lo Spirito che ci svela la vera anima della morale cristiana, per essere come il Cristo. Egli ci assimila a Cristo Gesù, interiormente, profondamente, dal di dentro. E quindi la morale cristiana viene illuminata da una nuova realtà. Noi, sì, osserviamo la legge, ma per piacere al Cristo, per essere simili a lui, per essere trasformati in lui.

Anzi, prima c’è una conformazione ontologica operata dallo Spirito Santo mediante i sacramenti e, in un secondo momento, la nostra vita cristiana diventa una risposta, un adeguarci, uno sforzarci di metterci alla pari col dono di Dio. Questo è il senso della morale cristiana vera e propria, e perciò Paolo presenta le virtù cristiane come frutti dello Spirito Santo, in uno splendido elenco che meriterebbe di essere meditato punto per punto: la carità, la gioia, la pace, la pazienza, ecc. (Gal 4,22-25).

La morale quindi, nell’economia cristiana, rimane, ma non più come riferimento a un codice estrinseco soltanto, bensì in dipendenza dall’azione intima dello Spirito che dal di dentro mi assimila sempre più a Cristo capo: mi libera dal mio io, e mi rende vero membro di Cristo, mi conforma a lui che si è fatto obbediente fino alla morte di croce, facendomi santo non per un formalismo legalistico ma per un processo di assimilazione e di amore, di amore alla volontà del Padre e dei fratelli.

Possiamo costatare veramente la liberazione dell’uomo quando egli scopre in sé questo principio nuovo dell’amore, come il Cristo che si è fatto obbediente fino alla morte ma per amore. Quindi la molla più profonda che ispira, unifica e dà valore a tutta la morale cristiana è precisamente la carità «diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo», come dice Paolo (cf. Rm 5,5).

E ricordiamo tutti, nella 1 Lettera ai Corinti c. 13, il famoso inno alla carità, dove Paolo insiste con un triplice niente: anche se facessi le opere più mirabili, e trasportassi le montagne, sono niente; e se dessi il mio corpo per sacrificarlo nel martirio, ma non avessi la carità, sono niente. Tutto è niente senza l’amore.

La morale non vale, l’osservanza della legge e la condotta esterna non valgono niente se non sono basate sull’amore. E’ invece l’amore che dà valore a tutto. E tutto passa, aggiunge Paolo, anche i carismi: rimane soltanto la carità.

Ecco l’anima profonda, la molla vera e autentica della morale cristiana quando lo Spirito Santo entra in un’anima e crea in lei un atteggiamento interiore, libero, puro, santo come quello del Cristo. Allora può veramente valere l’assioma di sant’Agostino: «Ama, e poi fa’ quello che vuoi».

E sant’Agostino ha pure detto: « Ubi amatur non laboratur, aut ipse labor amatur»: dove si ama non si sente più la fatica, oppure si ama la stessa fatica. Se, quindi, ci lamentiamo che la morale cristiana è troppo pesante, è un giogo troppo duro, vuol dire che non abbiamo scoperto questa molla, non siamo ancora entrati in questa anima profonda della morale e della vita cristiana.

Eppure Gesù ci aveva avvisati molto bene quando ci aveva insegnato a essere fedeli, a compiere sempre la volontà del Padre, aggiungendo però una premessa: «Se uno mi ama, osserva i miei comandamenti; Se mi amerete, osserverete i miei comandamenti» (cf. Gv 14,23-24).

La morale cristiana è possibile e diventa un fatto gioioso quando è viva questa premessa dell’amore. Molte volte invece noi abbiamo presentato la morale cristiana non bene illuminata dal principio interiore che la anima tutta, e quindi è parsa tanto pesante. Certe critiche moderne dimenticano questi principi fondamentali: che la morale evangelica è possibile e diventa perfino un fatto gioioso, quando si è capito il vero punto di partenza, che il cristiano è tale soltanto in quanto possiede lo Spirito Santo, Spirito di amore.

Concludo dicendo che la Chiesa, se vuole rinnovarsi anche oggi, deve diventare una «comunità dell’epiclesi», comunità, cioè, della perenne invocazione, dell’attesa, della implorazione continua allo Spirito Santo. Per una crescita incessante fino alla sua consumazione escatologica essa avrà sempre bisogno di questa presenza e di questa azione segreta dello Spirito.


Mercoledì, 17 Ottobre 2007 01:43

La vita spirituale del battezzato (Enzo Bianchi)

di Enzo Bianchi

I. Premessa

I.1 Tra la spiritualità e le spiritualità

Trentacinque anni fa Louis Bouyer, nel suo libro Introduzione alla vita spirituale, denunciava alcune deviazioni della spiritualità in ambiente cattolico: lo psicologismo, cioè la riduzione della vita spirituale ad alcuni stati di coscienza; poi la tendenza verso il sincretismo, che implica la sostanziale omologazione dell’esperienza religiosa ovunque si manifesti; e infine la frammentazione della spiritualità in spiritualità (al plurale) esageratamente specializzate. Questo terzo depauperamento della spiritualità lo possiamo perciò chiamare la «specializzazione delle spiritualità» 1.

Assonanze e affinità di un'antropologia teologica

La ricerca del «principio»

nelle catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano
e lo stato originario in Hans Urs von Balthasar

di P. Loris Maria Tommasini o.c.s.o.

Introduzione

Per questo mio lavoro mi sono concentrato sul primo ciclo delle catechesi di Giovanni Paolo II (II Principio) accostandole ad una parte del libro di Hans Urs von Balthasar sugli stati di vita del cristiano. Non sarà un vero e proprio confronto analitico o comparativo: non è questo il luogo adatto e non vi sarebbe spazio per farlo in maniera soddisfacente e completa.

Presento solo delle sintesi del pensiero dei due autori in modo da permettere di scoprire le assonanze, le affinità teologiche e di linguaggio che a mio avviso sono molto evidenti.

Sappiamo che Hans Urs von Balthasar era uno dei teologi preferiti di Giovanni Paolo Il, da lui nominato cardinale per i suoi meriti teologici.

Non sono in grado di mostrare se ci sia una diretta dipendenza tra le due opere, ma è evidente la risonanza della teologia di von Balthasar nei testi del Papa. Mi riferirò in particolare alla «preistoria teologica» (Catechesi 1-1V), che von Balthasar chiama «stato originario».

1. La ricerca del «principio» nelle catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano

Il ciclo delle catechesi di Giovanni Paolo li sviluppa un insegnamento sull’amore umano nel mistero divino attraverso un’antropologia teologica sull’uomo e la donna e la loro comunione di vita. Come sintesi mi servirò di uno stralcio dell’introduzione scritta dal Cardinale Angelo Scola alla prima parte delle catechesi:

«Lo scopo del primo ciclo del presente volume è la ricerca del principio.

Il principio è individuato anzitutto, mediante il commento a Mt 19,3 ss. (riferisce del dialogo tra Cristo e i farisei sul matrimonio e sulla sua indissolubilità), con i due racconti della creazione contenuti nel Libro della Genesi.

Gen 1,1-2, è il primo racconto detto elohista, posteriore nella redazione al secondo Gen 2,5-25, detto jahvista, più compiutamente comprensibile, tenendo conto anche di Gen 3-4,1.

L’analisi articolata dei due racconti ne mostra l’obiettiva corrispondenza, che si distende per tutta la prima parte del volume. Il secondo racconto, il più antico, possiede un andamento per così dire soggettivo, psicologico, in cui per la prima volta si documenta una certa autocomprensione e coscienza umana. Ad esso corrisponde l’andamento oggettivo del primo racconto, più recente, che ha un impianto teologico, cui si connettono precise implicazioni metafisiche ed etiche.

Il principio coincide allora con la vita dell’uomo, originario dalla creazione fino al peccato originale. Anzi esso si illumina definitivamente proprio in relazione con il peccato originale, come fattore discriminante le due situazioni originarie, tra loro ben distinte, quella di innocenza originaria (status naturae integrae) e quello di peccaminosità originaria (status naturae lapsae). In questa ottica il richiamo di Cristo appare come un invito, carico di conseguenze etiche, a riconoscere l’esistenza di una continuità essenziale tra lo stato storico di peccato, proprio dell’uomo di ogni tempo, e quello, in un certo senso preistorico, di innocenza. Per quanto sia grave la rottura consumatasi nel peccato di origine, è impossibile capire l’uomo storico senza radicarlo nella sua preistoria teologica rivelata.

D’altra parte nel principio cui Cristo fa riferimento è obiettivamente implicata la redenzione. Nel testo jahvista l’uomo, dopo la rottura è collocato nella prospettiva redentiva del Protoevangelo (cf. Gen 3,15). Paolo la esprime nel celebre passaggio di Rm 8,23 in cui coglie l’anelito dell’uomo alla redenzione del proprio corpo».

2. Dallo stato originario allo stato finale in Hans Urs von Balthasar2

Il testo di von Balthasar cui faccio riferimento è la sezione intitolata Dallo stato originario allo stato finale, che costituisce la prima parte del libro in questione intitolata lo sfondo.

La ricerca del «principio» ha delle profonde conseguenze sull’esistenza dell’uomo. Questo è quanto von Balthasar ha ampiamente sviluppato in modo sistematico. Nel suo testo, egli mostra la diversità e complementarietà degli stati di vita all’interno del popolo di Dio, proprio a partire da quanto accaduto nello stato originario.

2.1. Creazione e servizio

Per sapere dove l’uomo ha da stare e dove ottiene stabilità ci si deve chiedere dove Dio lo ha collocato (Cf. Gen 1,26-27: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano su/la terra”. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»; Gen 2, 7: «allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente»).

«Il Signore Dio prese l’uomo e io pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse»3.

Secondo la sua destinazione, l’uomo è ciò che vi è di più alto (immagine e somiglianza di Dio); secondo la sua provenienza è ciò che vi è di più basso (plasmato dalla polvere del suolo). Così l’uomo nel suo primo stato è una doppia distanza: da Dio e dal nulla. Poiché l’uomo origina dal nulla, nella sua pur così grande somiglianza con l’immagine originaria mantiene sempre l’ineliminabile e ancor più grande dissomiglianza rispetto a Dio. L’uomo resta qualcosa di sempre altro rispetto a Dio e non è Dio. Solo rispettando questa distanza creaturale, l’uomo può partecipare all’autonomia, unicità, personalità e libertà del creatore. Se due amanti volessero tentare di possedersi l’un l’altro al punto di fondersi l’un con l’altro, se ciò fosse possibile, l’amore verrebbe annientato. L’amante per poter mettere in atto il movimento dell’amore abbisogna della non rimuovibile stabilità del suo proprio essere.

Immagine e somiglianza significa sottolineatura della distanza, affinché diventando essa ben visibile si evidenzi tanto maggiormente l’unicità dell’immagine originaria.

La creatura è presa e collocata a servizio dell’amore e questo fonda il suo stato originario.

La creatura non è essa stessa l’amore, poiché Dio è l’Amore. Essa è una natura che sta a servizio dell’amore. La destinazione dell’amore acquista per l’uomo la forma di un servizio. Ed è in questo che è alla base del concetto di stato di vita.

2.2. Grazia e missione

Il servizio alla sua vocazione imposta originariamente da Dio, di amare Dio e il prossimo, fonda lo stato umano come stato della grazia, in cui l’uomo è stato da Dio posto e deve rimanere. Un incarico, come un compito da eseguire nell’autonomia dall’archetipo (Dio) e per il quale è stato provvisto di mezzi e poteri.

Occorre guardare al Figlio e alla sua missione. Per capire come amare bisogna guardare al Figlio e alla sua obbedienza d’amore. Solo così l’uomo comprende la sua vocazione.

L’uomo è sostenuto dall’azione e dalla contemplazione. L’azione è la missione, come un compito da portare avanti. La contemplazione è la medesima missione, in quanto l’uomo può comprendere ed eseguire questo incarico tenendo fisso il suo sguardo e il suo pensiero nella volontà di Dio come già il Figlio.

Ciò significa che lo stato originario è uno stato di preghiera. Questo atto di riconoscimento della sovranità di Dio sta alla radice di azione e contemplazione che sono dunque inseparabili. Se l’uomo afferra la sua missione prega sempre, che si trovi nell’azione o nella contemplazione.

La preghiera è vera solo là dove l’uomo svolge la sua missione (Cf. Mt 7, 21: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»). L’essere collocati nella volontà di Dio è la realtà originaria che sta prima di tutto il resto, che lo condiziona e lo fonda.

Missione a gloria di Dio: se gli uomini intraprendono sin da principio la loro vita sotto il punto di vista della missione a gloria di Dio, non ci sarebbe nessun problema esistenziale.

2.3. L’uomo dell’eden

La separazione degli stati di vita non era prevista nella creazione originaria, come non lo era l’ordine visibile della Chiesa. Questa demarcazione è legata con lo stato della redenzione, che presuppone lo stato della caduta, del peccato. Partendo dallo stato originario come stato dell’uomo pensato, voluto e creato originariamente da Dio, deve poter venir dedotto e rischiarato alla fine quello stato posteriore che proviene esso pure da Dio. Gli stati posteriori, ognuno alla sua maniera, devono rispecchiare qualcosa di quella idea che Dio volle sin dall’inizio realizzare con la creazione dell’uomo.

Guardare indietro allo stato di Adamo nella posizione in cui Dio l’aveva posto. Tre caratteristiche:

assenza di pudore (Cf. Gen 2,25: «Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna»);

• esistenza senza morte (Cf. Rm 5,12: «Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato»); 

• uomo senza conoscenza del bene e del male.

Noi solo difficilmente vediamo in questi tre aspetti qualcosa di positivo, poiché ne abbiamo un’esperienza diversa.

L’uomo in Eden ha la libertà piena su tutta la terra, a patto che questa libertà perseveri nella piena obbedienza a Dio, riferendosi a Lui come il centro di tutte le cose. La conoscenza e la vita l’uomo non deve prenderle da sé, ma riceverle da Dio.

2.3.1

Nell’Eden, l’uomo stava nell’obbedienza a Dio e da questa obbedienza dipendevail fatto che egli regnava libero e sovrano sulla terra intera. Questo non era affatto come un’oppressione data dal divieto di Dio: questa è piuttosto l’insinuazione del serpente (Cf. Gen 3,1-5: «Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?’ Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”»). La libertà di Adamo ed Eva era protetta dalla loro obbedienza. Era come un rapporto di fede — fiducia totale. Essi conoscevano solo il bene e il male rimaneva loro nascosto. Essi vivevano nel fuoco dell’amore. Non vivevano ancora nella tiepidezza e nell’indifferenza di bene e male, punto in cui diventa possibile la decisione tra questi due.

2.3.2

In questo imprevisto evidenziarsi della loro nudità, nell’attimo in cui essi acquistano la conoscenza del bene e del male sta la chiave per il secondo problema: l’insorgere del pudore.

«Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna»4.

Solo quando si infranse l’obbedienza di fede a Dio si accorsero di essere nudi.

Come le forze dell’anima a causa del peccato si emanciparono infelicemente dall’obbedienza di fede amante, così le possibilità del corpo si svincolarono dalla fecondità dell’amore, che a sua volta era stato stravolto dalla disobbedienza, e si impossessarono con violenza dell’amore sessuale. Solo a causa di ciò sorge una differenza tra verginità e fecondità. La verginità di Eva non sarebbe stata minacciata, all’interno dell’Eden, dalla sua maternità. Solo un’immagine può ricondurci dal nostro mondo decaduto verso la forma perduta della fecondità originaria: la Vergine Maria, al contempo vergine e madre.

Adamo ed Eva vivono nella completa verginità al punto che non conoscono nemmeno la concupiscenza. Nell’Eden, verginità non significa rinuncia, ma pienezza dell’amore, forma perfetta di fecondità.

Il peccato manda in frantumi l’ordine originario e gli istinti del corpo fuoriescono nudi e crudi dai velami dell’anima: questo porta alla nascita del pudore. Né l’istinto, né il pudore sono cattivi. È cattivo il disordine che lascia uscire gli istinti e rende necessario il pudore corporale come risposta a ciò. Il pudore c’era soltanto, sinora, nella forma del tutto incosciente dell’innocenza; poiché il peccato ha distrutto l’innocenza dell’anima, esso trapassa nella forma del vergognarsi. Così il rapporto immanente tra corpo e anima resta nell’uomo lo specchio esatto del rapporto trascendente dell’anima con Dio.

2.3.3

L’uomo come creatura è un essere finito: finitezza aperta a Dio. Questa finitezza è segnata dalla morte. Con questa maledizione, che punisce la cupidigia, gli uomini vengono condannati a ciò che si erano presi da sé: alla proprietà personale. Prima del peccato, non si preoccupavano di arraffare per sé, essi vivevano in uno stato che era contemporaneamente perfetta ricchezza e perfetta povertà.

La proprietà privata, la ragione critica, la libertà di scelta, il sentimento del pudore non sono qualcosa di cattivo, ma appartengono all’esistenza tipica del dopo la caduta del peccato.

Nessuno è più libero di colui che obbedisce a Dio; nessuno è più fecondo di colui che è casto; nessuno è più ricco di chi non vuol possedere niente in proprio.

Nello stato originario i tre atteggiamenti d’amore non significano in alcun modo rinuncia; essi sono piuttosto l’espressione di un amore che possiede in sé ogni ricchezza, ogni benedizione, ogni pienezza. Chi invece vuole accaparrarsi la benedizione senza l’atteggiamento di obbedienza, castità e povertà, riceverà in cambio la maledizione.

2.4. Il cielo

Dio non congeda l’uomo dall’Eden gettandolo nella disperazione. Verrà «Una» che muterà in benedizione la maledizione di Eva. Maria, nella perfetta obbedienza del suo si, spegnerà ciò che la bramosa disobbedienza di Eva ha acceso. Poiché l’uomo soggiacque alla tentazione, deve ritrovare per strade più lunghe l’accesso allo stato finale, che partendo dallo stato originario sarebbe stato più vicino e privo di fatica.

L’anticamera del cielo è rinunciare ad ogni volontà propria, ad ogni ricerca di sé e autonomia personale che si contrappone come istanza autosufficiente alla volontà di Dio.

Nel cielo la verginità dell’Eden ritroverà il suo compimento, fecondità primariamente spirituale e solo secondariamente sessuale.

Così il cielo sarà da ultimo anche la perfetta povertà. «Quella fredda parola di mio e tuo» (Giovanni Crisostomo), là non ci sarà più, poiché tutto sarà comune a tutti. Nel cielo si dona e si riceve tutto gratis. Così lo stato finale nel cielo sarà il compimento dello stato originario dell’Eden.

Nel piano originario di Dio gli stati di vita che la Chiesa oggi conosce non avrebbero avuto bisogno di differenziarsi staccandosi dalla sua unità.

Povertà, verginità e obbedienza non sarebbero stati in opposizione alcuna rispetto a ricchezza, fecondità e libertà, ma sarebbero stati invece la loro più valida espressione e nel compimento del cielo la loro definitiva conferma. Così l’uomo avrebbe potuto adempiere la sua prima destinazione: la destinazione all’amore; povertà, verginità e obbedienza sarebbero state solamente le tre forme in cui si sarebbe manifestata la piena figura del suo amore.

3. Conclusioni

3.1

Il contesto e le finalità delle catechesi di Giovanni Paolo Il e quello dell’opera di Hans Urs von Balthasar sono differenti. Cosa li accomuna? Una visione antropologica e teologica fondata a partire dal dato biblico, attraverso una meditazione teologico-sapienziale che va scoprendo nuovi livelli interpretativi.

Comune è la ricerca di un principio teologico fondante che abbia delle ricadute esistenziali e personali sull’ethos della vita del credente.

Il Papa mostra questa continuità essenziale tra stato storico del peccato e stato preistorico di innocenza.

Von Balthasar tratteggia un vero e proprio affresco storico-salvifico completando il quadro in tutte le sue implicazioni che interessano il popolo di Dio (stati di vita del cristiano) fino all’ultima conseguenza del comune destino dello stato finale: il cielo a cui tutti sono chiamati. In questo contesto, ampio spazio è dato alla vita religiosa caratterizzata dai tre voti, Per von Balthasar, l’amore perfetto5 — offerta di sé senza condizione 6 —, a cui tutti sono chiamati, ha la forma interna del voto, mentre il raggiungimento della carità perfetta nello stato di vita dei religiosi7 si esprime istituzionalmente anche attraverso la forma esterna della professione pubblica dei voti8.

La vita religiosa riporta, fin da ora, come anticipazione profetica, allo stato delle origini. Stato delle origini (arkhé) e stato finale (éskhaton) vengono così a ricongiungersi. Il cielo, come stato finale, èla pienezza dello stato originario dell’Eden, dove «Dio sarà tutto in tutti» (cf. i Cor 5, 28). La vita religiosa è profezia escatologica di ciò a cui tutti sono chiamati nel tempo e per l’eternità come insegna il Concilio Vaticano Il:

«La vita religiosa manifesta chiaramente e fa comprendere l’intima natura della vocazione cristiana»9

«La professione dei consigli evangelici meglio manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l’esistenza di una vita nuova ed eterna»10

DIO TRINITA’ D’AMORE                                            STATO DEL CIELO

quello finale

CREAZIONE

Progetto originario

Immagine e somiglianza

ADAMO

Chiamato a servire Dio

Obbedendo alla Sua volontà

STATO DELL’EDEN

Obbedienza-povertà-verginità

Libertà-ricchezza-fecondità

PECCATO ORIGINALE

L’uomo deforma

Incapacace di amare

Disobbedienza

Superbia-concupiscenza

autonomia

STATO DELLA CADUTA

Morte-pudore-conoscenza

del bene e del male

REDENZIONE

Cristo riforma

Mistero pasquale

CRISTO

Obbediente-vergine-povero

STATO DELLA REDENZIONE

Figli nel figlio-conformi

all’immagine del Figlio

Battesimo

CHIESA

STATI DI VITA DEL CRISTIANO

Sacramento di salvezza

Comandamento dell’amore perfetto

STATO DEI CONSIGLI EVANGELICI

Castità povertà obbedienza

Dio unico amore-unica ricchezza-unica volontà
valore escatologico, anticipazione
del cielo

RITORNO AL PADRE IN CRISTO E NELLO SPIRITO SANTO

«La vita religiosa manifesta chiaramente e fa comprendere l’intima natura della vocazione cristiana» (AG 18)

« La professione dei consigli meglio manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l’esistenza di una vita nuova ed eterna» (LO 44).

li cielo, come stato finale, è la pienezza dello stato originario dell’Eden, dove «Dio sarà tutto in tutti» (cf. 1Cm 15,28).

lo presento questo insegnamento teologico ai giovani professi come introduzione e significato della consacrazione della vita monastico religiosa e dei voti.

Tutto ciò è un forte stimolo dal punto di vista esistenziale e spirituale, perché mostra dove Dio ci ha collocati: la bontà, la bellezza e verità del nostro genere di vita che si fa compito e missione, nella Chiesa e nel mondo, attraverso una luminosa testimonianza dei beni futuri.

Nella mia esperienza di formatore, dal punto di vista pedagogico, posso dire che questa potente visione teologica può aiutare a focalizzare l’identità della nostra vocazione monastica e a nutrire ed accrescere il desiderio della sequela radicale, propria del nostro stato di vita, che deve a Gesù Cristo giungere all’amore perfetto che ci rende sempre somiglianti.

* Monaco dell’ Abbazia Trappista, Frattocchie, Roma

NOTE

lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova — Libreria Editrice Vaticana, Roma — Città del Vaticano 1985, Introduzione al primo ciclo, p. 27

(2) Cf. Hans Urs von Balthasar, Gli stati di vista del cristiano, Jaka Book, Milano 1985, Parte prima: Lo sfondo. B. Dallo stato originario allo stato finale, pp. 61-110.
(3) Gen. 2,15.

(4) Gen 2. 25; Cf. Gen 3, 8-11: «Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”».

(5) Mt 22,34-40: «Allora i farisei, udito che egli avevo chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge? “. Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tua come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”»; cf. Gv 15, 12-14: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amari. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando». 

(6) IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, n. 231, citato in von BALTHASAR, Op. cit., Parte prima: Lo sfondo, A, La vocazione all’amore, 4. Amore e voti, p. 54. Ne proponiamo la versione tratta dal volume IGNAZIO Dl LOYOLA, Esercizi spirituali, a cura (traduzione, introduzione e note) di P. Pietro Schiavone SJ, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pp. 307-309: «l’amore consiste nella comunicazione reciproca, cioè nel dare e comunicare l’amante all’amato quello che ha, o di quello che ha o può, e cosi, a sua volta l’amato all’amante».

(7) Cf. Perfectae Caritatis, I.

(8) VON BALTHASAR, Op. Cit., Parte Prima: Lo sfondo. A. La vocazione all’amore, pp. 21-59.

(9) Ad Gentes, 18.

(10) Lumen Gentium, 44.

Search