I Dossier

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 65

Lunedì, 30 Gennaio 2017 16:50

Il discorso della montagna e la non violenza

Vota questo articolo
(0 Voti)

di EMILIANO VALLAURI

da Parole di Vita: "la Pace"

II tema della non violenza nel NT non è certamente confinato nel Discorso della montagna (= DM): si pensi ai testi di Paolo che esortano a non resistere al male (Rm 12,17-21), a subire l'ingiustizia (1 Cor 6,7; 12,5ss), a non ricercare un cambiamento di stato fosse pure di schiavitù (1 Cor 7,20ss; Fm ecc.), agli elogi della persecuzione e delle catene (FU 1,7; Col 1,24); si pensi alla beatitudine della persecuzione in 1 Pt 3,13-17; 4,14-16 o all'esortazione a stare sottomessi ai padroni anche difficili (ivi 2,18); alla gioia per le battiture di At 5,41 ecc. e ai molti detti del vangelo attribuiti a Gesù che parlano della non resistenza ai soprusi (il discorso missionario di Matteo è eloquente in proposito: Mt 10,16-20; cf 24,9) e del perdere la propria vita per Cristo (Mt 10,30 parr.).

Ma è certo che il tema ha il suo luogo privilegiato e la formulazione più icastica nel DM, che è sempre stato il punto di riferimento obbligato per chiunque lo ha affrontato nell'ottica del NT. Esaminarlo in tale contesto, pur evitando ogni indebita semplificazione, vuoi dire puntare diritto al centro del pensiero neotestamentario in proposito.

Parlando di DM ci riferiamo direttamente ai cc. 5-7 di Matteo. Va tuttavia precisato che un discorso similare, almeno per quanto riguarda il nucleo centrale, lo troviamo in Le 6,17-49, dove è presentato come Discorso della pianura (cf 6,17), mentre frammenti del grande complesso matteano si trovano disseminati in altri contesti del terzo vangelo (cf Le 14,34s; 12,58s; 16,18; 11,2-4; 12,33ss, ecc.). Senza entrare nel difficile problema del rapporto tra le due composizioni, diciamo che la versione lucana va comunque tenuta presente anche per quanto riguarda la messa a fuoco del nostro tema. Quanto alla struttura del DM in Matteo, che è stata presentata diversamente dai vari autori,1 basti rilevare che uno dei suoi temi in evidenza, vero elemento portante, è quello della giustizia, che occupa chiaramente una posizione privilegiata e si direbbe posto dall'autore stesso in esergo all'inizio del discorso vero e proprio: ... se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (5,20). È sullo sfondo di questa superiore giustizia, di questa tensione al superamento di condizionamenti umani legati alla mentalità del tempo e del luogo, che va collocato anche il tema della non violenza per il cristiano fedele al Regno secondo Matteo. Lo vogliamo allora esaminare nei passi in. cui più chiaramente affiora, cioè nelle Beatitudini e nelle Antitesi.

LE BEATITUDINI

Dal momento che sia Matteo (5,1-11) sia Luca (6,17-23) le pongono in apertura, possiamo senz'altro supporre che la tradizione ha conservato il ricordo di un discorso di Gesù iniziato con queste solenni affermazioni di benedizione che predicano beati, cioè in accordo con il progetto di Dio e quindi nella linea della salvezza, coloro che si trovano in determinate condizioni. Sono note le divergenze sensibili che corrono tra le « beatitudini » di Matteo e quelle di Luca. A parte variazioni minori, possiamo dire che, quanto al numero, sono nove in Matteo, notando però che la nona si differenzia sensibilmente quanto alla formulazione, passando dalla 3a persona singolare alla 2a, e dilatandosi molto con connotazione cristologica accentuata; sono quattro in Luca, con la quarta ugualmente ampliata, e in contrappunto vi sono aggiunte quattro maledizioni, o guai!, che rafforzano in negativo le proclamazioni precedenti.

Quanto alla forma, Matteo usa quella frequente in molte composizioni della Bibbia, specialmente di carattere sapienziale, che collegano la felicità con la saggezza, la misericordia, il timor di Dio, la pietà, ecc. (cf Sai l,ls; 32,1; 33,12; 65,5; 40,5; 84,13 ecc.; Sap 3,13; 7s 30,18); Luca, invece, fa rivolgere direttamente la benedizione agli uditori immediati. Atteso l'uso biblico e il fatto che Gesù stesso in altre circostanze è presentato come fedele alla forma indiretta (ci Le 7,23; 10,23; ll,27s; 12,43 ecc.), possiamo considerare quest'ultima come più primitiva, mentre per il numero è probabile che risalgono alla tradizione presinottica le « beatitudini » che sono comuni ai due evangelisti, vale a dire la la, la 2a, la 4" e la 9a di Matteo, cui corrispondono, leggermente variate, in Luca la la, la 3a e la 4a.2

Risalendo al di là della tradizione comune, si possono ricondurre con buona probabilità le prime tre beatitudini comuni a Matteo e Luca a Gesù3 che le avrebbe pronunciate come annuncio profetico della venuta del Regno di Dio nel suo momento culminante, strettamente collegato con la sua persona. L'agire salvifico di Dio attinge qui e ora il punto vertice e destinatari ne sono i destituiti di appoggi umani, appunto i poveri, gli affamati, i piangenti ai quali viene assicurata la vicinanza ausiliatrice di Dio. Non per qualche loro particolare benemerenza è assicurato tale intervento divino, ma perché il Dio della rivelazione è un Dio che salva, fedele e misericordioso, che si prende a cuore la sorte di quanti fra il popolo sono al margine e li rimette in dignità. Non c'è dunque direttamente riferimento all'operare ma all'essere: all'essere oggetto di questa azione di misericordia e salvezza che Dio oggi in Gesù rende veramente vicina.

Il tema della non violenza in questo contesto è abbastanza fuori orizzonte: l'annuncio riguarda la gioia per tale condiscendenza divina, non propriamente una scelta da parte dell'uomo. Se ne potrebbe vedere un affioramento nella formulazione passiva (passivo divino!) che si direbbe demandare a Dio il compito dell'intervento risolutore, dunque non alle forze umane; ma sembra un po' forzato voler leggere nel testo più che una semplice affermazione di rovesciamento di situazione.

Il significato di base è mantenuto e come radicalizzato in Luca nelle prime tre beatitudini con la sottolineatura che gli effettivamente poveri, affamati e piangenti sono i destinatari di questo agire divino qui e ora, con esclusione dei ricchi, sazi e gaudenti sui quali incombono i guai della collera di Dio. Nelle otto beatitudini di Matteo, invece, l'annuncio di grazia diventa palese richiamo alla corrispondenza: la profezia si fa catechesi. Il discepolo del Regno sa di appartenere alla situazione di salvezza; bisogna che ne assuma in concreto i comportamenti, che si compendiano nello spirito di povertà, nell'umile atteggiamento dell'uomo che vive la sua condizione di creatura, sottomesso a Dio e disponibile con tutto se stesso al suo manifestarsi.

Se questo vale per le « beatitudini » in genere, l'ultima (9a di Matteo e 4a di Luca) introduce direttamente il tema della non violenza in quanto proclama beati quelli che soffrono e sono perseguitati a causa di Cristo. La sua redazione in ambedue gli evangelisti è fortemente segnata dalla riflessione cristiana, anche se sussistono buone ragioni per ricondurne il contenuto a Gesù stesso:4 l'accentuata cristologizzazione (per causa mia, in Matteo; a causa del Figlio dell'uomo, in Luca) lascia intravedere l'elaborazione della comunità primitiva. Essa ha probabilmente ripensato la parola di Gesù e il suo atteggiamento alla luce delle persecuzioni che incominciava a sperimentare sia da parte dei Giudei che dei Romani5 ed esprime la certezza che esse non sono senza significato nel progetto di Dio, anzi contribuiscono a realizzarlo, configurando più intimamente a Cristo. Si alluda o no direttamente ai profeti itineranti nel richiamo ai profeti antichi (Mt 5,12; Le 6,23) perseguitati, è chiaro che qui la sofferenza è vista nella linea della storia della salvezza. Matteo e Luca, per parte loro, non fanno che applicare al loro contesto questa enunciazione paradossale, ricevuta dalla tradizione, che lega la gioia alla sofferenza. Con ciò non viene sacralizzato il dolore in sé né viene affidato il disegno di Dio a una passiva accettazione del male, ma piuttosto si esprime con forza il primato dell'adesione a Cristo e al suo Regno e la convinzione che la pienezza dei tempi messianici è affrettata proprio dalle avversità.

Alla luce delle Beatitudini nel loro insieme possiamo dire che il predicare beati i perseguitati intende esprimere:

— la totale fiducia e disponibilità a Dio, senza del quale il destino dell'uomo non si realizza, scegliendo di camminare per la via di Cristo che ha fatto presente nella sua persona e nelle sue parole il disegno del Padre e l'ha offerto agli uomini;

— il rifiuto della logica di potenza e di autoaffermazione, per assumere invece il criterio della disponibilità, della condivisione, della pazienza;

— l'impegno a operare nella linea dei profeti per la verità e la giustizia, in vista della realizzazione del bene messianico della pace.

LE ANTITESI

Sono una caratteristica di questo discorso di Matteo e gli danno un tono di proclama, di documento programmatico, che richiama una personalità eccezionale, profondamente convinta del suo ruolo nella storia della salvezza. Non è detto che la formulazione attuale risalga a Gesù nella sua forma antitetica: Luca che riproduce alcuni di questi detti (cf 6,27-36) non ha in effetti la forma di contrapposizione alla legge mosaica qual era insegnata dagli scribi. Tale contrapposizione potrebbe essere opera di Matteo, o di una scuola di scribi da cui Matteo dipende, che ha letto la parola di Gesù sullo sfondo dell'interpretazione rabbinica della legge. Ma si tratta sempre della parola di Gesù, con la sua autorità suprema, che mette in luce le istanze vere della legislazione mosaica, mostrando, per Matteo, come la giustizia del discepolo del Regno in concreto debba superare quella degli scribi e dei farisei (5,20). E questo secondo una duplice linea: dell'interiorizzazione e del radicalismo. Il seguace di Gesù è invitato a passare dall'azione al movente, dal gesto alla coscienza, dove avvengono le scelte più vere, con la decisione che l'impegno per Dio richiede, coinvolgendo l'uomo nella sua interezza esistenziale.

Sempre per quanto riguarda Matteo, più che in 5,21-26, in cui si va dal divieto di ogni lesione esterna alla proibizione di qualsiasi atteggiamento di violenza, passando dal concetto di tutela del gruppo all'esigenza di togliere la radice stessa del male, cioè l'ira, è in 5,38-42 che troviamo la formulazione più esplicita ma anche più problematica della non violenza: il comando di non opporsi al malvagio e di porgere l'altra guancia, che si è tentati di respingere come assurdo o di leggere e applicare troppo meccanicamente.

Per afferrare il messaggio è bene partire dal modello che sottosta alle antitesi, che è quello della contrapposizione: a una disposizione mosaica ne viene contrapposta un'altra specularmente; nel nostro caso, al diritto di rivalsa, l'abdicazione ad esso. Il senso è dato non propriamente dalla nuova istanza come norma sostitutiva della prima, ma dall'idea che l'ordine in cui vigeva la vecchia disposizione è superato; un altro è sorto, animato da uno spirito diverso. In particolare, l'ordine decaduto è quello in cui vige la legge del taglione che troviamo nel Codice dell'alleanza (cf Es 21,24s), la quale impone, sì, di non oltrepassare nella ritorsione la gravita del torto subito, arginando in tal modo l'istinto di vendetta (cf Gn 4,23s) ma permette pur sempre di affermare i propri diritti contro l'altro perché ha come punto di riferimento l'io. L'ordine nuovo è quello in cui vige la carità che ha come punto di riferimento Dio (cf vv. 45-48) e la sua bontà sconcertante, a esprimere la quale è idoneo solo il paradosso. La prescrizione circa la guancia da porgere, il prestito da dare ecc., sono modelli di riferimento di questo nuovo spirito e come tali vanno letti, non come strette categorie operative. Richiamano quell'amore che guarda l'uomo con l'occhio di Dio ed è pronto a sacrificarsi per lui, foss'anche indegno, proprio come Cristo che è morto per gli empi (Rm 5,7), amore che Dio in Cristo ha donato al credente (cf Rm 5,5). È dunque l'atteggiamento interiore che viene considerato, lo spirito; il modo di tradurlo in comportamenti e soprattutto in istituzioni è lasciato all'attenta, rischiosa ricerca dell'uomo guidata dall'esempio di Cristo.

Che la quinta antitesi vada intesa alla luce delle norme di carità lo comprova la sesta (5,43-48), che le è strettamente collegata e chiude la serie facendo in certo modo inclusione con la prima: all'amore paziente (vv. 21-26) fa riscontro l'amore perdonante e orante (w. 44-48), di modo che la giustizia superiore di cui le antitesi sono la formulazione icastica si rivela in definitiva essere la vita nella carità. Se anche dei rabbini sono giunti a vedere l'apice della perfezione nell'amore per i nemici,6 la prerogativa di Gesù è di averlo esteso a tutti senza limitazione; di averne sottolineato le esigenze dinamiche, di "conquista" dell'avversario, per il quale si è invitati a pregare (v. 44) affinché si converta; di averlo collegato con l'agire di Dio di cui il fedele, come figlio (cf v. 45), deve rispecchiare i tratti soprattutto nella capacità di amare senza calcolo, a salvezza.

Luca (6,27-36) suppone uno sfondo socio-politico diverso da quello palestinese di Matteo, un ambiente pagano in cui domina l'avidità e la ricerca di possesso ad ogni costo (6,29 sembra alludere a una rapina) a cui contrappone un atteggiamento di distacco dai beni e di generosità (v. 35), secondo quella sua prospettiva teologica che le ricchezze vanno come riscattate facendole servire agli altri, con spirito di misericordia (v. 36: cf 12,33; 16,9ss).7

Qui interessa notare che è sentito come impegno caratterizzante del cristiano il non resistere ai soprusi per motivo di vendetta o di rivalsa, lasciandosi invece guidare da un amore che deve cercare di vincere anche i nemici con il bene; e questo come insegnamento di Gesù a cui va senz'altro fatto risalire tale convincimento esistenziale.

LEGGE O VANGELO?

Interpretare le affermazioni del DM come leggi che esigono un'attuazione di tipo giuridico è stato abbastanza comune lungo tutto il cammino dell'esegesi, forse anche in forza della formulazione recisa: ... ma io vi dico... Ciò naturalmente non ha mancato di sollevare difficoltà, a cui si è cercato di ovviare in diversi modi: 6 spiegando che il DM è formulazione della perfezione cristiana irraggiungibile, sì che il fedele specchiandosi in esso percepisca vivamente la sua impotenza spirituale e si affidi totalmente a Cristo mediante la fede; o ricorrendo alla teoria della morale a due stadi, per i cristiani comuni e per chi tende veramente alla perfezione; o leggendolo sullo sfondo di una comunità di tipo apocalittico che pensava imminente la fine del mondo e poteva quindi instaurare modi di vita e rapporti sociali impossibili nelle situazioni comuni.8

Oggi sempre più frequentemente si parla di profezia o di vangelo in contrapposizione alla (o per lo meno a distinzione dalla) legge. Le prescrizioni sono da intendersi, in tale spiegazione, come istanze proposte, come ideale a cui tutti i fedeli devono seriamente guardare e tendere, anche se ardue. Trattandosi del Regno, Gesù è esigente e il discepolo deve sentirsi continuamente spronato alla conversione quale decisione radicale. Come però tradurre nel vissuto questa tensione ideale, sarà lo Spirito a insegnarlo, facendo riferimento ai tempi e alle circostanze, sempre che ci si lasci guidare dallo Spirito e mettendo in conto la pesantezza umana e la durezza di cuore.

Ciò vale anche per le ingiunzioni circa la non violenza, la non resistenza al male. Non meraviglia che abbiano ricevuto nel corso dei secoli delle interpretazioni divergenti e anche contrastanti, che vanno dal rifiuto del servizio militare alla preghiera per la vittoria sui nemici. Non per questo ogni interpretazione è ugualmente valida: lo è nella misura in cui con sincerità cerca di far rivivere lo spirito del DM, al di là delle mascherature o delle soluzioni di comodo, tenendo conto delle circostanze concrete. È certo che la risposta del cristiano al male dev'essere non violenta ma ciò non significa che non debba essere forte e impegnata, come quella di Gesù. Una lettura dell'invito a porgere la guancia che si risolvesse nell'accondiscendenza a ogni ingiustizia o nella ricerca di accordo anche a costo della verità « farebbe della pace evangelica una lettera che uccide, piuttosto che uno spirito che libera ».9 È importante ricuperare il messaggio che sta alla base di queste affermazioni del DM: il rifiuto della logica di dominio e di profitto egoistico; la fede inconcussa nella forza dell'amore; l'adesione alla persona e alla vita di Cristo che è passato per l'umiliazione e la croce. E non dimenticare che il cristiano è chiamato a provocare con lo scandalo della croce (1 Cor 1,23) un mondo che procede per vie inautentiche. Interpellato dalla Parola di Dio, egli deve verificare la congruenza delle sue opzioni più nascoste con le scelte di Cristo, sollecitato dai segni dei tempi. A queste condizioni la non violenza diventa inevitabile.

 

 

 

 

' Cf in proposito la panoramica di J. dupont, Le Beatitudini (vers. dal fr.), Roma 1976, 259ss.

2 Cf J. dupont, o.c., 373s.

3 Cf J. dupont, o.c., llllss; G. giavini, Tra la folla al Discorso della Montagna, Padova 1980, 65-70. Dello stesso v. anche // Discorso della Montagna nella problematica attuale circa il valore delle norme etiche del Nuovo Testamento, in AA.Vv., / fondamenti biblici della teologia morale, Brescia 1973, 253-272.

4 Cf I. dupont, o.c., 1101-1110.

5 Cf J. linskens, Un'interpretazione pacifista della pace nel discorso della montagna?, in « Conc. » 19 (1983) 4, 54s.

6 Cf R. schnackenburg, Messaggio morale del Nuovo Testamento, Roma 19814, 87-92.

7 Cf R. fabris, Introduzione alla lettura dei vangeli e degli Atti degli Apostoli, Roma 1983, 58s.

' Cf J. topel, La via della pace. La liberazione attraverso la Bibbia, Assisi 1984.

9 Settimana 1984, n. 41, p. 13.

 

Letto 2835 volte

Search