Che cosa significa integrazione, mediazione dei conflitti, confronto con altre culture don Pierro Gallo, 74 anni, sacerdote torinese, lo ha imparato sul campo. Nel 2004 è stato insignito del premio "European Common Ground Community Peace building Award" che viene assegnato a chi si è distinto nel trovare un terreno comune per la risoluzione dei conflitti. Vive e opera a San Salvario, la zona più multietnica di Torino, dove abitano persone provenienti da 115 diversi Paesi, dove la percentuale degli immigrati è del 30% rispetto a una media cittadina di poco meno del 10%.
Negli anni Novanta al suo rientro in Italia dopo un'esperienza di dodici anni in Kenya, dove ha fondato a Samburu la missione Lodokejek, il card. Giovanni Saldarini, gli affidò la parrocchia dei Ss. Pietro e Paolo. I torinesi allora volevano abbandonare quel quartiere difficile, svendevano i loro alloggi. Oggi non è più cosi.
Don Piero Gallo, che cosa ha permesso il cambiamento?
«Le chiese hanno lavorato molto. Vicino alla mia parrocchia ci sono la sinagoga, la chiesa valdese e tre moschee. Negli anni abbiamo realizzato iniziative comuni anche se non sempre stato semplice lavorare insieme. Abbiamo imparato a conoscerci, abbiamo dialogato, messo in pratica l’interreligiosità. Da dibattiti culturali promossi ogni volta da una chiesa diversa a serate contenitore in cui si presentavano usi e costumi delle diverse nazionalità. Con il pastore valdese Giuseppe Platone (ora trasferito a Milano) abbiamo vissuto una stretta collaborazione, nata una grande amicizia».
Attraverso quali gesti, quali scelte, quali interventi si creano le condizioni per una autentica integrazione?
«Prima di tutto sulla questione integrazione è necessario sfatare binomio immigrato uguale delinquente, un percorso si deve e si può fare, ma questo non significa che i problemi non esistano. Un contributo importante continua a essere offerto dalla scuola, è sui banchi che si vive la vera integrazione. E’ lì che si formano le seconde generazioni di immigrati.
Oggi ci sono famiglie della classe medio-alta che scelgono di venire a vivere nel nostro quartiere per inserire i loro figli in un contesto differente, di integrazione. Uomini e donne che si battono per le cose belle. Non dobbiamo mai dimenticare che sono gli immigrati che si prendono cura dei nostri anziani, dei nostri bambini, delle nostre case, si occupano delle nostre persone e cose più preziose. Lentamente anche chi vedeva nello straniero un nemico, vivendogli accanto cambia opinione. Si contaminano le nostre abitudini, le nostre idee. La società civile è molto più avanti delle leggi».
L'immigrazione va regolamenta , ma come? E a quale prezzo?
«Ci vuole un certo pragmatismo, le teorizzazioni sia da una parte che dall'altra non vanno bene. Non credo che l'accoglienza sia sufficiente. Gli stessi vescovi che parlano molto di accoglienza hanno, negli anni, scritto documenti anche sulla legalità, molto belli e complessi. Anche se l'appello è più verso l'accoglienza perché è la mission dei cristiani.
Qualsiasi parola venga pronunciata sull'immigrazione diventa politica. Come cristiani abbiamo già accettato cose che cristiane non sono: ad esempio tutta l'Europa ha delle leggi sull'immigrazione che partono dai flussi di lavoro. Una scelta che va contro i principi cristiani: tu entri perché mi servi. Ma che principio e questo? Trasforma le persone da soggetti in oggetti. Ci troviamo in una situazione di emergenza, per noi contrastare gli sbarchi (anche se è fondamentale precisare che si tratta di una percentuale minima) non è poi così negativo, quello che non va è che vengono rimandati in Libia e in altri Paesi dove li attendono condizioni tragiche, dalle quali sono fuggiti attraversando rotte insicure e pericolose. Uomini e donne che, pur di sfuggire ai regimi che li opprimono, sono disponibili a percorrere tutte le strade. Dal punto di vista internazionale si potrebbe fare di meglio».
L'integrazione passa anche attraverso ilt rispetto delle regole...
«Ci sono regole che loro devono assolutamente rispettare, ma noi dovremmo essere più disponibili a conoscere le altre culture. Penso, ad esempio, al rispetto e all'importanza che hanno verso gli anziani, soprattutto gli africani, verso l'esperienza maturata con gli anni. Credo anche che chi non si fa assistere e più pronto a integrarsi e anche a incontrare la fede. E’ giusto sostenere chi e in difficoltà, ma con interventi mirati. Quando una donna straniera trova un lavoro, si risolvono molte situazioni».
Quanto incide l'essere stato missionario in Africa nel suo agire quotidiano?
«L’esperienza della missione mi è stata di grande aiuto, ho sempre davanti agli occhi la loro povertà, noi siamo una piccola minoranza privilegiata. Mi ha permesso di vedere la ricchezza che portano gli stranieri. E’ molto interessante il loro approccio alla vita. Se mi confronto con loro sulla felicità, sono io ilt perdente. In Africa ho imparato la pazienza».
di Chiara Genisio
Vita Pastorale n. 7/2010