Penso che un elemento tutt’altro che secondario sia stata la capacità del regista di mostrare una vocazione rara e particolare come quella monastica – vissuta da una esigua porzione dei credenti che professano una fede a sua volta non più maggioritaria – sia in realtà una scelta umanissima, fatta di gesti quotidiani, di limiti e di paure, di ritmi e vicende addirittura quasi banali, di non apparizione, di quotidianità ripetitiva. E sia una scelta operata da persone normalissime, magari profondamente diverse tra loro per cultura, formazione, sensibilità, ceto sociale: persone nella quali ciascuno si può riconoscere, a prescindere dalla condivisione della medesima fede.
Il monachesimo, nelle sue espressioni più genuine, è sempre stato una scelta di controcultura, di volontaria e libera marginalità: non nel senso di un’opzione elitaria, di un consesso esclusivo di puri e duri, ma nel suo voler cercare il senso di ciò che si vive, nell’anelare a tradurre in scelte quotidiane nella loro ordinarietà le convinzioni più profonde che lo animano, nel non lasciarsi condizionare dai comportamenti della maggioranza quando questi si discostassero dalle esigenze evangeliche. Un fenomeno marginale, dunque, sovente periferico persino rispetto alla chiesa stessa – non si dimentichi la sua natura fondamentalmente non clericale – ma non autoescludentesi: un modo “altro” per essere al cuore dell’umanità, là dove pulsano le energie vitali di ogni convivenza.
Oggi, in una società in cui dimensioni come il silenzio, l’interiorità, la discrezione, la condivisione, l’obbedienza a istanze etiche, la ricerca della pace e della solidarietà paiono ignorate se non addirittura irrise, la semplice vita quotidiana di un pugno di uomini può destare nei cuori di chi li incontra – anche solo attraverso lo strumento della finzione cinematografica – una spontanea “simpatia”, può richiamare alla memoria desideri sopiti, aneliti a una vita più umana e pacata. Nel devastante dominio dell’apparire, della ricerca ossessiva dell’interesse personale a scapito degli altri e della collettività, della soddisfazione degli impulsi più incontrollati può suonare come una salutare boccata d’aria fresca la semplice testimonianza di chi liberamente decide di tener conto degli altri nel proprio comportamento, di chi accetta di condividere i doni – materiali come intellettuali e spirituali – che possiede, di chi affronta la sofferenza, il dolore e la morte come parti integranti di una vita che vale la pena di essere vissuta.
Sovente nasce così una paradossale “simpatia” verso chi si comporta in modo tanto diverso da noi: il suo semplice restare lì, fedele nel poco, fa sorgere una nostalgia profonda per i piccoli gesti quotidiani, il ricordo di come a volte basta uno sguardo, un tocco delicato, una parola sommessa, un pasto preparato con cura per farci riscoprire la grandezza delle nostre vite, l’umile bellezza di vivere non solo gli uni accanto agli altri, ma gli uni con gli altri, solidali nel condividere la comune umanità. Non abbiamo forse bisogno – oggi come sempre, e forse più che mai – di riscoprire l’antico senso della fedeltà alla parola data, dell’onorare gli impegni assunti, dell’alimentare incessantemente di senso i gesti più banali che compiamo ogni giorno per sottrarli all’asfissiante monotonia della routine?
Apparentemente saldezza e perseveranza non godono oggi di molto credito eppure, se ci interroghiamo in sincerità, cos’altro ci attendiamo dalle persone che ci stanno accanto? Cos’altro desideriamo se non che le persone amate restino fedeli a se stesse e a noi nel mutare di eventi e stagioni? Forse ci manca la consapevolezza che affinché questo sia possibile è necessaria una dinamica molto più profonda della volubilità cui siamo abituati, dell’affannoso rincorrere nuove prospettive, dell’infantile inseguire l’ultima emozione di un momento: la fedeltà infatti esige una capacità di mutare atteggiamento, di adattarsi alle situazioni che cambiano, di adeguarsi all’altro che accanto a me cresce, cambia, lavora, riposa, soffre, si rallegra, invecchia, muore, in una parola: vive.
Credo sia proprio questo uno dei messaggi più eloquenti di “Uomini di Dio”, un messaggio non riservato ai monaci, né ai cristiani o ai credenti: aver saputo mostrare la quotidianità del bene, le normali umanissime potenzialità che ciascuno di noi porta in sé, la capacità di amare e di essere amati senza calcoli, la possibilità di vivere con dignità anche nell’angoscia e nella paura, il faticoso discernimento su come affrontare situazioni drammatiche, cercando non come venirne fuori a tutti i costi, ma piuttosto come poterle attraversare tutti insieme.
Enzo Bianchi
priore del monastero di Bose
La Stampa, 24 ottobre 2010