I Colori della Speranza

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Mercoledì, 21 Marzo 2012 14:19

Il Dio della speranza (Jürgen Moltmann)

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Il Dio della speranza

Paura e speranza sono per così dire il pungolo nella vita. Non ci lasciano giungere a riposo. Né nella felicità, né nella disperazione troviamo la pace che cerchiamo nel bene o nel male.

 

L'uomo, finché vive, spera. Questo è un fatto generale. Le speranze fan parte delle forze più elementari della vita umana. Sono come l'aria che noi respiriamo e come il pane che mangiamo. Sono l'elemento in cui conduciamo la nostra vita personale e sociale. Per muoverci abbiamo bisogno di questo elemento come il pesce dell'acqua. Senza speranze la forza di tensione della vita si spezzerebbe. Senza attese non troveremmo gioia. Quando ci vengono tolte le speranze, siamo come un pesce che viene gettato a riva e vi muore.
Perché speranza e vita umana sono così connesse? Troviamo una prima risposta nel fatto che l'uomo non vive in eterno. Egli viene e passa. Perciò conduce la sua vita nel tempo e deve porsi continuamente la domanda del senso e dello scopo della sua vita. Su ciò che egli si costruisce e sulla parte di felicità che può acquistare incombe la minaccia della caducità. Perciò ha paura di delusioni e di perdite. Ciò che egli non ha e ciò di cui con dolore presentemente deve fare a meno, potrebbe forse ancora venire, potrebbe riuscirgli ed essergli donato. Perciò l'uomo con tesa aspettativa ricerca il nuovo che il futuro gli potrebbe portare. Non può quindi vivere alla giornata come il buon animale domestico, ma deve sempre pensare oltre il giorno e la sua felicità presente o la sua sofferenza presente. Il futuro è pieno di ogni possibilità, di bene e di male, di salvezza e di rovina. Perciò ci fa paura, così come ci affascina. Noi siamo esseri semplicemente fatti per il futuro. In timori concreti ed in attese per lo più indeterminate noi lo anticipiamo, cerchiamo di scandagliarlo, tiriamo entro il nostro presente il futuro oscuro. Mediante timore e speranza il nostro presente è sempre determinato dal futuro. Anzi, si potrebbe persin dire il contrario, che mediante timore e speranze il futuro si impadronisce del nostro presente. Paura e speranza sono per così dire il pungolo nella vita. Non ci lasciano giungere a riposo. Né nella felicità, né nella disperazione troviamo la pace che cerchiamo nel bene o nel male. In ogni felicità, nell'amore, nella famiglia, nel successo e nella prosperità vibra in fondo la paura, sovente repressa, ma insopprimibile, che tutto questo ci possa essere tolto. Non possiamo mai essere completamente sicuri. Ma, dall'altra parte, in ogni sofferenza, nelle nostre delusioni, nelle sconfitte della vita quotidiana circola anche il desiderio che possa esservi una fine e che tutto cambi direzione. Anche in una profonda rassegnazione non siamo quindi sicuri del futuro. È vero che allora diciamo: «Per me è finita», e tuttavia sappiamo che non è ancora finita, perché la vita, come si dice, continua.
Non soltanto la nostra vita personale, ma anche la vita sociale è determinata allo stesso modo da timore e speranza ad opera del futuro aperto. Dobbiamo sapere ciò che vogliamo, per fare ciò che oggi è necessario. Dobbiamo prevedere quali problemi ci aspettano, per vedere chiaramente il nostro compito presente e poterlo affrontare vigorosamente. Chi non fa che battersi continuamente sulle spalle e gloriarsi di ciò che ha raggiunto, è un sognatore. Tra tutte le illusioni la peggiore è l'utopia dello statu quo: «La meta è raggiunta» e «Che magnifico successo abbiamo avuto». Una società, che non ha più fiuto per il futuro, va in rovina per la sua propria saturità. Ciò appare in modo del tutto reale nel fatto che essa consuma soltanto i guadagni del suo prodotto sociale e non trova più forza per gli investimenti che sono necessari per creare ai figli un futuro degno di uomini ed assicurare inoltre ad un mondo, che è scosso da carestie, rivoluzioni e guerre, un futuro di pace e di giustizia sociale. Il presente atteggiamento dei consumatori nei nostri paesi ad alto livello industriale, dal punto di vista storico, è un atteggiamento di illusione, che si vendicherà amaramente. Esso dimostra che la categoria futuro minaccia di esaurirsi in noi. Perciò non si trovano in noi le forze materiali ed umane per investimenti a lunga scadenza e di dimensioni mondiali a favore di un futuro migliore.
Ora filosofi e teologi hanno parlato molto sul futuro dell'uomo nel tempo ed anche al di là del tempo, ma poco della forza  psichica che crea le attese del  futuro e le sostiene, anche se l'esperienza parla a sfavore. Tali aspettative vengono volentieri svalutate e chiamate chimere ed illusioni. «Sperare ed aspettare han fatto impazzire più d'uno», si dice. Di fatto è anche molto difficile preservare le speranze dal finire in sogni illusori e dal cadere nella rassegnazione. Infatti alla speranza manca la dimostrabilità. Essa procede a tastoni nell'anticamera aperta del futuro e perciò anch'essa ha sempre in sé qualcosa di rischioso. Non nasce dalle nostre esperienze, ma le precede e ci trascina oltre ciò che possiamo vedere e dimostrare, ed anche oltre ciò di cui possiamo disporre. Ma la speranza genuina non è un sogno irreale di vita più bella. È la forza psichica che riempie di futuro la nostra vita. Essa non è viva in chimere, ma nel fatto che ci procura qui la libertà per la trasformazione, per l'avvio e per il rinnovamento. La speranza genuina non ha nulla a che fare con un lontano futuro, ma collega un futuro sensato con il presente ed in quanto forza psichica è il modo in cui un futuro nuovo e migliore si impadronisce del presente. La speranza genuina non svuota qui la vita di sogni, ma porta il futuro nella vita. Essa rende la vita bella, la gioia profonda, il dolore sopportabile, ci dà coraggio per la lotta, vince la paura ed in tutte le cose oscure ci fa vedere la luce di un nuovo mattino.
Cos'hanno a che fare con 'Dio' queste speranze che permeano tutta la nostra vita personale e sociale? Se consideriamo la religiosità che conosciamo, cristianesimo incluso, abbiamo l'impressione che col nome 'Dio' si dovrebbe propriamente intendere qualcosa di eternamente saldo, qualcosa che è sempre presente senza tempo, a cui ci si può appoggiare e che offre un sostegno nelle vicende della vita. È vero che gli uomini, così pensiamo, sono sospinti qua e là da speranze e paure, ma così non può essere ciò che chiamiamo 'Dio'. Se con questo nome immaginiamo in genere qualcuno, pensiamo ad un essere superiore, che troneggia in maestà immobile al di sopra delle bassure in cui noi veniamo sospinti: imperturbabile, immobile, indefettibile, inoppugnabile ed eterno.
Se pensiamo 'Dio'  in tal modo,  ci può afferrare sia afflizione, sia conforto. Ci assale l'afflizione per il nostro destino, come si lamentava un giorno Hölderlin: «Voi camminate lassù nella luce su un terreno soffice, o geni beati... Ma a noi non è dato di riposare in nessun   luogo.  Spariscono, cadono gli uomini sofferenti, gettati ciecamente da un'ora all'altra, come acqua   di scoglio in scoglio, per anni giù nell'incerto». Ma in questo pensiero di Dio possiamo anche trovare conforto e pregare con il Salmo 90: «Signore, tu fosti rifugio per  noi,   di generazione in generazione. Prima che i monti nascessero, e fossero generati la terra e l'orbe, ecco, di secolo in secolo, tu sei Dio».
Se confrontiamo questa fede in Dio con i nostri timori e le nostre speranze, troviamo che essa ha qualcosa a che fare con la nostra paura del futuro, ma solo poco con la nostra reale speranza del futuro. Dinnanzi ad un futuro oscuro troviamo in essa un rifugio ed un ricovero e troviamo consolante che questo non venga meno, mentre tutto di noi passa e noi stessi passiamo. In tutte le religioni, e quindi anche nel cristianesimo, la forza del futuro fu sentita sovente solo come minacciosa. Essa era il «terrore della storia». Perciò si ricorreva a Dio nella fede contro l'oscurità del futuro e contro la paura e si cercava in lui la garanzia dell'eternità contro il tempo. Si credeva in Dio contro il futuro e si trovava nella fede la forza per vincere questa paura. Ciò ha trovato un'espressione di indimenticabile bellezza nelle liriche di Paul Gerhardt. «Infuria, o mondo, e salta, io me ne sto qui e canto in una pace del tutto sicura».
Ora, a questa certezza di fede contro la paura non deve essere tolto nulla. Essa è una forza immensa ed un grande dono. Ma la fede non deve ricorrere a Dio solo contro la paura del futuro; deve ricorrere a lui anche per la speranza del futuro, per il futuro dell'uomo ed il futuro della terra. Infatti occorre avere chiara coscienza che una fede, la quale ricorre a Dio soltanto contro il futuro, provoca una incredulità che poi ricerca un futuro senza Dio. Qualora si ricercasse Dio per sfiducia verso il futuro, non ci sarebbe da meravigliarsi che vengano altri, i quali, per sfiducia verso Dio, prendono nelle proprie mani il futuro di una terra più umana. Una fede senza speranza ha sempre provocato una speranza incredula. Qualora, per amore di Dio, si divenisse infedeli alla terra, ne risulterebbe automaticamente l'atteggiamento inverso, per cui si diviene infedeli a Dio per amore di un futuro della terra da rendere migliore.
Su questo punto si è formato in noi un ampio fosso tra fede e incredulità. È il grande scisma del mondo moderno tra religione e rivoluzione, tra Chiesa ed illuminismo, tra certezza di salvezza e responsabilità del mondo. Negli atei troviamo sovente - qualunque sia la forma sbagliata - grandi speranze per l'umanità. E nei cristiani troviamo sovente profondo scetticismo, cattivi presentimenti, anzi anche rassegnazione di fronte alle possibilità della storia per il futuro della terra. Ma ciò corrisponde alla volontà del Dio in cui credono? Con ciò non rinnegano le promesse di futuro del loro Dio e della sua storia con essi? Il loro Dio è soltanto un Dio della consolazione nella infelicità del mondo, o non è anche il «Dio della speranza» per la salvezza, la pace e la giustizia del mondo?
Se oggi vogliamo superare questa scissione tra fede in Dio e speranza nel futuro, dobbiamo risalire molto indietro nella storia per trovarne la ragione. Infatti questa scissione ha la sua causa nel primo scisma della Chiesa, nella separazione del cristianesimo da Israele e dall'Antico Testamento. Già molto presto il cristianesimo è uscito dall'orbita dell'Antico Testamento e si è installato coi mezzi di una religione greca e di una filosofia greco-romana come nuova religione mondiale. Il Dio dell'Antico Testamento si è eclissato dietro l'immagine di Dio dell'antichità ellenistica. Questa immagine di Dio venne presa ora per dimostrare l'universalità della divinità di Cristo. L'Antico Testamento è un libro della storia, della storia terrena, concreta, sociale e politica. Il suo Dio è dovunque il Dio della storia e della speranza storica nel futuro. Perciò viene chiamato il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» ed il «Dio dell'esodo». Perciò dalla sua venuta si aspetta il regno della pace e della giustizia sulla terra. Invece il Dio della filosofia greca è un essere supremo senza tempo, eterno, non scosso dai destini terreni, non disturbato da sofferenze terrene, quintessenza del mondo indefettibile, superiore. Nella lunga epoca religiosa e metafisica, che con ciò ebbe inizio per il cristianesimo, l'Antico Testamento contava poco. Per il gusto religioso esso emanava troppo odore di terra. Tuttavia non è stato rigettato, ma conservato.
Oggi ci troviamo in uno strano periodo di transizione. Da una parte questa forma della fede cristiana di stampo greco sta per finire. Essa perde la sua forza in un mondo storico. Dall'altra parte passa attraverso la teologia cristiana una «ondata ebraica», come io vorrei chiamarla. Da trent'anni circa si scopre l'importanza permanente ed indicatrice del futuro, che l'Antico Testamento ha per la fede cristiana. Si comprende che non è possibile leggere il Nuovo Testamento senza l'Antico, ma che soltanto entrambi, l'uno accanto all'altro, rivelano la pienezza della vita nella fede. Si scopre inoltre che Gesù di Nazareth non è affatto soltanto il muro divisorio tra cristiani ed ebrei, ma è piuttosto il ponte attraverso il quale la speranza veterotestamentaria in Dio e nel futuro della terra nel suo regno giunge ai non ebrei. Si scopre infine che il Dio, che diviene palese in Cristo, ha solo poco in comune con l'essere supremo e con il motore immobile dell'universo della filosofia greca; mentre è identico al Dio d'Israele e dei profeti. Con ciò ci troviamo dinnanzi a mutamenti fondamentali nel concetto di Dio. Dall'Antico Testamento viene una rivoluzione della fede cristiana, che può vincere e superare quella scissione moderna tra fede e speranza. Lo chiarirò in alcuni punti:
1. Il Dio della speranza. Nell'Antico Testamento non c'è propriamente un 'concetto' di Dio. Non si specula sulla eternità di Dio di fronte alla propria caducità. Ci si accorge di Dio raccontando storia, la storia delle parole percepite come dette da lui e degli atti compiuti da lui. Quando Abramo si accorse di questo Dio, sentì una promessa per il futuro: «Parti dalla tua terra e dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Io ti benedirò e tu sarai una benedizione» (Gen. 12,1-2). Ed Abramo partì, come racconta in modo lapidario la storia. Perché lo fece? «Sperando contro ogni speranza, egli credette», dichiara Paolo (Rom. 4,18). Qui ci si accorge quindi di Dio riconoscendo i nuovi orizzonti storici che egli dischiude. «Fede nella speranza» porta gli uomini su una nuova strada. Si esce dal mondo sicuro, disponibile della patria e della parentela, si diviene straniero in paese straniero, perché si ricerca il futuro di Dio. Qui, in questo «padre della fede», come è chiamato nel Nuovo Testamento, la fede in Dio è mossa dalla speranza ed è viva nel superare i confini naturali della vita, nell'abbandonare la sicurezza della vita ed il domicilio nel mondo. Si pone in gioco ciò che si ha, per acquistare ciò che è promesso ed in cui si spera. Questo è penetrato profondamente nella fede cristiana. Così leggiamo nella lettera agli Ebrei (11,1): «È poi la fede sostanza di cose sperate e argomento di quelle che non si vedono» e «Non abbiamo qui una città permanente,  ma ne cerchiamo una futura» (ibid. 13,14).
2. Il Dio della storia. Ma chi è questo Dio che non troneggia su di noi e non abita nel profondo del nostro essere, ma sta «dinnanzi a noi» e, in termini figurati, sospinge gli uomini verso il loro futuro? Con quale diritto si deve confidare che egli non inganna, ma è fedele ed anche realizza ed adempie in noi le sue promesse? Quando Israele dice chi è Dio, si ricorda del momento della sua nascita storica. Perciò è detto nel primo comandamento: «Io sono il Signore, Dio tuo, che ti ho fatto uscire dalla terra di Egitto» (Es. 20,2). Questa liberazione, che porta dalla schiavitù alla libertà del popolo di Dio, fu l'avvenimento in cui Dio fu vivo, presente ed attivo. In questo avvenimento, che introduce nella libertà, Dio acquistò il proprio volto per Israele ed il popolo acquistò il suo carattere e la sua speranza. Esso fu sempre inteso come l'avvenimento fondamentale che dischiude la storia e che identifica Israele come popolo di Dio. Fu l'indimenticabile segno storico in cui ci si accorse di Dio, in cui si trovò motivo per la presente fiducia in Dio, in cui ci si accertò del proprio futuro in libertà e pace. Questa uscita dall'Egitto divenne perciò un simbolo per la speranza in Dio e per il conseguente desiderio indomabile di libertà del popolo. Tutta la storia futura acquista il suo senso mediante quest'unico segno storico. Il futuro di Dio apporterà piena libertà dalle forze dell'oppressione, della umiliazione e della dipendenza.
3. Il futuro di Dio. Infine nei profeti troviamo il pieno primato del futuro. Dinnanzi alla distruzione politica di Israele essi annunziano la nuova venuta definitiva di Dio. Sulle assurde sofferenze e crudeltà del presente essi vedono spuntare un nuovo futuro in cui Dio preparerà a tutta la sua creatura tormentata un regno di pace e di giustizia. Dio è per essi la forza di questo futuro, in cui ciò che è storto sarà raddrizzato, ciò che è lacerato sarà risanato, gli afflitti saranno consolati, i prigionieri liberati ed i miseri sollevati. E poiché questo è futuro di Dio, mediante la speranza risvegliata e la libertà riconquistata esso influisce nel presente. Per essi tutto il presente è rimandato a questo futuro. Tutto il presente perciò è storico. In base a ciò che verrà, a ciò che non è ancora divenuto storia, il presente deve essere compreso, sofferto e configurato. Tutto, anche le cose più oscure, cadono nella luce dell'aurora di un nuovo giorno, divinità e gloria di Dio sono per i profeti il suo regno venturo. Perciò la divinità di Dio ed il futuro dei popoli e della terra sono per essi la stessa ed identica cosa.

Troviamo anche nel Nuovo Testamento una corrispondente concezione di Dio? Io penso che è esattamente così. Gesù, quando si presentò in pubblico, non annunziò un nuovo Dio, ma la vicinanza del regno di Dio atteso nell'Antico Testamento. La sua particolarità non stava in una nuova idea di Dio, ma nell'annunciare il tempo per il regno sperato: «Oggi questa Scrittura si è adempita nelle vostre orecchie». Inoltre consisteva nel fatto che egli, mediante le sue parole ed i suoi atti, rendeva presente il bramato futuro di quel regno: «Ma io vi dico...». Ed infine consisteva nel fatto che, mediante la sua comunione con i reietti ed i miseri del suo tempo, egli comunicava quel futuro di salvezza e di pace. Gesù non ha portato una nuova religione, ma la presenza dello sperato regno di Dio, quindi vita, vita giustificata, sana, ripiena di gioia in Dio. Anche i discepoli di Gesù quando, dopo la sua morte, si presentarono in pubblico non annunziarono un nuovo Dio od una nuova religione, ma Gesù come il risuscitato da Dio. «Risurrezione dei morti», una sintesi per il futuro della pienezza di vita creata da Dio, supremo contenuto della speranza contro la morte nell'abbandono di Dio, era avvenuta ed apparsa per essi nel Cristo crocifisso. Essi collegarono quindi il contenuto più vasto e più grande della speranza in Dio con ciò che era loro avvenuto in Cristo. Non come maestro di morale o come fondatore di una nuova religione, ma come «la risurrezione e la vita», Cristo nella loro predicazione conquistò gli uomini.
Essi compresero l'avvenimento di Cristo comprendendo questa speranza e, viceversa, trovarono motivo per una simile speranza, che vince il mondo e la morte, nella conoscenza di Cristo. Il Dio, la cui gloria apparve loro nella risurrezione di Cristo, è come una luce pasquale su questo mondo. È il «Dio della speranza». È il «Dio della storia», è «la forza di un futuro», che è sano, giusto e buono e che non viene più meno. Nella teologia cristiana non si è ancora riflettuto molto sul futuro in quanto modo di essere di Dio. Si sa che nella profezia veterotestamentaria la divinità di Dio ed il suo regno, che rinnova cielo e terra, sono connessi. Si sa pure che, in Gesù, messaggio di Dio e sua glorificazione su questa terra, priva di Dio ed abbandonata da Dio, sono connessi. Ma sovente si ritiene il regno di Dio come qualcosa che si aggiunge alla sua divinità solo più esternamente e perciò si ritiene la speranza come una manifestazione concomitante della fede. Ma in verità Dio è realmente Dio solo quando giunge al suo regno ed il suo futuro spunta su questa terra. In verità la fede è sostenuta da questa speranza. Se questo futuro fa parte della sua divinità, perché soltanto in esso la sua gloria sarà la salvezza della creatura, ciò significa pure che Dio hic et nunc non è ancora Dio in questo mondo. Il dolore per l'assenza di Dio in un mondo di sofferenze assurde e di crudeltà illimitate non è soltanto lo «scoglio dell'ateismo» (G. Büchner). Anche la fede cristiana contiene in sé l'afflizione per la lontananza di Dio, anzi è viva nell'appassionata speranza che Dio venga e che la sua venuta trasformi la faccia della terra. Alla fede cristiana la divinità di Dio ed il futuro di Dio sono accessibili qui soltanto nella figura del crocifisso. Essa vi trova la «sofferenza di Dio» per il mondo com'è e vede in questa sofferenza di Dio la passione di Dio per un nuovo mondo di libertà e di giustizia, che corrisponde al suo nome. La fede cristiana, per amore della sofferenza e della passione di Dio, che essa riconosce in Cristo, spera in un futuro del mondo, soffre del suo stato presente, lo accetta e lo ama nonostante tutte le delusioni ed i dolori. Nella figura del crocifisso il Dio venturo è presente. Chi segue questa figura acquista le forze del futuro, con cui lo stato presente può essere convenientemente mutato. In quanto Dio della speranza, il Dio venturo s'impadronisce del presente. Nell'amore, che si accolla il sacrificio perché il dolore gli è insopportabile, la vita personale e sociale viene aperta al futuro della salvezza. Se la fiducia in Dio toglie agli uomini la paura per la propria vita, la speranza in Dio può portare gli uomini nella conveniente mutazione e responsabilità della vita.

 

Jürgen Moltmann

(in AA.VV., Dio oggi, Brescia 1969, pp.121-130)

Letto 154411 volte Ultima modifica il Giovedì, 22 Marzo 2012 11:18

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