In ricordo di P. Franco

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Testimone e profeta del nostro tempo

Attualità di don Primo Mazzolari

di Sebastiano Cesca



LE TRACCE, L'EREDITA', L'ISOLAMENTO

A 40 anni dalla scomparsa del suo eccezionale "curato di campagna", Bozzolo, un paesino agricolo della bassa mantovana di 4000 anime, conserva ancora segni significativi della presenza di don Primo Mazzolari. Il visitatore che arriva nella chiesa principale del paese, la bella parrocchiale dedicata a S. Pietro, trova in testa alla navata destra una lastra tombale che reca semplicemente scritto PRIMO MAZZOLARI - SACERDOTE e due date: quella del battesimo (1890) e quella della morte (1959). Addossato al muro c'è il nudo bassorilievo ovale di un ramoscello d'ulivo innestato su un tronco. A pochi metri di distanza, oltre la sacrestia, si trova lo studio, ove per 27 anni dal '32 al '59, don Primo ha letto, meditato e scritto, attorniato da cumuli di carte e libri.
Oggi quei libri sono raccolti ed ordinati nella biblioteca della "Fondazione P. Mazzolari", sempre in Bozzolo, in un edificio ad essa dedicato ove sono sistematicamente catalogati anche i testi di centinaia d'articoli, saggi, discorsi prodotti lungo oltre un quarantennio d'intensa attività pastorale ed intellettuale. La Fondazione, costituita nel 1985 con decreto del presidente della Repubblica, è guidata da un comitato scientifico composto da docenti universitari, in prevalenza storici, sociologi e pubblicisti, fra i quali si segnalano G. Campanini, M.Guasco, A.Bergamaschi ed altri. Semestralmente è pubblicata, ormai da 10 anni, la rivista "IMPEGNO - Rassegna di religione, attualità e cultura", che si prefigge di presentare, analizzare, studiare il messaggio mazzolariano con il contributo, anzitutto, dei componenti del comitato scientifico, ma anche di giovani studiosi: oltre una settantina di laureandi ha attinto alla documentazione raccolta a Bozzolo per i lavori di tesi.
La Fondazione cura anche la pubblicazione di QUADERNI di documentazione che raccoglie testi d'articoli apparsi su giornali e riviste; inoltre mantiene i rapporti con gli editori che pubblicano le opere postume di don Primo.
Si tratta complessivamente di un lavoro non indifferente se si considera che i 20 volumi pubblicati tra il '32 e il '58 sono stati seguiti da altrettante opere postume tra il '60 e il '91. Si tenga conto, poi, che solo sul "Nuovo Cittadino" di Genova sono apparsi 67 articoli tra il '37 e il '49! Si tratta quindi di un'ingente mole di materiale che ben si presta ad analisi e connessioni con l'intensa produzione saggistica e letteraria francese di quegli anni (Maritain, Mounier, De Lubac, Bernanos, Mauriac...). Don Primo leggeva correntemente il francese ed anche il tedesco, così superava i limiti di un isolamento che il regime fascista riservava ai suoi oppositori. Egli, infatti, avversò decisamente il fascismo fin dal '25; nel '31 fu oggetto di un attentato - tre colpi di rivoltella sparati nella notte contro la finestra, dopo averlo chiamato - a Cicognara (MN), iniziale destinazione come parroco prima di Bozzolo.
Anche la cultura letteraria ufficiale lo ignorò per lungo tempo, ma fu soprattutto l'isolamento nella Chiesa che tanto amava - e dalla quale mai si allontanò nonostante i sospetti, i richiami e i provvedimenti - a costargli un'indicibile pena. Disse di sé stesso: "Pronto all'obbedienza, ma con la schiena diritta".

Ma prima di chiederci chi fu don Mazzolari, che cosa ci ha lasciato, lasciatemi dire di un altro segno della sua presenza colto a Bozzolo: la profonda emozione che ho avvertito nella sua chiesa quando ho ascoltato dal suo attuale successore - don Giovanni - un'omelia che echeggiava nei toni di voce, nell'essenzialità dei temi evangelici (si trattava del perdono nella vita di coppia durante una cerimonia nuziale), nella fine sensibilità psicologica, non solo lo stile, ma soprattutto l'anima, la passione apostolica di don Primo.

LA PRIMA CONTESTAZIONE E UN GIORNALE SCOMODO

Avevo conosciuto don Mazzolari attraverso il suo quindicinale "ADESSO" negli anni dell'università. Erano gli anni caldi della prima contestazione cattolica in impaziente attesa del rinnovamento conciliare che sarebbe sopravvenuto solo una decina d'anni dopo; ed era il tempo in cui Mario V. Rossi era presidente della Gioventù Cattolica - ex-GIAC - e don Arturo Paoli assistente centrale: entrambi, unitamente ad altri dirigenti del movimento - interpretando un certo disagio della "base" - si opponevano alle operazioni para-politiche di L. Gedda (fondatore e gestore incontrastato dei "comitati civici") che sostenevano l'alleanza coi fascisti nelle elezioni comunali di Roma (1951). Ma Gedda godeva di larghe approvazioni curiali e politiche, cosicché la sua linea risultò vincente ancora per un decennio. Naturalmente M. V. Rossi, don A. Paoli ed altri dirigenti centrali furono dimissionati. Molti "reduci" da quella battaglia si ritrovavano idealmente sulle pagine di "ADESSO", il giornale fondato nel 1949 da don Mazzolari che aveva fatta sua la frase del grande teologo svizzero Karl Barth "un cristiano con la Bibbia in una mano e nel cuore, e nell'altra il giornale" per esprimere un'attiva partecipazione ai processi culturali e agli avvenimenti del suo mondo. Il quindicinale aveva ripreso le pubblicazioni nel novembre del '51 dopo sei mesi di sospensione su richiesta del card. Schuster sollecitato dal S. Ufficio; ma poi lo stesso cardinale revocò la sospensione affermando che " il quindicinale fa del bene ai cattolici".
"ADESSO" era un foglio che si rivolgeva a chi avvertiva la necessità di una formazione socio-politica autenticamente cristiana e don Primo profondeva tutta la sua passione evangelica nel cogliere i limiti e le contraddizioni di un potere che si diceva cristiano, ma l'accezione era strumentale e trionfalistica. Quelli erano " gli anni dell'onnipotenza" democristiana, ma anche i tempi in cui René Voillaume pubblicava "COME LORO" (il titolo originale, ben più significativo, era "Au coeur des masses"), il testo della spiritualità dei Piccoli Fratelli di Ch. De Foucald, fra i quali sarebbero presto approdati Carlo Carretto (predecessore di M. V. Rossi alla guida della GIAC) e Arturo Paoli: anche questi sacrifici incruenti erano nel solco di quanto avveniva a Bozzolo.
Il piccolo gregge che si ritrovava attorno ad "ADESSO" viveva una vita sempre difficile. Mazzolari, infatti, come ha detto molto bene L. F. Riffato "inseguiva il sogno di una società autenticamente cristiana, pacifica, libera e solidale: una radicale rivoluzione sociale cristiana. Non un partito". Evidentemente il "sistema" non poteva accettarlo; a fatica lo tollerava. In questo contesto si sono prodotti gli undici richiami della Chiesa gerarchica a don Mazzolari, soprattutto per "ADESSO", che continuava ad essere un foglio di frontiera sul piano religioso e sociale; sul piano politico inseguiva tenacemente il centro-sinistra, un tabù per quell'epoca.

LA MISSIONE A MILANO

Ma i tempi dell'intransigenza (politica e dottrinale) stavano lentamente tramontando; di lì a poco. Alle soglie del Concilio, le opinioni su don Primo si sarebbero capovolte: "ha avuto ragione troppo presto", "ha anticipato i tempi del Vaticano II", che avrebbe recepito i suoi messaggi fondamentali. In realtà don Primo è stato non solo un pastore fedele al Vangelo, un educatore dei piccoli e degli adulti, un appassionato difensore dei deboli e dei valori democratici, un tenace cercatore di pace attraverso la comprensione delle ragioni altrui, un prete di vedute ecumeniche quando l'ecumene era ridotto ad un ambito ristretto; è stato un oratore affascinante ed anche un tenace polemista, un insistente annunciatore delle sue più profonde convinzioni, ma è stato soprattutto un "profeta degno di fede "(Sir. 36, 18).
Il futuro Paolo VI, allora arcivescovo di Milano, riconobbe nel 1957 a P.Mazzolari, D.M. Turoldo, E. Balducci, N. Fabretti, C. Del Piaz ed altri ancora, un'acuta capacità di discernimento, di cogliere i segni dei tempi, di saper dialogare col mondo contemporaneo: e li invitò tutti alla grande Missione cittadina. Per don Primo, come scrisse nel suo diario, "fu di grande consolazione la fiducia inattesa" espressa dall'invito di mons. Pignedoli a nome dell'arcivescovo.
Nel novembre di quell'anno ero divenuto fedele ambrosiano da pochi mesi; l'andare ad ascoltare don Mazzolari nell'ambito della Missione in via Torino, nella chiesa-tempio di S. Sebastiano, era impossibile; la folla traboccava in strada... A Bozzolo ho ritrovato i temi (le registrazioni!) di quegli incontri: sono titoli che esprimono tutta la sensibilità e la passione missionaria di don Primo: "La sofferenza nella Chiesa", "Il tuo volto, Signore, io cerco", "Il mistero dell'ingiustizia", "Il mistero del dolore","Zaccheo", "Il Padre nostro".
Un altro vertice don Primo lo toccò nell'omelia del giovedì Santo 1958, un anno prima di morire; parlò di "Nostro fratello Giuda", sul filo di una speranza che va oltre ogni limite perché fondata su un Amore sconfinato di cui egli riusciva a farci percepire l'incommensurabilità.Ma solo ascoltando le parole di don Primo si può comprendere che sorta di prete fosse:
"Io credo che se in questi giorni di Missione avessimo avuto il coraggio di aprire certe pagine del Vangelo (le voci che parlano del Padre), di ripetere certe parole, io credo che il primo a chiudere il libro sarebbe stato questo povero prete, che finora non ha avuto il coraggio di aprire con franchezza estrema, con spudorata chiarezza. Forse, vedete, la nostra Missione avrebbe un significato tremendo, qualcheduno di voi direbbe aggressivo.
E del resto, miei cari fratelli, se una verità non ha il coraggio di aggredire, vale a dire se non diventa una passione,se non ci crocifigge..."
"Quello che importa, per la mia fede e la vostra, se avete la forza di credere, è che il Figlio di Dio ci dà il volto del Padre, ci dà la misura umana della carità, perché altrimenti noi non saremmo riusciti ad accoglierla, ad accettarla ...Perché non dovete dimenticare che il mistero dell'incarnazione rappresenta l'"occupazione" dell'Amore, una delle più inimmaginabili maniere di occupare il mondo da parte di Dio...".
Ma non basta cercare il Padre: "Se noi non riusciamo, attraverso il Padre, a sentire il "fratello", niente conta. Se non troviamo il fratello, anche il volto del Padre non esiste più. Ed è qui, vedete, dove comincia la Missione. Voi direte qui comincia l'aggressività. Può anche darsi. Io però userei un'altra parola, userei la parola impegno. E' qui, vedete, la prova della nostra fede. E' qui la prova se il Padre ha una consistenza, ha una realtà... Chi è mio fratello?C'è la parabola,una di quelle parabole che non si possono leggere se non in ginocchio: la parabola del Samaritano. Tutti,tutti... E' qui, o miei cari, dove comincia la difficoltà d'essere cristiani".
Nel tradimento di questo rapporto di fratellanza ha origine il mistero del male e dell'ingiustizia: "La nostra implacabilità non viene, molte volte, da quello che è il senso o l'esigenza della giustizia; viene da un'attenuazione, o da un oscuramento di quello che è il senso della paternità, e se volete - per quello che riguarda noi, non per quello che riguarda Dio - della corresponsabilità...Non abbiamo mai misurato quello che c'è di nostro nel male. Ad un certo momento abbiamo l'impressione che sia fuori di noi, che non ci riguardi,che la nostra mano non l'abbia mai toccato: ma non c'è nessuna manifestazione del male, non c'è nessuna ingiustizia, o miei cari fratelli, non c'è nessun delitto che non porti una piena corresponsabilità... Cuore paterno, corresponsabilità fraterna: in fondo quando gridiamo, se abbiamo il coraggio di gridare, ricordatevi che in quel momento ci dimentichiamo che l'accusato siamo noi".
E infine le parole che attingono alle profondità della coscienza della propria ostinazione cristiana: "La storia che mantiene viva nella coscienza degli uomini il senso della giustizia, e che soprattutto dà forza alla coscienza è la parola del profeta, è la parola del resistente cristiano, del resistente umano, che non bada al costo della verità. Perché voi lo sapete, la verità non la si mette al mondo facilmente: costa tremendamente".

LA RIABILITAZIONE

Fece in tempo don Primo, prima di morire, - due mesi prima che l'ictus cerebrale lo colpisse durante la messa domenicale del 5 aprile '59 - ad ascoltare da Giovanni XXIII quella riabilitazione totale che coinvolgeva direttamente la sua persona e con lui quanti avevano atteso e invocato la stagione conciliare. Disse, in quella udienza indimenticabile, il "Papa buono": "Ecco la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana". E il giorno dopo don Primo scrisse sul suo diario: "Ho dimenticato tutto!".
Don Primo, invece, non fu dimenticato dai successori di Giovanni XXIII; infatti, 11 anni dopo la sua scomparsa, Paolo VI, testimone sofferente di tante vicende curiali, diceva con lucidissima chiarezza ed altrettanto evidente pena:" Non era sempre possibile condividere le sue posizioni: don Primo camminava avanti con un passo troppo lungo e, spesso, non gli si poteva tener dietro; e così ha sofferto lui ed abbiamo sofferto noi. E' il destino dei profeti". Ed è quasi incredibile che Papa Luciani, nel suo pontificato di soli 30 giorni, abbia trovato modo di dire di lui :"Don Primo fu un uomo leale, un cristiano vero, un prete che cammina con Dio, sincero ed ardente. Un pastore che conosce il soffrire e vede lontano. Il suo giornale era la bandiera dei poveri, una bandiera pulita, tutto cuore, mente e passione evangelica".

L'EREDITA' SPIRITUALE.

Ma cosa ci resta di don Mazzolari? Dov'è la sua attualità?
Ci ha aiutato molto,durante la nostra visita a Bozzolo, il presidente della Fondazione don Giuseppe Giussani, a cogliere sinteticamente l'eredità spirituale di don Primo.
Qui,però, non posso non dire grazie all'Associazione "G. Lazzati" che ha avuto la felice idea di organizzare la visita a Bozzolo e di offrire tanti stimoli attraverso i ricordi incrociati dei presidenti dell'Associazione, della Fondazione e del suo segretario.
Ricordava don Giussani:

1. Il primato della Parola di Dio.
Il Concilio Vaticano II accoglierà questa intuizione, sviluppandola in profondità, nella costituzione "Dei Verbum", a suggello di un lungo percorso denso di studi, ricerche e prodigioso lavoro, ma anche di contrasti ed opposizioni all'inizio del secolo. Uomo di sofferta e profonda spiritualità don Primo disse:" Il Signore ha una maniera di fare e di dire che dà le vertigini perché Egli è la Parola che congiunge le vette dell'infinita misericordia con gli abissi della nostra sconfinata miseria".

2. La teologia della Croce.
Don Primo ha sperimentato di persona sofferenze pungenti, anche se incruenti, e la spiritualità che maturò fu davvero cristologica, centrata sul Crocifisso. Scriveva al card. Montini nel gennaio del '59 dopo altre drammatiche tensioni: "Nel 1954 mi fu tolta la parola e la penna per un "filocomunismo" che nessuno ha mai potuto provare, perché smentito dai fatti. Fui condannato senza essere interrogato nè prima nè poi, sotto banco e senza termine. Se non fosse intervenuta Vostra Eminenza,con una bontà di cui vi sarò sempre riconoscente, chiamandomi alla Missione di Milano, nessuno, e comincio dal mio Vescovo che avrebbe potuto spendere una parola per un suo vecchio prete, si sarebbe accorto che non si può condannare a vita un prete che ha sempre voluto bene alla Chiesa più che a sè stesso".
Ha scritto lapidariamente qualche anno fa "Civiltà Cattolica": "Mazzolari ha il diritto di essere inserito fra quelli che hanno fatto della loro vita una testimonianza eroica, talvolta anche clamorosa, di Cristo e del Vangelo".
Nei momenti di suprema asperità don Primo attingeva alla sua capacità contemplativa ; quando fu sospeso "ADESSO" scrisse :" Tutto è speranza perché tutto è fatica; tutto è grazia, anche il morire; tutto è testimonianza, anche il silenzio, soprattutto il silenzio. Chi vive con i poveri da quando è nato e si dà attorno per fermare la loro diserzione dalla Chiesa, può sbagliare nel por mano ai rimedi. La Madonna avrà misericordia di un vecchio prete che è riprovato senza misericordia". Amarezza, coscienza della giusta battaglia e speranza si fondono in alta spiritualità.

3. Una ecclesiologia ecumenica.
L'insegnamento della " Lumen gentium" e le aperture ecumeniche dei recenti pontificati,da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, hanno forti anticipazioni nelle intuizioni ecumeniche di don Mazzolari mutuate dalla Scrittura al di fuori - o meglio, oltre - l'ecclesiologia ufficiale del tempo, e dai contatti coltivati con pastori protestanti; in quegli anni simili aperture erano viste come indice di debole ortodossia.

4. La corresponsabilità dei cristiani laici.
E' stata largamente accolta nelle costituzioni conciliari " Gaudium et spes" e " Lumen gentium" per quanto riguarda, rispettivamente, gli aspetti "ad extra" e " ad intra" la cittadella ecclesiale. Su questi temi don Primo trovò grande sintonia con G. Lazzati che fece della promozione laicale un "leitmotiv" della sua alta testimonianza. E' significativo che don Mazzolari abbia collaborato col quotidiano cattolico milanese "L'Italia" quando Lazzati faceva parte della direzione del giornale. La stessa fondazione di "ADESSO" - e le battaglie condotte per la sua sopravvivenza - avvenne per realizzare una palestra di quella formazione socio-politica che doveva preludere all'assunzione diretta di responsabilità sociali da parte di laici evangelicamente ispirati.
Non dimentica la parrocchia don Primo e segue attentamente l'involuzione che - a suo parere - stava avvenendo nell'organizzazione laicale dell'Azione Cattolica; si legge su "ADESSO" del 1958:" L'invito del Pontefice ai laici perché escano dal loro stato di minorità è sistematicamente dimenticato proprio da coloro che dovrebbero esserne i più fedeli interpreti: clero ed Azione Cattolica".
Vivendo intensamente l'esperienza parrocchiale e scrivendone ripetutamente, fa della parrocchia la "casa dell'anima" e la vede "come base di un rinnovamento della vita religiosa". Essa è la cellula della Chiesa. Al suo interno vanno superati i pericoli di clericalizzazione del laicato che paventa come una sterilizzazione del tessuto ecclesiale. Scriveva: "Dalla parrocchia devono transitare le grandi correnti del vivere moderno, non dico senza controllo, ma senza pagare pedaggi umilianti e immeritati".
Nel 1938 don Primo pubblicava una cinquantina di pagine sul problema dei "lontani" dedicandole "Alle anime sofferenti e audaci". Non piacque il titolo e ancor meno i motivi che a parecchi parvero temerari. Vent'anni dopo si teneva presso l'Università Cattolica la settimana nazionale d'aggiornamento pastorale dedicata a "La comunità cristiana e i lontani" e l'analisi di vent'anni prima ("L'animo di colui che se ne va"- "Il metodo di conquista"- "Verso il mondo dei lontani" - "Il compito dell'intelligenza") fu considerata ancora attuale.
La preoccupazione per i cosiddetti "lontani" e lo sforzo di ricerca di un dialogo con essi fu una costante nella riflessione di don Primo, come testimoniano le pagine di "ADESSO".

5. La scelta dei poveri
fu in realtà, per don Primo, una condivisione delle condizioni di vita dei suoi parrocchiani, in gran parte agricoltori. Egli conobbe bene le condizioni di povertà del bracciantato agricolo fra le due guerre e reclamò ripetutamente e a gran voce maggior giustizia sociale per coloro che conservavano sempre la dignità di persone anche nell'indigenza. In questo "milieu" nacque e si sviluppò la sua grande passione sociale e politica sempre illuminata dalla Parola rivelata. Com'è noto, buona parte della "Gaudium et spes" affronta queste complesse tematiche che hanno indotto molte Chiese locali - come le comunità latino-americane - alla scelta radicale a favore dei poveri; analogo, rivoluzionario passo è stato compiuto da Ordini, Congregazioni, Istituti, Famiglie religiose sia di lunga tradizione (si pensi ai Gesuiti) che di più recente costituzione. Scriveva don Primo: " Occorre un grande amore per comprendere i poveri, per rinunciare a giudicarli. Dove non c'è amore il di più non c'è; dove c'è tanto amore tutto è di più, anche la propria vita. Chi ha poca carità vede pochi poveri; chi ha molta carità vede molti poveri; chi non ha nessuna carità non vede nessuno. Per impedire ai poveri di disperare basterà la parola pazienza? Senza una carità folle non si salva il mondo. Il mondo attende una nuova Pentecoste".

6. L'utopia della pace: " Pace nostra ostinazione".
Quante volte sono apparse queste tre parole sulle pagine di "ADESSO"! Tuttavia è singolare il percorso intellettuale e spirituale che don Primo fece a riguardo. Fu cappellano militare nella 1° guerra mondiale, interventista convinto, inizialmente persuaso che i travagli dell'umanità potessero essere risolti con lo scontro armato. Così pensando pagava un debito alla cultura ufficiale post-risorgimentale che permeava le nostre scuole e che vedeva nel compimento dell'unità un imperativo categorico. Ma gli bastò l'esperienza sul fronte e fra i reduci nel primo dopo-guerra e,successivamente, il dover respirare l'atmosfera falsa e bellicosa della prepotenza fascista, ed ancora, l'avventura della 2° guerra mondiale, per arrivare a condannare ogni guerra e scrivere, nel 1955, quel "Tu non uccidere" che fu per lungo tempo una delle più forti prese di posizione antimilitaristiche. Scriveva: "Per un cristiano il far morire è il colmo dell'atrocità. Ove comincia l'errore, l'iniquità, cessa la santità del dovere...incomincia un altro dovere: disobbedire all'uomo per rimanere fedeli a Dio".

7. L'orizzonte planetario.
Don Primo anche se vive tutta la sua vita confinato fisicamente entro il mondo agricolo della "bassa" padana, spiritualmente vive - anzi, anticipa con le sue intuizioni - la stagione nuova della Chiesa "percorrendo le strade di un paese, ma quel paese è uno spicchio di universo". Lungi da lui un'ottica provinciale,percepisce l'accorciarsi delle distanze sotto la spinta delle nuove vie di comunicazione e dello sviluppo di processi decisionali sovraregionali sempre più interconnessi, anche se tutt'altro che unitari. E' l'intuizione del " villaggio globale",dell'"uomo planetario" come dirà vent'anni dopo p. E. Balducci che investigherà a fondo questi temi con altro approccio ed altre finalità. In Mazzolari la prospettiva d'impegno è locale, mentre l'orizzonte intellettuale e spirituale è globale: un'ottica che è pressoché coincidente con quella dell'Associazione " G. Lazzati".
E' una notazione che dice, anche da questo versante, l'attualità di don Primo. Per cui il nostro andare a Bozzolo è stato - oltre che una riscoperta - un segno di gratitudine verso colui che è stato, ed è tuttora, punto di riferimento per chi fa della fede cristiana un impegno di vita.

L'OPINIONE DELLO STORICO E IL SUGGELLO DEL CARD. C. M. MARTINI

Molti storici hanno studiato, e stanno ancora vagliando, l'opera di don Mazzolari nei suoi molteplici aspetti. Don Lorenzo Bedeschi, storico all'università di Urbino, ha riferito di recente (1990) sull'attività giornalistica di don Primo, come si è manifestata sulle pagine del suo giornale. Riportiamo le conclusioni di quel lavoro come le ha espresse G. Vaggi, primo direttore del giornale: "ADESSO" ha rappresentato senza dubbio una voce originale ed inconsueta, voce impastata di passione cristiana e civile, di laicità schietta e di dialogo con le sinistre, di ostinato pacifismo e di sofferta lealtà evangelica. La pur cospicua componente polemica con quelli di casa non esauriva affatto la posizione di Mazzolari, benché abbia avuto una parte importante come parte critica nella linea di "ADESSO".
Vi si legava indissolubilmente una parte costruttiva che nella chiesa preconciliare diventava il vero nocciolo di aggregazione ideale per quanti non si riconoscevano nè nell'anticomunismo borghese,nè nell'associazionismo cattolico integrista,poichè cercavano un servizio responsabilmente libero. Suo grande assillo era di allarmare e di inquietare onde impedire la chiusura del mondo cattolico e delle sue meravigliose forze in un ghetto di marca clericale e falangista, senza alcun pregiudizio ed avversione per chicchessia, senza alcuna condanna dell'uomo onesto e sincero". Dopo le solenni parole di ben tre pontefici su Mazzolari -sopra riportate anche se datate- vi è stato molto di recente (aprile '99) il ricordo del card. C.M. Martini che appare come il commosso suggello di un vescovo alla tormentata vita di un prete idealmente suo: "Non ho avuto occasione di conoscere personalmente il parroco di Bozzolo. Ho però potuto cogliere qualcosa della sua statura di cristiano e di prete, leggendo alcuni suoi libri e numerosi articoli di "ADESSO". Don Primo fu profeta coraggioso e obbediente, che fece del Vangelo il cuore del suo ministero. Capace di scrutare i segni dei tempi, condivise le sofferenze e le speranze della gente, amò i poveri, rispettò gli increduli, ricercò ed amò i lontani, visse la tolleranza come imitazione dell'agire di Dio. Quello di Mazzolari è un messaggio prezioso anche per l'oggi".

(da Impegno cristiano, dicembre 1999, anno XIX n° 42)

Pubblicato in Maestri Contemporanei
Venerdì, 28 Settembre 2007 23:42

La fede e il tempio (Giovanni Vannucci)

La fede e il tempio

di Giovanni Vannucci


Il testo evangelico di Lc 17, 11-19 riprende il tema del rapporto tra il contenuto e la forma della religiosità; tra lo spirito e le prescrizioni liturgiche; tra Cristo, Tempio non costruito da mano d’uomo, e il tempio, struttura e costruzione dell’uomo.

L’azione si svolge tra Cristo e il sacerdozio ufficiale del tempio ebraico; i dieci lebbrosi in cammino tra questi due poli sono la figura di noi uomini. Guariti da Cristo, ricevono l’ordine di presentarsi al sacerdozio ufficiale per le purificazioni e il riconoscimento della guarigione. Nove, dimenticando l’autore della guarigione, si perdono nel tempio e nel suo cerimoniale. Uno solo ritorna a Cristo: il Samaritano, l’eretico che non si trovava a suo agio nel tempio di Gerusalemme, ma il cui cuore sensibile e grato lo riconduce a Cristo, a Colui che salva mediante la fede in lui riposta. «E Gesù gli disse: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!”» (Lc 17, 19).

Noi cristiani, chiamati a edificare il Tempio dello Spirito, mai dobbiamo perder di vista l’estrema delicatezza del nostro servizio religioso. Le strutture comunitarie, rituali, ecclesiali, che danno forma e visibilità alla edificazione del Tempio dello Spirito, nascono da Cristo, dalla sua opera salvifica, e devono condurre a Cristo, alla sua Verità e Santità.

Cristo è la Verità: da lui l’uomo è liberato dalla lebbra dell’errore, del falso, dell’egocentrismo, del volere negativo, e, attraverso le strutture che traducono nel tempo l’anelito cristiano alla pienezza della Verità, l’uomo deve essere aiutato a raggiungere la Verità sempre più vasta, più illimitata, più liberatrice.

Cristo è la Verità che ci fa liberi; le forme che essa assume nel mondo dei fenomeni devono essere cosi sature dell’ansia liberatrice di Cristo da aiutare l’uomo a passare di liberazione in liberazione, fino a riposare in quella libertà dove il cuore non ha più timore, la coscienza non sperimenta più oppressioni e la mente esulta per aver trovato la terra che la placa nella luce gioiosa di tutto il vero.

Com’è espressivo l’episodio evangelico dei dieci lebbrosi! Cristo, rimanendo fuori del tempio, costruito da mano d’uomo, guarisce l’uomo affetto dalla lebbra, lo invia nel tempio e lo attende fuori del tempio. Ritorna a Cristo colui che accetta il rito in virtù della parola di Cristo, e nell’ambito del tempio sente allargarsi il cuore per la riconoscenza e l’amore verso Colui che l’ha risanato, e per questo riceve la grande parola: «Torna nella vita; la tua fede ti ha dato la salvezza!» (Lc 17, 19).

Le strutture visibili della Realtà cristiana non sono un fine, ma un mezzo, la forma che nasce da Cristo e che a lui conduce. Il Sacramento, la Dottrina, la struttura temporale dell’Ecclesia cristiana nascono da Cristo, e a lui devono ricondurre l’uomo, arricchito di gratitudine e di amore.

L’uomo, elevato dalla nuova vita, trasmessagli da Cristo e dal Sacramento, ritorna nell’esistenza dei mondi irredenti per disseminarvi la luce e la vita di quella fede che lo ha salvato e che è germe di Redenzione per tutti. La fede ha la sua manifestazione umana nel cuore redento in un amore nuovo e in una gratitudine nuova.

Giovanni Vannucci, «La fede e il tempio» in La vita senza fine,  Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, (28a del tempo ordinario - Anno C), pp. 203-204.

Pubblicato in Maestri Contemporanei
Mercoledì, 29 Agosto 2007 02:30

La vita e la morte (Giovanni Vannucci)

La vita e la morte

di Giovanni Vannucci

Il brano evangelico di Mt 16, 21-27 continua quello della confessione di Pietro; nel tentativo di comprenderlo, è necessario che riprendiamo alcuni vocaboli chiave di tutto l’episodio.

Gesù domanda ai discepoli: «Cosa dite che sia il Figlio dell’Uomo?». «Figlio dell’Uomo» è la traduzione letterale dell’espressione ebraica ben-Adam. Per la nostra mentalità il termine figlio designa il frutto naturale di una coppia; nella mentalità ebraica esso è, piuttosto, il portatore di un destino, di un mandato affidato al capostipite di una famiglia. Così, per esempio, i figli d’Israele sono i depositari e i continuatori della missione divina affidata a Israele. Adamo, nel linguaggio ontologico del Vecchio Testamento, indica l’essere umano distinto da tutte le altre creature per la caratteristica di portare nel suo sangue, dam, la presenza attiva dell’Iddio vivente. Infatti l’uomo, Adam, è l’essere creato destinato a spezzare i ritmi ripetitivi caratteristici degli esseri appartenenti ai vari regni della natura. Cristo, affermando di essere il ben-Adam, il Figlio dell’Uomo, sottolinea la realtà ultima della sua persona, quasi dicesse: io sono la perfetta manifestazione dell’Uomo, nella mia carne e nel mio sangue il Dio vivente è attivo, senza quelle limitazioni che l’esistenza pone a ogni altro uomo. Le mie azioni sono imprevedibili, indeterminabili, come quelle della vita che, pur essendo contenuta nelle forme della manifestazione, è incommensurabile a esse, è dentro le forme esistenti e oltre esse. La mia azione, pur esprimendosi nelle strutture stabilite, non può essere contenuta da esse, le fa esplodere dall’interno. Pietro, in un momento d’improvvisa illuminazione, comprende che la forma umana di Cristo è l’abitazione, lo scrigno dell’infinita vita divina: «Tu sei il vero Figlio dell’Uomo, in Te dimora la vita del Dio vivente». Pietro vien dichiarato «Beato», colui che è nella Verità, avendo saputo trascendere i dati della carne e del sangue in una visione che coglie l’invisibile realtà del Maestro.

E a questo punto comincia la seconda parte dell’episodio. Gesù cominciò a dire apertamente che «avrebbe subito violenza da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti, degli scribi, che sarebbe stato ucciso, dopo tre giorni avrebbe ripreso la vita». Evidentemente queste parole di Cristo continuano, spiegandone l’aspetto concreto, l’affermazione di Pietro: «Tu sei il Figlio del Dio vivente». Quasi dica: «Sono il Figlio del Dio che è vita, la mia manifestazione dovrà essere strettamente aderente alla vita. Come la vita è nelle forme, le conduce alla maturazione, quindi le spezza, le uccide per riprendere la sua trionfale manifestazione, così Io, il Vivente, dovrò essere ucciso, il mio corpo morrà, Io non morrò, il mio nuovo corpo avrà forma differente da quella che adesso ha nella dimensione terrena».

Pietro, ancora beato per aver azzeccato la definizione del mistero del Maestro, di fronte all’imprevedibile quadro che egli fa della sua missione, rimane sconcertato, non capisce più. Per Pietro la vita è la vita, la morte è la morte; ora il Maestro afferma qualcosa di totalmente impensabile: «È necessaria la mia morte, perché la vita raggiunga il ritmo della risurrezione. Nella vita è la morte, nella morte è la vita, questo è l’attuale ritmo; con me l’uomo non crederà più alla morte, ma alla continua ascesa della vita, finché tutto non sia immerso nell’infinita vita divina che è in me, e che con la mia morte aprirà la sorgente gioiosa dell’amore che vince la morte». Pietro non comprende, ricorda le parole recenti del Maestro: «Tu sei Pietro, su di te fonderò il mio nuovo popolo», si sente investito dalla missione di proteggere l’amato Maestro, così indifeso e imprevedibile! «Signore, quello che stai dicendo non accadrà mai!», afferma con sicurezza. La risposta che riceve è sconcertante: «Pietro, non ti comportare da condottiero, vieni dietro a me; con queste tue parole, dettate dal modo di sentire dell’uomo inferiore e non dalla sapienza di Dio, tu sei per me un Satana e un inciampo».

Satana è l’avversario, il persecutore, l’inciampo, la pietra che devia il corso della vita. Cristo postula il continuo superamento delle forme in una sempre nuova novità, Satana postula la permanenza della forma raggiunta, si oppone alla sua distruzione, vuole la permanente solidità in contrasto con la vita divina che, gioiosa, danza nell’universo e nella coscienza distruggendo ciò che non può accompagnarla nel suo crescente ritmo di vita. Cristo, implacabile, continua a rivelare il segreto contenuto della vita: «Chi vuol seguirmi, deponga le pesanti chiusure che gli impediscono di partecipare alla mia vita, si carichi della sua personale croce e cammini con me».

La Croce, non soltanto la sofferenza, è l’energia che struttura, di giorno in giorno, la nostra forma psicosomatica, ne favorisce lo sviluppo vitale: caricarsela sulle spalle vuol dire presentarsi alla soglia delle continue trasformazioni della vita con tutto il peso della propria realtà, in piena maturità, per passare oltre, per gettare la propria vita nelle continue mutazioni che ci attendono e che sono le tappe della nostra ascesa. In questo cammino il Figlio dell’Uomo è la misura che misurerà tutti, il peso che tutti peserà.

In tutto l’episodio svoltosi a Cesarea di Filippo, ci viene rivelata la funzione di Pietro, in parte spirituale, nella confessione: «Tu sei il Figlio del Dio vivente», e in parte temporale, nella sua opposizione a Cristo. Osare l’inosabile è la caratteristica del Figlio di Dio e dei figli di Dio, che si gettano in Dio come in un gorgo. Pietro inorridisce e indietreggia. Sarà sorpassato milioni di volte dal volo d’aquila dei veri fratelli del Signore, degli autentici figli di Dio. Che importa se non saranno sempre e tutti ortodossi? Cristo ha detto: «Solo chi perderà la sua vita per amor mio, la salverà».

Giovanni Vannucci, Risveglio della coscienza, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, (20a del tempo ordinario - Anno A), pp. 153-155.

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Mercoledì, 18 Luglio 2007 00:21

La religione del Figlio (Giovanni Vannucci)

La religione del Figlio

di Giovanni Vannucci

Due simboli nella narrazione di Mt 14, 22-33 ci indicano che si tratta di un evento rivelatore: il monte ove Cristo passa la notte in preghiera, il mare sconvolto sulla cui superfìcie cammina impavido e sereno.

La montagna come luogo di incontro del cielo con la terra si trova in tutte le tradizioni religiose. In India troviamo il monte Meru, la cima più alta della terra, il centro di tutto l’universo; nell’Iran il monte Alborj, considerato il centro del mondo attorno al quale si muovono il sole e i pianeti; in Cina la montagna di giada ove cresce il pesco dell’immortalità; nell’Islam la montagna Kaf, che ha per base uno smeraldo che si estende a tutta la terra; un po’ ovunque alla montagna santa approdò l’arca del diluvio, l’arca di Noè si fermò sulla cima del monte Ararat, e da lì iniziò la seconda creazione dell’uomo.

Nelle regioni ove non esistono montagne vennero costruite delle colline artificiali, oppure i templi furono costruiti in forma di montagna: così in Babilonia le torri-tempio erano a forma conica a sette scaglioni raffiguranti i sette cieli; in Egitto la piramide era il centro di congiunzione del cielo con la terra e della terra con il cielo, la rampa che conduce alla sua cima simboleggiava l’ascesa della vita, dal verme all’uomo regale che domina tutti gli aspetti della natura.

Nella Bibbia numerose sono le montagne sacre: il Sinai il Garizim, l’Horeb, il monte di Sion, che è il fondamento della città santa, il monte Moriah; nel Nuovo Testamento il monte della trasfigurazione, il Tabor, il monte Calvario, il monte degli Ulivi, luogo dell’ascensione; nell’Apocalisse l’Agnello sta sul monte Sion (Ap 14, 1).

Il valore simbolico della montagna è stato usato ovunque nella cristianità; ogni volta che era possibile le chiese venivano costruite su delle alture. L’altare, la cui radice è altus, alto, quindi luogo alto, i cui gradini venivano, nell’antica liturgia, saliti dal sacerdote che recitava il salmo «ludica me», «manda la tua luce e la tua verità, esse mi condurranno sul tuo monte santo».

Il mare è simbolo di tutte le possibilità delle manifestazioni delle forme viventi e della loro distinzione. Nel pensiero biblico l’acqua, il mare, è l’elemento che contiene una vita tumultuosa, confusa, prodigiosamente ricca, feconda e tenebrosa. Su di essa lo Spirito di Dio compie la sua opera creatrice. Il mare è il simbolo dell’inconscio personale e collettivo, sotto le cui profondità insondabili son racchiusi la vita e i mostri. Il popolo ebraico, separandosi dallo spirito di massa delle popolazioni egiziane, attraversa con piede asciutto il mare, raggiunge cioè l’individuazione di se stesso come popolo, chiamato a vivere un suo preciso destino in mezzo agli altri popoli. Il passaggio del mar Rosso costituì la distinzione del popolo ebraico da quello egiziano, che venne sommerso e assorbito dall’onda marina; sul monte Sinai Mosè ricevette la Legge che avrebbe dato la forma religiosa, morale, sociale al popolo eletto.

Confrontando le figure di queste strutture simboliche, monte e mare, nella narrazione evangelica, possiamo osservare alcuni particolari che sottolineano l’aspetto specifico della religione del Figlio che con Gesù Cristo cominciava. Nell’esodo dall’Egitto è tutto un popolo che attraversa il mare senza esserne travolto; Mosè ascende sul monte insieme ad Aronne, mentre il popolo era alle sue falde. Nella nostra narrazione: Cristo,dopo aver rimandato la folla alle sue case e ordinato ai discepoli di andare nel mare con la barca, sale solo sul monte, e solo attraversa il mare in tempesta incontro ai discepoli sgomenti per la burrasca. Gesù è solo sul monte e sul mare, la folla sicura nelle sue case, i discepoli protetti dall’imbarcazione.

La solitudine eroica e feconda di Gesù Cristo, in questo episodio del monte e del mare, ci rivela la natura singolare e unica della religione del Figlio. Gli uomini non sono più chiamati, per vivere la loro aspirazione all’Assoluto, a unirsi in gruppi di popoli eletti o di Dio, a rifugiarsi in imbarcazioni che, sicure, attraversano il mare agitato dell’esistenza. Ma a sentire la propria vita personale come un’avventura iniziatica, un audace impegno di trasformazione del proprio essere, che li porta a de porre le sicurezze, le protezioni che cullano la personalità e a risvegliare la propria essenzialità divina, il proprio «io» vero, non nato dalla carne e dal sangue, non formato da idee di gruppo o di società, ma che è il principio e l’assoluto psichico, l’io cosciente che, nell’esperienza della religione del Figlio, tende a rifondersi con l’io cosciente di Cristo. «Siate in me come io sono nel Padre» (Gv 14, 20). «Non io vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

L’io cosciente dell’uomo, per quanto piccolo sia, ha il potere di contenere e riflettere l’intero sole, Cristo, e il sole, Cristo, riflesso e contenuto negli altri frammenti dell’umanità. Chi vive la religione del Figlio affronta i rischi dell’inconscio personale e collettivo, ne attraversa le onde scomposte e violente con lucida coscienza, resa ardente dalla tensione verso uno scopo sovrumano: divenire il figlio di Dio, tendere verso la conoscenza di sé, dell’universo e di Dio, cercare la coscienza e la luce assoluta, evitare ogni passività dell’intelletto, ogni eccitazione passionale del corpo e dell’anima.

I discepoli nella barca, presi da passionale sgomento, sono incapaci di vedere con lucidità mentale e scambiano Cristo per un fantasma, e Pietro affonda per deficienza di quella fede che è propria dei figli di Dio. Le onde dell’inconscio, personale e collettivo, arretrano dove l’io cosciente, l’io cristico avanza. Solo nell’io cosciente e consapevole, nell’io costruito da virtù e intelletto, risiede la libertà di scelta e di orientamento; fuori di esso non vi è scelta di fronte ai vari stimoli delle forze inconsce personali e collettive. L’io cosciente e consapevole raggiunge il potere dei figli di Dio, potere di creare mentalmente, non di ripetere i pensieri pensati da altri; potere di esplicare il creato, di dominare le leggi della natura, di portare la pace nei flutti sconvolti del mare; potere di ricollegare la terra e il cielo.

(da Giovanni Vannucci, «La religione del Figlio», 19a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) CENS, Milano 1984, pp. 144-146).
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Non temete chi uccide il corpo

di Giovanni Vannucci




La parola di Cristo scende nei profondi recessi dell’anima umana, e vi compie la trasformazione dell’uomo, la carne riceve la parola e la parola fa fiorire la carne. Ogni cellula della carne vibra di nuova vita, appare l’uomo nuovo e in lui tutto è annuncio. I due momenti sono essenziali: ascoltare nel silenzio, nell’oscurità del proprio essere la parola; quando nell’uomo tutto si dischiude alla vita della parola allora, e solo allora, può annunciare all’aperto quello che nell’oscura trasformazione del suo essere è stato compiuto dalla parola. Ogni discepolo è chiamato a vivere il mistero dell’incarnazione della parola, non a gustare lo zucchero ma a divenire lui stesso zucchero. Se questo non è compiuto, il suo annuncio viene inquinato dalle parti irredente del suo essere.

Fintantoché la Parola incarnata non ha posto radici in tutto il nostro essere, l’annuncio della parola evangelica è inquinato. Chi ha sperimentato la Parola, e ad essa si è offerto totalmente, può parlarne «sui tetti e sulle piazze», perché allora diviene tutto Parola. Nessuno può parlare dell’elefante se non l’ha ancora visto, si riferirà sempre a ciò che ha letto, a ciò che gli è stato riferito da altri. La Parola evangelica è via, verità, vita. Via che va percorsa, verità che va scoperta, vita che, se non è vissuta, diventa una dannosa verbosità. Pronunciare delle parole sulla Parola senza la corrispondente esperienza, riunire intellettualmente delle parole non vissute, deforma e inquina l’annuncio. Gli Evangeli suggeriscono continuamente di sperimentare la Parola. «Sperimentate la Parola, non limitatevi ad ascoltarla, ingannandovi con falsi ragionamenti» (Gv 1,22). «Chi ascolta le mie parole e non le sperimenta nella pratica sarà come un insensato che costruisce la sua casa sulla sabbia» (Mt 7,26). Il peccato di Pietro fu l’aderire rapidamente al senso letterale delle parole del Maestro e il diffondersi in parole che non nascevano dall’esperienza; pecca quindi contro la Parola. Quando cammina sulle acque (Mt 14,18), quando riprende il Signore (Mt 16,22 e 8,32), alla lavanda dei piedi (Gv 13,6), parla prima di avere sperimentato la Parola. Nel triplice rinnegamento non pecca tanto per essersi eclissato, ma per le parole: «Io non sono del gruppo dei discepoli» (Mc 14,71); Pietro si è lasciato trascinare dalle parole, pecca pronunciando delle parole che non nascono dal profondo silenzio dell’esperienza. Forse anche l’annuncio odierno della Parola è lontano dalla terra del vissuto e si dissolve in una fumosità di parole.

Il discepolo che diviene tutto Parola, si troverà in un mondo che lo beffeggia, lo emargina, lo uccide. «Non temete quelli che uccidono il corpo, temete colui che può far perire e l’anima e il corpo nella geenna» (Mt 10,28). Chi può far perire l’anima se non la tendenza alla superficialità e alla verbosità che ci caratterizzano come uomini? Nel Canone della Messa diciamo: per Cristo, con Cristo, in Cristo. Per Cristo è finalizzare la nostra vita alla Parola incarnata, ma non basta, un ulteriore passo ci è richiesto: sperimentare la Parola come unica compagna della nostra vita; anche questo non ci è sufficiente, dobbiamo vivere, fonderci nella Parola, divenire una sola cosa con Lei. Allora non ne gusteremo più il sapore, saremo anche noi la dolcezza della Parola. L’annunciatore sarà allora come il Maestro, perfetto come il Padre che è nei cieli. Vivrà l’amore pieno e libero che ama non perché è amato, perché l’amore è la stessa natura di Dio. Chi ama secondo la carne e il sangue, non fa nulla di diverso dal bruto, la cavalla ama il suo puledro, la cagna il suo cucciolo; chi ama nella completa trasformazione del suo essere, ama come il Padre stesso sa amare.

(in Giovanni Vannucci, «Non temete chi uccide il corpo», 12a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, pp. 121-122).

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Venerdì, 25 Maggio 2007 01:54

L’infinita coscienza (Giovanni Vannucci)

L’infinita coscienza

di Giovanni Vannucci


In un’ora di grande intimità con i discepoli. Gesù domandò loro: «Cosa dice la gente che io sia?». Ed essi risposero: «Per qualcuno tu sei Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri ancora un antico profeta tornato nella vita». «Ma voi chi dite che io sia?». Pietro prese la parola e disse: «II Cristo di Dio». Gesù proibì loro di dirlo ad alcuno. Quindi disse chi era lui stesso e chi sarebbero stati i suoi seguaci: «II Figlio dell’Uomo deve soffrire, venir riprovato, essere ucciso e risorgere il terzo giorno». Dopo aver descritto la sua realtà personale continua il discorso con delle affermazioni che, a prima vista, possono sembrare fuori contesto: «Chi mi vuol seguire, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Chi vuoi salvare la propria vita, la perde; chi la perderà, la salva» (cfr. Lc 9,18-24).

La sequela delle parole di Cristo è questa: proibizione ai discepoli di dire che egli è il Cristo, il Messia, il che equivale a un suo rifiuto di tale titolo; affermazione della sua sconcertante realtà: egli è colui che dovrà essere ucciso dalle autorità della sua terra, ma che risorgerà il terzo giorno; i suoi discepoli lo seguiranno nella sua paradossale via: faranno gettito, come lui, della propria vita al fine di possederla veramente.

Cristo nasce alla vera vita accettando la morte, il discepolo trova la vita gettandola allo sbaraglio. Quasi abbia detto: io sono il mistero della morte-risurrezione; voi, miei discepoli, siete chiamati a vivere il mio dramma di rinuncia alla vita per ritrovarla nella sua verità. Tenendo conto di questa novità di coscienza possiamo comprendere il motivo della proibizione di rivelarlo alla gente come il Cristo, il Messia.

La figura del Messia nella tradizione ebraica, e quindi nel pensiero dei discepoli, era quella di un condottiero con la corona e la spada, di un capo di eserciti, oppure - come una recente esegesi ama presentarlo - di un agitatore, di un ribelle poco fortunato. La proibizione ai discepoli di rappresentarlo come il Messia condottiero, e la descrizione che fa di se stesso: dovrò affrontare la morte per risorgere, vogliono dire che Gesù Cristo non ha alcun mezzo di azione fisica; se l’avesse, o se volesse servirsene, non sarebbe «colui che getta la propria vita per veramente possederla» (Lc 9, 24). L’episodio evangelico riportato in Lc 9, 18-24 è uno di quegli avvenimenti della vita di Cristo che rimangono eterni, nella successiva storia della coscienza umana. Egli è ancora, in questo momento, in mezzo a noi suoi discepoli e ancora continua a chiederci: «Chi dite che io sia?» (Lc 9, 20). E continua a proibirci di nominarlo con delle figure di potenza terrena: non dite che io sono il Messia trionfatore e guida di eserciti, prendete la vostra croce come io prendo la mia, gettate la vostra vita allo sbaraglio come io getto la mia, e comprenderete che io sono il senza Nome; ponete fine a tutte le designazioni potenti della mia realtà, comprenderete che con la mia venuta non inizia un nuovo regno terreno, ma un nuovo stato di coscienza, che distruggerà dalla vostra mente tutte le immagini acquisite del mistero divino e vi ricondurrà nell’infinita, incondizionata coscienza divina.

Nell’incontro personale con l’annuncio evangelico i nomi con cui viene designato sono relativi, spesso impropri, in quanto esprimono, accanto al mistero essenziale, delle proiezioni di coscienze non pienamente illuminate; ciò che invece ci attrae e ci rende inquieti è l’invito ad andare oltre, il necessario morire per rinascere in forme di coscienza sempre più vaste e in un continuo superamento dei limiti.

L’annuncio evangelico esige da noi un radicale cambiamento di coscienza, che, una volta iniziato, non si fermerà nel suo movimento di distruzione e di creazione finché non contempleremo faccia a faccia il mistero divino.

Dare un nome al mistero della Parola eterna incarnata in Gesù Cristo è limitarlo, solidificarlo, togliergli ogni energia vitale. La Parola incarnata è l’assoluta coscienza divina in atto, che nel mondo sensibile appare come energia che distrugge per creare, crea per distruggere, il cui moto si placherà quando tutto e tutti saranno ritornati nell’unità della prima sorgente. Anche la Risurrezione è la distruzione del corpo fisico di Gesù e il suo passaggio a una diversa dimensione, dove anche la carne è trasfigurata in una libertà che non conosce nei limiti delle cose sensibili.

Gesù Cristo è un Nome, anzi il Nome, il cui contenuto è di non poter essere espresso da nessun nome, la cui realtà ultima e inesprimibile costituisce il punto in cui convergono tutte le figure religiose e ove si depotenziano trasfigurandosi in lui. «Chi vede me, in questo rapporto essenziale, vede l’incommensurabile coscienza del Padre, e in essa vede anche il più ignorato dei fratelli nel suo valore esatto di creatura chiamata a raggiungere l’infinito di Dio».

Quando questa illuminazione, l’incontro con il mistero del Figlio di Dio e del Figlio dell’Uomo, si compie, scende nell’umana coscienza un’onda di vita esaltante, che distrugge quanto la mente ha formulato con le sue misure limitanti, quanto la nostra inerzia ha potuto costruire in dottrine, istituzioni, ripetizioni di riti e di preghiere, di false evidenze, di idolatrie, e, con anima piena e libera, possiamo contemplare l’innominabile realtà di Dio e del suo Cristo.


Giovanni Vannucci, «L’infinita coscienza», 12a domenica del tempo ordinario. Anno C. In La Vita senza fine, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 142-144.
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Pasqua di Resurrezione: Le due Chiese

di Giovanni Vannucci

 

Leggiamo attentamente la pagina del Vangelo di questa domenica della Risurrezione (Gv 20, 1-9).

Maria di Magdala andò di buon mattino al sepolcro, trovò la pietra tombale ribaltata e la tomba vuota. Costernata corse da Simon Pietro e da Giovanni dicendo: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro!». I due discepoli di corsa andarono al sepolcro. Giovanni arrivò per primo, ma non vi entrò; Pietro, giunto dopo, entrò e vide le bende e il sudario deposti per terra. Allora entrò anche Giovanni e vide e credette.

Perché questa constatazione è fatta al singolare ed è riferita a Giovanni? Questa domanda non è una sottigliezza: trattandosi di un testo ispirato, nessun particolare è privo di significato, tanto più se si tiene presente che nel quarto Vangelo le narrazioni sono trasfigurate in simboli della vita e delle vicende della Chiesa.

La visione realistica che il Vangelo ha della natura umana non esclude la possibilità di una fede legata al compromesso; in due figure di apostoli ha tratteggiato due immagini: quella del discepolo che, pur sentendo il fascino di Cristo, è attratto dalle vedute umane, e quella del discepolo che non viene mai meno nella sua fedeltà all’amore: Pietro e Giovanni. Esse indicano le due costanti della storia della Chiesa.

Pietro è chiamato, come Giovanni, ad amare e a perdere la propria anima, ma non sempre riesce a liberarsi dai ragionamenti e a gettarsi allo sbaraglio della fede. «Pietro discese dalla barca e cominciò a camminare sulle acque. Davanti alla violenza del vento ebbe paura e principiando ad affondare gridò: “Signore, salvami!”. Gesù lo prese per mano e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”» (Mt 14, 29-31).

Due sono i poli che determinano la storia del singolo e di conseguenza di tutta l’umanità: l’uomo e Dio, il visibile e l’invisibile.

L’individuo che si orienta verso il polo-uomo, pone se stesso come centro dell’universo, padrone e ordinatore della storia. La sua azione tende a dominare la natura e la vita, escludendo ogni imponderabile che contrasti col principio della causalità razionale. E viene a trovarsi come Pietro sulla superficie delle acque, vive nel miracolo e lo scopre impossibile razionalmente, preso dal panico tenta di liberarsene costringendo l’orizzonte sconfinato della vita nel breve ambito delle formulazioni scientifiche o moralistiche.

L’anelito all’infinito è imbrigliato nella composta osservanza del dovere; la creatività ridotta alla ricerca delle leggi che regolano il mondo; le più ardenti ispirazioni abbassate alla richiesta del conforto e della sicurezza.

Tutto diventa ripetizione: i pensieri, le teorie, i costumi, l’arte. L’autorità assume il ruolo del rigido controllo dell’ordine costituito, accolto come perfetto e definitivo. L’ultima assise di questo tipo umano è la legge, la consuetudine, la staticità dei princìpi, il culto della lettera. Il regno di Dio non è più la tensione dei regni umani verso l’infinito oceano della vita divina, ma la monotona enunciazione di formule fisse, l’invariata ripetizione di tradizioni, entro le quali l’anelito a più vasta vita è spento nella sicurezza dell’invariabile.

L’uomo orientato verso il polo divino è proteso verso quelle realtà che, pur non avendo ancora raggiunto la loro forma, sono vive e operose nel visibile, e accendono nel cuore i più puri ideali. Davanti al sepolcro vuoto del Signore, egli osserva l’assenza della salma e crede nella Risurrezione. Per questa fede contro le apparenze egli diviene la figura e l’annunciatore delle realtà invisibili.

In lui tutto viene trasmutato: l’autorità diventa attento e rispettoso servizio dell’uomo; la legge tramonta per aprire il varco allo spirito; la terra non è più oggetto di conquista e di avidità, ma termine di un rapporto di amorosa dedizione; tutto egli vede e sente attraversato dall’ansia della risurrezione e della trasfigurazione; e adempie il suo compito di uomo come strumento per l’ascesa nello Spirito di tutto l’esistente.

Il brano evangelico di Gv 20, 1-9 ci rivela il duplice aspetto terreno della Chiesa: uno legato alla fede e al dubbio, alla ricerca dello Spirito e insieme alla necessità di costruire delle «tende» ove ingenuamente pensa di custodire il Signore. L’altro aperto all’infinito cammino del Signore, morto e risorto, del Signore che distrugge implacabile tutte le forme che attorno a Lui si densificano; abbatte i templi costruiti da mano d’uomo; cancella la lettera in nome dello Spirito; abolisce la forma che ha assunto nella morte in nome della Vita, che è sempre costellata da infinite risurrezioni.

Allora, «se siamo risorti con Cristo» (Col 3, 1), poiché molto dolore è nella vita, accendiamovi molto amore; molto è il buio e il freddo, diveniamo luce e calore; molto è il disprezzo e la profanazione della vita, amiamola con forte e rispettoso amore. «Se siamo risorti con Cristo», affermeremo la vita contro la morte, lo Spirito contro la Legge, la Grazia come trionfo sul Peccato!



Giovanni Vannucci, in La vita senza fine, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, pp. 73-75.

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Mercoledì, 07 Febbraio 2007 01:54

Gli emarginati (Giovanni Vannucci)

Gli emarginati

di Giovanni Vannucci


Per essere cristiani è necessario liberarsi dal complesso di colpa che da millenni grava sulla coscienza umana.

Non la paura ma la Carità, non il rimorso ma l’Amore devono guidarci nella nostra vita. Chi vive non pensando a se stesso, non ha tempo per pensare ai propri peccati. E ancor meno si occuperà delle altrui colpe. Il penoso aspetto del bigottismo cattolico scomparirà il giorno in cui la parola di Gesù; «Non giudicate» verrà presa in tutto il suo valore e rigorosamente applicata. La morale comunitaria, per l’astensione di ogni giudizio sull’altrui condotta, acquisterà una nuova spontaneità e innocenza. La Chiesa, liberata da ogni apparato giudiziario, tornerà a essere il supporto della vita collettiva che non si appoggerà più sul: «cosa dirà la gente?». E i cristiani saranno più fratelli tra di loro di quanto non lo siano oggi.

Le letture della sesta domenica del tempo ordinario propongono due temi: uno della necessità del fare, del risolvere le situazioni di carenza vitale senza perder tempo a giudicarle e a isolarle; l’altro del dovere cristiano di comprendere tutti per non creare, con l’incomprensione, ostacoli di separazione fra gli uomini.

Il Levitico (13, 1-2.45-46) descrive il procedimento processuale nei confronti di chi aveva contratto la lebbra. Doveva essere condotto davanti al sacerdote che, riconosciutolo malato, gli ingiungeva di portare delle vesti stracciate, il capo scoperto, la barba lunga, di dimorare fuori degli abitati e di gridare la parola: «Immondo!» ogni qualvolta venisse avvicinato da qualcuno. La società si difendeva dal contagio mediante una imposizione giudiziaria che dichiarava emarginato il lebbroso.

Cristo al lebbroso dice: «Voglio che tu sia libero dalla lebbra» (Mc 1, 41), e lo guarisce, senza giudicarlo e reinserendolo sano nella convivenza umana.

Sono due episodi esemplari, sui quali sarebbe necessario, per noi cristiani, riflettere a lungo per cancellare decisamente dal nostro vocabolario le parole «giudizio» e «giudicare», e dalla organizzazione ecclesiale ogni struttura giudiziaria. Dietro i giudizi pronunciati sugli altri e gli apparati necessari per formularli c’è lo spirito del potere e del dominio che appartiene a Satana e non a Cristo.

San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi (10, 31 – 11, 1), ci ricorda che il cristiano è chiamato a non opporsi a nessuno come pietra d’inciampo, ma a lavorare perché il sentiero che dovrà portare alla salvezza sia percorribile per tutti. Cristo è più grande di tutti noi, lo Spirito soffia ove vuole e spesso soffia oltre i limiti costruiti da noi cristiani. Da qui la necessità di una vigilanza aperta, senza interferenze personali, ai segni dei tempi, ai passi in avanti che lo Spirito compie. Queste qualità bisogna che siano sempre operose nei membri della Chiesa, gerarchia e popolo, per evitare quelle tante emarginazioni compiute, ieri e oggi, e che non di rado sono state un soffocamento dello Spirito. Quante volte abbiamo dichiarati «immondi» e invitato a riconoscersi «immondi» uomini che portavano le nuove manifestazioni dello Spirito, perché l’uomo fosse più vero e la terra più vivibile e la Chiesa più comprensibile! E tutto questo non sarebbe avvenuto se avessimo preferito l’umile e rispettosa attenzione al rigido giudizio.

Come il lebbroso, nell’episodio riportato in Mc 1, 40-45, poteva o esser respinto con la dichiarazione di «immondo», o guarito per esser nuovamente accolto nella società, Cristo, il Rivelatore del tramonto della vecchia Legge e dell’alba della nuova Legge, dice: «Voglio che tu sia guarito, non un emarginato». Le sue parole costituiscono per noi cristiani una severa e inalienabile consegna, che si estende e alle infermità fisiche e morali, e a quelle manifestazioni nuove e differenti di coscienza che spesso sono le antesignane di maturazioni umane in atto.

Il rimanere tranquilli nelle Gerusalemme terrene a consultare le Scritture e gli oracoli profetici può farci correre il rischio di non riconoscere la Verità che è apparsa, o sta apparendo in mezzo a noi; come pure l’andare incontro al Fanciullo nato, mossi da calcoli e da ambizioni di potere, provoca delle inutili stragi e la Verità emigra altrove. Quante verità cristiane sono espatriate dalla cristianità sotto la ferula di intransigenti dogmatismi e moralismi; e poi vi sono state reintrodotte con abilissime, ma non oneste, manovre di recupero!

Una lettura attenta della storia delle novità creatrici e rivelatrici ci fornisce un’indicazione sorprendente: esse sono state annunciate dai gruppi dei reietti, degli emarginati di ogni tempo di crisi e di esaurimento delle mitiche al loro tramonto. I Patriarchi, Mosè, i Profeti della vecchia alleanza trovarono credito presso le tribù nomadi che circolavano attorno alle grandi strutture sociali e civili del loro tempo. Cristo ci appare attorniato dai reietti, dai paria, dagli scomunicati della società religiosa e civile dei suoi giorni. Il Cristianesimo è stato accolto e vissuto dai più oppressi e sfruttati uomini della civiltà romana, gli schiavi.

Quali sono i «peccatori» del nostro tempo, le cui inquietudini, agitazioni, non conformismi manifestano il sorgere di una novità che informerà gli uomini di domani? Non potrebbero essere le giovani generazioni che sperimentano nella loro carne il tramonto dell’ormai consunto tessuto degli ordinamenti vigenti, e l’alba di un nuovo ordine commensurato alla nuova realtà vivente? Non potrebbe il Giovane incarnare la vita come in altri tempi l’hanno incarnata i Nomadi e gli Schiavi, di fronte ai cittadini e agli adulti soddisfatti delle loro creazioni religiose e sociali?

I responsabili della Chiesa dovranno spogliarsi della mentalità che li porta a confondere la loro autorità carismatica con i mezzi di governo, rendendola strumento di oppressione spirituale. Spogliazione che permetterà loro di ripetere la parola vivificante di Cristo: «Voglio che tu sia perfettamente sano» e non quella del vecchio codice: «Tu sei un immondo!».

I responsabili della Chiesa allora faranno nel volto dei venienti la luce, trasmettendo loro, ai nuovissimi, la fiaccola accesa dall’Amore di Cristo, e un mondo veramente nuovo concluderà questo millennio, con la luce, la speranza di operare per un meglio non più nemico del bene.

(da Giovanni Vannucci, 6a domenica del tempo ordinario - Anno B in Verso la luce, ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, pp. 115-118).
Pubblicato in Maestri Contemporanei
Martedì, 09 Gennaio 2007 01:52

Le cose del Padre (Giovanni Vannucci)

Le cose del Padre

di Giovanni Vannucci

Quando pronunciamo la parola «Padre» riferendola al divino, il nostro cuore si riempie di tenerezza, di amore filiale e fiducioso. Dobbiamo chiederci se questa stessa parola avesse, sulle labbra di Gesù, lo stesso significato prevalentemente emotivo che ha per noi.

Pubblicato in Maestri Contemporanei
Venerdì, 01 Dicembre 2006 20:39

Siate svegli! (Giovanni Vannucci)

Siate svegli!
di Giovanni Vannucci

Gesù disse: «Abbiate gli occhi aperti, siate svegli! La venuta del Figlio dell’Uomo non vi trovi addormentati» (Mc 13, 35).

Il Figlio dell’Uomo è venuto e ha avuto la sua perfetta manifestazione in Gesù Cristo; il Figlio dell’Uomo viene continuamente, nella silenziosa ascesa di ogni coscienza nella verità e nella grandezza dell’uomo. Ascesa che rivela l’inconsistenza, la presunzione, la mancanza di saggezza di tante nostre limitazioni. Siamo noi cristiani? Per rispondere non guardiamo i registri di battesimo, le idee religiose, le pratiche devote; interroghiamo la nostra ascesa nella verità di figli dell’Uomo e di figli di Dio.

Il sussiego che caratterizza troppo spesso la nostra professione di fede cristiana è un impedimento alla nascita in noi dell’Uomo vero, figlio della terra e del cielo. L’Uomo vero è in cammino, ed è la silenziosa incarnazione della Parola eterna nell’umana coscienza, la non violenta, tenace come la forza della vita, regale presa di possesso degli uomini che le appartengono per quelle qualità che non sono di questo mondo, ma del mondo futuro, del tempo nuovo. «Verranno dall’Oriente e dall’Occidente uomini silenziosi e illuminati, che non appartengono alle ufficiali file dei cristiani, e prenderanno il loro posto».

Gesù è venuto a portare il tempo nuovo, tempo equinoziale per tutta l’umanità. Come l’equinozio separa la stagione, cosi il tempo nuovo portato da Gesù separa la pesantezza della carne dell’uomo dalla santità della sua natura spirituale. Come il gallo del mattino, Egli chiama i dormienti; quelli che si sveglieranno e che sapranno restare svegli, saranno la sua eredità; coloro che terranno chiusi gli occhi, che entreranno dormendo nel tempo nuovo, resteranno eredità della bestia che è in loro.

Egli fu innalzato per essere un segnale alle genti perché il suo grido venisse udito da tutti i dormienti.

Siate svegli! È il segreto della potenza e della vittoria umana. Siamo convinti di essere svegli, in realtà dormiamo un sonno profondo e siamo tormentati da sogni di incubo. Con fili di sogni ci siamo costruiti una rete ove siamo rimasti impigliati, più ci impigliamo e più ci addormentiamo, e più ci addormentiamo, più l’elemento bruto della nostra natura si risveglia. E così, ottusi, indifferenti al bene, incapaci di pensare autonomamente, molti di noi vanno per le strade della vita come mandrie verso l’ammazzatoio; altri, sognando e agitandosi nel sogno, credono di essere svegli, in realtà dormono ancora più profondamente, posseduti più profondamente dal torpore, e questi non sono affatto i poeti, i contemplativi, i dotati d’immaginazione creatrice, sono invece gli attivi, gli zelanti, i costruttori, gli iniziatori di movimenti di massa, i dominatori di popoli, i vari messia bruciati e distrutti dalla mania di agire; quelli che han sempre da fare, gli agitati. Pensano di essere svegli, di sapere quel che fanno, di volere ciò che vogliono, in realtà il sogno è il loro padrone, non essi i padroni del sogno.

Essere svegli significa partecipare con pensiero cosciente e vigile a ogni istante della vita, per avvertire i segni che vengono dall’alto e dal profondo, dalle dottrine stabilite e dalle coscienze viventi che tali dottrine sentono ormai legate a un passato che più non è per l’uomo. C’è il tempo dell’apparizione delle gemme e il tempo della fioritura, il tempo della fruttificazione e quello del ritorno del germe in seno aIla terra, per poi risorgere alla vita. E ogni tempo ha la sua parola e il suo annuncio; quando è l’ora dell’interramento, il rimpianto e la nostalgia dei fiori e dei frutti non hanno più senso, sono sogni dell’uomo che non è sveglio.

Essere svegli è l’atteggiamento richiesto a ogni coscienza lungo le tappe che costeggiano il cammino della Rivelazione, che ascende trascinando con se le anime vigilanti. Per noi, creature umane, il mistero religioso vien celebrato nell’essere svegli; dobbiamo imparare a passare da un risveglio all’altro, se vogliamo vincere la morte. La morte s’inizia a vincere superando il torpore, il sonno, il sogno. Il primo passo è vincere il primo nemico, il corpo, con le sue esigenze di vita comoda e protetta, di ricerca di beni confortevoli e di mura calde e protettrici; il secondo è l’anima con le sue richieste di essere stimata e applaudita, amata e considerata; il terzo è la ragione concreta, quella che da l’illusione della veglia, che identifica le sue conoscenze con la sapienza divina, i suoi piani con i valori divini, le sue ideologie con i pensieri divini. La vittoria sul primo dischiude il pensiero cosciente; quella sul secondo apre il dono del discernimento del proprio personale compito; quella sul terzo ci offre la grandezza dell’umiltà. La consegna evangelica a chiunque lotti per essere sveglio è di gettare allo sbaraglio la propria vita, la propria anima, per possederla.

Lo stato di veglia è la cosciente apertura mentale al mistero divino infinitamente lontano da noi, ma che ci avvolge dentro di sé, ed è in noi più assai che il battito del nostro cuore. Sempre avanti alla sua creazione, che guida alla perfetta fioritura di tutti i germi di vita che instancabilmente vi dissemina.

Essere svegli vuoi dire aver raggiunto l’apertura dell’occhio interiore che scorge il cammino di Dio nel creato e spinge tutto l’essere umano a seguirlo. Nello stato di vigilanza il corpo viene mutato nello spirito; il cuore si spoglia dalla cupidigia di prendere e di ricevere e si dischiude nella qualità divina del dare senza misura, senza tornaconto, senza bramosia di premio; la mente comprende i limiti, le angustie delle proprie visioni e con umiltà si offre alla vastità del pensiero di Dio.

Il tempo nuovo avvolge l’uomo vigilante, e attraverso di lui si rivela Colui che è venuto e che verrà sempre, nelle coscienze che aprono gli occhi al suo eterno ritorno.

(da Giovanni Vannucci, Siate svegli, 1a domenica d’Avvento - Anno B; in Verso la luce, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, pp. 11-14).

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