In ricordo di P. Franco

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Sabato, 01 Ottobre 2005 13:58

La diversità: ostacolo o risorsa?

Seconda parte. Accogliere le diversità - La famiglia come chiave di risposta per una pastorale dell’accoglienza

 

Questo mio intervento vuole offrire una chiave di lettura teologica e pastorale sulla diversità.

La tesi di fondo che cercherò di sviluppare e, in qualche modo, di dimostrare è la seguente: le diversità non sono un limite o un problema ma sono una risorsa.

Ci può infatti capitare di considerare le diversità come problema, difficoltà, disagio, questione che ci interpella; da parte mia sono convinto che senza le diversità diventerebbe impossibile decifrare il mistero della vita dell’uomo, il suo destino e il senso stesso della Storia.

Il punto di partenza della mia relazione è la famiglia, non per un’attribuzione impropria, ma perché c’è un nesso imprescindibile tra la realtà della famiglia e la tematica della diversità, anzi sono convinto che la famiglia ci possa dare il codice di lettura di questo tema.

 

IL MISTERO DELL’UOMO

Per spiegare questa affermazione, parto da quello che è il mistero dell’origine dell’uomo così come ci è descritto nella Parola di Dio.

Sappiamo che i primi capitoli di Genesi non costituiscono una spiegazione scientifica della creazione dell’uomo e del mondo ma un’interpretazione sapienziale ispirata dalla vicenda umana.

Il primo capitolo di Genesi, di fonte sacerdotale, descrive la creazione in una prospettiva di separazione: viene separato il cielo dalla terra, poi il mare dalla terraferma, e così via: tutto è diversificazione in un orizzonte di armonia. Quanto più la diversificazione si accentua, tanto più si mettono in evidenza gli elementi che contribuiscono a creare l’armonia.

Al vertice, al cuore di questa realtà, c’è la creazione dell’uomo e della donna. Per questa creazione c’è un intervento straordinario del Dio creatore: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”, che pone l’essere umano in una condizione completamente diversa da tutte le altre cose.

Immagine e somiglianza non significano che l’uomo è uguale a Dio, in quanto è opera delle sue mani, ma che porta in sé una partecipazione al mistero stesso di Dio.

E questa partecipazione si realizza attraverso la differenziazione “maschio e femmina”; questo essere creato ad immagine e somiglianza di Dio porta dentro di sé una differenziazione che potremmo definire radicale, irriducibile: l’essere umano non esiste se non come uomo e come donna.

Possiamo quindi concludere che Dio genera il principio della diversità e lo genera non come spaccatura, o come frattura dell’essere umano, ma come un qualcosa di armonico con il creato e con Lui stesso.

 

MASCHIO E FEMMINA

La differenziazione “maschio e femmina” in filosofia ha costituito sempre un enigma, un interrogativo.

Grandi sono stati gli sforzi, nel periodo classico, di ridurre questa differenza. Con Platone si arriva a considerare la diversità come un limite, come qualcosa di mancante, nostalgia di un’interezza che non esiste più.

Da qui nascono i diversi miti dell’androgino, dell’ermafrodito così presenti, anche se in modo diverso, nella società contemporanea, ma che sono in antitesi con il progetto di Dio.

Il secondo racconto di Genesi, più di carattere antropologico, sottolinea maggiormente questo aspetto: ci dice infatti che Dio si preoccupa della solitudine di questo essere umano, dice che “non è bene che sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”; il termine ebraico utilizzato sta ad indicare “gli voglio fare qualcosa che gli sia simile standogli di fronte” cioè una similitudine quasi per contrapposizione: la donna infatti costituisce, rispetto all’uomo, quella realtà che gli è simile, ma che continuamente lo riflette, lo rispecchia, lo richiama alla sua diversità.

Il modo in cui l’autore sacro cerca di tradurre visivamente questo dinamismo è affascinante, perché la donna viene tratta in un momento di torpore dalla costola dell’uomo; la costola è stata scelta, secondo una delle interpretazioni più accreditate, perché è l’elemento più vicino al cuore, quindi è qualcosa di intimo, interiore.

La donna viene a costituire la verità più profonda del sentire umano e non è qualcosa che viene generato dopo, perché preesiste quasi all’uomo stesso, è l’intimo dell’intimo dell’uomo che viene posto di fronte a lui.

Adamo allora esclama: “questa è veramente carne della mia carne”.

Questa affermazione non significa solo “mi è stato donato qualcuno che finalmente corrisponde alla mia dignità di essere intelligente”, ma soprattutto “mi è stata donata quella parte di me che mi rivela che il senso della vita è la relazionalità”.

Diversità e relazionalità al di fuori delle quali Dio stesso, che è l’orizzonte ultimo della vita, non può essere compreso: “per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola”.

 

LA POLARITÀ SESSUALE

La differenziazione “maschio e femmina” è stato motivo di imbarazzo anche in ambito ecclesiale: alcuni Padri della Chiesa hanno interpretato o cercato di interpretare la polarità sessuale come segno di una caduta dovuta al peccato, da qui è scaturita una visione negativa della sessualità che ha riverberi anche ai nostri giorni.

È vero che nella sessualità, come in tutte le altre dimensioni umane, si percepiscono gli effetti del peccato, ma la polarità sessuale è opera della creazione quindi del disegno provvidenziale di Dio: guai a noi se non abbiamo chiaro questo tipo di approccio e quindi il senso positivo della diversità!

Questi argomenti sono stati affrontati più volte dall’attuale Papa, il quale sarà ricordato in futuro, al di là di tutti i contributi che ha dato con il suo magistero alla vita e alla missione della Chiesa, anche per le sue riflessioni sull’uomo in un’epoca di crisi nell’interpretazione dell’essere umano.


IL MAGISTERO DEL PAPA

Il Papa, in piena conformità con la tradizione cristiana, ma anche con un grande sforzo di innovazione, ha sviluppato delle riflessioni che sono veramente innovative e una di queste è costituita dallo stretto legame presente tra il mistero della vita trinitaria e la realtà della famiglia.

I testi a cui faccio riferimento sono:

  • la “Mulieris Dignitatem”;
  • la “Lettera alle famiglie”,
  • la “Lettera alle donne”.

 

LA “MULIERIS DIGNITATEM”

Nel primo testo: la “Mulieris Dignitatem”, nei capitoli dal 6 all’8, il Papa fa un’affermazione molto forte che alcuni teologi fanno fatica ad accogliere, cioè che Dio, creando l’essere umano a sua immagine e somiglianza, ha dato una chiave di lettura del suo stesso mistero.

Il Papa afferma che Dio è conoscibile guardando ciò che Dio ha creato e al cui vertice c’è l’essere umano maschio e femmina; guardando la polarità, la diversità, la complementarietà, la reciprocità tra uomo e donna noi possiamo entrare nel mistero intimo di Dio, cioè nel suo essere trinitario che è unità nella permanente insondabile diversità delle persone divine.

Mai il Papa si era spinto fino a una sottolineatura così radicale della conoscibilità di Dio attraverso il mistero dell’uomo e della donna: questo è un passaggio epocale!

 

LA LETTERA ALLE FAMIGLIE

Il secondo testo, molto più immediato nella sua lettura, anche se purtroppo non sufficientemente valorizzato, è la Lettera alle Famiglie.

In questo documento c’è un’affermazione che si ripete di continuo: il “noi” del vissuto familiare è comprensibile, dice il Papa, alla luce del “noi” del mistero trinitario.

Il mistero della Trinità non si rivela e non si manifesta se non in dinamismo di comunione e il vissuto familiare, che è la realtà più significativa della comunione interumana, è il contesto in cui si rende più visibile il mistero di Dio che è Trinità.

Con il termine vissuto familiare indico sia il rapporto tra i due membri della coppia che il vissuto di fecondità che da esso scaturisce.

Già Genesi ci dice con chiarezza che Dio ha creato l’essere umano maschio e femmina e li ha benedetti perché fossero fecondi.

Non si può dissociare la reciprocità uomo-donna da questa benedizione originaria: questi termini sono così strettamente congiunti che al di fuori di un’ottica di fecondità è incomprensibile il senso della diversità.

 

LA LETTERA ALLE DONNE

Il terzo testo è la lettera del Papa alle donne scritta in occasione della Conferenza Internazionale di Pechino. Al n. 7 di questo documento il Papa dice: “la questione della differenza uomo-donna è una questione ontologica”, cioè è una questione che riguarda la natura e la conoscenza dell’essere come soggetto in sé. Il Papa ci ricorda che non potremo mai capire fino in fondo che cos’è l’essere umano se non tenendo conto e sviluppando anche la dimensione della relazionalità e reciprocità uomo-donna; questa relazionalità non è un “optional” ma un elemento costitutivo dell’essere.

Questi sono solo degli accenni che però ci permettono di individuare il nucleo centrale del problema, cioè che la diversità e la diversità per eccellenza, quella all’interno dello stesso essere umano come maschio e come femmina, è una risorsa, è un valore, è la chiave di lettura del mistero dell’uomo ma è anche l’accesso al mistero stesso di Dio.

Concludendo questo primo punto mi sembra di poter dire che allora la diversità ha il suo fascino: la diversità non è qualcosa a cui dobbiamo guardare con sospetto e con paura ma è il continuo rimando che noi abbiamo ad andare oltre, a non fermarci, a superare i limiti che inevitabilmente sono costituiti da ogni approccio soggettivo, individualista, che pone il “se stessi” al centro di tutte le cose.

La diversità è l’appello forte che noi abbiamo ad allargare il nostro orizzonte.

 

DIVERSITÀ E LIBERTÀ

Il secondo aspetto è costituito dalla presenza di un dramma all’interno dell’esperienza di diversità: questo dramma è costituito dall’interpretazione che

noi diamo della diversità: se questa è segnata dalla paura ci richiudiamo su noi stessi, in caso contrario siamo in grado di costruire rapporti sempre più grandi di amore e donazione.

Entra in gioco dunque la nostra libertà con cui il tema della diversità deve sempre misurarsi.

Pensiamo all’impatto che questo elemento ha nel rapporto uomo-donna: la creazione dell’unità di coppia impone di mettere in gioco la propria libertà, ma questo non è affatto scontato, richiede fatica e impegno.

La diversità è quindi anche una sfida alla propria libertà.

Questi due primi aspetti sono fondativi, ciò che segue non è che lo sviluppo consequenziale del discorso.

 

CRISTO PER COMPRENDERE LA DIVERSITA'

Un ruolo determinante per interpretare la vicenda della diversità ci viene da Gesù Cristo: infatti in Cristo noi abbiamo l’abbraccio supremo della diversità come ci dice Paolo nel cap. 2 della lettera ai Filippesi.

Paolo ci ricorda che Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua eguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo ... fino alla morte di croce.

Gesù compie quello che teologicamente viene chiamato “kenosis”, cioè l’abbassamento, l’annientamento, l’entrata nelle tenebre causate dal peccato; in questo modo Cristo colma l’abisso della differenza, della diversità causata dal peccato e si pone come ponte in grado di riorientare ogni diversità e di ricondurla al suo senso originario.

La diversità è infatti un bene che diventa valore negativo quando, a causa del peccato, non permette più agli uomini di comprenderne il senso e diventa la fonte dei conflitti e delle rivalità.

Solo in Cristo noi possiamo ricomporre tutte le diversità, quella tra Cielo e terra come quella tra uomo e donna: è in questa chiave che dobbiamo intendere le parole di Gesù quando dice che non c’è più marito né moglie, né uomo né donna. Egli non vuol dire che questi stati della persona saranno soppressi ma che non saranno più conflittuali, in contrapposizione, e saranno ricondotti alla loro armonia e al loro senso ultimo perché non sono altro che il passaggio verso quella comunione definitiva quando vedremo Dio faccia a faccia.

 

IL MATRIMONIO CRISTIANO

L’esigenza del matrimonio è presente in tutte le culture di tutti i tempi come una dimensione fondamentale dell’uomo.

È vero, il peccato ne ha oscurato in parte il senso, ma non ha eliminato la tensione positiva che spinge l’uomo e la donna a vivere insieme.

Il cristiano non ha strumenti diversi da ogni altro essere umano quando vive autenticamente questa esperienza di amore e donazione reciproca, salvo la Grazia che gli viene da Cristo.

Tornando a Paolo, nella lettera agli Efesini egli ci ricorda anche di essere sottomessi gli uni agli altri come la Chiesa lo è a Cristo: è la sottomissione a Cristo che costituisce il presupposto per la composizione della diversità, perché si crei veramente la reciprocità.

In questo senso la Grazia del sacramento del matrimonio non annulla le diversità ma le valorizza e le innerva nella forza della Grazia stessa, permettendo di realizzare ciò per cui Dio fin dall’origine ha pensato e voluto per l’uomo e per la donna, benedicendoli nella loro fecondità.

Oggi, come società, siamo entrati in un duplice vicolo cieco: da una parte troviamo la tendenza ad omologare tutto e tutti, comprese le differenze sessuali, rendendole di fatto indistinguibili e irrilevanti, dall’altra incontriamo la tendenza alla contrapposizione, alla separazione irriducibile.

Il matrimonio cristiano tiene lontana ogni forma di omologazione dell’uno all’altro e nello stesso tempo ogni reciproca irriducibilità, proprio perché l’uo-mo è capace di costruire una comunione nel rispetto delle diversità.

 

LA FAMIGLIA

La famiglia cristiana è allora il luogo in cui per eccellenza si può valorizzare la diversità (vedi Familiaris Consortio), che si pone come primo compito la costituzione di una comunità di persone. Una grossa sfida del nostro tempo che impegna la famiglia è quella dell’integrazione delle diversità religiose.

Su questo argomento vi sono delle luci e delle ombre: le luci sono quelle che oggi ci vengono dalla ricchezza dei rapporti ecumenici tra le diverse confessioni cristiane, ad esempio con gli ortodossi ed i riformati.

La teologia del matrimonio presso gli ortodossi è molto diversa dalla nostra sia nella visione del matrimonio sacramentale, sia nella sua attuazione liturgica e nella prassi pastorale (pensiamo al caso tipico dei divorziati e risposati). Il fatto che la realtà cattolica e quella ortodossa si incontrino anche attraverso i matrimoni misti è visto come un elemento di grande arricchimento teologico ed ecclesiale.

Sul fronte dei riformati ricordo l’accordo recentemente sottoscritto tra la CEI ed i valdesi proprio sulla questione dei matrimoni. L’incontro all’interno di un vissuto familiare di un cattolico e di un riformato valdese viene ora interpretato, a fronte di conflitti radicali vissuti in passato, come una risorsa, una fonte di possibile grazia. Ciò è molto bello ed è un grande segno di come all’interno della famiglia anche le diverse esperienze di fede possono tradursi in una crescita, in un arricchimento, in uno scambio molto prezioso.

Le ombre ci vengono dai matrimoni interreligiosi, soprattutto con i musulmani. Sappiamo tutti, anche da casi apparsi sulla stampa nazionale, quanto sia difficile questa esperienza, anche quando c’è un impegno molto serio nell’affrontarla, proprio per le diverse interpretazioni che si hanno riguardo al rapporto di coppia tra mondo occidentale e mondo musulmano.

Questo è un argomento guardato con grande attenzione dalla Chiesa (lo stesso Direttorio di Pastorale familiare ne parla), su di esso non vi sono preclusioni di principio anche se oggettivamente si invita all’attenzione e alla cautela.

 

IL RUOLO DELLA CHIESA

La Chiesa si è sempre impegnata sul fronte della diversità, anche se vi sono stati momenti nella sua storia che fanno pensare diversamente e che possono essere compresi solo entrando nelle situazioni specifiche. Ma la Chiesa, per la sua natura cattolica, cioè universale, è stata sempre attenta alle diversità e questa attenzione oggi si esprime nel binomio: “evangelizzazione delle culture” e “inculturazione della fede”. La fede ha infatti sempre un duplice processo: entra dentro le esperienze positive delle culture e delle tradizioni umane e, nello stesso tempo, innerva queste realtà con l’originalità e la novità ‘ dell’annuncio evangelico.

Questo è un processo dagli equilibri molto difficili, perché da un lato c’è sempre il rischio di una evangelizzazione che snaturi e manipoli le tradizioni culturali, e dall’altro c’è il rischio che un adattamento del Vangelo alle tradizioni comporti una perdita dell’originalità del messaggio cristiano.

 

LA CHIESA E IL RAZZISMO

Come la Chiesa si pone nei confronti del razzismo? Come si pone di fronte a questa realtà che a volte si manifesta in forma eclatante e a volte in modo subdolo?

La Chiesa è e vuole essere un deterrente contro ogni forma di razzismo, per questo ha bisogno continuamente di convertirsi alla verità del suo essere, al senso più profondo della sua missione.

La sua è una missione di comunione e di riconciliazione e in quest’ottica la Chiesa è nel mondo il crocevia della riconciliazione e dell’incontro tra popoli e razze.

In Italia ciò è meno visibile, ma credo che le comunità cristiane costituiranno sempre più il punto discriminante della capacità del nostro paese di essere accogliente e capace di integrare le diversità.

Sull’argomento vi segnalo un documento della commissione “Justitia et Pax” (Educare alla legalità) che invita a passare da una cultura dell’indifferenza e della diffidenza ad una cultura della differenza e della solidarietà: differenza nel senso di saper apprezzare e valorizzare le differenze, solidarietà come raccordo tra le differenze stesse.

 

EDUCARE ALLA DIVERSITÀ

Ma anche questo è solo un passaggio verso l’obiettivo ultimo che è la nascita di una cultura della convivialità, che è qualcosa di più della solidarietà.

Solidarietà è accettare, condividere, comprendere, affiancarsi; convivialità è un termine tipicamente familiare che sta ad indicare un entrare in stretto contatto, un assumere all’interno del proprio vissuto anche questo tipo di presenze.

Un grosso contributo che la Chiesa dà su questi argomenti è quello dell’educazione. La Chiesa ha un compito che è quello di educare Ia coscienza di ogni credente, ma anche di investire le sue risorse principali nell’educazione delle nuove generazioni.

Quest’educazione deve essere fatta di ascolto, di dialogo e di condivisione: questi tre elementi costituiscono la grammatica di ogni autentico rapporto tra le diversità.

 

Don Claudio Giuliodori, responsabile dell’Ufficio per le Comunicazioni Sociali della CE

Sabato, 27 Agosto 2005 13:30

LA DIVERSITÀ OGGI: ANALISI E PROPOSTE

ACCOGLIERE LE DIVERSITA' - SECONDA PARTE

-1- LA DIVERSITÀ OGGI: ANALISI E PROPOSTE

Dalla fine dei vecchi equilibri a nuove reti di solidarietà

 

Questa relazione vuole affrontare il problema della diversità dal punto di vista sociologico calandola nella nostra esperienza di famiglie.

La caduta di alcuni vecchi equilibri su cui si basava la nostra società a cui eravamo abituati da decenni ha accelerato in questi ultimi tempi la diversità, la contrapposizione tra le diversità.

Quali equilibri sono caduti? per esempio quelli legati all’organizzazione del lavoro, alla contrapposizione Est/Ovest, al ruolo degli anziani, dei giovani e della famiglia.

L’organizzazione del lavoro

L’organizzazione del lavoro cui eravamo abituati, il modello Fordiano che si riassume nella catena di montaggio, poteva essere alienante ma creava molti posti di lavoro, si poteva sperare di lavorare fino al raggiungimento della pensione, offriva un posto a tutti, anche a coloro con bassa scolarità.

La nuova organizzazione del lavoro è centrata sulla qualità totale, sul concetto di “just-in-time” che di fatto elimina i magazzini; in questa organizzazione i lavoratori sono definiti risorse umane.

Questa è una bella parola ma che cosa vuol dire risorsa? chi è risorsa? sono risorsa solo i lavoratori che sono adattabili nel tempo, che sono fungibili, e questa impostazione, insieme all’uso estensivo di robot per eseguire lavori che prima svolgevano gli uomini, riduce il numero dei posti di lavoro.

Cambiano così anche i rapporti tra i lavoratori, il neoassunto fa paura, i più anziani vedono in lui un concorrente perché è probabilmente più adattabile, più fruibile. Chi sopravvive e non viene espulso dal sistema produttivo è solo colui che supera la paura di non essere all’altezza.

La contrapposizione Est/Ovest

Alla caduta del muro di Berlino nel 1989 tutti abbiamo applaudito: era la fine della guerra fredda, e con lei la fine della paura di una nuova guerra mondiale, della “bomba”, della morte nucleare.

Ma c’era un rovescio della medaglia che abbiamo compreso solo col tempo: la caduta del muro, dei vecchi equilibri, ha innescato le attese di una moltitudine di individui dell’Est europeo che ha cercato di riversarsi anche nel nostro paese. Questo ci fa paura perché sembra attentare al nostro benessere ma non c’è rimedio: l’Italia è un paese con indice di natalità negativo, ha bisogno di braccia, e inoltre, rispetto ad altri paesi europei, gli stranieri da noi rappresentano solo il 2% della popolazione contro una media internazionale che è del 5%.

Il ruolo degli anziani

Il primo libro sugli anziani è del ’76 e si intitola emblematicamente “L’età inutile”.

Da allora molte cose sono cambiate: la salute degli anziani è migliorata, la speranza di vita si è spostata a 75-80 anni, gli anziani oggi sono più istruiti, sono inseriti in gruppi, hanno hobbies con cui occupare il tempo, ma nonostante ciò il 25% di essi è solo, è isolato.

Questo ha dei gravi costi sociali perché l’uomo ha bisogno di comunicare con gli altri, di relazionare, colui che ne è privato è come una persona a cui sia stato tolto il cibo, il nutrimento.

Ma anche molti degli anziani che svolgono attività reputano queste attività poco significative e ciò provoca in loro frustrazione; infatti il senso della vita consiste nel fare cose che gli altri ritengono significative.

In questo caso la donna è più fortunata (ha sempre badato alla casa e, una volta raggiunta la pensione, continua a farlo), l’uomo si trova invece in una situazione più critica.

Il ruolo dei giovani

Leggiamo ogni giorno sui giornali di ragazzi che vivono situazioni di malessere, leggiamo di omicidi, di atti di violenza contro gli altri e anche contro se stessi.

Un altro indicatore di questo malessere è la cosiddetta “famiglia lunga”, famiglia dove i figli ormai adulti continuano a vivere nella casa dei genitori.

Perché la famiglia lunga? Perché manca il lavoro? Perché non é sicuro? Perché i giovani con il loro stipendio non riescono ad avere una casa comoda come quella dei genitori?

Il motivo vero è che questi giovani, maschi e femmine, sono figli della “grande mamma italiana”.

Questa mamma, nei confronti dei maschi è soprattutto protettrice, teme per i figli, e questi non hanno un padre, perché il padre c’è ma sovente è come se fosse assente.

Ai giovani maschi manca l’identificazione con il padre, lo stare al suo fianco, il lavorare insieme, e, attraverso queste esperienze, comprendere che anche il padre commette errori e così emanciparsi.

Le femmine sono più fortunate perché la madre di solito è più presente in casa e le giovani possono quindi misurarsi, confrontarsi e scontrarsi con essa.

Lo si vede anche nell’ambito universitario: le ragazze sono più forti dei maschi, studiano di più, studiano meglio.

Il ruolo della famiglia

La famiglia è cambiata molto in questi ultimi anni: solo per citare un dato, attualmente i divorzi e le separazioni interessano il 20% dei matrimoni.

Questo mutamento ha un peso molto forte sui giovani, che sono portati ad affrontare il matrimonio mettendo già in conto che, se le cose vanno male, ci si può lasciare.

Il divorzio dei genitori crea inoltre nei giovani delle difficoltà ad avere rapporti con l’altro sesso, perché fa nascere la paura di essere abbandonati.

Come genitori dobbiamo fare un esame di coscienza perché non siamo stati capaci di trasmettere tutti i valori in cui noi siamo stati educati ai nostri figli. Tra questi valori vi possono essere valori grandi, significativi, ma anche altri molto più banali come l’ordine, l’attenzione per le proprie cose, il rispetto della disciplina, la capacità di cucinare, ecc..

Non li abbiamo passati forse perché li ritenevamo poco importanti o perché non ne siamo stati capaci e ora scopriamo i nostri figli disordinati, spreconi, indisciplinati, incapaci di nutrirsi in modo corretto.

Scopriamo che anche il poco che abbiamo insegnato sovente si è perso perché il peso degli amici, del gruppo, è stato più forte di quello della famiglia.

 

COME GESTIRE LA DIVISIONE

La divisione si gestisce accettando la diversità, trasformandola in una opportunità di scambio vicendevole.

Partendo dal mondo del lavoro le associazioni (dei lavoratori, degli imprenditori p.e.) non dovrebbero limitarsi ad avanzare rivendicazioni, ma dovrebbero diventare più solidali con coloro che rappresentano.

Se marito e moglie perdono il lavoro diventano improvvisamente, da piccoli-borghesi che erano, poveri, sul lastrico.

Le associazioni, anziché limitarsi a difendere coloro che un lavoro lo hanno ancora, dovrebbero fare corsi di riqualificazione per coloro che il lavoro lo hanno perduto, in modo che possano trovare un nuovo lavoro, possano passare alla libera professione, al lavoro in cooperativa.

Passando ai pensionati, la malattia più diffusa nei primi due anni successivi all’uscita dal mondo del lavoro è la depressione.

Solo coloro che si organizzano per tempo e riescono a continuare a fare qualcosa di utile ne sono esenti; un compito delle associazioni è anche quello di favorire chi va in pensione a trovare alternative valide per occupare il proprio tempo.

Anche per i giovani il discorso è simile: le associazioni possono creare progetti per i giovani attingendo ai fondi sociali europei; i giovani stessi, aiutati dalle famiglie, possono organizzarsi in associazioni “no profit” (senza fine di lucro) per offrire servizi.

Da ultimo alcune considerazioni sugli extracomunitari: non possiamo far finta che non esistano, che sono solo delinquenti, che ci portano solo malattie. Dobbiamo aiutarli a integrarsi, a diventare cittadini, se li lasciamo nelle mani degli sfruttatori resteranno sempre come dei topi, relegati a vivere nelle cantine o nei solai dei quartieri più degradati!

 

VERSO DOVE ANDARE

Siamo stati abituati ad affrontare la diversità? Direi di no: se nelle nostre famiglie nasce un problema siamo portati a nasconderlo per paura di essere considerati diversi.

È qualcosa da superare, dobbiamo mobilitarci per creare delle reti sociali, delle reti di solidarietà, perché, è inutile illuderci, non siamo autosufficienti!

Io padre, io madre, ho bisogno, per la realizzazione dei miei figli, che altri mi aiutino come io, a mia volta, devo cercare di aiutare gli altri.

prof. Guido Lazzarini, sociologo

Venerdì, 01 Luglio 2005 19:34

SANTITÀ E ACCOGLIENZA

PRIMA PARTE

APRIRSI ALL’ACCOGLIENZA

-5-

Chiamati a trasformare la terra in cielo

SANTITÀ E ACCOGLIENZA

Per un’accoglienza soprattutto interiore

 

Il cammino verso la santità non è riservato ad alcune particolari persone o alcuni speciali stati di vita: è di tutti e per tutti.

Forse il problema è sapere cos’è la santità.

Per l’educazione che abbiamo ricevuto, il santo è visto spesso come una persona amabile, obbediente, semplice, serena, che di fronte alle difficoltà o ai problemi ha saputo accettarli senza ribellione e senza impazienza.

 

CHI È SANTO?

Stando a questa educazione neanche Gesù, se fosse giudicato con questo schema tradizionale di santità, non potrebbe mai essere santo perché egli si è staccato dalla tradizione del suo tempo: non è stato obbediente all’autorità religiosa e neppure a quella civile, ha predicato contro le discriminazioni e i privilegi.

Dobbiamo quindi correggere il nostro concetto di santità: santa non è la persona che ha dimenticato la terra per pensare al cielo ma quella che si è battuta per trasformare la terra in cielo. La Bibbia definisce Dio come il “Santo”, meglio come il “tre volte Santo”, il “Santissimo” per eccellenza.

Ma in che cosa consiste la santità di Dio? Se leggiamo i salmi, scopriamo che Dio è Santo perché: odia l’ingiustizia, si mette dalla parte dei deboli, solleva, incoraggia i miserabili. Dio è Santo perché sogna e agisce per fare in modo che gli uomini formino una famiglia dove ci sia: solidarietà, amore, fraternità e parità; Dio è santo perché vuole un mondo giusto, solidale.

Una delle tante strade che porta alla santità è quella dell’accoglienza e dell’ospitalità.

 

L’ACCOGLIENZA IN FAMIGLIA

La parola accoglienza non può ridursi ad un atteggiamento formale come aprire la casa per accogliere chi è in difficoltà, anche se questo atteggiamento è raccomandato dalla Bibbia e dai Vangeli. Ma la vera accoglienza non è solo fisica, è soprattutto interiore, che vuol dire saper ospitare nel cuore idee, culture, religioni diverse. La nostra casa dovrebbe essere nello stesso tempo luogo d’intimità e d’apertura.

Molte famiglie si chiudono in se stesse con l’intenzione di difendersi. Giudicano il mondo perverso e corrotto e mettono in atto una serie di difese. Ed è vero: nel mondo di oggi ci sono perversità ma è anche vero che nella cultura attuale vengono fuori tante realtà promettenti.

Allora una famiglia dovrebbe vivere l’accoglienza secondo due direttrici: il momento dell’intimità e quello dell’apertura, dell’ospitalità. Il momento dell’intimità è segnato dalla riflessione, dal dialogo di coppia, dal confronto, dall’approfondimento dei problemi. Il momento dell’ospitalità è quello dell’accoglienza e dell’ascolto: si accolgono tutte quelle cose che ti portano ricchezza, vitalità. Come una persona cresce quando si lascia abitare, provocare dagli incontri con le persone, così la famiglia rivive continuamente quando è capace di ospitare tensioni, provocazioni.

Quindi il primo tipo di accoglienza che la famiglia è chiamata a vivere riguarda l’interno della famiglia. Se lo sposo non ospita la sposa, la famiglia non è ospitale, e così pure se i genitori non ospitano i figli. È interessante riscoprire il “viversi come ospiti” perché nei riguardi dell’ospite c’è attenzione, accoglienza, rispetto. Viversi come ospiti tra coniugi, con i figli è introdurre nella famiglia sia un atteggiamento di ascolto (di fronte alla presunzione di conoscerci già.) sia di distanza (di fronte al rischio di assorbirsi o di possedersi).

Allora ospitalità nella famiglia indica l’attitudine a saper accogliere le attese, i desideri, le intuizioni del coniuge, dei figli, del genitore, vincendo il facile atteggiamento di banalizzazione o di opposizione.

Quando in una famiglia l’uomo ospita la donna, quando i genitori ospitano i figli, e quando i figli ospitano i genitori, si crea un’atmosfera così viva di stima e di ascolto che permette alle persone di sentirsi amate e stimate e quindi dî avere il coraggio di vivere questa ospitalità nei riguardi di avvenimenti, idee, differenze di cultura. Questo è un passo sicuro verso la santità.

 

padre Cesare Giulio IMC

 

Domande per la Revisione di Vita

·        Che parte ha il momento dell’intimità e quello dell’apertura, nella nostra famiglia e nella mia vita? Sono ben equilibrati per farmi/farci crescere?

·        Quanto so “ospitare” l’altro (il coniuge, il figlio, il collega, la suocera...)? Riesco a vederlo con occhi nuovi, senza preconcetti e giudizi? Oppure tendo ad assorbire, usare l’altro?

Brani per la Lectio Divina

  • Genesi 19, 1-29 (Lot ospita gli angeli);
  • Luca 10, 38-42 (Marta e Maria).
Sabato, 21 Maggio 2005 22:11

L’ACCOGLIENZA DI DIO

PRIMA PARTE

APRIRSI ALL’ACCOGLIENZA

 

-4-

Accogliere il Signore come un dono

L’ACCOGLIENZA DI DIO

Dio ci ha già accolto anche se noi non ce ne accorgiamo

 

Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”.

E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: “Che cercate?”.

Gli risposero: “Rabbì (che significa maestro), dove abiti?”. Disse loro: “Venite e vedrete”.

Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui. (Giovanni 1, 35-39).

 

CREATURE SÌ MA REDENTE IN CRISTO

È possibile usare il termine accoglienza nei confronti di Dio? È Lui che ci accoglie o noi che accogliamo Lui? Proveremo stasera a rispondere a questa domanda.

Accogliere, da un punto di vista letterario, vuol dire ricevere, ospitare, accettare, contenere. Da un punto di vista teologico le cose sono più complicate e abbracciano molti secoli della storia dell’uomo.

L’uomo da sempre ha al suo interno un’inquietudine: sa di essere “finito” ma sente di tendere all’infinito. Da questa inquietudine nasce l’idea di un Dio creatore, l’intelligenza permette all’uomo di accogliere il mistero di Dio. Ma la creazione può essere fine a se stessa, la creatura può non essere destinata ad un fine eterno. Dio allora si manifesta all’uomo nella Storia attraverso l’Incarnazione e la Resurrezione di Gesù. In Gesù scopriamo di essere stati creati per vivere in Dio, scopriamo di essere figli ed eredi.

 

COLTIVARE LA VIGILANZA

Nel brano del Vangelo in apertura sembra che tutto avvenga per caso: Giovanni che è in quel luogo, Gesù che passa proprio di lì, i discepoli che iniziano a seguirlo. Non è un caso: è un dono; dobbiamo capire che ciò che ci capita nella vita ogni giorno non è un caso ma è un dono che Dio ci fa per permetterci di incontrarlo e seguirlo.

Giovanni è attento e coglie il dono, se noi siamo rinchiusi in noi stessi, non ce ne accorgiamo. Dobbiamo riuscire a vedere, al di là delle cose che ci angustiano, il Signore che passa. Siamo chiamati ad accogliere il Signore in qualunque modo Egli si presenta a noi; se ci costruiamo un’idea, un sogno, corriamo il rischio di non accoglierlo perché non corrisponde alla nostra idea, al nostro sogno. Dio ci accoglie con queste improvvisate e noi siamo chiamati a coltivare la vigilanza.

 

COSA CERCHIAMO NELLA VITA?

Gesù si sente seguito e, voltatosi, chiede ai due: “Che cercate?”.

Facciamoci ogni tanto questa domanda: cosa cerchiamo? Forse la nostra vita è piena dì troppi desideri e non sappiamo bene cosa cerchiamo perché non sappiamo capire ciò che è davvero importante. Serve un po’ di ecologia dei desideri, serve sfrondare l’albero per evitare che si sradichi sotto il peso di troppi desideri. Se poi cerchiamo solo noi stessi non c’è spazio per Dio.

 

VENITE E VEDRETE

Alla domanda di Gesù i discepoli gli chiedono: “Dove abiti?”. È un modo per chiedere: “Chi sei Signore?”, voglio conoscerti, voglio stare con Te!

Gesù risponde: “Venite e vedrete”. Usa due verbi, uno al presente e l’altro al futuro. Venite: il Signore ci accoglie oggi, ogni giorno, così come siamo. Vedrete: solo se camminiamo con Lui, giorno dopo giorno, lo conosceremo. Siamo chiamati alla fedeltà, ad accoglierlo non una volta per tutte ma ogni giorno. Dove trovare la forza per essere fedeli? Da Lui, Lui che è stato fedele al Padre fino alla morte, e alla morte di croce.

 

LASCIARE PER SEGUIRE

I due discepoli, per seguire Gesù, lasciano Giovanni. Hanno trovato in Gesù qualcosa di più, quel di più che fa la differenza, che cambia la prospettiva con cui guardiamo le cose della vita.

E allora coraggio: non abbiamo paura a seguire Gesù, non pensiamo di non esserne capaci. Egli ci ha già accolto, come il padre nella parabola del figliol prodigo, anche se noi pensiamo di non essere ancora pronti ad accoglierlo.

 

Dott.ssa Gaia De Vecchi, teologa

 

Domande per la Revisione di Vita

·        Riusciamo a cogliere la chiamata del Signore nelle “improvvisate”?

·        Cosa cerchiamo nella nostra vita? Quali nostri desideri non sono per Dio?

Brani per la Lectio Divina

·        Giona 3,1 – 4,11 (Giona a Ninive);

Genesi 18, 1-15 (Abramo alle querce di Mamre).
Sabato, 30 Aprile 2005 21:34

L’ACCOGLIENZA NELLA CARITÀ

PRIMA PARTE

APRIRSI ALL’ACCOGLIENZA

- 3 -

Imparare le parole dell’accoglienza

L’ACCOGLIENZA NELLA CARITÀ

La parabola del buon samaritano

Ascoltando la parabola del buon samaritano (Luca 10,25-37) ho chiesto a Gesù: “Fa che ti ascolti bene, che colga bene quello che mi vuoi dire”.

Cercherò quindi di estrarre dal testo una serie di parole che mi hanno toccato, hanno suscitato in me una riflessione e che v’invito a trattenere nel cuore anche quando quest’incontro sarà finito.

GESÙ RISPOSE: "UN UOMO...”

L’uomo vittima dei briganti è descritto da Luca con questa semplice parola: “un uomo”, di lui non sappiamo nulla, e ancora meno sanno di lui coloro che gli passano accanto, i briganti 1’hanno spogliato e percosso e non è più possibile capire se si tratta di un uomo ricco o povero, sano o malato. Gesù ci chiede di interessarci all’altro così com’è, senza pretendere di conoscere la sua storia.

Dio, nel racconto di Genesi, quando crea l’uomo dice che ciò che ha creato è “cosa molto buona”. Nonostante il peccato l’uomo resta buono, qualunque cosa abbia fatto, tocca a noi tirare fuori da quest’uomo quello che c’è di buono; su questo punto, sia come società sia come cristiani, siamo molto deboli.

"NE EBBE COMPASSIONE"

Il samaritano ha compassione di quell’uomo e per aiutarlo si ferma, scende dalla sua cavalcatura, rinuncia alle sue sicurezze anche se corre a sua volta il pericolo di essere assalito dai briganti. Egli è riuscito a vedere in quell’uomo quello che gli altri passanti non sono riusciti o non hanno voluto vedere.

Noi confondiamo sovente compassione con emozione, ci sono molti fatti che i mass media ci propongono che suscitano in noi emozione. Ma se il nostro cuore è chiuso alla compassione continueremo a guardare l’altro con occhi di uomo e non con gli occhi di Dio, vedremo nell’uomo a terra solo le ferite, le vesti lacere, il pericolo e non “l’altro”.

“GLI SI ACCOSTÒ”

Proviamoci a mettere nei panni del samaritano: ne ha del coraggio! Quante volte noi abbiamo paura ad avvicinarci all’altro; provate a girare nella zona di Porta Palazzo1 e poi ditemi se non avete paura! Ci vuole tanta preghiera per superare la paura di avvicinare “l’uomo” perché il Signore ci chiede, come al dottore della legge, “Va e anche tu fa lo stesso”.

"VERSÒ OLIO”

Non solo il samaritano si avvicina ma lo tocca, lo cura, non ha paura di sporcarsi le mani, di rimboccarsi le maniche. L’accoglienza è partire dalle necessità e dalle esigenze della persona e non dare o fare solo quello che ci fa comodo, quando ci fa comodo.

“LO CARICÒ SULL’ASINO”

Non basta essere compassionevoli, ci è chiesto anche di condividere quello che abbiamo con l’altro; per il samaritano si tratta dell’asino, per noi si tratta di condividere il tempo, la salute, le ricchezze materiali e spirituali, ecc.

“FECE TUTTO IL POSSIBILE PER AIUTARLO”

Quando quello che facciamo non basta, allora siamo invitati a rivolgerci a coloro che lo possono meglio aiutare: nella parabola ciò è indicato dalla locanda e dall’albergatore, nel nostro caso dal parroco, dall’ospedale, dai centri di accoglienza, ecc. Ma non è ancora finito: “ciò che spenderai di più lo pagherò al mio ritorno”; non possiamo limitarci a scaricare ad altri le situazioni difficili, ci è chiesto di continuare ad amare, a pensare, ad interessarsi all’altro anche quando lo abbiamo affidato a mani più esperte delle nostre.

“AL MIO RITORNO”

Luca non ci dice cosa avverrà in questa circostanza, non ci dice se il samaritano sarà ringraziato da quell’uomo oppure no; questo è l’insegnamento di Gesù: non aspettiamoci nessun grazie per il bene che facciamo perché sappiamo che lo facciamo per Lui!

Guido Morganti, SERMIG

Domande per la Revisione di Vita

·        Cosa mi frena nel donarmi? Cosa ho paura di perdere?

  • Ho bisogno della gratitudine altrui per essere soddisfatto del mio operare? Quando e perché?

Brani per la Lectio Divina

·        Matteo 25, 31-46 (Il giudizio finale).

1 Quartiere di Torino con una forte presenza di immigrati extra comunitari

Mercoledì, 30 Marzo 2005 21:26

L’ACCOGLIENZA NELLA COMUNITA’

PRIMA PARTE

APRIRSI ALL’ACCOGLIENZA

 

- 2 -

Accogliersi per saper accogliere

L’ACCOGLIENZA NELLA COMUNITA’

Farsi prossimo a coloro che ci vivono accanto

 

Quando sono arrivato qualcuno mi ha accolto con un sorriso dandomi un foglio, un altro si è fatto avanti accogliendomi in nome del parroco: posso quindi affermare che stasera sono stato accolto tra voi, non mi sono sentito uno di passaggio.

La riflessione di stasera si svilupperà in cinque punti intorno ad una considerazione di base: “Una comunità cresce se cresce l’accoglienza”. Gesù, nostro maestro, nel Vangelo ci ha dato tanti esempi di accoglienza: “Venite a me, voi che siete affaticati e oppressi, e io vi darò ristoro”,…impariamo da Lui!

 

CONOSCENZA TRA PARROCCHIANI

Il primo passo da compiere per diventare una comunità accogliente è quello di conoscerci tra noi. Stasera, per esempio, ci conosciamo tutti? Se ci guardiamo intorno, vediamo solo volti noti o anche persone con cui non abbiamo mai scambiato neanche un saluto?

In una grande parrocchia è difficile conoscersi tutti  ma , almeno tra noi che frequentiamo la chiesa, sarebbe importante crescere nell’accoglienza. Le occasioni non ci mancano: trasformare il segno di pace con il vicino di banco in un’occasione d’incontro, non temere di parlare sottovoce, prima dell’inizio della funzione, con chi ci sta accanto, non scappare di corsa alla fine della Messa ma attardarsi a salutare chi già conosciamo e anche chi non conosciamo. Perché i Movimenti hanno così successo? Per tanti motivi ma anche perché chi vi partecipa si sente accolto, è riconosciuto con il proprio nome. Impariamo da loro!

 

I GRUPPI COME COMUNITA’…

Nella parrocchia

 

 

...APERTE A TUTTI...

Ma non basta. La comunità cresce se chi fa parte di un gruppo riesce ad essere accogliente verso chi non ne fa parte, non vede un nuovo arrivato come un intruso ma come un fratello; se, chi vi partecipa per la prima volta, non si sente accolto non torna più. Se un gruppo non si apre, è destinato a morire perché il suo obiettivo deve essere quello di diventare una piccola comunità aperta agli altri.

 

...E PARTE VIVA DELLA PARROCCHIA

Una parrocchia: tanti gruppi che funzionano, ogni gruppo partecipa quasi al completo alle attività o agli impegni che lo riguardano, ma quando il parroco propone un’iniziativa aperta a tutti, che coinvolge l’intera comunità, i gruppi si squagliano, partecipa solo una piccola minoranza. Quante volte ho vissuto questa esperienza come parroco! I gruppi devono sentirsi parte della comuni-tà, non isola felice e appartata, e il momento comunitario per eccellenza è l’Eucarestia domenicale. La parrocchia deve essere sentita e vissuta come co-munità di tante piccole comunità!

 

PARROCCHIA CHE SI FA PROSSIMO

Questa comunità, che è la parrocchia, cresce se è attenta non solo ai suoi, a coloro che partecipano, ma se sa farsi prossimo a tutti coloro che abitano nel suo territorio. Occorre che i cristiani sappiano vedere e farsi carico delle situa-zioni di disagio delle persone che abitano vicino a loro e si facciano portavoce in parrocchia di chi soffre, di chi è ammalato o sta morendo, di chi è solo. La parrocchia deve diventare punto di convergenza delle esigenze del territorio. Guardiamo a Gesù che, nel suo agire, è attento alle persone, ai discepoli, alla gente tutta e chiediamogli l’aiuto per far diventare questa parrocchia una vera comunità d’accoglienza!

don Guido Fiandino della diocesi di Torino

 

 

Domande per la Revisione di Vita

· Come sono stato accolto nel gruppo cui faccio parte? Ne sono stato soddi-sfatto, o si sarebbe potuto fare meglio?

·    Nel gruppo c’è la stessa attenzione verso tutti i componenti? Se qualcuno è messo in disparte come possiamo fare per accoglierlo meglio?

·   

Brani per la Lectio Divina

· 1 Corinzi 12, 4-27 (diversità e unità dei carismi);

·         Giacomo 2,1-13 (accoglienza alle agapi).

 

Sabato, 19 Marzo 2005 14:37

LA FAMIGLIA LUOGO DI ACCOGLIENZA

PRIMA PARTE:

APRIRSI ALL’ACCOGLIENZA

 

- 1 -

 

Accoglienza: dialogo tra diversità

LA FAMIGLIA LUOGO DI ACCOGLIENZA

Aprirsi agli altri e allo Spirito

 

In questo periodo grava sulla famiglia qualcosa di paragonabile ad una cappa di piombo. Dopo i fatti di Novi Ligure e altri analoghi non stupisce trovare genitori che si interroghino sulla loro capacità di educare i propri figli.

Tralasciando l’emotività che questo tipo di avvenimenti inevitabilmente provoca, chiediamoci che cosa dovrebbe significare l’accoglienza in famiglia e, per aiutarci, vi propongo tre spunti di riflessione.

 

AFFETTO SENZA DIALOGO

Che tipo di comunicazione c’è nelle nostre famiglie? Dobbiamo ammetterlo: la comunicazione non è il nostro forte, c’è molto affetto ma c’è poco dialogo, in famiglia c’è silenzio su molti argomenti che non si affrontano perché ciò vorrebbe dire discutere, litigare, quindi si preferisce tacere.

Dovremmo invece superare l’affetto, anche se è un elemento indispensabile per la vita familiare, per arrivare al confronto, anche se ciò porta inevitabilmente a scoprire la diversità delle opinioni e dei punti di vista.

Ma la diversità, che sovente ci spaventa, è invece un valore positivo, non possiamo pensare che i nostri figli condividano sempre le nostre idee, i nostri valori; sono di un’altra generazione, hanno modelli diversi dai nostri. Anche come coppia dobbiamo saper apprezzare il valore della diversità, come lo scoprire che non siamo più gli stessi di quando ci siamo sposati ma siamo cresciuti, maturati, cambiati.

 

FAMIGLIA APERTA…

La prima apertura della famiglia è quella verso la vita nascente e la vita verso il suo termine. Purtroppo la nostra società ci spinge a non fare più figli: li fa sentire come un onere, come un limite alla libertà e trascura volutamente tutti gli aspetti positivi della paternità e della maternità. Anche sul fronte degli anziani il discorso è analogo.

Ci sono anche altri modi per aprirsi come famiglia: il volontariato, l’affido, ecc…, tutti validi ma senza dubbio impegnativi. Ma ce ne sono anche tanti altri molto più semplici e a portata di mano: sono quelli che investono la sfera del quotidiano e coinvolgono le persone che ci sono vicino, nella casa dove abitiamo, a scuola, in ufficio.

Siamo chiamati ad un’accoglienza ordinaria ma continua verso coloro con cui condividiamo il nostro tempo, non basta un “buon giorno, buona sera” per diventare prossimo agli altri.

 

…AI RICHIAMI DELLO SPIRITO

Come cristiani poi siamo chiamati ad aprirci allo Spirito, a non essere sordi ai suoi richiami.

Come per l’esperienza di coppia, dove il matrimonio non è che il punto di partenza di un cammino da fare insieme, così nell’esperienza religiosa non c’è mai un punto di arrivo.

La fede non è acquisita una volta per sempre ma è un cammino che si snoda nel tempo e nella vita e che può portarci a mete impensate, se ci lasciamo guidare dallo Spirito.

Come cogliere la sua voce nel rumore del quotidiano? E’ molto più facile quando stacchiamo la spina regalandoci una settimana di ritiro ma, come laici, il nostro posto è nel mondo ed è proprio in mezzo al suo fragore che siamo chiamati, ogni giorno, a scoprire cosa vuole da noi il Signore.

 

prof. Franco Garelli, sociologo

 

Domande per la Revisione di Vita

·        Sappiamo conversare con l’altro, ascoltando e accogliendo il suo punto di vista, senza voler imporre il nostro? Oppure, attraverso le parole e l’atteggiamento, combattiamo un duello? In quali casi il suo punto di vista diverso ci è stato di aiuto?

·        Riusciamo a vedere Cristo nel fratello che incontriamo? Quali incontri, quali presenze, ci disturbano maggiormente? Perché?

Brani per la Lectio Divina

·        1 Samuele 24,1-22 (Davide risparmia Saul);

·        Efesini 5,21-6,4 (morale domestica).

 

Sabato, 19 Marzo 2005 14:32

APPENDICE: I METODI DI LAVORO

APPENDICE

I METODI DI LAVORO

 

L'ANNUNCIO

 

L’Annuncio è lo strumento che permette al Gruppo Famiglia di impostare il suo programma di formazione e consiste nel confrontarsi su un argomento di comune interesse. L’Annuncio può essere fatto da una persona esterna al gruppo, invitata a questo scopo, oppure può essere fatto dal gruppo stesso. In questo caso come si fa?

Si tratta di trovare un argomento di comune interesse, tratto da un libro o da una rivista, e confrontarsi su di esso.

È necessario leggere in precedenza l’argomento (personalmente e in coppia) e porsi, per ogni punto trattato, alcune domande:

·        Condividiamo quanto é scritto? Se non lo condividiamo, perché?

·        Se lo condividiamo, quali ostacoli ci impediscono di realizzarlo?

·        Da che parte incominciamo per superare questi ostacoli?

·        Quali conferme abbiamo trovato?

Durante l’incontro, dopo aver letto l’Annuncio e aver sostato un momento in silenzio, tutte queste riflessioni sono messe in comune perché “chi ha, dà...”. Si ascolta l’esperienza dell’altro come dono dello Spirito per fare chiarezza, discernimento, dentro di noi.

Ognuno, per essere più preciso nel comunicare la propria esperienza é bene metta per iscritto quel che ha pensato, meditato, sentito ... anche per essere più semplice e conciso quando presenta (verbalizza) il proprio contributo.

 

LA LECTIO DIVINA

 

La Lectio Divina è una preghiera biblica che. partendo dalla lettura del testo

sacro, giunge alla contemplazione dell’amore di Dio e spinge all’azione. all’ impegno, alla testimonianza.

Lo schema della Lectio Divina si articola in cinque punti:

·        Lettura: dopo aver letto il testo scelto uno dei presenti ne spiega la collocazione nel testo sacro e chiarisce parole e passi che possono suscitare dubbi.

·        Che cosa dice il testo in sé: si rilegge il testo una frase per volta, cercando di cogliere il significato delle singole parole, soffermandosi sui verbi, sugli aggettivi, per comprendere insieme che cosa l’autore sacro intendeva dire.

·        Che cosa dice il testo a me: ora che abbiamo capito meglio il testo chiediamoci: che cosa il Signore ci vuole dire in questo preciso momento della nostra vita, attraverso questo brano? Condividiamo la nostra risposta con i fratelli.

·        Preghiera: trasformiamo la nostra riflessione in preghiera nelle forme che lo Spirito vorrà suggerirci: dialogo, adorazione, lode, ringraziamento, intercessione.

·        Leggere “con la penna in mano”: scegliamo una frase del testo biblico letto e pregato, scriviamola per ricordarla meglio, sforziamoci di ‘ruminarla” nei giorni a venire e di viverla, prendendo un piccolo ma concreto impegno di conversione.

La vita quotidiana è trasformata dalla forza della Parola!

È opportuno incominciare sempre la Lectio Divina, sia personale sia di gruppo, con un’invocazione allo Spirito Santo affinché Lui, che ha ispirato le Scritture, guidi noi alla loro corretta ed efficace comprensione.

 

LA REVISIONE DI VITA

 

La Revisione di Vita è un metodo per fare cerniera tra vita quotidiana e fede, condividendo con gli altri il cammino. Viene proposta, prima di ogni incontro, una domanda dalla quale partire per:

·        Vedere: dopo un invocazione allo Spirito Santo la coppia che conduce l’incontro ripropone la domanda scelta per la RdV e ciascuno dà la sua risposta, attingendo alla propria esperienza personale e di coppia, senza esprimere giudizi. Questo momento di ascolto reciproco e di comprensione profonda dell’esperienza altrui favorisce la formazione della “presa in carico” reciproca.

·        Giudicare: a questo punto il gruppo si prende un momento di silenzio per ripensare a ciò che si è sentito e per interpretarlo alla luce del Vangelo. Ciascuno si raccoglierà in se stesso e farà memoria di quegli episodi e frasi del Vangelo, o più in generale della Bibbia, che rimandano a quanto udito e vissuto fino a quel momento e li condividerà con gli altri. Non sempre la nostra conoscenza del Vangelo è così approfondita da riproporre la citazione esatta, quello che conta è dire con parole nostre ciò che ci ricordiamo perché è comunque quello che ci è rimasto impresso nel cuore.

·        Agire: è il momento dell’appello alla conversione, è ora di prendere impegni precisi. Domandiamoci: che cosa mi chiede Gesù, ora e qui, per la mia conversione? Ciascuno, dopo un attimo di riflessione, esprime a voce alta il proprio pensiero sentendo che tutti gli altri partecipano sostenendolo con la preghiera. L’impegno preso non deve essere troppo difficile, altrimenti si rischia di non metterlo in pratica, deve essere alla portata anche di un bambino in modo da non poter avere scuse in caso di inadempienza.

Si conclude l’incontro con una preghiera di ringraziamento o di lode.

 

IL PARTAGE

 

Come la famiglia, anche il Gruppo Famiglia pratica la condivisione (Partage) come stile di vita.

La Lectio Divina. la Revisione di Vita sono già momenti di forte condivisione ma è bene dedicare ogni tanto un incontro al Partage, avendo cura di predefinire il tema, per fare davvero condivisione ed evitare di cadere nello spontaneismo.

Alcuni temi od occasioni di Partage possono essere: la nascita di un figlio, la morte di un familiare, scelte di vita. sofferenze. esperienze di servizio, ecc...

L’incontro di Partage può essere inserito in calendario già ad inizio anno oppure venire fissato in funzione dei bisogni e delle esigenze che nascono nelle coppie del gruppo.

Si inizia l’incontro con un brano della Parola pertinente al tema del Partage in modo da esserne illuminati e non correre il rischio di piangersi addosso.

L’incontro prosegue in modo spontaneo condividendo con i nostri fratelli nella fede le nostre esperienze; si presti attenzione a non assumere atteggiamenti sentimentali. o di pessimismo o di esaltazione.

Si termina con una preghiera che esprima l’assunzione reciproca delle gioie e delle pene.

Comunque, ogni incontro, formale od occasionale. tra le coppie del gruppo può avere momenti di Partage: aprirsi agli altri, confidando le nostre gioie, le nostre pene, le nostre attese può essere di aiuto e consolazione, soprattutto se sappiamo che quanto detto non sarà oggetto di chiacchiere o di pettegolezzi.

 

Sabato, 19 Marzo 2005 14:24

Diversità e accoglienza - Introduzione

Alcune proposte di riflessione

Ogni giorno nel nostro fare ci confrontiamo e, a volte ci scontriamo con gli altri: un vicino che ci spintona sul tram o un automobilista che ci taglia la strada, un marocchino che vuole a tutti i costi lavarci il vetro, per non parlare dei colleghi di lavoro, il più delle volte indisponenti, arrivisti, supponenti e raramente amici o perlomeno compagni sulla stessa barca. E quando torniamo a casa eccoci alle prese con i problemi, le fisime, l’insistenza o l’indifferenza del coniuge, dei figli, dei genitori anziani.

E’ urgente imparare a gestire questi confronti, a non viverli solo come un peso ma anche come un’opportunità: opportunità che nasce dalla nostra capacità di accogliere le differenze di cui gli altri sono portatori.

E’ dalla differenza che nasce tutto quanto ci circonda: i nostri figli non sono uguali a noi e noi non siamo uguali ai nostri genitori; nostra moglie, nostro marito sono nati o hanno origini in altre regioni d’Italia, diverse dal luogo dove abitiamo; noi stessi, per motivi di lavoro, ci siamo trasferiti lontano dai luoghi della nostra infanzia.

Il cambiamento e la diversità, anche se sovente indesiderati, fanno da sfondo alla nostra vita: accoglierli diventa una necessità vitale.

Questo piccolo sussidio vuole fornire piste, tracce a tutti coloro che vogliono aprirsi all’accoglienza e fare tesoro della diversità.

In appendice sono suggeriti alcuni metodi di lavoro per riprendere a livello di gruppo, ma anche di singolo o di coppia, i temi affrontati nelle diverse riflessioni.

 

Torino, ottobre 2002

Noris Bottin, presidente associazione Formazione e Famiglia

 

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