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Mercoledì, 24 Agosto 2011 09:56

L’educazione al tempo di Internet e dei nuovi media

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CONVEGNO “EDUCARE NELLA SOCIETÀ DELLA COMUNICAZIONE”

L’educazione al tempo di Internet e dei nuovi media

 di Marco Galloni


Venerdì 27 maggio 2011, presso lo Scout Center di largo dello Scoutismo in Roma, si è svolto il convegno “Educare nella società della comunicazione”, organizzato da Dimensione Speranza con il patrocinio del Municipio di Roma III e della Provincia di Roma. Nell’articolo “Quando la comunicazione è nemica dell’educazione”, pubblicato in questo stesso sito, sostenevamo che educazione e comunicazione possono talvolta entrare in conflitto. Questo non significa che i nuovi mezzi di informazione digitali siano intrinsecamente nemici dei processi educativi, tutt’altro. Ma occorre imparare a utilizzarli bene, il che non è facile né scontato. È quanto ogni giorno cercano di fare, ciascuno secondo la propria professione e vocazione di educatore, i relatori che hanno partecipato al convegno: Marco Accorinti, sociologo; Giorgio Asquini, pedagogista; don Filippo Morlacchi, direttore dell’ufficio scuola della Diocesi di Roma; Mauro Del Giudice, sociologo e educatore scout; Mario Tedeschini Lalli, giornalista; ha moderato l’incontro Francesco Scoppola, assistente parlamentare e scout anch’egli.

 

Dalla didattica del 1600 alle tag cloud

“Da qualche tempo a questa parte” – ha esordito Giorgio Asquini, il primo dei relatori a prendere la parola – “nelle aule scolastiche capita di imbattersi in una sorta di Alien, uno strano marchingegno fissato al soffitto: si tratta della LIM, la Lavagna Interattiva Multimediale. In oltre un anno e mezzo non ne ho vista neanche una in funzione”. Le lavagne interattive, ha precisato Asquini, sono apparecchiature tecnologicamente evolute, con tanto di connessione Internet che permetterebbe di fare lezione online e cose del genere. Sono state acquistate grazie a finanziamenti pubblici e privati, a donazioni, a raccolte fatte dai genitori degli studenti... Il problema è che queste LIM restano spente, inutilizzate. Ciò dimostra che se non si cambia mentalità tutto rimane sostanzialmente come prima. Se prendiamo i programmi dell’università di Cambridge del 1600 e li confrontiamo con quelli delle nostre scuole secondarie superiori e dell’università, ci accorgiamo che il 90% è rimasto praticamente invariato. È un po’ come dire che per piantare chiodi prima usavamo il martello mentre oggi adoperiamo un notebook, ma sempre a mo’ di martello. Questo si vede bene nel film “The Wall” dei Pink Floyd, dedicato appunto all’educazione: passano gli anni ma il meccanismo educativo è sempre lo stesso, piantare qualcosa dentro qualcuno. Il che è un’aberrazione, perché il verbo educare, dal punto di vista etimologico, significa esattamente il contrario: tirare fuori. Da secoli, quindi, si continua a fare una cosa vecchia, inculcare, utilizzando strumenti nuovi. Invece bisognerebbe cambiare modalità e mentalità, ma in questo le tecnologie non c’entrano assolutamente niente. Lo scorso anno è stata realizzata un’indagine sull’educazione i cui risultati sono impressionanti. Si chiama TALIS (Teaching And Learning International Survey), questa indagine, e ha preso in esame presidi e insegnanti di 23 paesi OCSE: stando ai risultati, oltre il 50% degli insegnanti italiani farebbe ancora lezione basandosi sull’ostensione dei contenuti: si mostrano i contenuti e si pensa che, così, questi vengono assimilati automaticamente dagli studenti. Negli altri paesi la presentazione dei contenuti è solo il secondo passo: il primo è cercare di risvegliare i processi cognitivi delle persone. La cosa sta lentamente prendendo piede anche qui da noi: si cerca di collegare il meccanismo dell’insegnamento e quello dell’apprendimento, di non lasciarli separati. Poco tempo fa, ha proseguito Asquini, abbiamo avuto ospite all’università un importante studioso di neuroscienze e intelligenza artificiale che ha sottolineato l’importanza della didattica basata sul learn by doing (“imparare facendo”). Se quando c’è un problema hai qualcuno che ti aiuta, lì tu apprendi veramente: l’insegnante riesce a insegnare davvero quando risolve un problema in diretta. Quando finisce la scuola ci si dimentica quasi di tutto, fuorché delle cose apprese in questo modo. E questo dovrebbe essere alla base della preparazione metodologica degli insegnanti: farsi trovare pronti al momento giusto, ben sapendo che il momento giusto non può essere previsto, programmato.

La quantità dei dati che abbiamo a disposizione è enormemente cresciuta, negli ultimi anni: la capacità di fare ordine in questo marasma è certamente una marcia in più, e qui - ha detto ancora Giorgio Asquini - vorrei fare l’elogio del copia/incolla. È un problema molto sentito nelle università. Ci sono miei colleghi che non si accorgono neanche se lo studente gli porta una tesi copiata dai loro testi. In effetti, nel momento in cui tutto è stato detto e scritto pretendere che uno studente sia assolutamente originale è un assurdo, una specie di tortura inflitta a chi cerca di apprendere. Un meccanismo del genere esiste anche nella musica, con il fenomeno del plagio: la maggior parte dei brani che ascoltiamo è fatta di sequenze tonali, frasi e pattern scritti da altri nel passato. Quindi saper fare bene il copia/incolla è una capacità che deve essere in qualche modo tutelata, vuol dire saper copiare il pezzo giusto nel punto giusto. Oggi la creatività si ottiene in tutt’altro modo rispetto al passato: avendo a disposizione una quantità di informazioni e collazionandole in modo originale. Cos’è importante: rispondere alla domanda o sapere le cose? A che serve avere una gran cultura se poi non si sa risolvere un problema? Saper risolvere un problema diventa dunque un valore: farsi trovare pronti al momento giusto.

C’è poi un altro aspetto da considerare, ha aggiunto Asquini concludendo l'intervento: avrete visto, navigando in rete, che esistono pagine piene di parole scritte con caratteri e corpi diversi; sono le cosiddette tag cloud. È un modo nuovo e creativo di mettere in relazione le parole: tu cominci a studiare non dal libro ma avendo già a disposizione i concetti chiave secondo l’ordine e il corpo delle parole, che tanto più sono grandi tanto più quella parola è ricca di spunti e collegamenti. Secondo me è un mezzo nuovo e sorprendente a disposizione degli insegnanti, ma molti insegnanti non sanno neanche cosa vuol dire tag. Gli studenti, al contrario, stanno strutturando il loro modo di pensare e di imparare in questo modo. Viene quindi meno l’idea di andare a scuola per imparare: si apprende fuori dalla scuola, il ruolo della scuola è messo seriamente in discussione. In effetti è sempre più difficile rimanere aggiornati: la tecnologia va più veloce di quanto noi riusciamo a starle dietro. Faccio quindi una proposta provocatoria: limitare per legge la differenza di età tra docenti e studenti. Io avrei serie difficoltà a relazionarmi con ragazzi di 15 anni: arrivato a 50 anni posso tutt’al più relazionarmi con i 35-enni. Con i 15-enni dovrebbero avere a che fare al massimo docenti di 25/30 anni, non di più.

 

Educare significa portare alla luce ciò che è nascosto

“Insegno da alcuni anni nelle università, quindi agli adulti, e ho lavorato molto con gli assistenti sociali, una categoria professionale assai interessante dal punto di vista dell’approccio all’educazione; ed è solo su questo piccolo settore di attività che mi sento di dare il mio contributo nel convegno di oggi”: così il secondo relatore, Marco Accorinti. Il professor Accorinti ha ripreso in parte quanto dichiarato da Giorgio Asquini: le tecnologie in sé, ha detto, sono una buona cosa, ma il loro senso lo si può trovare solo nella relazione, nel modo in cui mettono in contatto le persone. Giorgio Asquini, ha aggiunto Accorinti, diceva che la tecnologia non cambia la comunicazione: sono d’accordo. I miei docenti all’università sostenevano che il computer non aveva modificato granché nel lavoro delle loro segretarie: veniva solo più pulito, svolto in minor tempo. Voglio ricordare, ha detto ancora il professore, una battuta che girava quand’ero studente: “Qual è la differenza tra la scienza e il plagio? Le virgolette”. Se riporti tra virgolette non stai facendo un plagio: stai facendo scienza, una relazione o una ricerca scientifica. Ma questo lo si può fare solo se si entra in relazione con il testo, con l’autore. La società umana è complessa, lo è sempre stata e lo sarà sempre di più: affrontare problemi complessi con sistemi antiquati non aiuta; farlo con le nuove tecnologie invece sì, aiuta a interpretare la società nel miglior modo possibile. La storia insegna che i mezzi di comunicazione di massa si sono evoluti come è evoluta la tecnologia: la rivoluzione industriale, poi la radio e la TV, quindi la tecnologia digitale che, secondo alcuni, ha reso questa nostra società post-moderna, post-capitalistica, post-industriale, post-materiale. La sociologia economica degli anni 2000 la chiama invece società dell’informazione, società reticolare. Qualcuno, più dotato di immaginazione, la chiama società liquida. Mi rifaccio, ha dichiarato Marco Accorinti, ad Anthony Giddens, sociologo inglese secondo il quale la nostra società è tanto più complessa quanto più la si può leggere secondo questi due elementi: l’elemento dell’informazione e l’elemento della comunicazione. Soltanto là dove l’informazione si lega alla comunicazione la società si può leggere. Attenzione: non interpretare ma leggere, rileggere. Da qui in avanti, ha proseguito Accorinti, arricchirò il mio intervento con immagini che compariranno sulla lavagna luminosa. La prima immagine è questa: un’aula anni ‘50/’60 con gli alunni in grembiule, la maestra, i banchi disposti in un certo modo... Per inciso, certe nuove tecnologie, come le LIM menzionate da Asquini, richiedono un ritorno all’antica disposizione dei banchi, altrimenti gli alunni non vedono niente. Ora prendiamo la definizione di educazione da Wikipedia: il termine viene dal latino educere, che vuol dire “tirare fuori”, “portare alla luce qualcosa che è nascosto”. Dunque l’educazione è un’azione, anzi un procedimento che ha un inizio e una fine. L’educazione, questo è il secondo elemento che noto, da sociologo quale sono, ha a che fare con l’individuo, che deve essere disposto a farsi educare. Il terzo elemento è che l’educazione è un processo guidato, quindi è indispensabile una guida. E ancora un quarto elemento: nell’educazione c’è uno spirito che si libera, un elemento di creatività, uno stimolo all’esplorazione. Quali sono gli spazi in cui oggi avviene l’educazione? L’educazione è strettamente legata al processo di comunicazione: è certamente possibile un’educazione a distanza, ma è difficile, perché occorre la relazione tra insegnante e allievo. Ed ecco un’altra immagine: si tratta di un flash mob, un gruppo di persone che si riunisce all’improvviso in un luogo pubblico, dà vita a performance come ballare, suonare, prendersi a cuscinate e simili, e poi si disperde rapidamente. Questa, nella fattispecie, è una mobilitazione contro il nucleare: ebbene mi sono chiesto se il flash mob non possa essere considerato come un nuovo modo di educarsi e educare, oppure di educare comunicando, o di comunicare educando. Mi accorgo quindi che occorre rispettare almeno quattro condizioni per garantire un processo educativo, una relazione di tipo comunicativo/relazionale. La prima è la democrazia: solo la democrazia educa comunicando, mantenendo un approccio di tipo non impositivo/autoritario. La seconda: occorre considerare l’importanza della soggettività come motore dell’agire sociale. Nessuno educa se stesso, tutti si educano reciprocamente. Bisogna poi tener conto, e siamo alla terza condizione, dei nuovi spazi pubblici, delle nuove arene: qui viene facile il rimando ai social network. Ma non si tratta solo di questo: si possono trovare, nella nostra società, nuovi modi di rappresentanza e partecipazione. Le nuove tecnologie aiutano in questo? Alcune volte sì, altre no: la nuova sfera pubblica è il luogo in cui è libero l’accesso e libera la denuncia, o comunque la possibilità di rappresentare i propri valori e le proprie idee. Quarta condizione per comunicare educando o educare comunicando: sviluppare i mass media. Solo utilizzando le nuove tecnologie in maniera corretta si hanno nuovi modi di comunicare. Vi mostro un’altra immagine, la homepage del Vaticano: non è peregrino che il Vaticano abbia un proprio sito, peraltro interattivo. Ed ecco le ultime due slide, ha detto Accorinti in conclusione: tutto ciò che non si comunica non esiste, però non tutto ciò che viene comunicato esiste, e qui c’è un richiamo all’uso corretto dei mezzi di comunicazione. I flash mob, la rete, i blog, tutto questo ha delle potenzialità enormi sia in senso positivo che negativo. Educare significa comunicare con le persone, informandole. La nuova società punta molto sui mezzi di comunicazione forti, fatti di immagini utilizzate come metafore: una buona comunicazione deve raggiungere sia la parte emotiva che la parte razionale.

 

Educare alla trascendenza è ancora possibile

Don Filippo Morlacchi, il terzo relatore a parlare, ha aperto il suo intervento facendo una sintesi delle idee e delle linee guida che avrebbe poi esposto e approfondito: “Credo che nonostante la situazione di grave crisi sia ancora possibile educare efficacemente a quelli che vengono chiamati valori, in un percorso che non esclude una vocazione all’oltre, alla trascendenza. In altre parole: non è detto che il processo educativo debba cambiare, né che in questo processo ci si debba fermare al pian terreno, alla dimensione materiale”. Perché, ha chiesto quindi don Morlacchi, la chiesa si occupa di educazione? La chiesa non può non farlo perché è interessata alla trasmissione della fede, e se non funziona la trasmissione della cultura, cioè quella che possiamo chiamare educazione, non funzionerà neanche la trasmissione della fede. Questa è l’intuizione che ha avuto Benedetto XVI quando, subito dopo la sua elezione, gli è stato chiesto di parlare, nel convegno della diocesi di Roma, sull’educazione alla fede delle nuove generazioni. Lui ha spostato gradualmente l’attenzione sul tema dell’educazione in generale, poi la l’ha fatto successivamente al convegno di Verona del 2006 e ancora nei convegni diocesani di Roma. L’idea del pontefice è questa: inutile chiedersi perché i nostri figli non vanno più a messa o perché non riusciamo a trasmettere loro le verità del catechismo se non ci chiediamo, più in generale, perché l’educazione non funziona. La difficoltà del trasmettere la fede rientra in un dinamismo generale di questo tipo: l’incapacità degli adulti di comunicare ai giovani una visione unitaria delle cose. I giovani guardano sì agli adulti, ma non sono più interessati a domande del tipo “fammi vedere come funziona il mondo”. Piuttosto dicono: lo esploro da me, il mondo, e poi semmai ti chiederò un parere, fermo restando che mi organizzo da solo. Questa logica manda in crisi ogni dinamica di tradizione, della fede come della cultura: ecco perché non funzionano più tanto bene le scuole. Vorrei anche riflettere, ha proseguito don Morlacchi, sul rischio connesso al parlare di valori. Personalmente non amo il termine valore, perché i valori, fino a prova contraria, salgono e scendono, vengono dall’economia, dalla borsa, dalla finanza: i valori sono tutti contrattabili, quindi parlare di valori assoluti è una contraddizione in termini. Educare ai valori in modo ragionevole, quindi non imponendoli ma facendo sì che la persona ne comprenda prima di tutto il significato, è molto difficile: educare ai valori rischia di essere una violenza. Di questo ha scritto Carl Schmitt, parlando proprio di tirannia dei valori. Per un cristiano più che i valori dovrebbero contare le persone, dovrebbero contare realtà che hanno a che fare più con l’essere che con il valere o il valore. Aggiungo un’altra affermazione di questo importante studioso tedesco, il quale mise in evidenza l’incapacità dello stato e della società di oggi, liberali e secolarizzati, di andare avanti da soli. C’è bisogno di qualcuno che proponga i valori, ma lo stato, di per sé, non può farlo. Lo stato stabilisce regole di convivenza, ma ha bisogno di valori che tuttavia non può imporre, perché altrimenti diverrebbe una tirannide. Allora si cerca qualcuno che, come da un serbatoio, tiri fuori dei valori. Spesso ci si appella alle religioni, alle chiese. Si teme che la società altrimenti non funzionerebbe, per cui si chiama qualcuno di chiesa e gli si chiede: “Fa’ un po’ di educazione ai valori”. Ma questo è un altro rischio gravissimo.

Fatte queste premesse - ha proseguito don Morlacchi - torniamo alla scuola. Oggi si parla di educazione con diverse accezioni: educazione formale, non formale, informale. L’educazione formale è quella che viene impartita in un contesto specifico: vado a scuola per imparare. C’è poi un contesto che non consente, per esempio, di ottenere diplomi, e questa è l’educazione non formale. Infine esiste l’educazione informale, che avviene in ambienti totalmente liberi: “Imparo molto dai miei pari”, e cose del genere. Negli ultimi anni c’è stata una crescita esponenziale di quest’ultimo tipo di educazione. Chi vuole imparare a usare il computer, per esempio, spesso può farlo meglio se glielo insegna un amico piuttosto che se si iscrive a un corso, perché insieme all’amico affronta i problemi in modo più pragmatico e diretto. Ciò ha prodotto una grande sfiducia nei confronti dei contesti di educazione formalizzati. Cinquant’anni fa il 90% di quello che un ragazzino sapeva lo apprendeva dalla maestra. Oggi la maggior parte delle cose che un bambino di dieci anni sa non le ha imparate dalla maestra. Ci vuole quindi un adulto che gli spieghi perché deve stare a sentire la maestra. Ciò rende molto problematico fare scuola oggi e educare ai valori, se vogliamo usare questo termine. Tu mi insegni le equazioni, ma io so già che nel mio futuro lavorativo delle equazioni non me ne farò nulla. Io voglio fare l’inventore di videogiochi: anzi, già adesso, facendo recensioni per una rivista di videogame, guadagno più di te, maestra, che pretendi di insegnarmi le equazioni: perché dovrei stare a sentirti? Questo è il contesto in cui oggi si fa scuola. È per questo che oggi, nell’insegnamento, si cerca di maturare una logica diversa, che viene chiamata logica delle competenze: vuol dire non soltanto insegnare argomenti teorici o attività pratiche ma far vedere che nesso questi insegnamenti hanno con la vita dello studente. Una scuola autoreferenziale fa male ai giovani: chi deve imparare per forza una declinazione greca, poniamo, prima o poi si chiederà chi glielo fa fare. E un ragazzo che si pone una domanda del genere sta male dentro. Dunque la scuola, se non riesce a stabilire nuovamente un contatto con la realtà, genera malessere, sviluppa quello che Umberto Galimberti ha chiamato “l’ospite inquietante del nichilismo”, fa diventare i giovani svogliati, disinteressati, gente costretta a fare cose che per loro non significano niente. Se questa è la situazione, allora educare in modo diverso è una sfida tanto importante quanto urgente. Ma la scuola può davvero andare più in profondità, proporre un insegnamento che non sia imparare a memoria la poesia o l’elenco degli imperatori romani? Io credo di sì – ha dichiarato Morlacchi - penso che si possa ancora fare, però è necessario rimettere al centro del processo educativo la persona del docente, dell’insegnante. Non per togliere importanza allo studente, ci mancherebbe, ma perché l’insegnante deve ricominciare a esporsi in prima persona. Un buon livello delle competenze si raggiunge lavorando con l’exemplum e non con l’exemplar. L’exemplar funziona così: questo è il modellino e tu lo devi copiare tale e quale, devi solo rifare quello che ti faccio vedere. La tua persona, la tua libertà, non è chiamata in causa: copia, e vedrai che imparerai. Si tratta insomma di un’educazione funzionalistica, che non interpella la persona. Nella dinamica dell’exemplum, invece, sono io che mi espongo e ti do la mia testimonianza. E qui cominciamo a capire la differenza tra l’educazione tradizionale e l’educazione, potremmo dire, etica: non “questo insegna il codice civile” ma “io faccio così: vedi un po’ se ti interessa...”. Questa è la logica dell’exemplum. Questa è la logica di Gesù: io vi ho dato un esempio, il che non significa che dobbiamo imitarlo pedissequamente. Fare la lavanda dei piedi tutti i santi giorni non risolve niente: noi dobbiamo, con la nostra intelligenza, con la nostra creatività, imitare liberamente. La testimonianza non è riproducibile ma invita all’imitazione, insegna: e questo significa lavorare, insegnare a un livello più profondo. Riprendo la frase di Paulo Freire riportata nella locandina del convegno: “Nessuno educa se stesso, nessuno educa gli altri, tutti si educano reciprocamente”. Io credo che sia anche possibile lavorare su se stessi per lavorare sugli altri, educare se stessi per educare gli altri. Intendo un po’ quello che diceva Freire, però aggiungo un dettaglio basato sempre sulla logica della testimonianza, dell’esempio: la prima lezione che l’insegnante deve dare è una lezione di vita.

Ho fatto i miei studi al San Giovanni Evangelista, ha ricordato don Morlacchi, e cosa rammento di quegli anni? Sì, certamente gli insegnamenti, ma soprattutto gli insegnanti, le persone: è questo ciò che rimane. Allora il primo passo per essere buoni insegnanti, cioè persone capaci di generare vita, perché questo vuol dire essenzialmente insegnare, è coltivare un rapporto sano con la propria vita. Se io insegnante sto male con me stesso, al di là dei contenuti che posso consegnare alla mente, non riesco a educare. Se al contrario so trovare del tempo per crescere personalmente, per educare me stesso, allora riesco a dare qualcosa di credibile agli altri. Mi piace citare Martin Buber, che dice proprio questo: “Bisogna avere fiducia, dare fiducia, fiducia nel mondo perché c’è quella persona”. Questo è l’elemento più intimo del rapporto educativo: dato che esiste quella persona, anche nelle tenebre più oscure si nasconde la luce; nel terrore c’è la salvezza, nell’indifferenza può esserci il vero amore, e questo perché c’è quella persona; se c’è quella persona il mondo non può essere uno schifo. Questo è il punto di partenza dell’educazione. Però quella persona, dice Buber, ci dev’essere davvero, dev’essere qui per me e deve metterci la faccia: allora l’educazione funziona, si ha un vero processo educativo. Oggi ciò che più spesso manca sono educatori, docenti e insegnanti che ci siano davvero. Spesso i docenti sono pronti a insegnare e dire cose, ma quando la faccenda si fa difficile se ne vanno. E allora il ragazzo dice: “Non mi interessi più, te ne sei andato, mi hai lasciato solo”. E arrivo alle conclusioni: un’educazione degna di questo nome deve prendere sul serio la libertà degli allievi, che non sono contenitori vuoti e hanno anzi molto da dire e da dare, e la responsabilità degli adulti. Potremmo riflettere su ciò che Hannah Arendt diceva cinquant’anni fa: “Educare significa amare i figli (le future generazioni) tanto da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi”. Questo è anche il tema che presentavo prima: lo scoutismo si fonda sul principio dell’autoeducazione, che però va ben compreso, perché se autoeducazione significa sto a guardare come tu cresci, in realtà io ti sottraggo ciò che ti potrei dare. Il vero processo educativo avviene quando mi presento per come sono e tu interagisci con me, non se ti dico “come sei sta bene”. No, io ti dico come ho lavorato su me stesso e come sono io adesso, poi sta a te accogliere, valutare, rifiutare, ma io devo espormi, devo proporre, e in questo modo offrire qualcosa, una testimonianza, un esempio, una proposta significativa, allora si attiva la scintilla dell’educazione. Anche nelle ultime indicazioni dei vescovi si dice qualcosa di simile: l’educazione non può pensare di essere neutrale, illudendosi di non condizionare la libertà del soggetto: “Cresci come vuoi, io non ti impongo nulla”. Chiunque si ponga come educatore serio non impone nulla, ma propone, perché se non ha nulla da proporre, chi educa? Si torna allo stato brado, uno cresce da sé e buona notte: è ingiusto non trasmettere agli altri ciò che costituisce il senso profondo della propria esistenza. Io credo che questa sia la vera chiave di un’educazione ai valori e alla trascendenza. Cioè soltanto quando ci proponiamo in maniera forte con la nostra testimonianza personale noi educhiamo realmente: è un appello che consente al ragazzo di svegliarsi dal suo torpore, dai suoi interessi personali e gli fa dire “mi interessa ciò che questo adulto ha da dire”, e lì può scattare il dinamismo educativo.

Concludo - ha detto infine Filippo Morlacchi - con una rapida riflessione, vecchia almeno quanto il Vaticano II: c’è bisogno, all’interno delle comunità cristiane, di persone che raccolgano la sfida educativa. Non so se sia del tutto condivisibile la storia del differenziale di età di cui parlava Asquini, però il problema c’è: occorre ri-motivare le nuove generazioni a educare. Non è facile, perché la professione dell’insegnante non è riconosciuta a livello sociale, non è economicamente interessante, eccetera. Però credo che bisognerebbe promuovere nuovamente, all’interno delle comunità cristiane, il desiderio di lavorare in questo campo, perché i tempi sono piuttosto stretti: si parla di emergenza educativa, e l’immagine che adotto è quella delle serie televisive sui medici in prima linea, dove c’è sempre qualcuno che dice “lo stiamo perdendo”. Ecco, io credo che li stiamo davvero perdendo: non abbiamo molti anni davanti a noi per rilanciare un piano educativo serio, perché una volta persi, ricominciare è molto difficile. C’è molto lavoro da fare, perché i giovani sono in realtà interessati a figure di adulti capaci di essere punto di riferimento, di tirarli fuori dalla confusione in cui vivono.

 

Lo scoutismo e i nuovi mezzi di informazione

"Su un tema importante qual è questo", ha dichiarato Mauro Del Giudice all’inizio del suo intervento, "viene naturale cercare per prima cosa il codice d’accesso, la ricetta da dare. Vi dico subito che di certezze e di ricette ne ho poche: posso passarvi molti dubbi, molte domande, trasmettervi la mia esperienza. Nella mia esposizione mi porrò non tanto dalla parte di chi comunica quanto da quella di chi riceve la comunicazione. La prospettiva cambia radicalmente, si trasforma in concretezza e immediatezza ciò che sovente, in altri convegni, resta ad alta quota. Da questa angolazione pongo quattro domande, spero interessanti. La prima: quali sono i valori di riferimento dello scoutismo? La seconda domanda: in che modo lo scoutismo trasmette i propri valori in questa nostra epoca? Poi mi sono chiesto, e siamo alla terza domanda, quali difficoltà affronti lo scoutismo nel trasmettere tali valori e in che modo li affronti. L’ultima domanda è un po’ una provocazione: società della comunicazione, nuovi media e scoutismo: un anacronismo, una incompatibilità o una possibile sinergia?".

Chi meglio definisce lo scoutismo e la sua mission - ha aggiunto Del Giudice - è il fondatore, Robert Baden-Powell: un vero scout è considerato dagli altri un uomo di cui ci si può fidare, che non mancherà mai al suo dovere, anche se questo comporta dei rischi. Lo scoutismo è la follia di scommettere sui ragazzi, non è un’istituzione burocratica. Come diceva Marco Accorinti, educare significa parlare al cuore. La legge scout esprime bene i valori di riferimento che sono oggetto della trasmissione educativa. La legge scout è una sorta di decalogo in cui sono elencate le virtù, i valori riferiti non a una società oggettivizzata ma all’essere, alla persona. La legge scout, a differenza di quasi tutte le leggi che conosciamo, non fissa divieti - come quel comune della Padania che ha battuto tutti i record con, se non ricordo male, 158 divieti - ma propone delle mete di vita. La promessa che il ragazzo fa quando entra nel movimento recita così: “Con l’aiuto di Dio prometto sul mio onore di fare del mio meglio per compiere il mio dovere verso Dio e verso il mio paese”. E già qui ci sono due concetti assolutamente anacronistici per la società in cui viviamo: Dio e onore. Sembra quasi di sentire un giuramento solenne nella Cambridge del ‘600 cui accennava prima Giorgio Asquini. Compiere il proprio dovere fino in fondo: lo ha fatto uno scout il cui nome è poco ricordato, Nicola Calipari. Di lui si diceva che aveva saputo trasferire il suo credo di scout nella propria attività professionale, per aiutare gli altri in ogni circostanza. Altro esempio, un giovane di 24 anni anche lui scout: Roberto Antiochia, guardia del corpo del commissario Cassarà. Ogni articolo della legge scout esprime concretamente un agire, un fare che coinvolge la persona nella sua globalità. La sua è una caratteristica di uniformità, di globalità e di permanenza, è fatta di articoli e di valori che non cambiano a seconda delle persone o del tempo in cui si vive. La legge scout dice che gli scout fondano il loro nome nell’ispirare fiducia, che sono leali, cortesi, amano e rispettano la natura; sanno obbedire, sorridono e cantano anche nelle difficoltà, il che vuol dire avere una concezione positiva della vita; sono laboriosi ed economi, sono puri di pensieri, parole e azioni, sono integri. Lo ha detto anche padre Federico Lombardi, l’attuale direttore della sala stampa della Santa Sede, nato in una famiglia di scout e scout ed educatore lui stesso. Alla domanda “cosa le ha dato l’esperienza scout” ha risposto: “Mi ha dato la lealtà come comportamento indiscutibile, il saper meritare e dare fiducia, il coraggio di grandi imprese, la semplicità di vita, cioè fare a meno del superfluo, la prospettiva ecumenica, l’amicizia universale, preziosissima per vivere in un mondo interetnicamente religioso...”.

E veniamo alla seconda domanda, come trasmettere i valori in quest’epoca di immani cambiamenti: lo scoutismo tenta di farlo attraverso un modello educativo che vede i giovani come protagonisti della propria crescita. La parola è già stata detta, si chiama autoeducazione ed è un modello educativo attento a leggere i problemi e le difficoltà dei giovani. Questo modello deriva da una visione cristiana della vita, tiene conto della globalità della persona e offre a ragazzi e ragazze la possibilità di vivere esperienze comuni, aiutandoli a costruire la propria identità di donne e uomini. È un modello che vive la dimensione della fraternità internazionale e supera differenze di razza, sociali e di religione. Da tempo lo scoutismo si è posto il problema dei media, offrendo ai ragazzi gli strumenti per gestirli, insegnando loro a distinguere il vero dal falso, il bello dal brutto, l’utile dall’inutile, sviluppando la loro capacità critica, il discernimento, la consapevolezza che la vita va vissuta in prima persona e non guardata. Con quali leve si cerca di far acquisire questi strumenti ai ragazzi? Sono leve, come diceva don Filippo Morlacchi, che appartengono al mondo degli adulti, degli educatori, degli insegnanti, ma purtroppo sono poco praticate. La prima è la fatica condivisa: educare non significa io ti dico certe cose e ti sto a guardare; la fatica si fa insieme. Poi c’è l’esperienza e il rischio, anche questi condivisi: se io scommetto, rischio. Quindi i risultati raggiunti. E poi l’esempio: i giovani guardano comunque agli adulti. E ancora: i gesti, non quelli eclatanti ma le piccole azioni quotidiane, la coerenza, la passione, che è la parola fondamentale, le regole, l’autorevolezza, l’equilibrio e, non ultime, la vocazione al mestiere e la responsabilità. Questi sono i nostri moschettoni, e quando tutto è fragile e muta rapidamente è necessario ancorarsi bene e legarsi assieme con la corda della pazienza e dell’amore. Per farlo occorre innanzitutto conservare la capacità di scommettere sui giovani e sulle persone in generale, con tutte le responsabilità e le conseguenze che tale scelta comporta. Diceva un grande capo scout, Vittorio Ghetti: “Ci vuole coraggio per educare, e ce ne vorrà sempre di più”. È in questo senso profondo del coraggio che si trova la risposta, è nello scommettere, nel senso proprio di puntare su qualcuno, di sperare. Noi oggi siamo qui, in questo convegno, perché speriamo ancora: scommettere è sperare di vincere. Ma allora perché oggi si scommette così raramente? Proprio perché ci vuole coraggio, perché è antistorico, rischioso, faticoso, richiede impegno, è antieconomico perché è un investimento ad alto rischio, ma è anche un appassionante atto d’amore. E anche perché ci sono delle particolari analogie, tutt’altro che casuali, tra scommettere e comunicare. Entrambi i termini rimandano al paradosso dell’attuale società, detta della comunicazione e della scommessa, ma sarebbe meglio chiamarla dell’azzardo; di fatto in questa società non si comunica più tra persone e non si scommette più sulle persone. "Quali capacità ci vogliono per trasmettere questi valori?", ha domandato Mauro Del Giudice. Innanzitutto la competenza, senza la quale non si fa nulla: prepararsi, dunque, poi continuare a cercare, a formarsi, ben sapendo che noi stessi cresciamo educando gli altri. Mi permetto di aggiungere una provocazione a quanto prima detto sulla differenza d’età tra educatori e educati: l’importante non è l’età anagrafica ma saper essere con coerenza, saper decidere se esserci oppure no. Noi adulti dobbiamo esserci, non possiamo trincerarci dietro l’alibi della qualità: “Non ci sono molto, ma quando ci sono...”. Quante volte abbiamo sentito frasi del genere? In realtà educare passa anche e soprattutto attraverso la quantità del tempo che si dedica.

E veniamo alla terza domanda: quali sono le difficoltà che lo scoutismo incontra nell’attuale società della comunicazione? Innanzitutto: di quale comunicazione stiamo parlando? Mai come oggi, a parte le dovute eccezioni, i giovani non sanno fare un discorso più lungo di venti secondi. Più che della comunicazione direi, ha suggerito Del Giudice, la società del “rumoroso grande silenzio”. La prima preoccupazione, tra i giovani, sembra essere quella di apparire, di crearsi un’immagine positiva. La seconda preoccupazione è di essere adeguati, con la conseguente grande paura dell’inadeguatezza. La relazione viene spesso ridotta ai fugaci e superficiali incontri propri della rete, ciò che porta all’incapacità di gestire in modo autentico i sentimenti. L’ultima preoccupazione è quella di non restare soli con se stessi, tipica di questo periodo storico: ci circondiamo di contatti sempre aperti, cellulari, social network, email. È stata presentata l’ultima applicazione di Facebook: si chiama Luoghi e consente di comunicare a tutti i contatti amici ogni luogo in cui ci si trova, in ogni istante. I giovani sono perennemente in rete col PC e soprattutto col cellulare, ma la condizione essenziale per stabilire relazioni autentiche è proprio la capacità di stare soli con se stessi. Ci sono però anche lati positivi: l’amicizia, per esempio, rimane anche oggi uno degli aspetti che ai giovani sta più a cuore. Poi il gruppo, che è ancora uno dei momenti di aggregazione essenziali per i ragazzi, il luogo dove compiono le scelte più importanti per quanto riguarda la loro identità sociale. Significativo, in questo senso, il rapporto che con i giovani ha saputo creare Giovanni Paolo II: “Vi ho cercato e voi siete venuti”. Papa Wojtyla ha saputo utilizzare i mezzi di comunicazione per raggiungere in modo capillare i giovani. C’è però anche l’altra faccia della medaglia, quasi un’emergenza sociale: la rete usata per apparire e gonfiare il proprio ego, i media utilizzati non per diffondere notizie ma per indirizzare opinioni. È sempre più difficile mantenere viva la domanda salvavita: siamo sicuri che ci stanno raccontando la verità? L’informazione è divenuta, ma non tutti se ne sono accorti, una vera sfida per gli educatori. Come affronta tutto questo lo scoutismo? Puntando su quel 5% di buono (almeno) che c’è in ogni ragazzo, come diceva Baden-Powell. Dal canto suo l’educatore deve esserci, non fuggire, essere nel mondo ma non del mondo: deve vedere, giudicare (cioè saper discernere, sviluppare la capacità critica), agire, cioè incidere nel mondo in modo concreto. Occorre saper fare i genitori: qualcuno ha detto che oggi abbiamo tanti figli orfani di genitori vivi. È necessario riscoprire il ruolo guida della famiglia trovando dentro di essa spazi di riflessione: non si può andare sempre a 300 all’ora, dire non ho tempo, sono stressato. I genitori non sono e non possono essere amici, né ci sono genitori di serie A e di serie B: i genitori o ci sono o non ci sono. Diceva recentemente in un’intervista una ragazzina che sta passando guai seri con le chat (concedeva sesso virtuale in cambio di ricariche del cellulare): “L’unica cosa che mi mancava erano i miei, non c’erano mai”. Lo scoutismo non demonizza i nuovi media, ma cerca di insegnare ai giovani come utilizzarli bene: essere nel Web, ma non del Web, rivalutare il rapporto con la persona, perché dietro lo schermo c’è sempre una persona.

L’ultimo punto – ha dichiarato Mauro Del Giudice a conclusione del suo intervento - sembra una provocazione, un po’ come paragonare la spada laser di guerre stellari all’alabarda: lo scoutismo e la comunicazione, Internet e i nuovi media: che relazione può esserci tra realtà tanto diverse? Una possibile risposta la troviamo proprio nel termine scout, scouting, che vuol dire “esplorare”. Un tempo esplorare significava scoprire nuovi mondi, oggi forse vuol dire scoprire il mondo più difficile, quello delle nuove generazioni. I nuovi media spingono continuamente ad aggiornarsi, a guardare avanti, ad andare oltre. L’uso delle nuove tecnologie di comunicazione può divenire oggetto di speranza, basti pensare alla primavera araba e a Facebook o ai cellulari in Iran e in Siria. A noi il compito di trasformare in una leva potente gli strumenti di comunicazione che la tecnologia ci offre, per cercare di orientarli al bene, alla verità. Giuro sul mio onore, dichiara la legge scout, di compiere fino in fondo il mio dovere, costi quel che costi. Diceva Giovanni Falcone: “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio che ciò comporta, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana”. Giovanni Falcone non fece lo scout, ma lo è sempre stato fino in fondo.

 

I nuovi media non esistono

"Prima di venire qui a parlare", ha detto il giornalista Mario Tedeschini Lalli aprendo il suo intervento, "ho scritto sul mio account Twitter: 'Si va al convegno educare nella società della comunicazione, dove dirò: i nuovi media non esistono, occorre praticare l’universo digitale'. Sono giornalista da oltre 30 anni, ho lavorato in agenzie stampa, per 17 anni con i quotidiani, ho insegnato giornalismo per 18 anni, gli ultimi 12 dei quali dedicati al giornalismo digitale. Temo che mi abbiate invitato a questo convegno per parlare di come occorre comunicare per educare nel modo migliore, dal momento che il giornalista è essenzialmente uno specialista della comunicazione. La risposta è che non ne ho idea: ne avevo già poche all’inizio degli anni ’80, quando con Giorgio Asquini e altri amici cercavamo di migliorare l’uso della stampa scout, anche se con scarso successo. Oggi è anche peggio: da giornalista digitale devo continuamente confrontarmi con persone che non comprendono il cambiamento radicale apportato dalle nuove tecnologie e hanno atteggiamenti di difesa e chiusura. Cercherò qui di descrivere il cambiamento in atto, che non è necessariamente buono o cattivo e, come tutte le rivoluzioni, sta distruggendo modelli, schemi di comportamento e dinamiche economiche più rapidamente di quanto non ne costruisca di nuovi. In particolare sta distruggendo, anzi ha già distrutto, anche se i miei colleghi non se ne sono accorti, i modelli di comunicazione giornalistica. Devo darvi, come già anticipato, una cattiva notizia: i nuovi media di cui si parla nella locandina del convegno, semplicemente non esistono. O meglio, esistono ma non sono nuovi, hanno almeno vent’anni, sono maggiorenni. Ma soprattutto non sono media, non sono mezzi di comunicazione. Cioè, ovviamente in parte lo sono, ma non sono solo questo, non sono solo dei megafoni più potenti, delle macchine per scrivere più efficienti. Siamo abituati a pensare al progresso dei mezzi di comunicazione in maniera sequenziale, aggiuntiva: c’è stata prima l’invenzione della stampa, poi la radio, la televisione, quindi Internet... Certamente è così, ma anche no. Alcuni di questi media, e in particolare la rete, aprono mondi completamente diversi. Non è come scoprire un nuovo pianeta ultraplutonico, per definire il quale sono sufficienti le leggi della fisica classica: no, bisogna applicare leggi completamente diverse che, in modo analogo a quanto avviene nella fisica, non sostituiscono le leggi classiche ma vi si aggiungono, e però sono del tutto controintuitive. Ma dobbiamo cercare di comprenderle, di farci i conti. Possiamo anche scegliere di ignorarle, se ci accontentiamo di educare un uomo a tre dimensioni: ma l’universo della comunicazione ha un numero di dimensioni molto superiore a tre. I confini di una volta, per esempio lo spazio e il tempo, non ci sono più: viviamo, almeno entro certi limiti, in una specie di eterno presente, di ubiquo qui. È un universo dove vale sempre meno il luogo in cui ci si trova. È quindi un universo che mette in crisi i concetti di autorità e autorevolezza. È un universo fatto di grigi, non di bianchi e di neri, di ibridi, di confini incerti dove i ruoli tendono a confondersi e a scambiarsi. È l’universo della condivisione e della comunicazione pluridirezionale, l’universo della frammentazione dei contenuti, dove il contenuto prevale sul contenitore: pensate alla musica, che strada facendo ha perso man mano la confezione, quella dell’LP prima, poi del CD, del DVD... Ora scarichiamo e ci scambiamo tracce, file digitali: ciò vuol dire un autentico sconquasso di questo settore dell’industria culturale. È un universo di contenuti liquidi, dove vale la logica del good enough, del buono quanto basta: la qualità dell’MP3, lo sappiamo, è quella che è, ma è sufficiente per certi usi, buona quanto basta. Tutto ciò dovrebbe interessare, oltre che i giornalisti, gli educatori. Ma in che modo? È sempre possibile usare i nuovi media come un megafono per urlare “comportati bene” o cose del genere, ma è illusorio credere che basti diffondere buoni contenuti per educare. Non funziona così. Più che dei buoni contenuti dobbiamo occuparci delle buone pratiche comuni, relazionali. È vero che oggi è molto più difficile stabilire i confini, ma anche l’educatore si educa, educando. Questo è vero ancor di più nell’universo digitale: se non ci si adatta, non si esiste nel mondo digitale. La stampa pre-digitale era possibile osservarla, fruirne, criticarla dal di fuori: con l’informazione digitale ciò non è più possibile. Facebook è il paradigma di questo meccanismo: tanto metto, tanto prendo. Altro equivoco di cui bisogna liberarsi, e questo vale sia per i giornalisti che per gli educatori, è la dicotomia superficialità/profondità. C’è questa idea secondo cui più vai in profondità più trovi, ottieni, mentre più resti in superficie meno hai. Nel mondo digitale, e in particolare nella rete, questi concetti non si applicano. Questo non significa che in rete non sia possibile distinguere tra contenuti superficiali e profondi, tra testi inattendibili e altri ben redatti. Il fatto è che i percorsi della rete sono, per l’appunto, reticolari: come si fa a stabilire un alto e un basso, un profondo e un superficiale? Si procede di nodo in nodo, e i nodi non hanno un segno positivo o negativo. Qualcosa del genere si dice per il giornalismo: si dice che la rete va bene per le new, per l’informazione mordi e fuggi, ma poi i contenuti si costruiscono nelle cattedrali dei giornali. Ebbene, questa è una sciocchezza sesquipedale, perché l’ambiente in cui si opera crea sempre significato, non è possibile prescinderne. Il problema di come dare ordine e senso a contenuti dispersi, liquidi, che è poi il problema della rete, va senz’altro posto, ma non possiamo risolverlo con gli strumenti che conosciamo.

Il mondo dell’educazione" - si è chiesto ancora Tedeschini Lalli - "può accettare questo nuovo paradigma della conoscenza, fatto di nodi digitali ed esperienze? E che peso può avere la logica del good enough nel rapporto educativo? Giorgio Asquini diceva che in fondo il saper risolvere, anche senza il Sapere con la maiuscola, dovrebbe bastare: questo è vero oppure no? Gli educatori sono pronti a confrontarsi con contenuti esperienziali in un mondo che predica l’umiltà invece che la supponenza, la precarietà piuttosto che la stabilità? Per sintetizzare: il digitale non è un insieme di nuovi mezzi, non è semplicemente una tecnologia. Il digitale è una cultura, ergo sono necessari strumenti culturali per viverlo e comprenderlo. I mezzi tecnici non sono un problema, ci si può sempre far aiutare da qualcuno; è sufficiente avere quel minimo di bagaglio tecnico per entrare nel mondo digitale. Di recente la chiesa ha organizzato (a Macerata) un convegno intitolato 'Abitanti digitali'. Riporto uno stralcio dell’intervento di monsignor Domenico Pompili, direttore dell’ufficio nazionale per le comunicazioni sociali: 'L’alleanza è oggi quantomai necessaria, in tutti gli ambiti. È fondamentale, per esempio, per l’educazione, che non può più essere un processo unidirezionale di trasmissione, ma deve diventare un incontro in cui tutte le parti coinvolte danno e ricevono, lasciandosi trasformare. È necessaria un’alleanza internazionale tra nativi, che sanno muoversi velocemente ma non sanno dove andare, e immigrati digitali, più impacciati ma in possesso di esperienze e di contenuti'. D’altra parte lo aveva detto qualche settimana prima Benedetto XVI, che per la 45-esima giornata delle comunicazioni sociali ha fatto una dichiarazione che, per certi versi, ha del rivoluzionario: 'Vorrei invitare i cristiani a unirsi con fiducia e responsabile creatività nella rete di rapporti che l’era digitale ha reso possibili, non semplicemente per soddisfare il desiderio di essere presenti ma perché questa rete è parte integrante della vita umana. Il Web sta contribuendo allo sviluppo di nuove e più complesse forme di coscienza intellettuale e spirituale, di consapevolezza condivisa'. Sarebbe bello" - ha dichiarato Tedeschini Lalli in conclusione - "se almeno il 10% dei politici italiani sapesse concepire idee del genere, e lo dico senza essere un particolare fan di questo papa teologo. Mi basterebbe che il 10% degli educatori italiani avesse idee di questo tipo, perché il rischio è che i nuovi media siano visti in maniera strumentale, come il martello di cui parlava Asquini, e non per quello che realmente sono, cioè tecnologie abilitanti che hanno scatenato una autentica rivoluzione. Questo purtroppo è ciò che devo constatare anche tra i giovani più preparati: come i neolaureati, che sono dei reazionari digitali, vedono i nuovi mezzi solo in maniera strumentale. È un problema serio, per risolvere il quale occorrerebbe un lungo e difficile lavoro di destrutturazione".

 

Per tirare le somme

Ammesso che sia possibile fare una sintesi tra interventi così articolati e diversi come quelli qui riportati, ricavarne una norma generale, una linea-guida, potrebbe essere la seguente: quanto più potenti sono i media che la tecnologia ci mette a disposizione, tanto più etici, ricchi di valore e orientati all’uomo devono essere i contenuti da essi diffusi. Qualsiasi divergenza o, peggio, dicotomia tra la potenza del medium e lo spessore del contenuto genera ibridi mostruosi dei quali i grandi fratelli televisivi e le isole dei famosi sono solo un esempio, e forse neanche dei peggiori. Il rischio è quello della confusione e della commistione progressive, della sovrapposizione dei piani, della perdita di senso e di coordinate, dinamiche ben descritte da Kierkegaard nella metafora dell’ammutinamento: “Il cuoco di bordo prende i comandi della nave e il risultato è che dal megafono non udremo più la rotta da seguire ma il menù del giorno”.

Letto 258103 volte Ultima modifica il Sabato, 03 Settembre 2011 12:39

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