L’educazione religiosa
nella famiglia ortodossa
di P. Vladimir Zelinskij
Direi che il mio compito abbia due risvolti: raccontare la situazione della famiglia ortodossa in Europa Occidentale e dare qualche indicazione sull’educazione religiosa familiare nei paesi di tradizione ortodossa.
Quando parliamo della presenza delle comunità ortodosse in occidente e soprattutto in Italia, dove sono abbastanza numerose, segnaliamo subito una contraddizione fra la presenza fisica delle persone, la loro presenza culturale e la coscienza religiosa. E’ difficile rispondere alla domanda quanti veramente siano gli ortodossi presenti sul territorio italiano, ma se tutti gli immigrati, regolari o clandestini, provenienti dall’Ucraina, dalla Russia, dalla Romania, dalla Moldavia, dalla Bielorussia, dalla Grecia, dalla Serbia, dalla Bulgaria, dall’Albania, dalla Georgia fossero davvero ortodossi, si potrebbe parlare della terza comunità religiosa in Italia dopo il cattolicesimo e l’islam. Ma per la maggior parte di questi immigrati si tratta dei cosiddetti ortodossi anonimi. Non si trovano su una terra piena di memorie storico-religiose, come i cattolici in Italia; non portano sulle spalle tradizioni solide e plurisecolari come i valdesi od i battisti; non hanno comunità compatte e ben strutturate come i musulmani; ma provengono da paesi dove (ad eccezione della Grecia) qualsiasi vita religiosa è stata perseguitata, soffocata o, nel miglior dei casi, emarginata per ben 70 anni (od almeno 50). All’estero, sradicati dal loro ambiente, dalla madrelingua, dall’aria stessa della loro patria, sono anche divisi fra loro per il principio etnico. Una cosa che sembra strana, ma che è abbastanza caratteristica: proprio i greci, che non hanno subito una persecuzione particolare della fede nel XX secolo, sono i meno praticanti fra gli ortodossi. Forse questo è avvenuto perché Chiesa e patria sono, presso di loro, strettamente uniti. I più praticanti, i più attivi ed i meglio organizzati, almeno in Italia, sono i rumeni.
Tenendo conto di questa situazione e del numero crescente di immigrati dai paesi dell’Europa dell’Est, possiamo dire che l’educazione religiosa nella famiglia ortodossa in Italia è un problema che si farà vivo nella prossima generazione. Anzi, questo problema non sarà solo quello degli emigranti, perché anche l’ortodossia italiana pian piano cresce. Grazie all’emigrazione massiccia dell’inizio del secolo scorso, si è formata già l’ortodossia francese, inglese, tedesca, americana, canadese, ecc. che celebra nelle proprie lingue d’origine, che ha le proprie strutture ecclesiali, propri istituti teologici, propri teologi, proprie tradizioni e anche i propri santi. Questa nuova ortodossia occidentale da tempo non dipende in nessun modo dai cosiddetti popoli ortodossi. Nello stesso tempo “les enclaves” della vecchia emigrazione rimangono ancora; in Francia e negli Stati Uniti, per ricordare solo questi due paesi. Con la prima ondata dell’emigrazione russa, chi riuscì a scappare dopo la Rivoluzione Russa del 1917 e dal sanguinoso potere bolscevico (si tratta in totale di due milioni di persone) ha potuto conservare in alcune famiglie fino alla quarta, quinta generazione, la lingua (anche più “pulita”, quella del secolo XIX), la fede, l’ambiente culturale. E’ questo un esempio promettente di conservazione creativa e di vitalità dell’ortodossia. Un altro esempio: l’emigrazione greca dopo l’espulsione dei greci dall’Asia Minore all’inizio del XX secolo. Al momento, la Metropolia Greca che si trova sotto il Patriarcato di Costantinopoli, è una delle più numerose fra le diaspore ortodosse. In totale negli Stati Uniti vivono oggi 6 o 7 milioni di ortodossi di appartenenze e giurisdizioni diverse. A differenza dell’Europa, in America sono riusciti a creare numerose e vive comunità di lingua e tradizione greca.
C’è anche un’altra cosa che gioca un ruolo di primo piano nell’educazione ortodossa in famiglia: la presenza del tempio, del luogo di culto, della celebrazione liturgica. Se possiamo dire – cum grano salis, naturalmente, - che la fede cattolica ha la sua magistranell’istituzione che funziona come magistero nei confronti di tutti gli aspetti della vita; se possiamo dire che maestra della fede protestante rimane la Sacra Scrittura, percepita come un testo che deve essere interpretato alla luce delle moderne ermeneutiche, la fede ortodossa è la fede della liturgia e della tradizione che non ha mai avuto né reinterpetretazione né aggiornamento. La fede ortodossa - celebrata nell’assemblea ecclesiale o nella cella solitaria - comunque è sempre pregata e vissuta nella preghiera, cioè, non tenuta come una somma di dottrine da credere o precetti da seguire. Questo connotato dell’ortodossia è la sua forza, ma anche la sua debolezza. Forza, perché l’intensità della fede, che è inseparabile dalla preghiera, può essere molto profonda e autentica. Debolezza, perché la sua dipendenza dal culto, dal luogo di culto e dal ministro del culto, la fa più vulnerabile delle altre fedi. Basti ricordare che la persecuzione e la distruzione o la profanazione di tante, tante chiese nell’Unione Sovietica, nella prima metà del XX secolo, è stata accompagnata dell’apostasia di massa. Per tantissimi ortodossi “formali”, quando sparisce la chiesa, può sparire anche la fede che è fondata sull’identità pubblica della preghiera in comune.
In occidente, soprattutto in Italia, sorgono oggi ovunque luoghi di culto ortodosso che diventano anche piccole scuole di educazione alla fede. Un noto teologo ortodosso della scuola di Parigi (p. Ciprian Kern) ha detto che il coro delle chiese è la migliore cattedra di teologia perché il contenuto è così ricco e ampio, così antico, patristico, che si può sapere tutto della fede ortodossa anche soltanto ascoltando il coro. Per la maggior parte degli ortodossi praticamente non esiste nessun altro tipo di magistero. Naturalmente, il canto non è testo che deve “entrare nel cervello” (tenendo conto che solo una piccolissima parte del grande tesoro liturgico è cantata in un giorno, durante la celebrazione della Divina Liturgia o dei Vespri e che questa parte cantata, spesso, almeno nell’ambito russo, è in lingua solenne - ma arcaica). Il canto entra nel cuore, in tutto in nostro essere e rimane lì come un deposito della fede vissuta, cantata, poco pensata, però, o meglio, poco ripensata in relazione alla modernità nella quale viviamo. Dunque, il compito dell’educazione religiosa nel paese d’origine, ma anche all’estero, è prima di tutto di iniziare un bambino (a volte anche un adulto, perché nel mondo ortodosso ci sono tanti adulti che scoprono la fede nell’età matura) al mondo della preghiera liturgica e personale.
Nella scuola dell’educazione ortodossa, l’elemento più importante è la preghiera domestica, la preghiera della o nella famiglia. Le nostre preghiere possono sembrare lunghe, antiche e ripetitive. Tuttavia anche questa ripetitività ha il suo senso: il cuore umano si scalda lentamente, non subito, non con le prime parole. Così, con gli adulti o con la comunità ecclesiale il bambino entra in questo spazio sacro della preghiera. Se il bambino impara a pregare ogni mattina e ogni sera, si abitua a vivere da ortodosso e questo ritmo si conserva per tutta la vita. Il primo compito dei genitori è di essere fedeli a questa pratica delle preghiere quotidiane. L’abitudine di pregare il mattino e la sera prima con i genitori, poi da solo, va insieme con il ritmo liturgico che abbraccia tutto il suo cammino, vale a dire l’alternarsi delle feste e i periodi dei digiuni e delle astinenze.
La Chiesa ortodossa ha salvaguardato la pratica dell’ascetismo antico con digiuni abbastanza lunghi (tutta la Quaresima, l’Avvento, qualche settimane prima della festa dei santi Pietro e Paolo, due settimane prima della Dormizione della Madre di Dio, tutti i mercoledì e i venerdì) perché riconosce all’astinenza dal cibo ricco di proteine e da tutti i piaceri carnali (spettacoli e televisione compresi) un senso pedagogico ed ontologico. Il senso pedagogico consiste nell’educazione al dominio sul proprio corpo, sui desideri egoistici, sulla legge del mondo: “io voglio e il mio volere di quell’istante diventa la cosa più importante dell’universo”. Il senso ontologico, mistico, sacramentale, consiste nel ritmare l’esistenza umana con gli avvenimenti più importanti della vita di Cristo, della Sua Madre, dei Suoi servi che chiamiamo santi, commemorati e celebrati liturgicamente. In breve: il ciclo annuale dell’uomo e il ciclo liturgico ecclesiale hanno un unico respiro. Nelle famiglie davvero credenti i bambini entrano in questo ritmo dei digiuni e delle feste a circa 7 anni, a volte più tardi, spesso anche prima. La prima pratica del digiuno è la comunione a stomaco vuoto (cioè senza bere e mangiare niente dopo la mezzanotte), pratica alla quale anche i bambini più piccoli si abituano molto presto. Ma i neonati, che assumono il latte materno, i bambini, e anche adulti malati, sono liberi da questo obbligo.
Il senso dell’educazione religiosa nella famiglia non è l’imporre, ma il risvegliare qualcosa che già esiste. Questo noi crediamo, come tutti i cristiani: portiamo una scintilla di Dio dentro di noi e questa scintilla può essere spenta, oppure può dare un grande fuoco. Allora il compito dell’educazione è quello di accendere questa scintilla, con le preghiere e con l’obbedienza al ritmo liturgico. “Santo è il tempio di Dio che siete voi” – dice san Paolo (1Cor 3,17) e ogni cristiano deve costruire questo tempio con le proprie forze. L’educatore può risvegliare la coscienza della santità che abita nel cuore umano, ma costruire il tempio della fede è compito dello stesso giovane fedele.
Gli ortodossi praticanti (ma questo credo valga anche per i cattolici, o comunque, valeva prima della secolarizzazione occidentale) vivono secondo la tradizione della Chiesa, seguendo il ritmo liturgico che misura non solo l’anno e la settimana, ma tutti giorni della vita. Al centro di questo ritmo liturgico si trova sempre il mistero eucaristico. Questo mistero rimane anche come nucleo della spiritualità, come lo spazio e il luogo del vero incontro con Cristo. Se un giovane cristiano riesce a salvaguardare in sé questo senso religioso che i genitori gli hanno insegnato, può rispondere anche alle sfide del mondo contemporaneo. Nel mondo ortodosso, come nel mondo cattolico e protestante, le sfide della secolarizzazione sono enormi, ma nell’ambiente ortodosso sono percepite in modo più acuto, a volte anche drammatico, perché cattolici e protestanti hanno già qualche esperienza nel resistere ad esse, mentre gli ortodossi erano abituati a vivere in paesi confessionali, come 100 anni fa, e poi in paesi di persecuzione… Adesso che sono liberi quasi dappertutto, gli ortodossi non sanno sempre bene come reggere questa libertà che esiste non solo per loro, ma anche per gli altri. Non intendo con ciò riferirmi agli scontri fra le civiltà e le religioni, ma al clima culturale del mondo laico che è, apertamente o implicitamente, ostile a qualsiasi dimensione dell’aldilà. Per vincere questo conflitto il bambino deve essere educato alla vita spirituale, al centro della quale si trova il controllo su se stesso (il cosiddetto combattimento interiore), che è un altro concetto importante: il combattimento con le proprie passioni e tentazioni, la scuola ascetica non solo del corpo, ma del pensiero e dei sentimenti. Certo, solo veramente pochi sono in grado di raggiungere questo livello interiore, ma tutti i fedeli sono chiamati alla vittoria sulla loro vecchia natura, al controllo interiore, a vedersi sotto l’occhio del Cristo che guarda dentro il proprio cuore.
La differenza profonda ed essenziale tra ortodossi e cattolici non è tanto nella dogmatica, quanto nella tonalità, negli accenti. E’ una differenza abbastanza importante perché riguarda l’orientamento della fede. Vediamo infatti che la fede cattolica si orienta più verso il pratico, l’etico, in altre parole, il concreto della vita. L’orientamento della fede ortodossa è più concentrato su tutto ciò che è sacro (il concreto interiore): il dogma, la tradizione, la celebrazione. Insomma, sulla presenza reale, non in senso strettamente liturgico, ma nel senso ampio della presenza reale del mistero nella fede stessa e nella sua pratica. Da qui proviene anche il culto delle immagini che ha una parte importantissima dell’educazione religiosa. L’icona è un messaggio a colori o una contemplazione a colori, come disse un pensatore russo, oppure, direi, un ritratto del sacro, una visione del Regno che è già venuto...
Un’altra cosa essenziale per l’educazione ortodossa nella famiglia è l’inserimento del bambino nei sacramenti: dopo il battesimo, il bambino ha pieno diritto (e solo lui) a tutti i sacramenti (naturalmente, tranne il matrimonio e il sacerdozio). Ho detto “solo lui”, perché il concetto del “diritto” non è applicabile ai sacramenti ortodossi: gli adulti partecipano alla comunione non per diritto, ma per perdono. Solo un “uomo piccolo”, un bambino, non ha bisogno del perdono o del pentimento. Subito dopo il battesimo, secondo la tradizione antica, il bambino è già “degno” di partecipare alla comunione eucaristica. Il problema della confessione non si pone neanche. Anzi, il battesimo è sempre accompagnato dagli altri due sacramenti: la cresima e la comunione che, secondo la fede ortodossa, hanno carattere ontologico ed oggettivo e non chiedono necessariamente la partecipazione della mente. Nelle famiglie devote, il bambino cresce nella comunione settimanale (ciò che non è un fatto comune per gli adulti). Ma a sette anni – l’età del risveglio della ragione e del senso di responsabilità - la confessione prima della comunione diventa obbligatoria. I bambini portano il frutto del loro crescita spirituale, fino a sette anni, e poi l’offrono alla Chiesa. Dopo, il lavoro diventa doppio: del confessore, del direttore spirituale e del padre e della madre naturali. La confessione a sette anni è una cosa molto importante per i il risveglio spirituale dei bambini ed essi sono tenuti, a differenza degli adulti, a confessarsi sempre, nonostante che i loro peccati facciano sorridere gli adulti… Ma i sacerdoti dicono spesso che non esistono peccati piccoli perché “chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto” (Lc. 16, 10).
Lo scopo principale dell’educazione di un cristiano ortodosso è creare un’armonia della lex credendi con la lex orandi. Esse poivanno accordate alla coerenza della vita. Si tratta di questa vitache nell’ortodossia è vista sempre sotto il profilo escatologico. La dimensione dell’“aldilà” occupa, nel quadro del mondo orientale, un posto molto più importante che nelle altre confessioni cristiane. Si tratta non tanto della dottrina quanto della mentalità, la quale, per ora, non ha subito “smitizzazioni” e ancora crede che la promessa della salvezza eterna non equivalga per niente ad una garanzia. Perciò l’educazione ortodossa è anche educazione al timore di Dio, che è l’inizio della sapienza. Senza questo timore, nessuna fede può avere profondità e pienezza. La vita su questa terra è vista come preparazione ad un’altra, che è nelle mani del Signore. “Dio è amore”, ma Dio è anche la libertà dell’uomo e il rifiuto dell’amore da parte dell’uomo fa parte inalienabile della libertà umana. Perciò la vita spirituale è innanzitutto un cammino, non facile e mai concluso, di liberazione dal male che ci portiamo dentro.
Il concetto di peccato – parola che, pronunciata poco tempo fa da Rocco Buttiglione, ha spaventato e indignato l’Europa – è più che vivo nella Chiesa ortodossa, che lo prende molto sul serio. Se fosse nel Parlamento Europeo, l’ortodossia sarebbe subito cacciata via perché vede l’uomo come peccatore che si salva per l’immeritata grazia di Dio, ma anche per la sua libertà e il suo pentimento. La grazia e il pentimento vanno sempre insieme, perciò per fare la comunione, nella Chiesa ortodossa occorre ogni volta accedere alla confessione dei peccati. Il Padre accetta solo i figli prodighi che tornano. E tornano ogni volta con i vecchi peccati (che si ripetono infinitamente) e con nuove lacrime. Anche un piccolo peccato – parliamo del mondo del bambino – disubbidienza, inganno, furto di una caramella… può essere visto come segno dell’infedeltà all’amore del Padre celeste. Aggiungo che non tutti sacerdoti sono veramente capaci di ricevere la confessione dei bambini: trovare un contatto con loro, conquistare la loro fiducia chiede un talento educativo che è visto nella Chiesa ortodossa come un dono raro e speciale.
Non si tratta dell’intimidazione e delle minacce del castigo eterno – questo tipo di educazione non è praticato nella Chiesa ortodossa, soprattutto nei confronti dei bambini. L’anima del cristiano va formata per poter sentire ogni sua debolezza, ogni violazione dei comandamenti come un tradimento nei confronti dell’amore di Dio crocifisso. La percezione del peccato non è quindi moralistica, ma piuttosto mistica, cosa che si può percepire nelle lunghe celebrazioni della Settimana Santa. La Chiesa ortodossa crede che dentro di noi esista un’indescrivibile presenza di Dio, ma che esistano anche le forze del male. L’educazione religiosa consiste proprio nella preparazione al combattimento contro queste forze: l’uomo nasce innocente – e in questo siamo in contrasto con la teologia di sant’Agostino – ma poi sceglie il peccato, il suo peccato personale. La vittoria sul peccato significa la riconquista della libertà interiore il cui culmine è lasciar agire Dio stesso nell’anima e nel corpo. Teologicamente lo scopo della vita cristiana si trova proprio nel ritorno alla nostra vera natura iniziale, senza peccato, creata da Dio. Questo dà un grande senso di responsabilità a tutte le nostre azioni, i nostri sentimenti e pensieri. Anche il bambino può essere responsabile e la buona educazione religiosa consiste anche nel risveglio del senso della responsabilità personale.
Una fase più alta dell’educazione è la direzione spirituale, che esiste per gli adulti, come per i bambini. Anche il padre naturale può diventare padre spirituale. L’uomo, il bambino che si sente peccatore e sa che non può non peccare, offre la sua libera volontà ad un’altra persona degna di fiducia ma, soprattutto, ad una persona che rappresenta la presenza reale dello Spirito di Dio. Il vero educatore deve diventare per gli altri un’icona di Cristo. Questo naturalmente può essere pericoloso e, in effetti, gli abusi morali ci sono, ma quando la paternità spirituale mostra la sua forza, il Cristo stesso diventa il vero educatore e gli adulti si sentono bambini che tornano nel Regno del Padre...
Nella visione ortodossa la famiglia ha una grandissima responsabilità davanti a Dio per l’educazione religiosa dei figli: se il figlio non è credente, la scelta è sua, ma la colpa è dei genitori e nessuno può liberarli da questa colpa. Oggi, purtroppo, la maggior parte dei genitori commettono questo peccato per omissione, per negligenza, per pigrizia, per indifferenza, per codardia, per la mancanza totale del senso del dovere, ma sono tenuti a confessare sempre il peccato di non essere riusciti a portare il figlio alla fede. Il sacerdote invita i genitori alla preghiera, ad assumere il compito speciale della preghiera. Soprattutto la preghiera della madre per i figli ha una grazia speciale davanti a Dio. Il padre, però, è ritenuto più colpevole.
Un’altra cosa mi ha colpito: il pastore Paolo Ricca ha ricordato che nella celebrazione della pasqua ebraica c’è una forte attualizzazione dell’uscita dall’Egitto che è attribuita direttamente ai partecipanti: “io sono uscito dall’Egitto…”.
Noi ortodossi viviamo la stessa cosa nelle nostre celebrazioni, particolarmente in quelle del Giovedì santo: “sei tu che hai crocifisso Gesù, sei tu che hai rinnegato e tradito...”. L’uomo deve vivere anche questo, dopo i sette anni: la difficile vita adulta. La stessa cosa so che avviene nella via crucis cattolica del venerdì santo, almeno nella sua versione più tradizionale.
Per finire questa breve esposizione, vorrei ricordare il bellissimo versetto di san Paolo nella Lettera ai Galati, dove esprime la filosofia, il mistero, il messaggio dell’educazione cristiana: “Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!” (Gal 4,19). Questo è il ruolo del padre, della madre, della Chiesa, della società, di tutti noi.
«Formare Cristo dentro di noi». A questo scopo servono la preghiera individuale ed ecclesiale, la confessione dei peccati, i sacramenti, la lettura della Santa Scrittura, la contemplazione della bellezza nelle immagini. Ma anche, soprattutto, la vocazione alla carità come risposta umana all’amore di Dio.
1054-2004. Dove siamo oggi?
di Vladimir Zelinskij
Raramente si possono incontrare persone che pensano ancora che la rottura fra Roma e Costantinopoli fu un atto davvero giusto e salvifico per l'ortodossia; tranne qualche strambo, credo che non ci siano nel mondo cattolico ammiratori della scomunica dei greci. Se per il mondo protestante, la Riforma è una felice data di nascita, dunque una festa, per l'ortodossia e il cattolicesimo il loro scisma rimane un trauma - per alcuni, forse, un'operazione chirurgica inevitabile, ma dolorosa in ogni caso. Insomma non è un anniversario da festeggiare. Ma da ricordare di sicuro.
Se i cattolici credono che si può respirare con due polmoni, anche se uno è separato da secoli, tanti ortodossi non sospettano nemmeno che l’altro polmone esista. A volte, però, anche il dente tolto ci fa male e il polmone che non respira più fa soffrire. Non parlo dell'acuta nostalgia ecumenica - di cui davvero pochi sono trafitti nell'emisfero ortodosso - intendo piuttosto le nostre infermità interiori, di cui soffriamo senza accorgersi. Nel 1054 qualche legato che rappresentava la Sede di Roma (modesta e vacante in quel momento) ha rotto col patriarca della Grande Chiesa di Costantinopoli; nel mondo attuale esistono decine e decine di giurisdizioni ortodosse canoniche e non canoniche (negli Stati Uniti, in Europa, in Italia...) che sono, infatti, chiuse nei loro ghetti nazionali, nel loro star bene da sole, nella solennità della loro solitudine. I loro teologi, se svegliati la notte, vi spiegheranno in un batter di ciglia tutte le eresie del papismo, senza pensare per un attimo che possa esistere anche un'eresia dell'autosufficienza. Le forze che ci uniscono, aldilà dell’enorme e ricchissimo tesoro della fede comune, sono più che deboli. Sì, al Patriarca di Costantinopoli spetta ancora il primato d'onore, ma quell'onore ha significato piuttosto liturgico e simbolico.
Le Chiese ortodosse, però, possono facilmente accontentarsi di questo innocuo simbolismo. Il vero primato appartiene, infatti, alla Tradizione e una "T" maiuscola, forse, non basta per esprimere la pienezza del concetto. Tradizione è prima di tutto il cammino dello Spirito Santo fra gli uomini e tutte le impronte lasciate da Lui nella storia: i dogmi, i sacramenti, i riti, i canoni, le vite dei santi, ecc. Anche la Parola di Dio fa parte della Tradizione o almeno non può essere tagliata da essa, perché la Parola è inseparabile dalla sua percezione, dal nostro essere davanti a Dio che è anche il frutto dello Spirito. Tanti problemi delle altre Chiese che devono fare i conti con la modernità, in pratica, non esistono per gli ortodossi. A volte non sono neanche formulati. Per condannare l'aborto, l'eutanasia o il matrimonio omosessuale, la Chiesa d'Oriente non ha bisogno dell'intervento del Sommo Pontefice. Basta respirare da ortodosso.
Se la Tradizione nell'ortodossia fa sentire il peso del passato che è quasi sempre sacro e intoccabile, nel cattolicesimo la Tradizione si esprime in prevalenza tramite la bocca del papa. Il papa deve fare tutto ed essere dappertutto, su tutti gli schermi e in tutti i paesi, su tutte labbra, in tutti cuori… Giovanni Paolo II, un uomo dal carisma eccezionale, ha portato la sua grandezza come un destino, l’obbligo di superare ogni giorno le forze umane, perché la sua vocazione è stata quella di essere un'icona sempre vivente e rinnovata di tutto ciò che é la fede. Il papa, da Pietro, deve guidare la sua barca attraverso il mare in burrasca, senza di lui essa potrebbe perdere il corso giusto.
La nave ortodossa, invece, sembra stare all’ancora nel mare profondo e tranquillo; tutto può succedere nella storia, ma con la fede, niente; il suo deposito rimane trasparente, riempito di luce che proviene dal suo fondo apostolico, dal mondo che verrà. Sembra che l’ortodossia non si accorga della storia: essa si lascia facilmente possedere dall’esterno, ma il mondo che passa non entra mai nel Regno che è dentro di noi.
Dunque, dove siamo 950 anni dopo la rottura? Non siamo più felici di essere "la Chiesa", l'una contro l'altra; è già una grande vittoria dell’ecumenismo. Ma il vero problema fra noi è che ci muoviamo in tempi diversi. L'ortodossia vive nel suo passato, ma anche di più nel futuro escatologico (il suo presente storico lascia sempre a desiderare), il cattolicesimo lavora proprio con la storia attuale. Se per la prima i Padri della Chiesa sono molto più importanti di tutti i patriarchi viventi, per il secondo il papa in carica manda inevitabilmente in ombra tutti i suoi predecessori. Forse, la strada verso l’unità passa anche attraverso lo scambio dei tempi, dei modi di servizio?
Una volta trovata la strada verso quello scambio, troveremo - chi sa? - anche le soluzioni per gli altri punti nevralgici della discordia.
Lo scandalo di una parola
di Vladimir Zelinskij
Del buon uso di un ortodosso
di Vladimir Zelinskij
Sant’Andrea
e la Chiesa del Terzo millennio
di Vladimir Zelinskij
Cosa resta della suddivisione del mondo in campi d’azione che fu fatta alle origini della missione cristiana, quando gli apostoli vennero mandati ad gentes? Invece di conservarli e di tradurli in gelose contrapposizioni, il cristianesimo del Terzo millennio deve spalancarsi al nuovo mondo, in un rinnovato slancio missionario che della Tradizione conservi solo l’essenziale, e l’unità.
Immaginiamo per un minuto un mosaico, uno di quegli antichi mosaici conservatisi solo a frammenti che rivestivano le cupole o le pareti delle antiche chiese bizantine. Supponiamo che un ignoto maestro, in una certa cattedrale, abbia deciso di dispiegare davanti a noi l’intera storia dell’Incarnazione del Verbo di Dio, trasmettendo attraverso le pietruzze il racconto degli evangelisti. Entrati nella cattedrale ci troviamo di fronte a una raffigurazione in cui ogni tessera musiva rappresenta un rigo di Vangelo. Alzando gli occhi vediamo prima di tutto l’immagine di Cristo al centro, dominante sugli altri, circondato dai dodici apostoli. Vi sono degli apostoli la cui figura è tracciata, o meglio scolpita dai versetti evangelici in modo più ricco e pieno, come Pietro e Giovanni. E tuttavia, di molte raffigurazioni è rimasto soltanto il nome, l’orma di una persona vivente che ha attraversato a suo tempo la storia, tutto il resto - agiografia, martirio, glorificazione – si è composto in un’immagine organica solo più tardi, nella Tradizione.
Fra questi apostoli - che diremmo "di prima grandezza" - e tutti gli altri, Andrea si pone per così dire a mezza via, la sua immagine è costituita soltanto di poche "tessere" evangeliche. Noi possiamo tentare di ricostruire la figura intera dell’apostolo, non come fu in vita (operazione quasi impossibile), ma quale ci è stato tramandato in qualità di "messaggero", come la bocca che ha pronunciato quel particolare annuncio che ci è stato inviato proprio attraverso di lui. Infatti tutto ciò che sapremo in seguito di Andrea dai racconti agiografici, - i suoi pellegrinaggi apostolici verso le coste del Mar Nero, "nella terra di Frigia" e "nella Propontide" come dice san Dimitrij di Rostov, la benedizione del luogo dove sarebbe sorta Kiev, quindi il martirio a Patrasso – non è che la continuazione e lo sviluppo di quell’annuncio. Leggendo attentamente questi passi, cerchiamo di comporli come pietruzze per ricostruire le parti mancanti del nostro mosaico. Cominciamo dal primo capitolo del Vangelo di Giovanni.
"Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)" e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" (Gv 1, 40-42).
Abbiamo trovato il Messia
In un primo momento Andrea, che faceva ancora il pescatore in Galilea, era stato discepolo di Giovanni il Battista. Da lui il futuro apostolo avrebbe sentito per la prima volta le parole che in bocca a Cristo sarebbero diventate la Buona Novella: "Il regno dei cieli è vicino". Ma cosa significava questo regno nelle parole di Giovanni? Quando Giovanni predicava, sembrava che il regno, pur restando invisibile, si ergesse minaccioso e fiammeggiante davanti agli uditori, pronto a concedere grazia e ad accogliere nella "sua ammirabile luce", ma anche a giudicare con ira, ira che sembrava levarsi come un’onda oscura alle spalle del profeta, pronta ad abbattersi. "Razza di vipere!" esclama Giovanni rivolgendosi a farisei e sadducei che sono venuti da lui per farsi battezzare, "Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? Fate dunque frutti di conversione" (Mt 3, 7).
La predicazione del più grande dei profeti "nati da donna", Giovanni il Battista, annuncia l’imminente regno messianico e il giudizio, il quale, secondo le parole di san Pietro, deve iniziare "dalla casa di Dio" (1 Pt 4, 17). "Il regno è vicino…" e Andrea ha saputo ascoltare. È lui cronologicamente il primo testimone del passaggio più importante o, per usare una terminologia eucaristica, della "frazione" della fede esigente dei profeti nella fede degli apostoli, una fede che parla del realizzarsi di ogni promessa nella venuta di Gesù di Nazaret. In quel "mormorio di un vento leggero" (1 Re 19, 12) con cui Gesù si è manifestato al mondo, egli riconoscerà il regno messianico e l’Unto stesso, atteso da tanti secoli. Prima ancora di Pietro, Andrea dà una definizione della fede apostolica. "Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo". Questa formula assumerà la sua compiutezza teologica in Pietro: "Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivente". La confessione di Pietro è più ardita, più ampia, la confessione di Andrea vale per sé e per il fratello, infatti dice "abbiamo". In questa comune confessione di Andrea e Pietro risuona la voce del regno "che viene", della legge e dei profeti che si compiono nel Messia.
Tuttavia Gesù, nell’atto di assumere il nome di Cristo, sa che questo nome diventerà una confessione piena soltanto dopo la Croce. "Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo" (Mt 16, 20). È necessario che egli compia l’altra parte della profezia: diventare il servo sofferente, l’Agnello offerto in olocausto, "soffrire molto". Tutto questo Andrea, Pietro e gli altri discepoli ancora non lo potevano accettare. Pur confessando la fede apostolica nel Messia che viene, essi rimangono per ora solo suoi discepoli. Sarà Gesù stesso che farà di loro degli apostoli nel vero senso della parola.
"Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini"" (Mt 4, 18-19).
Pescatori di uomini
Le parole di Gesù si realizzano immediatamente: Andrea si affretta a fare ciò cui è chiamato. Essendo "pescatore", egli "pesca" Pietro, poi Filippo; Filippo, a sua volta, diventa "pescatore" di Natanaele. Le "reti degli apostoli" ancor oggi sono il simbolo della missione, il dono dell’annuncio. Ma qual è il segreto di questa "pesca di uomini"? Da dove viene agli apostoli il potere sulle anime umane?
Torniamo ancora a considerare la chiamata di Andrea. Essa inizia con la frequentazione del Signore. Giovanni il Battista, "fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: "Ecco l’agnello di Dio!". E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: "Che cercate?". Gli risposero: "Rabbì, dove abiti?". Disse loro: "Venite e vedrete". Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui" (Gv 1, 35-39). Riflettendo su questo incontro, sant’Agostino dice: "Uno dei due era Andrea. Andrea era fratello di Pietro, e dal Vangelo sappiamo che Cristo invitò Pietro e Andrea a lasciare la loro barca dicendo: "Vi farò pescatori di uomini". Cristo mostrò loro dove viveva, ed essi andarono e restarono con Lui. Che giornata meravigliosa devono aver trascorso! Chi potrà dirci cosa avranno sentito dal Signore? Edifichiamo anche noi nel nostro cuore una casa in cui il Signore possa venire e ammaestrarci, e possa rimanere per conversare con noi" (Omelia 9).
"Essendo restato con Gesù, e avendo imparato tutto ciò che Gesù gli insegnava", dice san Giovanni Crisostomo, "Andrea non nascose in sé questo tesoro, ma si affrettò dal fratello per comunicargli il tesoro che aveva ricevuto". Ascolta bene ciò che disse: "Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo" (Gv 1, 41)… Le parole di Andrea erano le parole di un uomo che attendeva con impazienza la venuta del Messia, la sua discesa dai cieli; di un uomo che fu tutto pervaso dalla gioia quando vide la Sua venuta, così che si affrettò a comunicarla agli altri" (Omelia 19 sul Vangelo di Giovanni) (1).
Anche dalle poche menzioni ad Andrea che si trovano nella patristica possiamo tracciare la struttura interiore del suo apostolato: l’attesa del Signore e del Suo regno assieme al profeta, l’incontro col Signore faccia a faccia, la gioia della rivelazione, la fermezza della confessione, quindi la predicazione dell’annuncio che aveva ascoltato e accolto col cuore, a coloro che ne avevano bisogno, a chi cercava di ascoltarlo. "La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo", dice san Paolo (Rm 10, 17). Al seguito di Cristo l’apostolo "aprì la mente all’intelligenza delle Scritture" (cfr. Lc 24, 45), e tuttavia queste Scritture non sono semplicemente annotate "con l’inchiostro e lo stilo" sulla pergamena o la carta, ma sono incise con la voce di Cristo "sulle tavole di carne dei vostri cuori" (2 Cor 3, 3). Il dono di diventare apostolo consiste nell’"ascoltare le Scritture" e predicarle al cuore dell’uomo dall’interno, nel far sì che questi abbia intelligenza di sé fino in fondo, fino all’ultima profondità accessibile nella Parola di Dio, poiché solo in Cristo possiamo conoscere e vedere noi stessi fino in fondo. L’apostolo non avrebbe potuto catturare nessuno nelle reti di Cristo, se Cristo stesso, non riconosciuto come il seme nella parabola del seminatore, non fosse stato "gettato" in ogni uomo.
Come avvenga questa "pesca" apostolica lo vediamo dalla storia di Natanaele. Filippo, che "era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro" (Gv 1, 44), porta da Cristo Natanaele, il quale è convinto a priori che da Nazaret non possa venire niente di buono. Ma Cristo gli dice delle parole che lo trapassano per la sorprendente conoscenza che dimostrano. "Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico" (Gv 1, 48). E Natanaele non si limita a ricordare qualcosa, ma soprattutto riconosce se stesso sotto lo sguardo del Dio vivo, in quell’episodio del passato "sotto il fico" che era noto solo a lui e a Dio. Così avviene il miracolo dell’incontro; riconoscendo il Signore, l’uomo riconosce di nuovo anche se stesso. "Sarebbero manifestati i segreti del suo cuore", dice san Paolo, "e così, prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio è fra voi" (1 Cor 14, 25).
Il "pescatore di uomini" conduce l’uomo ai segreti del suo cuore, al sacramento della conoscenza del Dio vivo, ma lui stesso non accede a questi segreti, e non partecipa all’incontro. È come se Andrea si tirasse da parte, come se si allontanasse; si limita a "condurre" qualcuno, a "dire" a qualcuno, a presentare, a far conoscere, a mostrare la via, lui che durante la vita terrena di Cristo si è semplicemente trovato al Suo fianco. Così, avendo visto un giorno una grande folla raccolta per ascoltarlo, e vedendo che la gente aveva fame, Gesù dice all’apostolo Filippo: ""Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?" Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare… Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: "C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?"" (Gv 6, 5,8).
La moltiplicazione dei pani, l’incontro con gli elleni
Altri due importanti passi evangelici sono legati alla partecipazione e alla mediazione di Andrea, e tutti e due toccano l’essenza stessa del suo servizio apostolico. Sto parlando della moltiplicazione dei pani e della prima comparsa dei gentili nel contesto evangelico, di quei greci che erano venuti per la festa a Gerusalemme e avevano voluto vedere Gesù. In entrambi gli episodi il ruolo di Andrea è oltremodo modesto, quasi impercettibile; in uno di essi egli parla all’apostolo più anziano del cibo di cui è in possesso un ragazzo; nell’altro, assieme a Filippo annuncia a Gesù l’arrivo degli elleni. Tuttavia, se leggiamo la Bibbia come la leggevano un tempo i Padri, anche in questi due passi possiamo cogliere l’allegoria di cui è carica ogni frase della Scrittura. La moltiplicazione dei pani contiene in sé la visione profetica del pane "sceso dal cielo", come si definisce Cristo stesso, è la chiara prefigurazione dell’Eucaristia. Gesù sazia con cinque pani e due pesci un’enorme folla di popolo; dopo la Sua resurrezione sazierà col proprio corpo generazioni e generazioni di cristiani. "Tu infatti o Cristo Dio nostro sei colui che offre e colui che viene offerto; colui che riceve e colui che viene distribuito", si dice in una preghiera sacerdotale della liturgia ortodossa. Una delle vocazioni apostoliche consiste appunto nell’adempiere questa profezia: compiere il sacramento della moltiplicazione dei pani, quando ormai Cristo non è più tra noi nella carne, "creare nella memoria di Cristo", nel pane eucaristico che diventa il Suo corpo e la Sua Chiesa, mettendosi però in disparte nel far questo. Essere la parola di Gesù, il gesto di Gesù, l’annuncio di Gesù, il miracolo compiuto dalle Sue mani, infine la Sua stessa presenza sacramentale, senza mai coprire neppure un lembo di questa presenza con se stessi.
La moltiplicazione eucaristica dei pani, accanto all’annuncio del Verbo, è lo scopo e il significato interiore dell’apostolato, che è volto innanzitutto a "moltiplicare" Cristo stesso, il Suo nome, la Sua vita, la Sua opera di salvezza. Questa moltiplicazione è già iniziata durante la vita del Salvatore, quando ha preso a diffondersi rapidamente sulla terra l’annuncio che le profezie si sono avverate, che il Messia è venuto sulla terra, che il Verbo di Dio parla agli uomini per bocca di Gesù. I greci giunti per la festa a Gerusalemme alla vigilia della Pasqua "si avvicinarono a Filippo… e gli chiesero: "Signore, vogliamo vedere Gesù". Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose: "È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo"" (Gv 12, 22-23).
Gesù sa che il suo cammino terreno ormai volge al termine. Inviato dal Padre celeste solo alle "pecore perdute della casa d’Israele" (Mt 15, 24), il Messia di cui parlavano la Legge e i profeti, va verso la crocifissione, per poi "essere glorificato" come Signore di tutti i popoli. L’incontro con gli stranieri anticipa la Sua glorificazione, che sarà opera dello Spirito Santo e degli apostoli. Questi dovranno diventare testimoni della nuova era, lavoratori e portatori dell’annuncio pasquale. Questo annuncio è destinato a tutti i popoli. La confessione di Andrea e Pietro parlerà per bocca dei loro lontani e ignoti discendenti. Il nome di Cristo sarà udito fino agli estremi confini della terra.
"Per tutta la terra è corsa la loro voce, e fino ai confini del mondo le loro parole" (Rm 10, 18), ricorderà san Paolo il Salmo 18.
Il territorio di Andrea
Di qui inizia la divisione del mondo in confini, che poi diventeranno i territori apostolici.
"I confini della terra", leggiamo nella Storia della Chiesa russa di Anton Kartas'ov, "sono soltanto il compito massimo, lo scopo, la direzione. Da Gerusalemme sono tracciati idealmente dei raggi, e i settori compresi fra di essi rappresentavano i territori della missione apostolica, che per le loro dimensioni universali superavano le possibilità fisiche e la durata stessa della vita di un uomo. Gli apostoli, recandosi a predicare nella direzione assegnata a ciascuno… venivano mandati dallo Spirito Santo… esattamente in quei determinati paesi, quindi essi in linea di principio, sul piano spirituale (e su quello concreto, nella persona dei loro continuatori e successori) diventavano gli apostoli di quei determinati paesi e dei popoli che li abitavano; erano i loro protettori celesti nella storia, per sempre". (2)
Sicuramente dopo la Storia della Chiesa russa scritta da E. Golubinskij, la versione per cui l’apostolo Andrea sarebbe approdato nella regione del fiume Dniepr e avrebbe benedetto il luogo dove, a distanza di cinque secoli, doveva sorgere la città di Kiev, non è più considerata come un fatto reale, scientificamente dimostrabile, e tuttavia la realtà spirituale di questa tradizione rimane valida e viva ancor oggi. Per altro, il senso di una tradizione può cambiare col tempo, obbedendo a quello che "lo Spirito suggerisce alle Chiese", come dice l’Apocalisse. Per noi oggi non è tanto importante il fatto della diretta discendenza apostolica del cristianesimo nella Rus’, di cui tanto andavano fieri i nostri antenati, ma piuttosto il fatto di concepire la Chiesa russa come parte del territorio della Gerusalemme storica e celeste. In sostanza, i confini a cui gli apostoli sono stati inviati dallo Spirito Santo, e dove magari essi non sono mai giunti fisicamente, sono diventati nuove province del regno di Dio, che "viene" nella penitenza predicata dal Battista, nella fede messianica abbracciata da Andrea, nella confessione di Pietro divenuto roccia della Chiesa, nelle visioni di Giovanni che ha dischiuso i misteri del regno di Cristo. Difficilmente qualcuno di noi potrebbe affermare che un territorio apostolico, il nostro o uno altrui, si è mantenuto perfettamente fedele a questo regno, tuttavia la nostra infedeltà non rende la vicinanza del regno più lontana, la rende solo umanamente più difficile. Poiché, come dice Gesù, "Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono" (Mt 11, 12).
Questo "impadronirsi" del regno di Dio, che come compito interiore è affidato al singolo cristiano e a tutta la Chiesa, porta in sé una memoria storica e al tempo stesso escatologica. Il regno di Dio è venuto nel Cristo storico, crocifisso sotto Ponzio Pilato, che ha inviato i "pescatori di uomini" perché lo portassero in tutta la terra, ma questo regno deve ancora venire nel "regno del secolo futuro", nel "Figlio dell’uomo che viene sopra le nubi del cielo" (Mt 24, 30). E tuttavia i due regni non sono divisi come sono divise le nostre Chiese; il territorio terreno del Salvatore non è diviso da quello celeste e non si contrappone ad esso, sono le due realtà dell’unico regno, del quale "ci si impadronisce" per gli sforzi apostolici, cui spetta il compito di aprire la strada a questo regno nella storia, di legare le due realtà, quella passata e quella futura in una sola, che diventerà un presente indescrivibile, la vita in Dio. Agli apostoli (e quindi ai loro successori) è dato lo spazio, "i confini della terra" cui sono stati mandati, ma è dato anche l’intero tempo storico, l’intero cammino da un regno all’altro da percorrere. E non soltanto percorrere, ma portarvi tutta il proprio territorio terreno, per inserirlo nel futuro regno di Cristo, che non avrà mai fine.
Perciò, se la Chiesa russa rimane "territorio mistico" dell’apostolo Andrea, anche l’intero cammino storico di questa Chiesa, dalla leggendaria benedizione del I secolo fino all’ingresso nel regno del secolo futuro, si può considerare tempo del suo apostolato, iniziato già in Galilea, poi dopo la Pentecoste nella Gerusalemme storica, e ritornato infine alla Gerusalemme celeste. E in questa nuova Gerusalemme si incontreranno alla fine, e si uniranno tutti i territori apostolici con tutte le loro Chiese. Così, dopo l’Ascensione, si incontrarono a Gerusalemme i discepoli di Cristo; "salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota e Giuda di Giacomo" (At 1, 13).
Questo piano superiore si è spalancato "fino agli estremi confini della terra" (At 1, 8).
Il Terzo millennio
Dov’è oggi questo piano superiore abitato dagli apostoli? Dove sarà domani? Certe volte guardiamo con tanto amore, quasi con passione, il nostro passato, la nostra tradizione e la preziosa eredità dei secoli trascorsi, che stacchiamo gli occhi dal futuro. Ma il futuro non lascia che ci dimentichiamo di lui. Viene, com’è venuto un tempo Giovanni il Battista, e parla di giudizio, di penitenza, dell’ira divina, del regno che si avvicina. Il giudizio si può manifestare nelle persecuzioni, com’è accaduto nel XX secolo alla Chiesa russa, o nell’asfissia spirituale, morale, culturale del cristianesimo che incombe inesorabilmente su di noi. Ciò che chiamiamo oggi "globalizzazione", se ne consideriamo l’aspetto più profondo, quasi intimo, è opera di una nuova razza umana, una razza che "non ha orecchi per sentire", come dice il Vangelo, che ha perso l’udito per la Parola di Dio, che perde la vista interiore e non ne vede il Volto.
Grazie ai mezzi per scambiarsi le informazioni, la terra fino ai suoi confini più estremi ci sta in pugno, come dice un proverbio inglese, il mondo è diventato la nostra ostrica (the world is our oyster), che possiamo mangiare come vogliamo. E tuttavia l’informazione stessa può mangiare, inghiottire o tagliare a fette noi, fare di noi il proprio schermo, un oggetto, un accumulatore. Penso che stiamo assistendo solo alle prime doglie del parto, che preannuncia la nascita di un mondo apparentemente nelle mani dell’uomo. E in questo mondo, sotto i nostri occhi si disperde, si volatilizza l’aria stessa di cui il cristianesimo respira. Le parole che erano dense di significato per noi 2000 anni fa, e in base alle quali continuiamo a comprenderci e a riconoscerci l’un l’altro - giudizio, penitenza, speranza, salvezza, preghiera, timor di Dio, rapporto col Signore - si disseccano, perdono il proprio contenuto mentale, e lentamente passano nella categoria degli oggetti da museo, venerandi, divertenti, dimenticati, praticamente inutili. Cosa sarà di tutti i territori apostolici e delle nostre Chiese storiche nell’aria rarefatta del nuovo millennio? A differenza di molti ortodossi, io non penso che non abbiamo niente da offrire alla storia futura, oltre a una rapida fine, cruenta e fiammeggiante. E se oggi viviamo in un’epoca di crisi del cristianesimo, in tempi di crescente apostasia, il cui acme non è ancora stato toccato, mi pare di cogliere al di là di questa un nuovo ritorno della Buona Novella, che non parlerà nella lingua di un mondo morto e sepolto, ma in quella del mondo che nasce sotto i nostri occhi, e gli sarà comprensibile, verrà recepita così come fu recepita due millenni fa: come il lieto annuncio della salvezza. La Buona Novella ritroverà se stessa immancabilmente anche in questa nuova esistenza che sembrerebbe così lontana dal cristianesimo, saprà ritrovare un terreno sotto i piedi, attraversare la terra "fino agli estremi confini", non in senso spaziale, infatti per la parola non c’è più spazio, ma in senso antropologico, saprà arrivare a nuovi "estremi confini" dell’uomo.
Come dev’essere la Chiesa di Cristo per percorrere il cammino che le sta davanti? Cosa deve rimanere e cosa deve rinnovarsi? Cosa, della sua eredità, è segnato col marchio incancellabile degli apostoli? Nel pormi queste domande torno col pensiero ad Andrea, il primo chiamato.
Il Vangelo di Andrea
L’immagine di Andrea nel Vangelo è resa con pochi tratti, apparentemente casuali. Ma nelle Sacre Scritture non c’è mai niente di casuale. Sono tratti precisi e lievi, tanto lievi che sembrano quasi confusi, se però li consideriamo con più attenzione creano una sorta di icona dell’apostolo, come l’immagine di una vetrata.
E quel poco che si dice di Andrea ci aiuta non solo a ricostruire la sua figura, ma anche a rileggere la Buona Novella a partire dai pochi segni che ne denunciano la presenza. Ovunque Andrea si presenta come un intermediario, come un messaggero. Porta suo fratello Simone, il quale diventerà principe degli apostoli, parla a Gesù degli elleni che Lo vogliono vedere, Gli riferisce le parole sui pesci e il pane che nutriranno una folla di uomini, e questo avviene alla vigilia della crocifissione e glorificazione di Gesù. Dietro a tutti questi segni si indovina un’allegoria: il "pescatore di uomini" li rende discepoli del Salvatore, il pane terreno diventa pane celeste, la mediazione fra Gesù e gli stranieri diventa missione, e la missione porta con sé l’annuncio pasquale. E in tutto questo vediamo l’apostolo quasi simile al suo primo maestro Giovanni, che poteva dire di sé: "Egli deve crescere e io invece diminuire" (Gv 3, 30).
Giovanni annunciava il giudizio e il regno, ma sia il giudizio che il regno vengono sempre, sono nascosti nella nostra storia terrena. Il giudizio, o crisi, può toccare tutto, anche ciò che consideriamo sacro per noi, inseparabile dalla nostra fede. Eppure, riflettendo sul destino del cristianesimo nel terzo millennio, mi piace ricordare le parole di Teilhard de Chardin: dietro a ogni crisi Cristo ritorna rinnovato. E dopo ogni crisi, in ogni epoca fino alla fine dei secoli, verrà gente nelle cui parole la presenza dell’apostolo Andrea non farà che rinnovarsi, come si rinnova un’icona:
"Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo".
Note
1) Patrologia Greca 59, 120-121.
2) A. Kartas'ov, Oc'erki po istorii Russkoj Cerkvi, Mosca 1993, v. 1, pp. 50-51.
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in un paese di maggioranza cattolica?
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L’iniziativa del dialogo in Ucraina
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Purtroppo, le vie del dialogo non sempre sono facili. Ne è riprova la vicenda legata al testo che proponiamo qui di seguito. Il dialogo nasce da un autentico ascolto. Voler sentire dall'altro soltanto quello che rientra nei propri interessi non è una buona premessa. P. Vladimir non è stato per niente contento di come il giornale Avvenire ha utilizzato il suo articolo (pubblicato il 25 gennaio 2005 con il titolo "Da Kiev la nuova via del dialogo"): «M'ha utilizzato e strumentalizzato. Il testo completo è diverso». Qui di seguito pubblichiamo il testo di P. Vladimir e il "suo" articolo pubblicato da Avvenire.
Il testo pubblicato da Avvenire
Da Kiev la nuova via del dialogo
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È naturalmente impossibile raccontare in breve tempo le vite o le immagini dei santi più importanti o spiegare il loro cammino spirituale. il nostro compito è di cercare di esprimere lo spirito…
di Vladimir Zelinskij
Il rapporto tra la sfera umana e il resto del creato è diventato "il problema" da quando l'uomo ha capito di poter essere il peggior nemico del proprio habitat. La strada che ha preso la nostra civiltà - ne sono già visibili i tratti futuri - va verso la ricreazione o la sostituzione del vecchio ambiente umano.