Ecumene

Martedì, 21 Ottobre 2008 00:41

Se Buddha scende in piazza. Buddhismo e impegno sociale, oltre gli stereotipi (Davide Magni)

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Buddhismo e impegno sociale, oltre gli stereotipi. Grazie ai monaci birmani, l’Occidente ha scoperto la dimensione pubblica di una religione spesso identificata con la «fuga mundi».

Per un’inesorabile regola giornalistica non scritta, è quasi del tutto svanito l’interesse per la situazione in Myanmar dove nell’autunno scorso si verificò una brutale repressione armata di migliaia di monaci e monache buddhiste da parte dell’esercito. Marciavano recitando le parole del Metta Sutta (il Canto della Benevolenza incondizionata) e compivano un gesto simbolico estremamente importante, definito in lingua Pali patta-nikkujja-kamma, capovolgere la ciotola delle offerte. Così facendo manifestavano la più radicale contestazione al potere. Ben più che una scomunica, è una sentenza di malvagità dell’operato della giunta militare, e fa comprendere le ragioni dello scatenarsi della brutalità repressiva del regime.

Che il buddhismo non sia un cammino egoistico di auto-liberazione, ma l’invito al concreto impegno nella vita quotidiana, è una scoperta recente dell’Occidente.

Può capitare ancora di trovare testi e autori incapaci di cogliere la dimensione sociale ed attivista dell’insegnamento di Siddhartha il Buddha: colui che raggiunse lo scopo, ovvero l’illuminazione (Bodhi). Fu anche per quest’incomprensione che venne coniato il termine «buddhismo impegnato». Forse la sigla è rivolta agli occidentali affascinati e sedotti dalle sue suggestioni, ma ben poco disposti al cammino duro che esso indica. Potrebbe sembrare strano, ma il termine «buddhismo» è un’invenzione anglosassone della fine dell’Ottocento per racchiudere e dominare dentro una cornice un complesso sistema religioso, filosofico, culturale che, a partire dal VI secolo avanti Cristo, ha plasmato in maniera significativa il continente asiatico e si è esteso pure in Europa e nelle Americhe. Tradizione, oltretutto, molto diversificata nelle varie scuole che lo compongono e che si sono evolute nel corso dei due millenni.

Il cuore di questa dottrina è una pratica che insegna a concentrarsi su ciò che ognuno di noi può e deve fare da solo, qui e ora. Il buddhismo è una «soteriologia» (una via di salvezza), dove c’è una «ortoprassi» e non una ortodossia dottrinale; in altre parole: è una forma di vita prima di essere un esercizio di riflessione. La riflessione ha uno scopo concreto: trovare le cause della sofferenza ed eliminarle.

Il termine «Buddha»,significa: «illuminato». E’ quanto ha conseguito il principe Siddhartha (colui che ha conseguito il suo scopo) attraverso il proprio cammino personale. Non è il frutto di una rivelazione divina, ma della ricerca umana. Non ci sono dogmi ai quali aderire, ma ciascuno è spronato a usare i propri mezzi sperimentando personalmente. Così, adeguandosi continuamente alle culture con le quali è entrato in contatto, il buddhismo,ha sempre offerto all‘uomo di ogni tempo e cultura la via concreta per risolvere il problema della vita. Dio, quindi, è il grande escluso da tutta la ricerca; non è nemmeno preso in considerazione.

Buddha non nega la felicità nella vita, ma attira l’attenzione sul fatto che, pur nel massimo del piacere, non c’è affrancamento dal malessere. La ragione sta nel fatto che i piaceri sono appagamenti illusori. Sebbene nella vita ci sia sofferenza, un buddhista non se ne deve rattristare, o irritarsi. Questo non farebbe sparire la sofferenza, ma, al contrario la farebbe aumentare. Il buddhismo è del tutto avulso dal disimpegno melanconico e angoscioso, la realizzazione della verità passa attraverso la gioia.

Il desiderio è l’origine e la causa di sete di piaceri sensuali, sete di esistenza, sete di perennità, sete di annientamento.

Questa sete viene dall’ignoranza, cioè dalla falsa credenza in un «io» concepito come individuale.. Anatta è il termine buddhista più tipico; significa che si esiste solo in quanto relazionati. Non è un nichilismo, non nega in modo assoluto ogni sé, ma la pretesa di ogni sé di porsi come assoluto. Ogni cosa, astratta o concreta, non è indipendente dalle altre. Se l’io non esiste, di nulla posso dire che sia «mio». Per guarire il male, per ottenere la cessazione della sofferenza, non c’è che un rimedio radicale: la distruzione dell’ignoranza e l’estinzione del desiderio. La parola sanscrita che indica questo è nirvana. Etimologicamente significa cessazione, spegnimento: poiché è finito il combustibile e pure il fuoco: l’esaurirsi della cupidigia, dell’odio, dell’errore. Nirvana è uno stato di pace perfetta, raggiungibile già in questa vita. Tuttavia, non può essere oggetto di speculazione o di intuizione intellettuale: è un’esperienza spirituale. La via salvifica che conduce al nirvana evita tutti gli estremi, sia la tendenza all’edonismo sia l’ascesi eccessivamente severa. Questa moderazione ha meritato al buddhismo la denominazione di «Via Media».

Essa può essere compresa come l’insieme di tre direttrici: la saggezza, la morale e l’ascetica. Non comincia con lo sforzo dell’ascesi, ma con la retta comprensione e la retta intenzione, seguite dall’etica (retta azione). Infatti, abbiamo bisogno di un fondamento di saggezza e di sensibilità morale prima di intraprendere il cammino spirituale del lavoro interiore. La saggezza non si può raggiungere senza il lavoro interiore della meditazione, ma essa è inutile senza la disciplina morale. Il progresso si realizza attraverso la mutua interazione dei tre fattori in un procedere nel quale moralità, saggezza e meditazione diventano sempre più complete, fino al raggiungimento della totale integrazione e illuminazione. La meditazione è chiamata bhavana, che significa: coltivazione, di quel vasto potenziale della mente, per andare oltre la natura delle situazioni interne ed esterne nelle quali ci troviamo, correggere la percezione erronea e giungere all’equilibrio ed alla tranquillità.

Tre sono i riferimenti nei quali ogni buddhista «trova rifugio»: la figura del Buddha, la sua dottrina (Dhrma) e la comunità dei praticanti (Sangha): i Monaci, in particolare, insegnano la pratica dell’impegno etico e della meditazione.

Tanto più profondo il sapere, tanto più profonda diventa la «compassione», intesa come capacità di condividere l’altrui dolore e gioia.

Il bodhisattva, figura evolutasi nel pensiero buddhista in maniera diversificata realizza questa meta. Arrivato sulla soglia del nirvana, rinuncia alla propria estinzione per aiutare gli altri a giungervi. Libero finalmente da ogni bramosia, rancore e stoltezza, egli fa della sua vita un’occasione di servizio totale. L’ideale del bodhisattva èstato cantato dal mistico indiano Shantideva, vissuto tra il VII e VIII secolo dopo Cristo, nel Bodhicaryavatara (il graduale cammino ascetico del bodhisattva). Nei suoi versi così canta: «Fintanto che durerà lo spazio, e che durerà il mondo, per tutto questo tempo che io possa dedicarmi a distruggere il dolore del mondo. Possano tutti gli esseri, divenire liberi dalla paura. Possano tutti gli esseri, divenire liberi dalla sofferenza. Possano tutti gli esseri, dimorare nella pace».

Per ogni praticante buddhista queste parole non sono soltanto un semplice auspicio, ma un impegno preciso da assumere in prima persona.

Davide Magni*

* gesuita redattore di Popoli

(da Mondo e Missione, aprile 2008)

 


La Storia

Il traguardo della meditazione? La compassione

Fra i traguardi dell’itinerario meditativo buddhista vi sono quattro stati mentali che sono detti brahmavihara: dimore divine. Essi sono l’amore (metta), la compassione (karuna), la gioia compartecipe (mudita) e l’equanimità (upekkha).

l primo è la gentilezza amorevole (metta). La radice della parola pali metta è «mid», che significa «morbido» Indica, dunque, «una morbida, amorevole benevolenza o gentilezza». La metta è anche l’auspicio che tutti gli esseri viventi siano felici. E’ un modo per vivere con gli altri in maniera giusta.

Il secondo è l’amore compassionevole (karuna.). La compassione è l’augurio che tutti gli esseri viventi possano essere liberi da dolore e sofferenza.

Karuna, la compassione, è definita «il tremolio del cuore» quando è in contatto con il dolore degli esseri viventi. Non si rimane indifferenti alla sofferenza altrui, ma si fa il necessario per aiutare.

Il terzo, la gioia compartecipe (mudita); corrisponde ad una gioiosa partecipazione alla felicità, al benessere e al successo degli esseri viventi. La mudita prova piacere per il successo, le ricchezze, il benessere e le belle qualità degli altri. La gioia compartecipe nasce, proprio come nella metta, dall’aver riconosciuto e sperimentato l’unità e la inter-connessione di tutti gli aspetti della vita.

Il quarto brahmavihara è l’equanimità (upekkha): l’andare incontro a tutti con equilibrio interiore, imparzialità, privi di attaccamento e senza avversione.

Upekkla indica quindi la capacità di mantenere la serenità in mezzo a tutte le sfide e alle difficoltà che vengono poste dalla vita.

Dimore divine non significa che siano luoghi o condizioni appartenenti agli dei, ma luoghi nei quali gli uomini sono nella loro dignità autentica, cioè liberi dagli attaccamenti. che condizionano le relazioni quotidiane. Questi stati non sono altro che le qualità originarie e fondamentali della persona.

(d.m.)


L’addio

Il Patriarca della Cambogia

Un esempio concreto di compassione buddhista è stato Maha Ghosananda, sommo patriarca del buddhismo cambogiano deceduto Io scorso anno. Quando nel 1975 i Khmer rossi presero il potere, stava facendo un ritiro di meditazione in Thailandia. Fu così tra i pochissimi religiosi che sopravvissero a quel genocidio in cui sono morte quasi due milioni di persone e che la stampa occidentale, con tanta disinvoltura, ha ignorato per anni. Ghosananda profuse tutte le sue energie per aprire campi di accoglienza per i profughi cambogiani che riuscivano a sfuggire da una terra ormai campo di sterminio.

Nel 1991, anno in cui furono siglati gli accordi di pace, intraprese una nuova iniziativa viva tuttora: la Dhamma Yefra, Il «cammino del messaggio di liberazione». Così si esprimeva: «Noidobbiamo trovare Il coraggio di uscire dai nostri templi ed entrare nei templi dell’esperienza umana, che traboccano di sofferenza. Se seguiamo il Buddha, Cristo o Gandhi, non possiamo fare diversamente. I nostri templi saranno dunque i campi profughi, le prigioni, i ghetti e i campi di battaglia. Abbiamo tanto di quel lavoro da fare!». Un’occasione di incontro - che ha coinvolto volontari di tutto il mondo e dialogo Interreligioso non fatto di disquisizioni teoriche, ma di condivisione della vita. Lo stesso hanno fatto i monaci birmani. Per nulla inermi, esprimono una forza straordinaria e pericolosa.

(d.m.)

Letto 3159 volte Ultima modifica il Domenica, 28 Gennaio 2018 16:49
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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