Ecumene

Venerdì, 04 Giugno 2010 21:06

Il buddismo tibetano. I tantra, la via della luce chiara (Philippe Cornu)

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Un arsenale di tecniche meditative proprie del Vajrayana aiuta il praticante ad acquistare la padronanza del suo spirito e del corpo.

Spesso incompresa in occidente, la via buddhista dei tantra o Vajrayana (“Veicolo di Diamante”) appare in India nell’ambiente buddhista del Grande Veicolo verso il III o il IV secolo. Non si deve confondere tantra buddhista e tantra indù. Anche se ambedue compaiono nella stessa epoca e ricorrono a tecniche e simboli similari, non ricevono però lo stesso senso spirituale o dottrinale. Nel buddhismo la via dei tantra è il prolungamento naturale del Grande Veicolo e offre metodi  meditativi potenti per accelerare il processo del Risveglio. Dottrinalmente essa si basa su una solida comprensione della vacuità dei fenomeni, sulla fiducia nella “natura di Buddha” (il potenziale di Risveglio presente in ciascuno di noi) e sull’etica della compassione universale.

Il Veicolo di Diamante è entrato nel Tibet in due ondate, la prima nel sec. VIII e la seconda nel sec. XI. Ma che si tratti di tantra vecchi o nuovi, la dottrina e i metodi di pratica sono assai simili. Tantra significa “trama” e designa l’arte di percepire senza nessun dualismo l’universo come in tessuto ìnterdipendente di fenomeni vuoti e luminosi. Per accedere a questa visione pura il praticante deve dapprima aprire il suo spirito e poi cambiare radicalmente la sua visione del mondo. Tutto quello che percepiamo dell’esistenza, il bello e il brutto, quello che è buono e cattivo, quello che piace o che si detesta, le fonti di felicità o di sofferenza, non è che il riflesso delle proiezioni e dei veli del nostro spirito confuso, condizionato dalle sue esperienze passate e dai pregiudizi concettuali e trascinato dalle emozioni. La realtà tale e quale, immacolata, ci è così nascosta.

“Gocce” di energia spirituale

La via tantrica dispone di tutto un arsenale di tecniche meditative per purificare e trasformare la nostra prospettiva ordinaria oscurata e integrare tutti gli aspetti dell’esistenza alla vasta visione del Risveglio dei buddha. Lo yogin deve dapprima acquistare una stabilità nella meditazione e, per purificare la sua visione, pratica degli esercizi preliminari come le prostrazioni e medita sulla vacuità universale. Allora vede che l’universo che lo circonda è divenuto un grande palazzo divino, mentre lui stesso assume la forma di una deità luminosa che personifica la sua vera natura risvegliata: è la pratica del yidam o deità di elezione. Identificandosi alla divinità, recitando la sua formula sacra, un mantra, ed effettuando dei gesti sacri, i mudra, il praticante immagina di purificare gli aspetti impuri del mondo  e degli esseri mediante un dinamico gioco di raggi luminosi. Armonizza così corpo, parola e spirito e stabilisce la prospettiva sacra del mandala, l’universo percepito nella sua realtà vera, un mondo risvegliato puro e perfetto. Questa pratica si chiama “fase di sviluppo”, perché lo yogin impara in tal modo a “riorganizzare l’universo” non più nella prospettiva delle sue proiezioni mentali, ma in una forma pura e aperta.

Ma il cammino non si ferma qui: lo yogin deve anche trasformare il suo corpo e le sue sensazioni grossolane, perché il corpo è qui il veicolo del Risveglio. Per questo egli pratica degli yoga per purificare le strutture del corpo sottile in “corpo di diamante”, aprendo i canali psichici che solcano il corpo, padroneggiando i soffi interni che vi circolano e trasmutando le “gocce” di energia spirituale che sono altrettanti semi di Risveglio presenti nel corpo.

Il genio di questi yoga sta nell’analogia tra le esperienze yogiche e il processo della morte. Al momento della morte si dissolvono gli elementi fisici del corpo, poi gli aspetti grossolani e sottili dello spirito (coscienza sensoriale, concetti ed emozioni), per lasciar risplendere lo spirito essenziale in tutta la sua nudità, lo spirito di Luce chiara vuoto e chiaro. Questo spirito luminoso è la natura  risvegliata, che è presente in tutti gli esseri, ma che abitualmente è ricoperta dal velo dell’illusione. Con l’esercizio degli yoga, il praticante impara dunque, già fin dalla sua vita, a “provocare” un processo simile a quello della morte, in modo di fare l’esperienza delle dissoluzioni e sperimentare direttamente la luce chiara. Abituato a questa esperienza, egli potrà riconoscere al momento della morte la Luce chiara e liberarvisi. Mediante gli yoga egli purifica anche i soffi interni in soffi di sapienza e si crea così un corpo sottile fatto di soffi luminosi, il “corpo illusorio puro”. Se perviene a stabilizzare lo spirito di luce chiara e a unirlo a questo corpo di soffi, lo yogin manifesterà, dopo la morte, il corpo illusorio perfetto di un buddha pienamente risvegliato nel bardo o stato intermedio.

Siamo dunque ben lontani da quel culto magico-sessuale degenerato, che missionari e dotti orientalisti hanno creduto di vedere nel buddhismo tantrico, vittime dei loro pregiudizi e della loro incomprensione. Infatti se la sessualità interviene negli yoga, essa non è che un mezzo fra gli altri per accedere alla felicità del vuoto non concettuale della Luce chiara.

Philippe Cornu

(da Le monde des religions, n. 30, pp. 34-35)

 

Letto 9237 volte Ultima modifica il Domenica, 28 Gennaio 2018 15:31
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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