Il santo dei santi sikh
Arrivato al limite dei gradini che si aprono sul Tempio d’Oro di Amritsar, uno splendore costruito nel 1604 da Arjan, il quinto dei dieci guru sikh, Kuldip tocca con i piedi nudi il marciapiede di marmo bianco che inquadra la vasca d’ambrosia, si prostra lungamente, si rialza con gli occhi lucidi per l’emozione. A una cinquantina di metri, quasi un’isola in mezzo alla vasca lo Harimandir Sahib, il Tempio di Dio, risplende di mille luci sotto il sole del Punjab, nel Nord-ovest dell’India. Volto infantile che a malapena dimostra i suoi 30 anni, rasato di fresco, una sciarpa annodata sulla testa – poiché la sacralità del luogo proibisce a chiunque, uomo o donna, di aggirarsi a capo scoperto – Kuldip sorride di felicità, incurante della folla multicolore che si stringe, si prostra, lo urta.
“La visione di Harimandir mi fa ogni volta questo effetto”, si scusa dopo lunghi momenti di silenzio. Ogni volta, cioè almeno una volta al mese, appena il suo impiego in una multinazionale, a cinque ore di viaggio dal santo dei santi del sikhismo, glielo consente. Arriva tutto solo, per pregare e soprattutto per riflettere, per sentire anche, dice, le benedizioni che promanano dal luogo, per “star bene” prima di ritornare ad affrontare la vita moderna. Una vita per la quale Kuldip ha sacrificato la sua capigliatura e ha riposto il turbante, commettendo così una colpa grave nei confronti della sua comunità della quale gli uomini sono tenuti a inalberare i cinque K, i cinque emblemi del sikhismo: il Kesh (capelli, barba e peli mai tagliati, né depilati), il kirpan (una spada o un pugnale), il Kachcha (un paio di calzoncini), il Kangha (un pettine di legno che trattiene i capelli sotto il turbante) e il Kara (un braccialetto d’acciaio portato al polso destro). Tagliandosi i capelli Kuldip è diventato un patit sikh (un mezzo sikh), un rinnegato nei confronti del Khalsa, la comunità dei Puri. E ne soffre, confessa a mezza voce, pur senza rimpiangere il suo sacrificio.
Mucchietti di abiti sono sparsi sui bordi della vasca, un quadrato perfetto di centocinquanta metri per lato. Turbanti di tutti i colori, ai quali sono attaccati i pugnali, spuntano dal nettare di ambrosia, l’acqua sacra, che si pensa purifichi le anime e favorisca la meditazione. Con i volti protesi verso il Hamandir Sahib i fedeli recitano il Waheguru, il mantra del nome di Dio. Dei bambini, con i capelli trattenuti da una reticella che forma chignon in cima alla testa, giocano al loro fianco. In disparte, protette da un muretto, le donne si danno anche loro al bagno rituale da cui escono con il volto trasformato: “Venite, tuffatevi, fa così bene…”.
La fila si allunga sul ponte di marmo che collega lo Harimandir ai marciapiedi del tempio. Donne in serwal kamiss, pantaloni sbuffanti sormontati da una ampia tunica dai colori vivaci, uomini in tee-shirt e turbante, semi sikh e non sikh attendono di poter entrare nel cuore del tempio, là dove il Guru Granth Sahib, il Libro sacro, è letto senza interruzione da preti che si danno il cambio, mentre un’orchestra accompagna il coro che, dal mattino alla sera, canta il Kirtan, estratti del libro sacro. Priti, una donna indù, jeans e sacco a spalla pieno zeppo di libri e di quaderni, regge fra le mani una parte di Karhah Prashad, l’offerta sacra fatta di farina, di zucchero e di burro, che un prete prenderà con il suo kirpan, il pugnale, all’ingresso di Harimandir. Come ogni giorno o quasi, Priti si arrampicherà fino alla cima della costruzione, sulla minuscola terrazza che circonda una piccola sala vetrata dove lo stesso libro è letto da altri preti. Il suo rifugio dopo le lezioni all’università. Ề il luogo – dice – dove medita più intensamente. Priti si stupisce del nostro stupore: “Perché il Guru Granth Sahib non potrebbe servire da supporto della meditazione degli indù?”
Non è possibile penetrare l’universo sikh senza abbandonare tutti i propri punti di riferimento, tutti i pregiudizi. Prima di tutto nel campo dell’eguaglianza che qui vuole essere totale fra tutti gli esseri umani, indipendentemente dal loro sesso, dalla classe sociale, dalla religione e soprattutto, in India, dalla casta di nascita. Nanak, il guru fondatore di questa tradizione (...) si era circondato di sikh, cioè di discepoli, indù o musulmani, brahamini o intoccabili, uomini o donne: “In mancanza di atti positivi, andremo tutti a piangere davanti a Dio”, disse un giorno a un dignitario musulmano che lo interrogava sulla gerarchia delle religioni.
Lo Shiromani Gurdvara Parbandahak Committee (SGPC), organo che governa gli affari della comunità, eletto ogni due anni dall’insieme dei fedeli adulti, è oggi presieduto da una donna. Preoccupazione di parità? “No, semplicemente è stata giudicata la più adatta fra i candidati”, assicura il segretario esecutivo del SGPC, Dalmegh Singh, prima di aggiungere con un sorriso: “Predicare l’eguaglianze è facile. La sua applicazione è una faccenda diversa, ma fra i sikh essa deriva dalla militanza religiosa”.
Al di là degli archi di marmo bianco che racchiudono la vasca e i suoi marciapiedi, dei brutti edifici chiudono il Tempio d’Oro. Edifici che fanno parte integrante del tempio, come del resto di qualunque gurdvara o tempio sikh: il hangar, la cucina comunitaria dove i pasti sono serviti a qualunque ora del giorno o della notte, gratuitamente, a qualsiasi visitatore che si presenti. Cucina, lavaggio dei piatti, servizio sono assicurati da un pugno di salariati… e da un esercito di volontari, grandi signore e venditori ambulanti, seduti fianco a fianco per tagliare le verdure, cuocere il pane, sorvegliare le pentole di lenticchie e asciugare tazze e scodelle di metallo.
Ex-ministro e ambasciatore dell’India, oggi in pensione, Harinder Singh, non esita a mettere le mani in pasta: “Ề un dovere religioso. Infatti lavorare, e anche lavorare duro, è uno dei precetti della nostra religione. Si tratta certamente di un impegno dell’onestà a cui siamo tenuti al di sopra di tutto. La condivisione dei beni e il servizio reso alla comunità sono anch’essi un obbligo religioso che si esercita nella cucina o anche nei niwas, la foresteria gratuita in cui accogliamo per due o tre notti chiunque cerchi un tetto, che sia un pellegrino sikh o un turista occidentale”. Al Tempio d’Oro i volontari assicurano ogni giorno una media di 50.000 pasti e 5.000 soggiorni notturni. Presi dal gioco, alcuni occidentali danno una mano al servizio. Carolina la Canadese, in viaggio verso Dharamsala, ha posato il suo sacco a spalla ad Amritsar. Contava di passarvi una notte e invece è là da tre giorni, ammirata dallo spirito di fraternità che impregna questi fedeli dalla fama di guerrieri: “Mi chiamano 'sorella'. E lo pensano veramente. Non mi hanno fatto nessuna domanda, semplicemente mi hanno accolta”.
Il museo religioso accanto al Tempio è pieno di quadri di battaglie e di ritratti di martiri sikh. Il tempio poi conserva la memoria degli scontri del 1984, quando, per sloggiare qualche centinaio di indipendentisti, l’esercito indiano usò i suoi carri e le bombe incendiarie – di cui fece le spese la copia originale del Guru Granth Sahib. Non si deve dimenticare che è proprio nelle fila dei sikh che esercito e polizia indiane (e prima di loro quelle dell’impero britannico) reclutano i loro elementi migliori.
Iqbal Singh, ex-brigadiere dell’esercito indiano, oggi professore di diritto internazionale all’università di Duke negli Stati Uniti, sorride della reputazione di fanatici guerrieri che si attribuisce ai suoi: “Certo non porgiamo l’altra guancia. E neppure portiamo avanti crociate espansioniste. Ma la nostra religione ci comanda di difenderci. E ci ordina soprattutto un rispetto enorme verso le altre religioni: gli esseri umani sono tutti eguali davanti al Cielo”.
Scende la penombra intorno alla vasca di ambrosia. Riprodotti dagli amplificatori, i canti che si innalzano dall’Harimandir fanno tremare le foglie dei tre alberi sacri che hanno ospitato i guru fondatori, dal tronco liscio a forza di essere carezzati dai fedeli. Uomini e donne sono accucciati dietro le colonne, immersi nei libri di preghiera, assorti nella recitazione di mantra. Un gruppo di monaci tibetani dall’abito arancione si sono seduti davanti alla vasca: “Sentite queste vibrazioni?”. Balwant Singh, che lavora al tempio, risponde, occhi semichiusi, tendendo il braccio verso i minuscoli locali allineati sotto i colonnati: “qui un centinaio di Guru Granth Sahib sono letti contemporaneamente e senza interruzione da altrettanti preti”. I lama scuotono la testa: “Le vibrazioni sono buone”. Più lontano delle tedesche vestite di bianco che hanno fatto il viaggio con la loro maestra spirituale, con lo sguardo fisso sull’Harimandir, recitano il rosario. Spettacolo scorretto? Balwant Singh e i monaci tibetani si ribellano: “Non c’è una preghiera sincera che sia migliore delle altre”.
Sono le 21 quando si muove la processione dall’Harimandir. Preceduta da cantori, preti e musicanti, seguito dai fedeli, portato su una portantina coperta di broccati e di petali di rose, il Guru Granth Sahib raggiunge la sua dimora notturna.Dopo la morte del decimo guru, il Guru Granth è il solo maestro, l’unico detentore dell’autorità spirituale. Davanti al quale i sikh si prostrano in segno di adorazione.
“Nell’inginocchiarmi davanti al libro, mi inginocchio davanti all’umanità intera. Davanti a tutti quelli che sono qui, mendicanti della benedizione di Dio”. Kuldip si rimette le scarpe che si era tolto alla porta del tempio, si inoltra nelle stradine popolose di Amritsar, si gira ancora una volta: “Io mi sento veramente pacificato questa sera. E lei?”.
Djénane Kareth Tager
I sikh nel mondo
L’85 % del venti milioni di sikh vivono nel Punjab, nel nord-ovest dell’India. La Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Canada contano delle comunità di una certa importanza, per le quali sono previste certe facilitazioni: alcuni Stati americani dispensano persino i motociclisti sikh dal portare il casco purché portino il turbante. Il Canada recentemente ha autorizzato gli alunni sikh a venire a scuola con un piccolo kirpan o pugnale. La legge francese che vieta di portare segni religiosi a scuola, dunque il turbante o il velo che lo sostituisce, non è compresa dai sikh; dalle migliaia che vivono in Francia, ma anche da tutta la comunità, compresa Amritsar.
La fede sikh
Dell’islam il sukhismo ha conservato la fede in un Dio unico, onnipotente, infinito, eterno; ma contrariamente ad Allah, Waeguru non è un Dio personale e non ha alcun attributo. Dell’induismo, sua seconda fonte, il sikhismo ha conservato la fede nella reincarnazione, determinata anch’essa dal karma, la legge di causalità che determina le rinascite sulla base degli atti della vita precedente. Mistici musulmani e indù (sufi e sadus) sono stati gli ispiratori principali di Nanak, il fondatore della religione sikh, che ha messo l’accento sulla devozione religiosa e predicato la venerazione e la ripetizione del Nome. I cinque pilastri del sikhismo sono, nell’ordine: la meditazione del nome di Dio, il lavoro onesto, la condivisione comunitaria, il servizio del prossimo e, infine, la bravura e il coraggio. Una frase del Guru Nanak riassume la filosofia sikh: “Avrete un seggio accanto a Dio se rendete servizio all’umanità”.
(da Le monde des religions)