Ecumene

Sabato, 04 Novembre 2017 16:57

Il grande spirito della terra Canachi (Maïté Darnault)

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Su quest’isola del Pacifico il culto ancestrale celebra la terra nutrice, culla dello scambio perpetuo fra vivi e morti visibile e invisibile. Pietra angolare di tale interazione, il guaritore del clan.

Con la sua grossa mano, l’anziano palpa delicatamente il braccio del bambino. Strofina l’osso, picchietta il muscolo con la punta delle unghie e applica, con l’aiuto di un mazzolino di foglie, una pasta a base di foglie di noci di cocco, che ha preparato nel silenzio della sua capanna. Massaggia la spalla, tira le dita mormorando un incantesimo. Il piccolo non sembra rassicurato. Sua madre dovrà fargli il bagno mattina e sera per cinque giorni per completare la cura.

Benoît Boulet vive nel cuore di una vegetazione tropicale esuberante, nella tribù di Werap, vicino a Hienghène, sulla costa nord-orientale della Nuova Caledonia, a circa 400 chilometri da Numea. Si ritiene che guarisca i bambini, ma tutti i malati vengono a consultarlo e portano la piccola offerta che favorirà la comunicazione del guaritore con gli spiriti. Il vecchio si isola nella sua capanna, seduto per terra, con le erbe magiche in mano, per invocare gli antenati. “Io parlo, come una preghiera, poi mi vedo passare davanti agli occhi delle formichette e delle piccole lucertole che mi aiutano a trovare la malattia”. Ritorna poi al paziente per spiegargli la causa del suo male. Quando non conosce il preparato adatto, manda il malato da un altro guaritore che sa competente per trattare il caso.

Ogni clan canachi possiede il suo guaritore, sempre un uomo, che veglia sul “paniere sacro” come il sacerdote sui sacramenti. “Il paniere racchiude i segreti del clan, la sua forza spirituale. Esso non viene aperto che raramente, in occasione di cerimonie particolari”, spiega Gilbert Téin, direttore del centro culturale di Hienghène. Un tempo era conservato nella parte retrostante della capanna, oggi è spesso custodito in un placard nella casa del ”prete”. Si tratta qualche volta di un semplice pacchetto legato dentro una tovaglia, e contiene le reliquie dei diversi guaritori che hanno servito il paniere, di legni e di foglie simboliche, di pietre magiche e della “moneta canachi”.

Benoît Boulet è uno dei rari canachi che oggi la fabbricano: “Io scelgo la lunghezza della treccia, un braccio (dalla mano al gomito), una testa (dalla mano alla base del viso) o un uomo (la statura di un individuo), cose che fanno variare il valore della moneta. Poi infilo le perle di legno o di cuore di ponga,il grano di mais, la scorsa di cocco, le piccole conchiglie, l’osso di gattuccio. Ed è molto valido, non come i biglietti di banca”! Fatta di un sacco di scorza di banano cucita con quella di un cocco e di una treccia di lana adornata di un rosario di elementi animali e vegetali, la moneta carnachi non ha alcun valore fiduciario. Ma si offre o si scambia in occasione di grandi cerimonie, che segnano una nascita, un matrimonio, un lutto o degli accordi di pace. “La moneta scambiata è una grande forza, una Parola forte. Se non si rispetta quell’impegno ci si ammala e si può anche morire”, avverte il vecchio Benoît, considerato dal clan come il ministro dei suoi interessi spirituali.

Gli antenati, invocati da Benoît Boulet per stabilire la sua diagnosi, sono nel cuore dalla vita sociale canachi: “Custodi delle leggi della comunità, protettori dei loro discendenti e destinatari dei loro scambi, essi garantiscono l’efficacia delle magie che consentono ai vivi di curare le malattie", spiega Patrice Godin, antropologo specialista della spiritualità tradizionale canachi, che da vent’anni porta avanti le sue ricerche nella regione di Hienghène. "L’insieme dei rituali terapeutici canachi è inseparabile da una cosmologia nella quale si ritrovano i quattro elementi primordiali: l’acqua, il fuoco, la terra e il respiro. Nella concezione della persona esistono delle componenti – il sangue e il respiro – minacciati dalla malattia e la disgrazia. La cura mira a ridare vita a queste componenti mediante elementi presi nella natura”.

Igname novello e festa delle Primizie

Per i Canachi la terra rimane il riferimento ultimo, culla dello scambio perpetuo fra i vivi e i morti, il visibile e l’invisibile. Non c’è atto efficace senza l’aiuto degli antenati e degli spiriti, ma questi ultimi non hanno alcun potere se non sono “nutriti” dalla vita. “Quello che si chiama impropriamente la religione canachi – la religione non si distingue qui come una istituzione specifica in seno alla società globale – appare come una forma oceanica di vitalismo. Non c’è in essa né trascendenza né immanenza, ma una catena ininterrotta, complessa e in perpetuo rinnovamento, di esseri e di cose tutte singole, ma partecipi di una medesima realtà, di uno stesso movimento dell’Essere”, spiega l’antropologo.

Questo ciclo senza fine è segnato da grandi tappe, come la festa delle Primizie o la festa dell’Igname novello. Il tubercolo di igname, molto nutriente e pieno di vitamine, è il nutrimento principale dei Canachi. Questa festa si svolge a partire dalla fine del mese di marzo, e seconda dei territori dei clan e dell’avanzamento delle culture. Essa autorizza la raccolta e la consumazione degli ignami nelle tribù e segna l’inizio di un nuovo anno di piantagioni – il calendario delle piante coltivate dipende dal ciclo dell’igname. A Wérap, Benoît Boulet unisce la funzione di sacerdote-guaritore con quella di maestro dell’igname. “Utilizzo un igname speciale per la festa delle Primizie, una pianta piccola e rossa. Prima di metterla in terra la lavo con piante medicinali perché germogli bene. Io sono l’unico che possa entrare in quel campo”.

Quando l’igname è maturo il vecchio sapiente procede alla raccolta e alla cottura secondo un rito particolare. Estrae il contenuto del suo paniere sacro e colloca la moneta canachi in mezzo alle piante e ad altre ricchezze precedentemente deposte dai membri del clan. Circondato unicamente da uomini, egli apre la marmitta dove sta cuocendo l’igname e invoca, sopra al vapore, antenati e spiriti protettori del paniere. Dà così la Parola, augurando vita e salute ai suoi. “Il culto canachi tende verso la pace e la prosperità e si appoggia su vari segnali dati. Al momento della festa dell’Igname, se vi sono molti invitati, l’anno sarà prospero”, spiega Gilbert Téin. Dopo gli incantesimi, l’igname è condiviso fra i membri importanti e dopo con le donne e i bambini.

I folletti, spiriti presenti

Sono i vecchi che conoscono le leggende e sanno parlare agli spiriti. Ma per la festa dell’Igname siamo tutti là, anche i giovani”, racconta Lenita Moeaou, la ventenne, che vive in seno alla tribù di Tindo, nella valle di Hienghène. Se Benoît Boulet rimprovera i giovani che ”non hanno più la pazienza di ascoltare i vecchi”, egli inizia ogni giorno un po’ più Tjibaou, suo figlio: “Ieri si è parlato delle festa dell’Ignname che è vicina. Ha notato le parole da dire, bisogna impararle a poco a poco. Ma non sarà pronto prime di dieci o quindici anni”! L’insegnamento del cerimoniale ha luogo nella lingua locale, in “un linguaggio simbolico fatto di formule stereotipe, destinate soltanto a quest’uso”, nota Patrice Godin. E il vecchio Benoît teme che si perdano, ignorate dalle nuove generazioni, abbeverate di francese e di inglese a scuola e alla televisione.

Al di fuori delle grandi cerimonie, gli antenati si manifestano anche quotidianamente ai vivi. Il Benoît Benoît dice di vivere circondato di mwakhegny (dei folletti, nella lingua di Hiengiène): “Sono là, tutti intorno, ma sono io il padrone”! Questi spiriti, propri di ogni angolo della foresta, avrebbero una lunga testa e lunghi piedi e abiterebbero nel buco di una roccia, nella montagna al di sopra della tribù di Wérap, “là dove si sente piangere o gridare”. Il guaritore, alzando l’indice, racconta: “Prima non bisognava lasciare i bambini soli lungo il fiume. Attenzione ai mwakhegny che li spingevano nell’acqua per fare uno scherzo, ma i piccoli qualche volta non sapevano nuotare”. Se questi spiriti sono conosciuti soprattutto per malmenare i vivi, qualche volta sarebbero anche benevoli. Una nonna originaria di Maré, una delle isole della Lealtà, situate ad est della Grande Terra, spiega che recentemente si è alzata tre volte di notte, perché sentiva dei pianti nella casa. “Sono andata a vedere i bambini, dormivano. Al piano di sotto, anche silenzio. Esco sulla soglia della porta, e nulla. Però al fondo della scala sento sempre piangere. L’indomani mi hanno telefonato che la mia nipote che vive a Maré, era caduta in moto e aveva dovuto essere ricoverata all’ospedale di Noumea. I folletti piangevano: gli spiriti mi hanno avvertita”.

In Nuova Caledonia il culto tradizionale rimane la base della comunità canachi, ancora in gran parte rurale. In teoria, questo culto è stato soppresso al tempo della evangelizzazione di questa isola del Pacifico, alla metà del sec. XIX. Di fatto i missionari cristiani si sono spesso serviti del culto degli antenati come di un fertile terreno per la propagazione della loro fede. Jean Marie Tjibaou, leader indipendentista del movimento di rinnovamento culturale canachi e ex prete cattolico, paragonava così “il grande spirito della terra” a colui “che nelle Chiese si chiama Dio”. E sono appunto la pregnanza della fede cristiana e la rivendicazione della ricchezza del patrimonio canachi che sembrano costituire oggi le migliori difese contro la dissoluzione del culto ancestrale.

Maïté Darnault

Téa Kanaké, il “portatore della continuità della Parola”

La leggenda racconta che all’alba del mondo, la luna ha deposto il suo dente su una roccia che emergeva dall’oceano delle origini. Decomponendosi il dente ha generato i primi esseri viventi: lucertole, anguille e serpenti. Da questi esseri primordiali è nato il primo uomo, Téa Canaché. Poiché ignora tutto, egli chiede agli spiriti di trasmettergli i segreti della vita terrestre: la magia delle pietre e delle erbe, il lavoro dei campi, la conoscenza delle piante. Comincia a coltivare ignami e tari. Gli spiriti gli insegnano la vita in società:: Téa Canaché scambia i primi ignami e costruisce la grande capanna rotonda delle origini. Pianta il pino, che delimita i luoghi sacri e i luoghi tabù. Infine proclama la prima Parola. Téa Canaché decide di conoscere la morte; entra nel tronco del banano, segue le sue radici e visita il paese sottomarino dei morti. Poi attraversa la roccia forata, simbolo della rinascita. Soffia la Parola in una foglia di “legno di ferro”, dove essa canterà per sempre. Téa Canaché ritorna alla vita e comincia così, grazie a questa Parola, l’epopea dei viventi legata alla terra nutrice, terra degli antenati e paese degli spiriti.


Tabù e pietre magiche

Un tempo i canachi sotterravano i loro morti in posizione seduta, con il cranio che affiorava sulla superficie del suolo, cioè fuori della terra. Aspettavano per qualche giorno che il corpo si fosse svuotato del sangue, cosa che significava la partenza dello spirito verso il paese sotterraneo dei morti. Dissotterrato il cranio veniva collocato su un altare sopra la terra e le ossa riunite in un fagotto venivano sepolte sotto una collinetta di terra. Sulle sepolture dei capi e dei guaritori si raccoglievano delle pietre dalle forme particolari che si trovavano sulla superficie della la collinetta. Dotate di poteri magici esse venivano a completare il paniere sacro.

I luoghi che oggi sono considerati tabù si trovano nell’area del tumulo di vecchie capanne crollate, là dove era conservato il paniere sacro, o anche su queste sepolture di vecchi guaritori. I Canachi ritengono che il luogo è perciò pericoloso, perché “contaminato” dalla magia. Scavare quel suolo equivale a esporsi alla malattia o alla morte, a meno di prepararvisi con un rituale, provvedersi di piante o legni magici e procedere agli incantesimi richiesti. Dopo la cristianizzazione dell’isola non esiste più questo procedimento di sepoltura dei corpi, ma sono ancora innumerevoli i luoghi tabù, temuti e rispettati da tutti.

 

(da Le monde des religions, maggio-giugno 2008, n. 29, pag. 50-54)

 

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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